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« Si avanzano i vessilli del re dell’inferno (le sei ali di Lucifero) verso di noi; guarda perciò davanti a te» disse Virgilio «se riesci a scorgerlo.» Le prime tre parole del primo verso sono quelle con cui
inizia un inno sacro, composto nel VI secolo dal vescovo di Poitiers Venanzio
Fortunato, nel quale è celebrata la Croce, vessillo di Cristo. Ad esse
“l’aggiunta del genitivo interni conferisce il senso del più ironico disprezzo
verso l’angelo decaduto [Lucifero]” (Vaturi). Il verbo di moto prodeunt
riferito ad una realtà immobile - la massa del corpo di Lucifero, le cui ali
percuotono l’aria senza riuscire a spostarlo dal luogo in cui è confitto -
presenta paradossalmente l’avanzare dei due poeti come una stasi, un’attesa,
un’incapacità di procedere sotto l’incombere di un immane pericolo, laddove
questo pericolo è di fatto ormai vinto. La lunga guerra sì del cammino e sì
della pietate (canto Il, versi 43) ha fortificato l’animo di Dante; egli
contemplerà Lucifero con lucida curiosità, lo definirà nel suo aspetto
esteriore e nei significati simbolici che in lui s’incarnano, ma non ne sarà
atterrito. Il suo terrore sarà astrattamente - attraverso giochi di parole, che
in realtà lo smentiranno (versi 25-27) - enunciato, mentre la sua meraviglia di
fronte a questa immane, muta mole - animata da un movimento regolare e
meccanico - si convertirà in poesia. Come quando una densa nebbia si diffonde, o quando il nostro emisfero si abbuia, appare da lontano un mulino la cui ruota è fatta girare dal vento, mi sembrò allora di vedere una tale macchina; poi, a causa del vento; mi rifugiai dietro a Virgilio, poiché non vi era altro riparo. I giganti erano apparsi a Dante, in un indeciso crepuscolo,
come torri: inanimati, equidistanti l’uno dall’altro, incrollabili. Un ordine
geometrico e morto li rendeva, da lontano, più che temibili, oggetto di
ammirato stupore. Lucifero, in un analogo crepuscolo, appare anch’esso come
un’opera dell’ingegno umano, un prodotto della tecnica, ma più complicato; meno
maestoso perché, a causa dello svolazzare delle sue ali, è privo dell’assoluta
immobilità che suggeriva, per i giganti, la similitudine delle torri, si
presenta come un enigma che il nostro intelletto deve sciogliere. E’ una
macchina di cui Dante cercherà di capire il congegno, il funzionamento e il
compito al quale è adibita. Il processo di disumanizzazione della realtà
infernale raggiunge in Lucifero il suo culmine. Già mi trovavo, e con paura lo ricordo nei miei versi, là dove i dannati erano tutti coperti (dal ghiaccio), e trasparivano come un fuscello rimasto incorporato nel vetro. Alcuni stanno distesi; altri eretti, chi con la testa e chi cori i piedi in alto; altri, piegati all’indietro, raggiungono, a guisa di arco, col volto i piedi. Nessuna manifestazione di vita è presente nei dannati della
quarta zona di Cocito (la Giudecca, nome con il quale erano designati nel
Medioevo i quartieri abitati dagli Ebrei e che qui ricorda la presenza in essa
di Giuda Iscariota, il traditore di Gesù, maciuIlato da una delle tre bocche di
Lucifero): ivi sono puniti i traditori dei benefattori o, secondo altri, coloro
che tradirono le due supreme autorità preposte da Dio all’ordinato convivere
degli uomini: la Chiesa e l’Impero. Osserva il Vaturi: “finora le anime dei
peccatori si agitavano, gridavano, imprecavano, si contorcevano sotto la ferula
del supplizio infernale, ma davano fremiti di vita; qua giù, nell’ultimo pozzo,
ove il più orrendo peccato chiama il più orrendo supplizio, anche la vita di
oltre tomba è scomparsa, la seconda morte è assoluta: non un nome, non
l’accenno di una personalità qualsiasi della esistenza terrena; non sono più
anime, sono i fossili di una stratificazione geologica”. Quando ci fummo inoltrati tanto, che Virgilio ritenne opportuno mostrarmi colui che era stato il più bello degli angeli, si scostò e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite (è il nome di Plutone, re degli inferi, nella mitologia) ed ecco il luogo ove occorre che tu ti armi di coraggio ». Non chiedere, o lettore, quale gelo allora mi invase e come la voce mi si fermò, poiché non lo scrivo, ogni parola essendo inadeguata ad esprimerlo. Io non rimasi né vivo né morto: immagina ormai da solo, se appena hai un poco d’intelligenza, come divenni, privo sia di vita che di morte. Il sovrano dell’inferno sporgeva fuori dal ghiaccio a partire da metà del petto; e c’è più proporzione fra me e un gigante, che fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai quanto deve essere grande l’intera massa di quel corpo perché sia proporzionato a simili braccia. La presentazione di Lucifero nei versi 28-29 è grandiosa,
ma non suggerisce l’idea di una forza contenuta, come avveniva per Farinata
(dalla cintola in su tutto ‘l vedrai) o anche per i giganti (torreggiavan di
mezza la persona). Lucifero appare come una massa inerte, preclusa ad ogni
svolgimento in senso spirituale e drammatico, che colpisce per un attimo
l’immaginazione, ma della quale l’intelletto non tarda a svelare, attraverso un
processo di misurazione, la pura esteriorità. Se fu così bello com’è brutto attualmente, e (ciononostante) si ribellò al suo Creatore, è ben naturale che ogni male derivi da lui. O come mi sembrò cosa degna di grande meraviglia vedere che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era rossa; delle altre due, che si congiungevano a questa sorgendo in corrispondenza della parte mediana di ciascuna spalla, e si congiungevano fra di loro nella parte mediana del volto dove alcuni uccelli hanno la cresta, la destra appariva di un colore tra il bianco e il giallo; la sinistra appariva di un colore simile a quello delle popolazioni originarie della regione da cui il Nilo scende a valle. Sotto ciascuna faccia sporgevano due grandi ali, proporzionate alle dimensioni di un così grande uccello: non vidi mai vele di imbarcazioni marine così grandi. Non avevano penne, ma il loro aspetto era quello delle ali del pipistrello; e le agitava, in modo che da lui si originavano tre venti: Convertito in pura materia, passività, peso, l’angeio che
osò ribellarsi al suo Creatore, ne rappresenta la più compiuta antitesi;
“perciò i dati particolari della sua condizione debbono essere interpretati in
rapporto all’idea esattamente contraria: luce-tenebra,
perfezíone-imperfezione,
bellezza-bruttezza, spiritualità-materialità... attività-passività,
armonia-disarmonia, ecc. Dio, ad esempio, é puro atto, e Satana pura stasi o
automatismo meccanico; Dio è armoniosamente uno-trìno in sostanza-persone,
mentre Satana è uno nel gigantesco corpo e trino solo nella testa; Dio è centro
dell’universo, mentre Satana patisce al centro dell’universo fisico il peso
convergente di tutta la materia ch’è, teologicamente, pura e bruta passività, e
l’elemento più irriducibile a Dio” (Mattalia). In particolare, le tre facce di
Lucifero, contrapponendosi al le tre persone della Trinità, definìte da Dante
(canto III, versi 5-6), sulla base degli insegnamenti della teologia,
Potestate, Sapienza, Amore, simboleggiano l’impotenza o l’invidia che da essa
consegue (la faccia esangue, tra bianca e gialla), l’ignoranza (la faccia nera,
del colore delle tenebre, la luce simboleggiando la chiarezza intellettuale),
l’odio (la faccia vermiglia; in quanto amore volto al male, l’odio è indicato
attraverso lo stesso colore che presso i poeti medievali definiva l’amore). Per quel che riguarda le ali di Lucifero, il loro numero è
uguale a quello delle ali dei serafini, gli angeli più vicini a Dio, ma, a
differenza di quelle dei serafini, piumate e splendenti, quelle del sovrano
dell’inferno sono prive di penne e nerastre. perciò l’intero Cocito era trasformato in ghiaccio. Piangeva con sei occhi, e su tre menti faceva gocciare lagrime miste a bava sanguigna. Il pianto parrebbe suggerire la presenza in Lucifero dì un
residuo di coscienza, ma, col portare la nostra attenzione sul particolare dei
sei occhi, al quale simmetricamente ed inevitabilmente - quasi a conclusione di
un lucido, spietato sillogismo - risponde quello dei tre menti, il Poeta
impedisce che questa nostra supposizione prenda consistenza e si determini.
L’accenno alle lagrime di Lucifero è una constatazione oggettiva, registrata
allo stesso titolo di altre caratteristiche dell’enorme dificio che Dante si
trova davanti o, meglio, ad esse contrapposta al solo fine di inquadrarla in
una impassibile definizione concettuale. L’insistenza sul dato numerico (tre
facce... due grand’ali... sei occhi... tre menti; e, nella terzina 55, un
peccatore... tre ne facea così dolenti) ribadisce il carattere disumano di
questo fenomeno naturale, di questo congegno disarmonico nel quale non è dato
cogliere il vestigio di alcuna spiritualità, e il cui significato è interamente
determinato, attraverso l’allegoria, dall’esterno. In ogni bocca frantumava con i denti un peccatore, come una gramola (maciulla: strumento che serve a tritare la canapa o il lino), in modo da tormentarne così tre. Per quello che era maciullato nella bocca anteriore il mordere di Lucifero era poca cosa rispetto al graffiare dei suoi artigli, tanto che a volte la sua schiena restava interamente priva di pelle. «Quel dannato lassù, che è sottoposto ad un maggiore tormento» disse Virgilio, « è Giuda Iscariota, il quale tiene la testa dentro la bocca di Lucifero e agita fuori di essa le gambe. Degli altri due, che hanno la testa rovesciata in basso, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto, vedi come si divincola! e non emette lamento!; l’altro, che appare così muscoloso, è Cassio. Ma sta scendendo nuovamente la notte (i due poeti hanno dunque impiegato ventiquattro ore per percorrere tutto l’inferno), e ormai occorre allontanarci, poiché abbiamo veduto tutto (l’inferno). » Il castigo di Bruto (impassibile nel dolore, ricorda
Capanco e Giasone) è uguale a quello di Cassio: entrambi infatti si macchiarono
di uno stesso delitto, ricambiando col tradimento la generosità di Cesare, dal
Poeta menzionato nel Convivio (IV, V, 12) come “primo prencipe sommo”, ed
uccidendolo (44 a. C.). Più grave è la pena dì Giuda Iscariota, che consegnò il
Figlio di Dio ai suoi persecutori: egli si trova con la testa dentro una delle
bocche di Lucifero e con il corpo, sottoposto ai suoi graffi, fuori di essa,
“quasi in contrappasso di ciò che è scritto nel vangelo di San Luca che Satana
era entrato in Giuda a fargli commettere la maggiore empietà” (Vaturi). Gli
uccisori di Cesare e di Cristo si sono macchiati, agli occhi di Dante, delle
più gravi colpe che un uomo possa commettere, per aver attentato, nei loro
fondatori, ai due ordinamenti da Dio assegnati a guida dell’umanità, quali «
rimedi » contro l’infermità del peccato dopo la colpa di Adamo: nel campo
temporale l’Impero, nel campo spirituale la Chiesa. Gli avvinsi il collo con le braccia secondo la sua volontà; ed egli scelse il momento ed il luogo opportuno; e quando le ali furono abbastanza aperte, si afferrò ai fianchi villosi: poi si calò di ciuffo in ciuffo nello spazio compreso tra il folto pelo e la superficie ghiacciata. A differenza delle altre potenze infernali (anche le torri
impassibili poste a guardia del nono cerchio avevano avuto reazioni
riconducibili ad un carattere umano all’appressarsi dei due pellegrini)
Lucifero non si è accorto della presenza di Dante e di Virgilio. Quando ci trovammo nel punto in cui la coscia si articola, proprio in corrispondenza della parte più grossa dell’anca (è la parte centrale del corpo di Lucifero e corrisponde al centro dell’universo), Virgilio, faticosamente ed affannosamente, si girò portando la testa in direzione dei piedi di Lucifero, e si aggrappò al pelo come chi sale, in modo che io credevo di tornare ancora nell’inferno. «Tienti stretto, poiché per scale di tal genere» disse Virgilio, ansimando come un uomo stanco, « occorre allontanarsi dall’inferno. » Poi uscì attraverso l’apertura di una roccia, e mi fece sedere sull’orlo di essa; quindi diresse verso di me con cautela il suo passo (staccandosi così dal pelo di Lucifero). Volsi in alto lo sguardo. e