|
Vi è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, fatto interamente di una pietra del colore del ferro, come la parete rocciosa che tutt’intorno lo circonda. Il canto inizia con la descrizione della topografia
dell’ottavo cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi non si
fida. Il cerchio è diviso in dieci bolge (borse, sacche: cioè fossati,
avvallamenti) concentriche. Il verso di apertura, così solenne e sobrío, segna
un netto distacco dalla fine del canto precedente, tutto dominato dalla
presenza del sovrannaturale e culminante nella miracolosa sparizione di
Gerione. Esso, se da un lato rimanda, per la sua struttura, ad altri inizi di
discorsi o di narrazioni dell’Inferno, come, ad ‘esempio, all’endecasillabo,
così delicatamente atteggiato, siede la terra dove nata fui del canto di
Francesca, e a quello che apre la leggenda del Veglio di Creta, in mezzo mar
siede un paese guasto, da questi si distacca per la scansione severa, che nulla
concede al patetico o al fiabesco. Proprio nel centro di questo piano malvagio si apre un pozzo molto largo e profondo, del quale descriverò la struttura quando sarà il momento. Il pozzo che si apre nel centro di Malebolge porta
dall’ottavo al nono cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi si
fida, cioè i traditori. In questa descrizione preliminare della parte più bassa
dell’inferno la natura è “contemplata con distacco, nella sua definizione
architettonica” (Sanguineti) : di qui l’uso del termine pozzo per designare
l’ultimo precipizio della voragine infernale. La rigorosa geometria dell’ottavo
cerchio è la manifestazione visibile “della mente ordinatrice che ad ogni colpa
ha assegnato il suo luogo di punizione” (Gallardo). Quella fascia che resta tra il pozzo e la base dell’alta parete rocciosa è pertanto circolare, e ha la superficie suddivisa in dieci avvallamenti. Quale aspetto presenta, dove numerosi fossati circondano i castelli, per proteggerne le mura, il luogo in cui questi si trovano, tale figura offrivano lì quegli avvallamenti e come tali fortezze hanno dalle loro soglie fino alla riva esterna dell’ultimo fossato dei piccoli ponti, così dalla base della parete partivano ponti di pietra che attraversavano gli argini e i fossati fino al pozzo che li interrompe e nel quale convergono. Opportunamente il Grana rileva che in questa descrizione
“la grandiosa topografia del basso inferno è come rimpicciolita in un plastico,
semplificata e spoglia di particolari, ridotta a forme e dimensioni
rigorosamente geometriche. Nel corso della discesa, Malebolge rivelerà un
cumulo di forme sconvolte, informi, con tutti gli orrori che la giustizia
divina vi ha racchiusi; ma ora, nella sua conformazione generale, offre una
visione gelida, e impressionante di armonia, una forma orrida ma mirabile per
precisione e simmetria: orma dell’Eterno Fattore impressa anche nell’inferno,
come in tutto il creato, secondo il disposto d’una « alta Provvedenza »,
visibile nella natura del luogo di pena, come nei tormenti inflitti ai
dannati”. Eppure anche in una descrizione così volutamente distaccata e
impersonale, il linguaggio prepotentemente dinamico e drammatico del Poeta sa
ricondurre la vita. Movìen, ricidìen, tronca e racco’gli sono immagini che
rendono la natura geometrica di questo cerchio “quasi partecipe dell’atto di
giustizia che l’ha plasmata” (Grana). In questo luogo ci venimmo a trovare, scesi dal dorso di Gerione; e Virgilio si diresse verso sinistra, e io mi avviai dietro di lui. Vidi verso destra nuovo dolore, pene mai prima vedute e fustigatori di nuovo genere, di cui il primo avvallamento era pieno. I dannati stavano nudi nel fondo: dalla metà della bolgia verso l’esterno procedevano in direzione contraria alla nostra, dall’altra parte camminavano nella nostra stessa direzione’, ma più velocemente’, come i Romani a causa della grande folla, nell’anno del giubileo, hanno trovato un espediente per far transitare la moltitudine sul ponte (di Castel Sant’Angelo), in modo che da un lato del ponte tutti avevano la fronte rivolta al Castello e si dirigevano verso San Pietro; dall’altro lato andavano verso il monte (Giordano: collina sta alla sinistra del Tevere). Nel 1300, anno del giubileo indetto Bonifacio VIII, Roma fu
visitata da un gran numero di pellegrini. Scrive in proposito il Villani
(Cronaca VIII, 36): “al continuo in tutto l’anno durante avea in Roma, oltre al
popolo romano, duecentomila pellegrini, sanza quegli ch’erano per gli cammini
andando e tornando”. Per regolarne il transito sul ponte di Castel Sant’Angelo,
esso fu diviso con un tramezzo, in modo che tutti quelli che camminavano nella
medesima direzione si trovassero dalla stessa parte. Da tutte le parti, sulla buia pietra vidi diavoli cornuti con grandi fruste, che Ii percuotevano spietatamente sulla schiena. Ahi come facevano loro alzare le calcagna fin dai primi colpi! nessuno certo aspettava i secondi e i terzi. Il linguaggio astratto e solenne delle prime terzine è qui
dei tutto dimenticato. Ancora nel presentare la visione della bolgia (versi
22-24) il Poeta si era servito di termini estremamente generici (pièta,
tormento, frustatori nel senso di tormentatori) o letterari (il latinismo
repleta). Qui la stessa scena, veduta nella sua concretezza, dopo il paragone
con l’essercito molto, che mirava a cogliere in essa un significato di portata
universale - l’ordine che si riflette, in quanto manifestazione della mente di
Dio, anche nell’inferno - si rivela comica e volgare. “I frustatori sono adesso
ritrascritti come i demon cornuti, il tormento, così astrattamente posto
all’ínizio, si traduce ora in aperta visione: li battien crudelmente; la nova
pieta trova alfine una esauriente illustrazione.” (Sanguineti) Mentre camminavo, il mio sguardo s’imbatté in uno di loro; e immediatamente dissi: “ Non è la prima volta che vedo costui ”; perciò per poterlo osservare meglio mi fermai: e la mia cara guida si fermò con me, e acconsentì che tornassi un po’ indietro. Dante non solo rinuncia a darci un ritratto di questo
personaggio, ma, quasi a sottolinearne l’abiezione, il nessun conto in cui deve
essere tenuto, lo indica attraverso un pronome indefinito: uno. Questa
designazione anonima acquista tuttavia il suo intero significato soltanto se
messa in rapporto con l’episodio che qui ha inizio e nel quale Dante
costringerà il dannato a confessare la sua colpa, facendogli capire di averlo
riconosciuto e chiamandolo per nome. E quel frustato credette di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì, poiché io gli dissi: “ O tu che volgi lo sguardo a terra, se le tue fattezze non sono ingannevoli, tu sei Venedico Caccianemico: ma quale peccato ti conduce a così brucianti supplizi ? ” Il bolognese Venedico Caccianemico (c. 1228-1302) fu a capo
del partito guelfo nella sua città e ricoprì la carica di podestà in diversi
comuni dell’Italia centrale e settentrionale. Favorì la politica degli Estensi,
che miravano ad estendere la loro influenza su Bologna, e, secondo la diceria
alla quale Dante mostra di dar credito, indusse sua sorella Ghisolabella, già
sposata, a concedersi a uno di loro (Obizzo II o Azzo VIII). Le parole che
Dante rivolge a questo dannato sono, “sotto l’apparenza della corretta
educazione” (Caretti), crudeli e sarcastiche. Il frustato ha cercato di non
farsi riconoscere: non vuole che nel mondo dei vivi si sappia che egli è
nell’inferno per una colpa così abietta. Il Poeta, per mostrare di averlo
riconosciuto, ne pronuncia il nome, ma, per maggiore derisione, finge di non
essere del tutto certo del suo riconoscimento (se le fazion che porti non son
false). Infine, per far ben capire a Venedico di averlo identificato, si serve
del termine salse, che, se in un’accezione immediata è soltanto una metafora
per « supplizi », rappresenta anche il nome di una valle nei pressi di Bologna,
dove venivano gettatí i cadaveri dei giustiziati, dei suicidi e degli
scomunicati. Ed egli: “ Lo dico controvoglia; ma mi costringono le tue precise parole, che richiamano alla mia memoria la vita terrena. lo fui colui che indusse Ghisolabella a cedere alle brame del Marchese, comunque venga narrata questa turpe storia. Ma non sono il solo bolognese che qui dolorosamente sconta la sua colpa; al contrario, questo luogo è così pieno di Bolognesi, che attualmente non vi sono tante lingue avvezze a dire “sia” tra i fiumi Sàvena e Reno; e se di questo fatto vuoi una prova sicura, ricordati del nostro animo avido ”. “Sipa”: è forma dell’antico dialetto bolognese per la terza
