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“ Ecco il mostro dalla coda acuminata, che varca le montagne, e infrange ogni ostacolo; ecco quello che appesta col suo fetore l’intero universo! ” Virgilio annuncia l'arrivo di un altro custode infernale,
Gerione, simbolo della frode. Soltanto un particolare dell'aspetto fisico del
mostro è messo in rilievo in questa terzina - la coda - ma è il particolare che
meglio ne caratterizza l'indole ambigua e pericolosa e sul quale con maggior
insistenza si soffermerà la fantasia del Poeta. E' solo col guizzare della coda
che Gerione, protagonista muto di questo canto, di una quasi agghiacciante
sottomissione ai comandi di Virgilio (è il primo dei custodi infernali che non
tenta di ostacolare il cammino dei due poeti), mostrerà il nervosismo della
bestia non doma. La frode colpisce a tradimento, senza dichiarare le proprie
intenzioni; ecco perché vedremo, dietro la faccia di uomo giusto di Gerione,
enigmatica nella sua immobilità, celarsi l'insidia, rappresentata dalla sua
coda armata di aculei velenosi. Così cominciò a dirmi Virgilio; e gli fece segno di accostarsi all’orlo del burrone, vicino al termine degli argini pietrosi che avevamo percorso. E quell’immondo simbolo di frode gíunse, e portò sull’orlo la testa e il tronco, ma non depose sulla riva la coda. Il suo volto era volto di uomo onesto, tanto benevolo era il suo aspetto esteriore, e tutto il resto del corpo era quello di un serpente; Diversamente da quello degli altri custodi infernali, il
viso di Gerione non ha nulla di bestiale, anzi suggerisce una perfetta equità
di pensieri ed azioni (era faccia d'uom giusto). aveva due zampe artigliate pelose fino alle ascelle; aveva il dorso e il petto e ambedue i fianchi disegnati con nodi e piccoli cerchi: né Tartari né Turchi fecero mai tappeti con più colori, con maggior varietà di fondi e di disegni a rilievo, né simili tele furono tessute da Aracne (espertissima tessitrice della Lidía che sfidò Minerva e fu dalla dea trasformata in ragno). Le zampe pelose e artigliate ricordano quelle del drago,
animale che ossessionò la fantasia dei narratori, pittori e scultori del
Medioevo e si riferiscono alla crudeltà del male da Gerione simboleggiato; il
complicato arabesco che stria la pelle del mostro allude probabilmente alle
tortuose macchinazioni di cui i fraudolenti si servono per sorprendere la buona
fede altrui. Nessuno dei custodi infernali è stato descritto con tanta dovizia
di particolari come questa immagine di froda. Erano tutti stati colti
sinteticamente in una manifestazione di vitalità incomposta, che da sola
bastava a denunciare il male che personificavano. Ma Gerione appare tranquillo,
per nulla turbato dalla presenza di un vivo nel regno delle ombre. Anzi, nella
prima parte del canto, se non fosse per il minaccioso guizzare della coda nel
vuoto, dal quale, come abile nuotatore, è emerso, sembra quasi non avere vita.
A determinare in noi questa impressione contribuiscono, oltre che il volto
inespressivo e la sincronia di ogni suo movimento, messa in luce nelle due
ultime terzine dei canto precedente, le símilitudini usate per dare
verosimiglianza alla sua figura. Queste similitudini, fatta eccezione per
quella del castoro (versi 21-22), riallacciano la figura di Gerione al mondo
inorganico anziché a quello della vita. Tuttavia si tratta di mondo inorganico
che porta in sé la traccia dell'intelligenza umana (i drappi, le tele, i
burchi). La frode smentisce ogni forma di passionalità, proprio perché la
passionalità, quale, che sia il giudizio morale che su di essa possiamo
formulare, non può non essere schietta e manifestarsi per quella che è.
