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O mago Simone, o suoi sciagurati seguaci, che gli uffici sacri, che devono essere uniti alla bontà (dati e ricevuti da chi è buono), voi avidamente In un passo degli Atti degli Apostoli (VIII, 9-20) si narra
che Simone, il quale praticava l’arte magica in Samaría, offrì del denaro agli
apostoli Pietro e Giovanni in cambio del potere di comunicare ai fedeli,
attraverso l’imposizione delle mani, lo Spirito Santo. Ma San Pietro gli disse:
“Va in perdizione tu e il tuo denaro, perché tu hai creduto che il dono di Dio
si potesse acquistare col denaro!”. Dal mago Simone prese nome di «simonia»
l’atto di comprare o vendere quelle che Dante chiama qui le cose di Dio:
cariche ecclesiastiche e sacramenti. Nel Medioevo la simonia fu a volte usata
dai pontefici come strumento politico, per accrescere il potere temporale del
papato. Occorre notare tuttavia che Dante considera la simonia in un senso
molto lato, poiché egli condanna come tale non solo la compravendita dei beni
spirituali, ma anche il nepotismo e tutta la politica di alcuni papi del suo
tempo, colpevoli, ai suoi occhi, di trascurare le cose sacre per brama di
dominio e di ricchezza. In queste due terzine lo stile è quello profetico e i richiami alle Sacre
Scritture sono evidenti. Poiché il legame che unisce le cose di Dio ai buoni è
il solo legame giusto, legittimo, esso si configura come «matrimonio» (spose);
poiché il legame che le unisce ai cattivi, a coloro che se ne servono per
acquistare, ricchezze e prestigio, è iniquo, illecito, esso si configura come «
adulterio » o « lenocinio » (avolterate). Nella Bibbia e poi in tutta la letteratura
di ispirazione biblica queste immagini sono frequenti e di grande efficacia, ‘
poiché trasferiscono concetti astratti in un ambito di esperienze semplici, ma
fondamentali, in cui tutti possiamo
riconoscerci. Già eravamo saliti, nella bolgia seguente, su quel tratto del ponte che sovrasta perpendicolarmente proprio la parte mediana della bolgia. O sapienza infinita, quanta forza creativa dimostri in cielo, in terra e nell’inferno, e con quanta giustizia il tuo potere distribuisce premi e castighi ! Notai sulle pareti e sul fondo la roccia scura piena di buchi, tutti della stessa ampiezza e tutti circolari. Non mi sembravano meno larghi né più ampi di quelli che si trovano nel Battistero di San Gìovanni, creati perché in essi prendessero posto coloro che somministravano il battesimo; uno dei quali, non molti anni fa, fu da me spezzato a causa di uno che era sul punto di morirvi soffocato: e questa sia testimonianza, che tolga dall’errore ogni persona. Stando a quanto qui dice il Poeta e alle spiegazioni dei
primi commentatori, nel Battistero di San Giovanni erano stati costruiti,
intorno al fonte, battesimale, alcuni piccoli pozzi, in cui prendevano posto i
preti che celebravano il battesimo. Essi in tal modo stavano al riparo dalla
folla che, nei due giorni dell’anno in cui a Firenze si usava battezzare (la
vigilia dì Pasqua e la vigilia di Pentecoste), si accalcava numerosa Fuori dell’apertura sporgevano sopra ogni buco i piedi e parte delle gambe, fino alla coscia, di un dannato, e il resto dei corpo era conficcato dentro. Entrambe le piante dei piedi di tutti questi peccatori erano cosparse di fiamme; e perciò le loro articolazioni, si agitavano con tanta forza, che avrebbero spezzato funi di vimini e di erbe. Come le fiamme che consumano gli oggetti unti ne sfiorano soltanto la superficie più esterna, così avveniva sulle piante di quei piedi dalle calcagna alle punte (delle dita). “ Maestro, chi è colui che manifesta il suo dolore agitando più degli altri suoi compagni di sorte ” io domandai, “ e che una fiamma più viva consuma ? ” La similitudine dei versi 28-29 richiama quella dello
stizzo verde dell’episodio di Pier delle Vigne. Ambedue hanno la funzione di
rendere credibile, avvicinandolo alla realtà più umìle e, in apparenza,
insignificante, un particolare aspetto - forse il più tragico - delle pene
infernali: quello che ci mostra il linguaggio ridotto a manifestazione
fisiologica, portato sul piano della più evidente materialità (nel canto
tredicesimo troviamo il binomio inscindibile parole e sangue; qui, nella
grottesca scenografia della terza bolgia, al verso 45, sì piangeva con la
zanca). Osserva il De Sanctis: Quest’uomo pensa e sente per mezzo dei piedi che
soli paiono di fuori, e simile ad un cieco che ha la vista nel tatto, i suoi
cinque sensi sono concentrati nel piede e se sente dolore della fiamma che gli
succia la carne, egli piange, piange con la zanca; e se sente dispetto, il suo
dispetto esprime torcendo i piedi; é il gesto del piede sostituito al gesto
della testa e delle mani . Succia si riferisce al termine paragonato (il
peccatore conficcato nel foro, o, più precisamente, le piante dei suoi piedi),
ma è suggerito dal termine di paragone (le cose unte) se la fiamma assorbisse
gli umori delle membra del paziente” (Casini-Barbi). E Virgilio: “ Se desideri che io ti accompagni laggiù scendendo da quell’argine che è più basso (più giace: è là via più interna della bolgia, che è più bassa di quella esterna perché il piano di Malebolge declina verso il pozzo centrale), apprenderai da lui chi fu e quali furono i suoi peccati ”. E io: “ Tutto quello che piace a te mi è gradito: tu sei quello che comanda, e sai che non mi allontano dalla tua volontà, e conosci quello che, da parte mia, è taciuto ”. Giungemmo allora sul quarto argine: ci dirigemmo e scendemmo
verso sinistra giù nel fondo pieno di
fori e malagevole da attraversare, Virgilio non mi pose a terra dal suo fianco, finché non mi accostò al foro di colui che tanto intensamente manifestava il proprio dolore con la gamba. “ Chiunque tu sia, che hai la parte superiore del corpo in basso, anima malvagia conficcata come un palo ”, presi a dire, “ se ti è possibile, parla. ” La pena dei simoniaci riflette - come ha mostrato il
D’Ovidio - un rigoroso contrappasso: “i simoniaci, cupidi, mirarono alla terra,
fonte dell’oro e di tutti i beni materiali, terreni, dimenticando interamente
il cielo a cui avrebbero dovuto tener sempre volti gli occhi; ebbene, la loro
pena è per l’appunto d’essere ora infissi a terra, e al cielo tener volti i
piedi, tirar’ calci al cielo anche nella vita futura... Il simoniaco capovolse
l’ufficio suo traendo vantaggi materiali per l’appunto, dalle cose spirituali,
dando esempi che erano il preciso opposto di quelli che l’uomo di chiesa
avrebbe dovuti dare; ed è capovolto! Avrebbe dovuto aspirare alla aureola del
santo, e un nimbo di fuoco gli succia i piedi: un’aureola a rovescio!” La pena
dei simoniaci presenta alcune affinità con quella degli eretici: tra l’altro,
agli avelli degli eretici corrispondono i fori dei simoniaci, mentre, tanto nel
sesto cerchio che nella terza bolgia, il fuoco, simbolo dello Spirito Santo,
tormenta coloro i quali contro lo Spirito Santo maggiormente hanno peccato. Ma,
accanto alle affinità, occorre notare le differenze: mentre gli eretici sono
distesi nei loro sepolcri (la gente che per li sepolcri giace) e possono, sia
pure per poco, cambiare la loro posizione (Farinata si erge, Cavalcante si leva
in ginocchio), i simoniaci sono imprigionati a testa in giù come pali confitti
in terra (di qui lo straordinario rilievo che assume il movimento delle loro
gambe); il fuoco, che fa da cornice grandiosa alle tombe degli eretici, nella
terza bolgia si limita a sfiorare le piante dei piedi dei simoniaci come cose
unte qualsiasi. lo stavo nella posizione del frate che raccoglie la confessione del sicario spergiuro, il quale, dopo essere stato confitto in terra, lo richiama, in modo che allontana la morte. Il termine assessin è di origine araba e fu introdotto in
Occidente dopo le Crociate. Gli Assassini erano una setta musulmana, i cui
membri, legati da un giuramento di obbedienza assoluta al loro capo, il Veglio
della Montagna, e sotto l’influsso di una droga (l’hascisc), commettevano ogni
sorta di misfatti. In Italia ai tempi di Dante la parola indicava colui che
uccide per danaro. Come ha mostrato il Paglíaro, l’aggettivo perfido che
qualifica al verso 50, assessin, è riferito, con il significato di « infedele
», « traditore », al “sicario, il quale venga meno all’obbligo dei silenzio,
che egli, si presume, ha contratto nell’atto di ricevere il suo ignobile
