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INFERNO:
CANTO X
 

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Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo.

“O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi” presi a dire,  “parla ed esaudisci il mio desiderio.

Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia. ”

La scenografia dei primi cerchi infernali si ispira ai grandi fenomeni naturali della terra: l'unico elemento che distingue la bufera che mai non resta dei lussuriosi o la pioggia maledetta del terzo cerchio da una bufera o da una pioggia reali, è la loro durata infinita. Dio si manifesta appunto attraverso questo carattere di eternità impresso a forme e movimenti altrimenti pienamente verosimili, in virtù della loro naturalezza, anche agli occhi di chi non riesca a vedere nella natura nulla che la trascenda. La stessa osservazione può ripetersi per la giostra degli avari e prodighi, che viene espressamente riallacciata dal Poeta a un particolare, l'urto delle onde di due mari nello stretto di Messina, e che, indipendentemente da questo accostamento, ha, del fenomeno naturale, la rigorosa periodicità e monotonia.
Ad accrescere l'orrore di questi spettacoli - orrore immediato e quasi fisico, non ancora pervaso nel profondo da quella problematica religiosa e morale che troverà le sue soluzioni più ricche soltanto in un secondo tempo - contribuisce il commento di grida e invocazioni con cui i dannati manifestano la sopravvivenza in loro di un barlume di libertà spirituale: la libertà del dolore, del rifiuto, della bestemmia.
Ma nel quinto cerchio la sofferenza delle fangose genti è muta: gli iracondi si troncano a brano a brano senza che Dante accenni ad un solo lamento da loro emesso. Il dramma allegorico, che prelude all'arrivo del messo celeste e che non è già più traducibile in termini "naturali" con la stessa facilità con cui lo erano gli spettacoli dei cerchi superiori, si svolge anch'esso in uno spazio che, per essere vuoto di suoni, si arricchisce di risonanze spirituali e parla direttamente all'anima. Il paesaggio del cerchio degli eretici, desolato nella sua quasi assoluta orizzontalità e cosparso di avelli aperti, sembra esso pure immerso nel silenzio, nonostante il cenno ai duri lamenti di questi peccatori (Inferno IX, 122 ).
Ma anche qui il silenzio non è se non la condizione in cui meglio si ascolta la voce di Dio. La campagna cosparsa di tombe evoca uno scenario da Giudizio Universale. Anche il particolare, solo in apparenza secondario, del sentiero angusto che egli deve percorrere dietro la sua guida, accentua il senso di solitudine e lo sbigottimento del Poeta. Da tale stato d'animo nascono gli appellativi, ora solenni ora affettuosi, con cui Dante si rivolge in quest'apertura di canto a Virgilio, e tutto il tono sospeso delle sue parole.

E Virgilio: “Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra.

In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono  che l’anima muoia insieme al corpo.

Il filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.) aveva negato la sopravvivenza dell'anima al corpo, opinione questa, come scrisse Dante nel Convivio ( Il, VIII, 8), "intra tutte le bestialitadi... stoltissima, vilissima e dannosissima". Le sue teorie erano conosciute nel Medioevo soltanto indirettamente, attraverso gli scrittori latini, e in modo incompleto; per tale motivo poterono essere qualificati "epicurei" tutti coloro che si mostravano indifferenti in materia religiosa. In particolare i Ghibellini vennero spesso designati come epicurei.

Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi ”.

E io: “Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto  a ciò non soltanto ora”.

“O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui.

Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno.”

Il dannato che rivolge queste parole a Dante è Manente, detto Farinata, degli Uberti. Nato a Firenze all'inizio del secolo XIII, fu dal 1239 capo del partito ghibellino e come tale ebbe un ruolo di primo piano nel determinare la cacciata dei Guelfi dalla città nel 1248. Tornati questi nel 1251, dovette, a sua volta, allontanarsi da Firenze insieme ai suoi seguaci. Trovò rifugio a Siena, dove preparò la controffensiva contro il partito avverso. I Guelfi fiorentini subirono nel 1260 una sanguinosa disfatta a Montaperti ad opera dei fuorusciti ghibellini e dei Senesi comandati appunto da Farinata, Rientrato in patria, vi mori nel 1264. Dopo la sua morte, e in seguito alla definitiva disfatta del partito ghibellino in Italia, gli Uberti furono messi al bando da Firenze e le loro case rase al suolo. Farinata, dopo la sua morte, fu processato per eresia.
Nel Farinata dantesco i romantici videro soprattutto l'eroe tutto d'un pezzo, il prodotto di un'epoca ancora barbarica, quasi un "superuomo" del Medioevo. In realtà il suo carattere è assai più sfumato, contraddittorio e umano; proprio in questa umanità è la sua grandezza. Bene osserva il Romani, a proposito di queste prime parole rivolte a Dante: "Nel violento impulso di affetto verso la sua patria, e nel subitaneo crescere e innalzarsi dell'immagine di lei, Farinata intravede, forse per la prima volta, di non averla in vita amata abbastanza, anzi di averle indegnamente recato offesa; e, in quell'impeto d'amore, l'anima s'apre alla sincerità, e confessa nobilmente la sua colpa".

Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri;  mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio.

Ed egli mi disse: “Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ”.

Dalla cintola in su tutto 'I vedrai: il De Sanctis interpretava questo verso in senso morale, come un equivalente di:  "lo vedrai in tutta la sua grandezza".
Il Barbi ha voluto invalidare questa esegesi, mostrando come espressioni del tipo  "dalla cintola in su" e "dalla cintola in giù", accompagnate a volte anche dalla specificazione "tutto", fossero comuni ai tempi di Dante, per designare "la parte superiore o inferiore del corpo". Ma uno dei pregi più rilevanti dell'arte del Poeta sta appunto nel saper conferire un significato nuovo, più ricco e profondo, ad espressioni che in nulla sembrano scostarsi dal parlare comune.

Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto  con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo.

La rappresentazione di Farinata che si erge solitario e immobile in mezzo alla pianura del dolore, ha ispirato le più suggestive pagine del saggio del De Sanctis; questi, peraltro, non si è soffermato abbastanza su quanto di complesso e di tormentato c'è nella figura di questo eroe, vincitore in terra, ma definitivamente perdente agli occhi di Chi lo ha giudicato per l'eternità. Scrive il De Sanctis, a proposito dell'"ergersi" di Farinata, che questo verbo "è sublime non per il suo significato diretto, ma come segno ed espressione d'una grandezza tanto maggiore quanto meno misurabile, dell'ergersi, dell'innalzarsi dell'anima di Farinata sopra tutto l'inferno..."  

E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinse