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Un cupo tuono interruppe il profondo sonno nella mia testa, così ripresi coscienza come una persona che è destata violentemente; Un
greve truono: quasi tutti gli
interpreti moderni respingono
l'identificazione del greve truono con
il truono... d'infiniti guai del verso
9. Mentre il primo, per svegliare Dante,
deve avere un carattere di subitaneità,
il secondo è continuo, ininterrotto.
"Inoltre, il prodigio atmosferico
del lampo, che provoca l'immediato
addormentamento di Dante, richiede -
allegoricamente e poeticamente - un
altro prodigio, laddove il preteso
fragore infernale sarebbe uno stato di
fatto normale, permanente e invariabile.
" ( Chimenz ) allora, levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove ero. Il fatto è che mi trovai sul margine della profonda voragine del dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli lamenti, Vero
è che: l'espressione è meno
prosaica di quanto a una prima lettura
può apparire; infatti essa
"conserva in parte l'originario
valore di attestazione solenne, e sta
spesso a sottolineare la stranezza o
l'importanza della verità rappresentata
o asserita" (Sapegno). (La voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla. "Ora scendiamo quaggiù nel mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai. " Ed io, che avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio allorché sono preso dal timore, hai paura? " Ed egli: "La tragica sorte dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu interpreti come un segno di paura. Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che chiude tutt’intorno il baratro. Virgilio manifesta profonda pietà per quei dannati di cui egli si trova a dividere le sorti. Il pensiero angoscioso delle pene infernali gli fa troncare il discorso: Andiam, ché la via lunga ne sospigne. Il poeta latino ha perduto la sicurezza e la baldanza dimostrate nella risposta a Caronte e negli incitamenti a Dante del canto precedente. Un'ombra di tristezza vela le sue parole. Qui, per quel che si poteva arguire dall’udito, non vi era altra manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano fremere l’atmosfera infernale. Sospiri, che l'aura etterna facevan tremare: questi " sospiri " si contrappongono idealmente all'incomposto bestemmiare delle anime del canto precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca, non più tragica. Ciò avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di bambini e di donne e di uomini. D'infanti e di femmine e di viri: oltre ai bambini non battezzati, si trovano qui le anime di coloro che conobbero e praticarono le quattro virtù cardinali, senza aver avuto conoscenza delle tre virtù teologali; l'unica loro colpa è il peccato originale, retaggio comune del genere umano. San Tommaso sostiene che il peccato originale, ove non si accompagni ad altre manifestazioni peccaminose dovute al libero arbitrio, non riceve nell'al di là una punizione in senso proprio, ma soltanto il "danno" derivante dalla privazione della visione di Dio. Gli adulti virtuosi, morti prima della venuta di Cristo o senza che ne siano giunti a conoscenza, vengono definiti generalmente dai teologi ''infedeli negativi". in particolare San Tommaso sostiene che di per sé l'infedeltà negativa non è peccato, ma nega che, ove non soccorra la fede, il peccato originale possa sussistere da solo, senza indurre l'adulto in altri peccati. Soltanto i bambini non battezzati e i patriarchi dell'Antico Testamento sarebbero nella condizione di non avere in sé altro peccato fuorché quello originale. Dante, su questo punto, si allontana dalla tradizione più rigorosa e autorevole, per accogliere nel suo limbo anche gli infedeli negativi adulti, dell'antichità pagana e dello stesso Medioevo, seguaci di altre religioni. l buon maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che tu sappia, prima di procedere oltre, che non hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non bastano (a redimerli), perché furono privi del battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui tu credi. E se vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono uno di loro. Per tale mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che viviamo nel desiderio (di conseguire la visione beatifica di Dio) destinato a restare inappagato". I chiarimenti che dà qui Virgilio, prevenendo la domanda del suo discepolo e quasi intuendone lo smarrimento hanno uno sviluppo nobilmente didascalico e si concludono in un verso che sintetizza la condizione degli spiriti privati della visione di Dio. Questo verso, tuttavia, pur nella sua concisione, non ha nulla della tensione drammatica che vibra in altri endecasillabi della Commedia, nei quali la compattezza della forma pare venire sedata dall'urgenza del contenuto. Qui lo svolgimento logico è chiaro, riposato, e il tono sentimentale che ad esso corrisponde è anch'esso sereno, disteso. Se nelle parole di Virgilio c'è nostalgia per il Bene Supremo, dal quale è destinato ad essere per sempre lontano, questa nostalgia non ha nulla di drammatico e si inquadra armoniosamente in quello che deve apparire anzitutto come il discorso di un "saggio". Solo se si considera questo verso a sé, senza tener conto di quelli che precedono, si può vedere in esso "un verso disperato". E' stato detto che le parole di Virgilio si smorzano, nella definizione dello stato delle anime nel limbo, come in un sospiro. "Ma, come la tristezza di quelle anime è in certo modo placata dalla consolante memoria di una vita terrena vissuta senza peccato e dal confronto con i terribili martiri infernali di cui sono esenti, così quel verso, nel discorso e nel punto del discorso