L'inganno invece richiede calcolo, pazienza, capacità di dissimulazione, sangue
freddo. Come a volte le barche sono ferme a riva, con una parte del loro scafo in acqua e una parte sulla terraferma, e come nelle terre abitate dai Tedeschi crapuloni il castoro si dispone a cacciare i pesci, così il peggiore dei mostri, stava sul margine che, pietroso, cinge la distesa di sabbia. Calzante il paragone con le barche per questa figura che
era venuta nuotando attraverso l'aria ed ora giace in subdola calma sull'orlo
pietroso del sabbione. Nota il Soldati come Gerione sia "bestia e veicolo
insieme" e suggerisce un accostamento, per quel che riguarda il loro
aspetto esteriore, fra il mostro e
quelle navi da corsa la cui poppa era sormontata da un fregio alto e
ricurvo. Figuriamocene una, di notte, appoggiata alla riva nella posizione dei
burchi. Gerione, nave-fiera-demonio, è così!"> L’intera sua coda si agitava nel vuoto, contorcendo in alto la velenosa estremità biforcuta che aveva le punte munite di aculei come quella di uno scorpione. La coda biforcuta di Gerione sta ad indicare la doppiezza
dell'azione fraudolenta. Secondo alcuni interpreti le due punte della coda
alluderebbero ai due tipi di frode: la frode contro chi si fida e quella,
contro chi non si fida (cfr. Inferno XI, versi 53-54). Virgilio disse: “ Occorre adesso che il nostro cammino sia deviato un poco fino a quella bestia perversa che si trova là ”. Così un antico commentatore, l'Ottimo, spiega la deviazione
che a questo punto i due poeti compiono, allontanandosi dalla direzione fino
allora seguita: Il non si potea per diritto calle andare alla frode, anzi per
tortuoso; nulla via mena a lei diritto". Perciò scendemmo verso destra, e percorremmo dieci passi sull’estremità del cerchio, per evitare completamente la sabbia e la pioggia di fuoco. E quando fummo giunti vicino a lei, vidi un po’ più in là sulla sabbia gente che sedeva vicino all’abisso. Qui Virgilio: “ Affinché tu abbia una conoscenza completa di questo girone” mi disse, “avvicinati a loro, e osserva la loro condizione. I tuoi discorsi siano lì brevi: finché non sarai tornato, parlerò con questa (bestia), perché ci offra le sue vigorose spalle ”. Dante non assiste al colloquio di Virgilio con Gerione, il
quale rimane chiuso, in tutto il canto, in un assoluto mutismo. Il silenzio che
circonda il mostro rende con grande evidenza il carattere ambiguo e sfuggente
della fiera, che presenta ai due pellegrini, assoggettato ed obbediente, il solo
corpo. Così me ne andai tutto solo ancora sull’orlo estremo del settimo cerchio, dove sedeva la gente tormentata. Il dolore di questi dannati prorompeva in lagrime attraverso gli occhi; si proteggevano con le mani, agitandole di qua e di là, ora dalle fiamme, e ora dal terreno infuocato: non diversamente fanno i cani d’estate ora con il muso, ora con la zampa, quando sono morsicati o dalle pulci o dalle mosche o dai tafani. Per esprimere l'inanità degli sforzi, destinati a ripetersi
in eterno, di questi dannati (gli usurai), il Poeta ricorre ad una similitudine
efficace nella sua brutale immediatezza: quella dei cani che cercano di
difendersi dal morso fastidioso di parassiti ed insetti. "L'assíllo della
pena e il meccanico ripetersi dei gesti sono sottolineati anche da certe
insistenti ripetizioni: quando... quando ... ; or col... or col ... ; o da... o
da... o da." (Grabher) L'atteggiamento degli usurai esprime qui e alla
fine del discorso di Reginaldo degli Scrovegni (versi 74-75) tutta la
degradazione del loro essere. Dopo che ebbi fissato lo sguardo nel volto di alcuni, sui quali cade il fuoco tormentatore, non riconobbi nessuno; ma osservai che a ciascuno di loro pendeva dal collo una borsa, che aveva un colore determinato e un determinato disegno, e sembrava che il loro sguardo traesse nutrimento da queste borse. Come nel canto degli avari e prodighi, Dante mostra di