pensai di vedere Lucifero nella posizione in cui lo avevo lasciato; e vidi invece che teneva le gambe rivolte in alto; e se io allora mi turbai, lo immagini la gente ignorante, che non comprende (come non avevo compreso io) quale è il punto che avevo oltrepassato (il centro della terra). « Alzati in piedi » disse Virgilio « poiché la via che dobbiamo percorrere è lunga e il cammino malagevole, e già il sole ritorna all’ora media (circa le sette e mezza del mattino) fra la prima ora canonica (corrisponde alle sei) e la terza (corrisponde alle nove). » Non ci trovavamo là in una sala di palazzo,, ma in un sotterraneo naturale che aveva il suolo irregolare e mancanza di luce. « Maestro, prima che io mi stacchi dall’inferno », dissi quando fui in piedi, « parlami un Dov’è il ghiaccio? e come mai Lucifero vi è confitto così rovesciato? e come, in così breve tempo, il sole ha fatto il percorso dalla sera alla mattina? » Ed egli: « Tu ritieni di essere ancora dall’altra parte del centro della terra, là dove mi afferrai al pelo del maligno verme che perfora il mondo. Ti trovasti dall’altra parte per tutto il tempo durante il quale io scesi; allorché mi girai, oltrepassasti il punto (il centro della terra) verso il quale si portano da ogni direzione i pesi. La seconda parte del canto, nella quale è descritta
l’uscita dei due poeti dall’inferno e il cammino da loro percorso fino alla
superficie dell’emisfero australe, è generalmente ritenuta meno poetica della
prima, in quanto, se ci fornisce ragguagli sulla cosmologia di Dante,
rimarrebbe al livello dell’informazione necessaria per comprendere i fatti, ma
scarsamente rilevante dal punto di vista espressivo. Eppure affiorano in questa
parte momenti di autentica commozione, anche se si tratta di una commozione
mediata, che ha origine nell’intelletto e dai grandi problemi dell’intelletto
trae il suo alimento. Tale è ad esempio il momento in cui Virgilio con fatica e
con angoscia supera il centro dell’universo. Tale è anche questa risposta di
Virgilio al discepolo, nella quale il rigore logico conferisce risalto ad una
profonda, religiosa ansia di conoscenza e culmina in espressioni intensamente
poetiche (verso 108, nel quale la poesia non è tanto nel significato sensibile,
immediato dei termini, quanto nelle solenni suggestioni bibliche di cui sono
carichi, e verso 111, nel quale il riflessivo si traggon conferisce al soggetto
- altrimenti scarsamente caratterizzato, e nell’uso comune inerte - i pesi,
un’animazione che è propria della volontà cosciente). E sei ora giunto sotto l’emisfero (australe) che è opposto a
quello (boreale) che ricopre la terra emersa, e sotto il cui meridiano centrale
(sotto ‘l cui colmo: a Gerusalemme, situata, secondo le credenze del Medioevo,
al centro della terra emersa) fu ucciso l’uomo che nacque e visse senza peccato (Cristo) : tu poggi i piedi sulla piccola superficie che corrisponde nell’emisfero australe a quella costituita dalla Giudecca in quello boreale. Qui è mattina, quando nell’emisfero boreale è sera: e Lucifero, che col suo pelo ci servì come scala; è ancora confitto nella posizione nella quale si trovava prima. Dalla parte di questo emisfero precipitò dal cielo; e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero, per paura di lui (che precipitava) si ritrasse sotto il mare, ed emerse nel nostro emisfero; e forse la terra che è visibile (l’isola del purgatorio) da questa parte (nell’emisfero australe), per evitare il contatto con Lucifero (fermatosi nel centro della terra) lasciò qui un luogo vuoto (è la natural burella in cui i due poeti si trovano), e si spinse in alto». Nella rappresentazione dantesca della caduta di Lucifero
(versi 121-126 e Paradiso canto XXIX, versi 49-51) confluiscono, come ha