mandato”. Errata sarebbe quindi l’interpretazione di coloro che attribuiscono a
cessa il valore di “allontana, differisce, sia pur di pochi istanti, la morte”
(Sapegno). Il sicario che rivela al confessore il nome del proprio mandante non
si limita a prolungare, in base a quest’analisi del Pagliaro, la propria vita
di alcuni istanti, ma la salva. Cessa non può quindi avere altro significato
che quello di « allontana definitivamente ». Ed egli gridò: “ Sei già qui dritto in piedi, sei già qui dritto in piedi, Bonifacio? Il libro del futuro mi ha ingannato di molti anni. Il dannato che parla è Giovanni Gaetano Orsini, papa dal
1277 al 1280 col nome di Niccolò III. Ecco come lo descrive un antico
commentatore, il Lana: “Per acquistar moneta non si vedea stanco né sazio di
vendere e di alienare le cose spirituali per le temporali, commettendo continuo
simonia, in per quello che ogni suo atto si drizzava ad avere pecunia; e questo
volea per far grandi quelli di casa sua e sé nel mondo”. Niccolò III scambia
Dante per Bonifacio VIII, il pontefice destinato a prendere il suo posto
all’entrata del foro dei papi simoniaci e si meraviglia che sia arrivato in
anticipo sulla data prevista (Bonifacio VIII, asceso al soglio pontificio nel
1294, morì nel 1303, tre anni dopo l’immaginario viaggio di Dante
nell’oltretomba, avvenuto nella primavera del 1300). Bonifacio VIII è
considerato da Dante il principale responsabile delle sciagure di Firenze
(sostenne il partito dei Neri che costrinse il Poeta all’esilio). In più luoghi
della Commedia la figura di questo pontefice, chiamato da Dante a render conto
delle sue colpe politiche non meno che delle sue infrazioni alla legge di Dio,
grandeggia come quella di un genio del male. Di lui scrive uno storico guelfo,
il Villani (Cronaca VIII, 6): “pecunioso fu molto per aggrandire la Chiesa e’ suoi
parenti, non facendo coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito
quello ch’era della Chiesa”. Il grande tema di questo canto è quello del
capovolgimento del rapporto tra valori umani (la ricchezza, il potere) e valori
divini (la bontate del verso 2). Esso è evidente non solo nella posizione dei
simoniaci, conficcati a testa in giù nelle loro buche, ma anche nel rapporto
che si istituisce fin da principio fra Dante e Niccolò III. “Laggiù dove tutto
è capovolto, è capovolta, vorremmo dire, anche la gerarchia: il papa in giù, a
confessarsi e lasciarsi sgridare; in su, un semplice laico. attingendo autorità
dal suo zelo generoso, lo sgrida e vitupera, curvo verso i piedi d’un papa non
per baciarglieli ma per udire la trista confessione e fargli giungere i debiti
rimproveri.” (D’Ovidio) Sei tu così presto sazio di quei beni materiali per i quali non esitasti ad impadronirti con l’inganno della Chiesa, e poi a prostituirla ? ” Dante mostra di dar credito alle dicerie che correvano
sull’elezione al pontificato di Bonifacio VIII. Questi, secondo tali voci,
aveva indotto Celestino V ad abdicare e si era fatto eleggere ricorrendo alla
frode e all’intimidazione. lo divenni come quelli che, per il fatto che non comprendono la risposta che viene data loro, restano come confusi, e non sanno rispondere. Allora Virgilio disse: “ Digli subito: “Non sono quello, non
sono quello che credi” ”; e io risposi come mi fu ordinato. Per questo il dannato contorse quanto più poteva i piedi; poi, sospirando e con voce lamentosa, mi disse: “ Allora, cosa vuoi sapere da me ? Se a tal punto ti importa conoscere chi io sia, da essere disceso dall’argine per questo motivo, sappi che io fui rivestito del manto papale. e fui davvero degno della famiglia degli Orsini, alla quale appartenni, a tal punto desideroso di rendere potenti gli altri membri della mia famiglia, che nel mondo misi nella borsa le ricchezze, e qui me stesso. Niccolò III non rivela se non indirettamente la propria
identità, attraverso una perifrasi che ha lo scopo di mettere in luce come egli
fosse avido di beni materiali e propenso a favorire in tutti i modi i membri
della sua famiglia: e veramente fui figliuol dell’orsa. L’orso era ritenuto animale