persona singolare del congiuntivo presente del verbo essere. La risposta di
Venedico - osserva il Caretti - “non fa che perfezionare il tono di cinica
commedia, già reperibile nell’allusiva interrogazione... Costretto a ricordare
il mondo antico, Venedico non sa infatti far altro che sciorinare impudicamente
il poco onorevole catalogo delle proprie benemerenze .....” Mentre così parlava un diavolo lo colpì con la sua frusta, e disse: “ Vattene, ruffiano! qui non ci sono donne da prostituire ”. lo mi riaccostai alla mia guida; poi, percorsi pochi passi, arrivammo in un punto dove dalla parete rocciosa si staccava un ponte di pietra. Salimmo su di esso con molta facilità; e, diretti verso destra, su per la sua superficie scheggiata, ci allontanammo da quell’eterno girare. Quando fummo nel punto in cui (il ponte) è vuoto sotto di sé per consentire ai frustati di passare, Virgilio disse: “ Fermati, e fa in modo che cada su di te lo sguardo di questi altri sciagurati, dei quali ancora non hai veduto il volto poiché hanno camminato nella nostra stessa direzione ”. Dal ponte antico osservavamo la fila che avanzava nella nostra direzione percorrendo l’altra parte della bolgia, e che la frusta sospingeva così come faceva con i ruffiani. E Virgilio, senza che io facessi domande, mi disse: “ Guarda quel grande che si avvicina, e che non sembra versare lagrime per il dolore. Quale portamento regale ancora conserva! Quello è Giasone, che con il coraggio e la saggez;a privò i Colchi del montone. Giasone è un personaggio della mitologia del quale Dante
ebbe notizia probabilmente attraverso la Tebaide di Stazio (V, 404-485). Figlio
di Esone re della Tessaglia, questo eroe guidò la spedizione degli Argonauti
nella Colchide per conquistare il vello d’oro. Egli passò per l’isola di Lemno, dono che le audaci donne senza pietà avevano ucciso tutti i loro uomini. Qui con gesti e con parole lusinghiere ingannò Isifile, la giovane che prima aveva ingannato tutte le altre donne. La abbandonò lì, incinta, sola; questo peccato lo rende meritevole di tale supplizio; e si rende giustizia anche per il male da lui fatto a Medea. Con lui va chi usa l’inganno in tal modo: e basti questa conoscenza della prima bolgia e di coloro che essa strazia ”. Ci trovavamo già nel punto dove l’angusto sentiero s’incrocia con il secondo argine, e di questo fa sostegno per un altro arco di ponte. Di qui udimmo gente che emetteva lamenti soffocati nell’altra bolgia e soffiava rumorosamente, e percuoteva se stessa con le palme aperte. Le sponde erano incrostate di muffa, a causa delle esalazioni che, provenendo dal basso vi si solidificavano formando come una pasta, la quale irritava la vista e l’olfatto. Il fondo è così profondo, che non vi è luogo adatto per vedere in esso, a meno di salire sulla sommità dell’arco, là dove il ponticello di píetra è più alto. Arrivammo in quel punto; e di là vidi in basso nella bolgia una moltitudine immersa in uno sterco che sembrava provenire dalle latrine umane. E mentre io percorrevo con lo sguardo il fondo della bolgia, scorsi uno con la testa, così imbrattata di sterco, che non si distingueva se avesse o no la tonsura. Quello mi apostrofò “ Perché sei così avido di fermare il tuo sguardo su di me più che sugli altri insozzati ? ” E io: “ Perché, se ricordo bene, io ti ho già veduto quando i tuoi capelli erano puliti, e sei Alessio Interminelli di Lucca: per questo ti osservo più di tutti gli altri ”. Ed egli allora, picchiandosi il capo: “ Mi hanno fatto
affondare in questo luogo le adulazioni delle quali non ebbi mai sazia la lingua ”. Poi
Virgilio mi disse: “ Fa in modo di spingere
lo sguardo un po’ più avanti, in modo da raggiungere con gli occhi la
faccia di
quella sudicia e scarmigliata donnaccia che si graffia laggiù con le unghie
lorde, e ora si siede in terra, e ora è dritta in piedi. E’
Taide, la meretrice che al suo amante, quando costui le chiese “Ho io per te
grandi meriti?” rispose: “Più che grandi, straordinari!” E di questo spettacolo i nostri occhi siano sazi ”. |