ignorare l'identità di questi peccatori: la borsa, simbolo della loro sfrenata
cupidigia di beni materiali, appare come l'espressione più esauriente della
loro personalità. Per maggior irrisione, sul sacchetto che pende dal collo dei
dannati è dipinto lo stemma della loro famiglia. E a mano a mano che li andavo osservando più attentamente, vidi su una borsa gialla dell’azzurro che aveva sembianza e atteggiamento di leone. Il leone azzurro in campo giallo rappresenta lo stemma dei
Gianfigliazzi, famiglia guelfa fiorentina, alla quale apparteneva Catello
Gianfigliazzi, usuraio in Francia. L'attenzione dei Poeta non si ferma sulla
persona di questo peccatore, che rimane del tutto nell'ombra, come se non
esistesse, ma sull'emblema del suo peccato. Poi, mentre il carro dei mio sguardo procedeva, oltre, ne vidi un’altra rossa come sangue, che ostentava un’oca candida più del burro. L'oca bianca in campo rosso è lo stemma degli Obriachi,
nobile famiglia. ghibellina, i cui membri esercitarono l'usura. Quanto al
raffronto del colore dell'oca con quello del burro il Sapegno rileva che
"I'immagine gastronomica si intona... aI tono beffardo e sarcastico, che
serpeggia per tutto questo gruppo di terzine". Ma forse, nella descrizione degli stemmi degli usurai, prevale,
sull'intento moraleggiante, il puro gusto degli accostamenti di colore. E uno che aveva disegnata sulla sua borsa bianca una scrofa azzurra e pingue, mi disse: “ Che fai in questa voragine? Parla, secondo la maggior parte dei critici, il padovano
Reginaldo degli Scrovegni. "L'interrogazione stizzosa - scrive il Torraca
- lascia intendere che l'usuraio s'è accorto di aver innanzi un vivo, e ne è
scontento". Ora vattene; e poiché sei ancora vivo, sappi che il mio concittadino Vitaliano siederà qui alla mia sinistra. Reginaldo si compiace di riversare sui suoi compagni di
pena (verso 70) l'onta che gli deriva dall'essere stato veduto dal Poeta, che
riporterà questa notizia nel mondo dei vivi. Egli perciò ne denuncia, non
richiesto, la presenza accanto a lui e il prossimo arrivo nel suo girone.
Osserva ancora il Torraca: "Dopo l'interrogazione scortese, l'ingiunzione
sgarbata. E non basta: non per usar cortesia a quel vivo, ma per sfogare la sua
stizza, se la piglia con due, che sono ancora in terra, e con i suoi stessi
compagni di pena; di questi fa la caricatura, di quelli proclama il peccato e
annunzia la punizione, di sé e degli altri cinicamente dice la patria". Insieme a questi fiorentini sono padovano: molte volte mi assordano l’udíto gridando: “Venga il grande cavaliere, che porterà la borsa coi tre caproni !” ” A questo punto storse la bocca e tirò fuori la lingua come un bue che sì lecca, il naso. Il cavalier sovrano è il fiorentino Giovanni Buiamonte
della famiglia dei Becchi, morto nel 1319. Il Poeta "vuol mettere proprio
in vista che l'usuraio atteso in inferno era cavaliere, e dei più rinomati, a
maggior vergogna di Gianni Buiamonte e della città che dava l'onore della
cavalleria a siffatta gente", poiché
"è ben più vergognosa l'usura in tale che si teneva o era tenuto
primo dei cavalieri, come è, d'altra parte, vergogna dar l'onore della
cavalleria a siffatta gente" (Barbi). E io, temendo che un ulteriore indugio infastidisse Virgilio che mi aveva raccomandato una breve sosta, tornai indietro (allontanandomi) da quelle anime afflitte. Trovai Virgilio che era già salito sulla groppa del mostro terrificante, e che mi disse: “ Ora sii forte e coraggioso. D’ora in poi si scende con tali mezzi: sali davanti, perché io voglio stare nel mezzo, in modo che la coda non possa nuocere ”. Omaí si scende per sì latte scale: i due poeti scenderanno
dal settimo all'ottavo cerchio sulle spalle di Gerione, saranno deposti sulla
superficie ghiacciata dello stagno Cocito (nono cerchio) dalla mano del gigante
Anteo e raggiungeranno il centro della terra calandosi lungo il corpo di