ingordo e amantissimo della prole. Sotto la mia testa, nelle crepe della roccia stanno appiattiti, dopo esser stati trascinati fin li, gli altri (papi) che mi precedettero nel peccato di simonia. Anch’io precipiterò laggiù allorché giungerà colui che io ritenevo tu fossi. quando ti rivolsi l’improvvisa domanda. Ma più lungo è il tempo in cui mi sono bruciato i piedi e sono stato così capovolto, di quello in cui egli starà confitto con i piedi arsi dalle fiamme: poiché dopo di lui verrà da occidente un papa senza rispetto delle leggi umane e divine, dalla condotta ancor più riprovevole, tale da dover ricoprire sia lui (Bonifacio VIII) sia me. Il nuovo pontefice destinato ad occupare l’imboccatura del
foro dei papi simoniaci dopo Bonifacio VIII e a ricoprire col suo corpo sia il
corpo di quest’ultimo sia quello di Niccolò III (che saranno in tal modo spinti
in basso, verso le fessure che finiranno per occupare definitivamente, nel
profondo della roccia) è Bertrand de Got, originario della Guascogna e
arcivescovo di Bordeaux (ecco perché Niccolò III dice che verrà... di ver
ponente), pontefice dal 1305 al 1314 col nome di Clemente V. Ebbe fama di uomo
“molto cupido di moneta e simoniaco, che ogni beneficio per denari s’avea in
sua corte” (Villani - Cronaca IX, 59). Sarà un novello Giasone, del quale si possono avere notizie nel libro dei Maccabei; e come nei confronti di Giasone il suo sovrano si mostrò debole, così si mostrerà debole, nei confronti di questo papa, il re di Francia ”. Nel secondo libro dei Maccabei (IV, 7-14) è detto che
Giasone, dopo aver ottenuto, con una promessa di danaro, il sommo sacerdozio
degli Ebrei dal re di Siria Antioco Epifane, si attirò l’odio di tutti per la
sua vita empia e dissoluta. Sia Giasone sia Clemente V, secondo il Poeta,
ottennero la suprema carica sacerdotale, rispettivamente nella religione
ebraica e in quella cristiana, per l’eccessiva condiscendenza dei loro re. Si
diceva infatti che Bertrand de Got fosse asceso al pontificato per il forte
appoggio avuto dal re di Francia Filippo il Bello, al quale aveva promesso,
secondo quanto riferisce il Villani (Cronaca VIII, 80), ampie concessioni e,
tra l’altro, l’uso di “tutte le decime del reame per cinque anni”. Dante si
limita qui a preannunziarne l’arrivo nella bolgia dei simoniaci, alla quale è
destinato. ma le colpe più gravi di cui questo papa si macchiò agli occhi del
Poeta, e delle quali si parla in altri luoghi della Commedia, furono il
trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone (1309) e l’opposizione
alla politica di Arrigo VII, sceso in Italia nel 1310 a ristabilire l’autorità
imperiale. Io non so se a questo punto fui troppo temerario (perché, pur essendo dannato, l’interlocutore era un pontefice), dal momento che gli risposi proprio in questo modo : “ Orsù, dimmi adesso: quanta ricchezza pretese Gesù Cristo da San Pietro prima di mettere in suo potere le chiavi (del regno dei cieli)? Sicuramente non gli chiese se non: “Seguimi”. I versi 91-92 si riferiscono al seguente passo del Vangelo
di Matteo (XVI, 18-19) : “Ed io dico a te, che tu sei Pietro, e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno mai prevarranno contro
di lei. E a te darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa avrai
legata sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta
sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli”. Né Pietro né gli altri apostoli si fecero consegnare da Mattia oro e argento, allorché questi ottenne in sorte di occupare il posto perduto dal malvagio Giuda Iscariota. Negli Atti degli Apostoli (I, 13-26) è detto che dopo il
suicidio di Giuda Iscariota fu tratto a sorte il nome di colui che avrebbe
dovuto occuparne il posto e “Ia sorte cadde su Mattia, che fu aggregato agli
undici apostoli”. Perciò stattene dove sei, poiché sei giustamente punito; e custodisci con attenzione il denaro sottratto con l’inganno, che ti rese audace contro Carlo. Niccolò III osteggiò in vari modi la politica di Carlo I
d’Angiò, ma non è chiaro a quale fatto specifico intenda riferirsi il Poeta
quando accenna alla mal tolta moneta. Secondo una notizia, rivelatasi poi
infondata, questo pontefice avrebbe accettato, per denaro, di appoggiare la
congiura che preparò la rivolta dei Vespri Siciliani, la quale però, scoppiò
due anni dopo la morte del papa. Tuttavia può darsi che la espressione usata da