in cui si trova, non esprime più che una dolente, ma composta e consapevole rassegnazione." (Chimenz) Provai un grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della voragine infernale). La terzina rende esplicito quello che è il sentimento animatore di tutto il canto. Più ancora che di pietà, si tratta di "perplessità della ragione, che al tempo stesso avverte la sua grandezza e la sua insufficienza, allorché non l'assista il lume della Grazia, e alla fine s'arrende, sebbene riluttante, al mistero del dogma" ( Sapegno) . Il dolore del Poeta per la sorte degli " spiriti magni ", qui appena accennato, non è destinato ad assumere neppure in seguito rilievo drammatico. Anzi, nella scena dell'incontro con i poeti, Dante sarà tutto preso da un sentimento opposto e soverchiante: la gioia di potersi trovare in presenza dei grandi che hanno incarnato un ideale di civiltà, da lui giudicato non più raggiungibile. Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi, signore, uscì mai di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui, per assurgere poi alla beatitudine?" Dimmi. maestro mio, dimmi, segnore: modo particolarmente affettuoso in cui c'è come un'eco del gran duol della terzina precedente. "La compassione dello stato di Virgilio sentita da Dante rende ragione di questo doppio titolo, ch'è una lode ' delicata e pietosa." (Tommaseo) Ed egli, che comprese il significato nascosto delle mie parole, rispose: "Mi trovavo da poco in questa condizione, quando vidi scendere quaggiù un potente (Cristo), circonfuso dello splendore della sua divinità. Un possente, con segno di vittoria coronato: il Redentore non è mai nominato nell'Inferno, ma la perifrasi, più che trovare la sua spiegazione in un rispetto che resta estraneo alla poesia di questo passo, mira a rendere, velandolo di mistero, un carattere essenziale della divinità: l'onnipotenza, la serenità con cui essa esercita il suo impero anche là dove ostacoli insormontabili si oppongono all'intervento degli uomini. Quanto al segno di vittoria può essere o interpretato in senso generico, come fa ad esempio il Boccaccio ("non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinità" ), oppure riferito alle rappresentazioni di Cristo trionfante nell'arte figurativa medievale, in cui appare incoronato dell'aureola crocifera", ossia dell'aureola traversata dal segno della croce. Altri ancora ricollegano questo verso a una frase del Vangelo apocrifo di Nicodemo ("e il Signore pose la sua croce, che è segno di vittoria, in mezzo all'inferno" ), e alla iconografia che ad essa si ispira: il Figlio di Dio, visto come "re forte", come un possente... coronato, calpesta le porte schiodate e abbattute dell'inferno tenendo in mano la sua croce. Portò via di qui l’anima di Adamo, il capostipite del genere umano (primo parente: primo genitore), quelle del figlio di lui Abele e di Noè, quella del legislatore Mosè, sempre sottomesso ai voleri di Dio; e inoltre portò via il patriarca Abramo e il re Davide, Giacobbe (Israèl) col padre Isacco e i suoi dodici figli e la moglie Rachele, per ottenere la mano della quale tanto si adoperò; e molti altri ancora, e li rese beati; e voglio che tu sappia che, prima di loro, nessun altro era salito in paradiso" . L'elenco dei protagonisti della storia del popolo eletto, resi beati, inizia col capostipite Adamo per proseguire col suo secondogenito, col patriarca scampato al diluvio universale e a cui si deve il ripopolamento della terra, col grande condottiero e legislatore, che sul Sinai ebbe da Dio la rivelazione dei principii ai quali il suo popolo avrebbe dovuto attenersi per trionfare sugli avversari e raggiungere la Terra Promessa. Esso continua con la figura del patriarca che non esitò, per obbedire al Signore, a preparare il sacrificio del figlio Isacco, del re guerriero e poeta, autore dei Salmi, che, altrove, nella Divina Commedia è chiamato il cantor dello Spirito Santo (Paradiso XX, 38) e sommo cantor del sommo duce (Paradiso XXV, 72), di Isacco e del figlio Giacobbe, che dopo la lotta con l'angelo (Genesi XXXII, 25-29) fu chiamato Israele ("forte con Dio"), dei dodici capostipiti delle tribù d'Israele, di Rachele, andata sposa a Giacobbe dopo che questi ebbe servito per quattordici anni il padre di lei, Labano (Genesi XXIX, 18-30). Per il fatto che egli parlasse non interrompevamo il nostro procedere, continuando ad aprirci un varco nella selva, nella selva, intendo, costituita da un numero sterminato di anime vicinissime le une alle altre. Non avevamo ancora percorso molta strada dal margine più alto del cerchio, quando vidi una sorgente di luce che per mezzo cerchio intorno a sé dissipava le tenebre. Ch'emisperio di tenebre vincìa: I'espressione risulta figurativamente e poeticamente più persuasiva se si da a vincìa il significato di " vinceva ", invece che di " avvinceva ", " legava", come vogliono taluni interpreti, e si pone quindi, come soggetto, foco invece che emisperio. Questa interpretazione tiene conto del modo di sentire del Poeta, della sua emozione "colma del pathos dell'intelligenza e concorde istintivamente con la vulgata metafora che parla di luce dell'ingegno e di tenebre dell'ignoranza ( fede dunque, nei grandi uomini della scienza e della poesia che appaiono come una luminosa visione, un'accolta capace di dissipare e vincere con la luce della cultura le simboliche tenebre della barbarie)" (Getto). Ci trovavamo ancora un poco lontani da questa sorgente di luce, non tanto tuttavia, che io non potessi intuire che una schiera di anime degne di onore occupava quel posto. "O tu che onori scienza e arte, chi sono costoro che hanno tanta dignità, che li distingue dalla condizione degli altri? " |