Lucifero. Il loro viaggio diventerà sempre più pericoloso a mano a mano che si
inoltreranno nel regno della frode. Come colui che sente così vicino il brivido della malaria, da averne già le unghie livide, e che trema in ogni sua fibra al solo vedere un luogo pieno d’ombra, tale divenni dopo le parole pronunciate (da Virgilio); ma mi ammonì il pudore, il quale rende il servo coraggioso in presenza di un valente padrone. Vivissimo è in Dante il senso della concretezza,
l'attenzione ai particolari che tutta una tradizione letteraria, prima e dopo
di lui, ha sdegnato. In questa similitudine, ad esempio, il Poeta non si limita
a dire che il malarico impallidisce, ma ci pone sotto gli occhi questo pallore
e ne suggerisce il subitaneo diffondersi attraverso la relativa c'ha già
l'unghie smorte. lo mi sedetti su quelle paurose spalle: provai bensì a dire, ma la voce non uscì come credetti: “ Fa in modo di cingermi con le tue braccia ”. Ma egli, che già altre volte mi aveva aiutato in altri momenti di pericolo, appena fui salito, mi cinse e mi sorresse con le braccia; e disse: “ Gerione, è tempo di partire: i giri siano ampi, e la discesa graduale: tieni conto del carico inusitato che trasporti ”. Corne la barca si stacca dal punto dove ha attraccato procedendo a ritroso, così si staccò di lì; e dopo che si sentì del tutto a suo agio, volse la coda, là dove prima era il petto, e, tesa, la mosse come un’anguilla, e con le zampe tirò a sé l’aria. Non credo che fosse maggiore la paura quando Fetonte lasciò andare le redini, motivo per cui il cielo, come ancora si vede, fu bruciato; né quando l’infelice Icaro sentì le spalle perdere le penne a causa della cera che si era scaldata, mentre il padre gli gridava: “ Fai un percorso sbagliato! ”, di quanto fosse la mia, allorché vidi che mi trovavo circondato da ogni parte dall’aria, e vidi scomparire la vista di ogni cosa fuorché quella del mostro. Fetonte, figlio del Sole, avendo ottenuto dal padre il
permesso di guidarne il carro, fu colpito da un fulmine di Gíove per aver
deviato dal giusto cammino e precipitò nell'Eridano. Secondo questa leggenda la
Via Lattea è il segno della bruciatura provocata sulla superficie del cielo dal
passaggio del carro del Sole guidato da Fetonte. Dante rappresenta il
giovinetto nel momento in cui, perduto il controllo dei cavalli, è colto dal
terrore (Ovidio - Metamorfosi II, 1 sgg.). Esso procede nuotando lentamente: scende compiendo cerchi, ma non me ne rendo conto se non per il fatto che l’aria mi colpisce in volto e dal basso. Io sentivo già a destra la cascata (del Flegetonte) fare sotto di noi uno spaventoso fragore, per cui sporsi verso il basso la testa per vedere, Opportunamente il Getto rileva come in questi versi non sia la paura ad occupa reAllora temetti maggiormente di cadere, perché vidi fuochi e udii pianti; perciò tremando strinsi fortemente le gambe (al dorso di Gerione). E mi resi conto allora, poiché non me ne ero accorto prima, dello scendere in cerchio a causa dei grandi supplizi che si avvicinavano ora da una parte ora dall’altra. Come il falco che è stato a lungo in volo, il quale, senza aver veduto il richiamo del cacciatore o alcuna preda, fa dire al falconiere “ Ahimè, tu stai calando! ”, scende stanco verso il luogo dal quale si era mosso agile, con innumerevoli giri, e si posa lontano dal suo padrone, sdegnoso e crucciato, così Gerione ci depose sul fondo, proprio ai piedi della rupe tagliata a picco e, liberatosi del peso dei nostri corpi, sparì come freccia che si stacchi dalla corda dell’arco. Di queste due similitudini, quella del falcone disdegnoso e
fello sembra per un istante avvicinare a un mondo di consuetudini umane (la
caccia) la figura di Gerione; quella della cocca ne ripropone appieno l'enigma.
Nulla giustifica, infatti, questa sparizione improvvisa se non l'obbedienza del
mostro a un volere che trascenda ogni nostra capacità di intendimento. |