Dante al verso 98 alluda soltanto alle rendite dei territori della Chiesa,
delle quali Niccolò III si appropriò indebitamente e che ne aumentarono il
potere rendendolo ardito contro Carlo d’Angiò. E se non fosse per il fatto che ancora me lo impedisce il rispetto dovuto alle chiavi, simbolo della dignità pontificale, che tu avesti in tuo potere nella vita terrena, ricorrerei a parole ancora più aspre; poiché la vostra avidità corrompe il mondo, calpestando i buoni ed elevando (alle cariche più alte, per simonia) i cattivi. A voi, pontefici, pensò l’evangelista (San Giovanni), allorché quella che siede sulle acque fu da lui veduta fornicare con i re, quella che nacque con le sette teste, e trasse vigore dalle dieci corna, finché al suo sposo fu cara la virtù. Nell’Apocalisse (XVII, 1 sgg.) San Giovanni narra di aver
avuto la visione della “gran meretrice, che è assisa sopra le vaste acque, con
la quale hanno fornicato i re della terra, e che ha inebriati gli abitanti
della terra col vizio della sua lussuria” e di aver veduto, nel deserto, “una
donna seduta sopra una bestia di color rosso scarlatto, coperta di nomi
blasfemi, con sette teste e dieci corna”. Per San Giovanni la “gran meretrice”
è la Roma pagana. Essa “siede sopra le vaste acque”, intendendo per acque “i
popoli, le moltitudini, le nazioni e le lingue” (Apocalisse XVII, 15); con
questa espressione San Giovanni vuole probabilmente rilevare che le fondamenta
del potere di Roma sono instabili. Anche la bestia sulla quale siede la donna
veduta nel deserto simboleggia Roma. “Le sette teste sono i sette monti sui
quali sta assisa la donna.” (Apocalisse XVII, 9) “Le dieci corna.. sono dieci
re, che non han ricevuto ancora il regno.” (Apocalisse XVII, 12) Dante,
sviluppando liberamente il passo biblico, identifica la donna (colei che siede)
con la bestia (quella che con le sette teste nacque) e si serve di questa
allegoria per designare la Roma dei papi, quella Roma che divenne cristiana (e,
in quanto cristiana, nacque, cominciò a vivere) per opera dei sette sacramenti
(le sette teste) e prese alimento, e quindi forza, dai dieci comandamenti
(diece corna), fin quando il papa (suo marito) non la contaminò con la simonia,
spingendola, per avidità di beni terreni, a prostituirsi con i principi della terra, partecipando
alle lotte per il potere. Dell’oro e dell’argento avete fatto il vostro Dio: e quale altra differenza c’è tra voi e gli idolatri, se non quella che, per ogni idolo che essi adorano. voi (in quanto adoratori dei denaro, di ogni pezzo d’oro e d’argento) ne adorate un numero sterminato? Ahi, Costantino, di quanto male fu cagione, non la tua conversione (alla fede cristiana), ma quella donazione che ricevette da te il primo papa che fu ricco! ” Secondo una leggenda, ritenuta nel Medioevo verità storica
e confutata soltanto nel quindicesimo secolo dall’umanista Lorenzo Valla,
Costantino donò, convertendosi al Crístianesimo, la città di Roma a papa
Silvestro I, ponendo così le basi del potere temporale dei papi. Dante contesta
nella Monarchia il valore giuridico di questa donazione, sostenendo che nessun
imperatore può avere il diritto di alienare una parte dell’Impero, non essendo
questo proprietà personale di un singolo, e, rifacendosi al Vangelo, ammonisce
che la Chiesa non può accettare alcun bene temporale (III, X e XIII). E, mentre gli facevo sentire simili parole, fosse rabbia o rimorso ciò che lo tormentava, scalciava violentemente con entrambi i piedi. Credo davvero che a Virgilio piacesse (quello che avevo detto), tanto soddisfatta era l’espressione con la quale prestò attenzione, per tutta la durata del mio discorso, alle parole veraci da me pronunciate. Perciò mi prese con entrambe le braccia; e dopo avermi sollevato all’altezza del petto, risalì per il cammino dal quale era disceso. Né si stancò di tenermi abbracciato strettamente, finché non mi ebbe portato nel punto più alto del ponte che serve da passaggio dal quarto al quinto argine. Qui depose dolcemente il carico, dolcemente sul ponte irto di sporgenze e ripido che rappresenterebbe anche per le capre un passaggio malagevole. Di lì mi si aprì davanti un’altra bolgia. |