mostrato il Nardi, tre elementi: 2) la cosmografia arístotelico-averroistica come quella che forma lo sfondo o il panorama nel quale il dramma biblico si svolge; 3) alcune considerazioni teologiche per adattare il dramma della caduta di Lucifero e del suo seguito entro quel panorama aristotelico-averroistico- La caduta di Lucifero è così presentata in Isaia: “Come cadesti dal cielo Lucifero, stella del mattino?... Tu che dicevi in cuor tuo: ‘In cielo io salirò... m’assiderò sul monte del Testamento dalla parte dell’aquilone [in questo particolare è forse lo spunto da cui Dante è stato tratto ad immaginare il vento che, prodotto dalle ali di Lucifero, ghiaccia Cocito]; salirò al di sopra delle nubi, sarò pari all’Altissimo’. Ed invece tu sarai trascinato all’inferno, nella profondità del lago [questo lago, identificandosi nella fantasia di Dante con il fiume del pianto di cui parla Virgilio nel libro VI dell’Eneide, è nella Commedia lo stagno di Cocito V”. Gli altri passi della scrittura integrano variamente questo brano di Isaia. “Dante è credente - osserva il Nardi - né la sua fede, anche quando s’è abbattuto in serie difficoltà, ha mai vacillato. Ma egli è altresì filosofo, nel senso che si dava a questa parola ai suoi tempi, quando per filosofia s’intendeva il sistema aristotelico della natura... Ora, nella rappresentazione biblica del peccato di Satana e degli angeli che si schierarono con lui e in quella della loro caduta dal cielo in terra, vi sono espressioni imprecisate, come quella di « cielo » e di « terra », che obbligavano la mente sottile di Dante, abituata allo schema cosmologico dei « librì fisici » d’Aristotele, a precisarle meglio.” In particolare, rileva il Nardi, la caduta dì Lucifero è avvenuta, per Dante, nell’emisfero australe perché questo emisfero, nel quale originariamente si trovava la terra emersa, è, nella cosmografia aristotelica, più nobile di quello boreale. Scrive il Nardi: “Aristotele, nel libro Il dei De caelo (t. c. 16, cap. 2, 285b 22 sgg.), e Averroè, nel suo commento a quest’opera, affermano ingenuamente che la più nobile parte del mondo è quella da cui comincia il movimento diurno, cìoè l’Oriente. E poiché nell’uomo la destra è più nobile della sinistra, si deve dire che l’Oriente è la destra del mondo. Ora, se voi inscrivete in un cerchio che rappresenti il mondo la figura d’un uomo che vi mostra la faccia... per far sì che la sua destra coincida con l’Oriente, è necessario che la sua testa coincida coi polo antartico, e i suoi piedi col polo artico. Dunque... il polo antartico è il capo del mondo, mentre l’artico ne rappresenta l’estremità inferiore. Nel cielo antartico debbono dunque trovarsi quelle costellazioni che mandavano originariamente sulla terra i loro più benefici e salutari influssi, e che la terra stessa attraevano a sé, come magnete il ferro, facendola emergere dalle acque con la loro virtù. Così aveva argomentato Aristotele, maestro di color che sanno, maestro e duca dell’umana ragione, maestro nell’arte del loicare, così aveva ragionato Averroìs, che ‘l gran comento feo. E così ragionava anche Dante che per questo pone il paradiso, terrestre nell’emisfero australe”. La spiegazione che Virgilio dà al suo discepolo sull’origine della distribuzione attuale delle terre, origine che deve essere identificata in una causa fisica (la caduta di Lucifero) prodotta a sua volta da una causa morale (la sua superbia), non ha nulla dì pedantescamente didascalico, ma assurge ai toni di una commossa meditazione, mai disgiunta dallo scrupolo del rigore concettuale. Emergono nella trama di questo ragionamento espressioni dì particolare vigore come la gran secca... sotto ‘l cui colmo consunto (qui il participio passato indica la lenta agonia dell’Uomo-Dio, contrapponendosi alla fermezza impassibile della precisazione cosmografica; questa, dal canto suo, fa risaltare il carattere sovrannaturale del sacrificio di Cristo, la sua divinità, la sua dignità di sovrano dell’universo), per paura di lui fe’ del mar velo... e venne... e su ricorse (qui i continenti si animano di vita umana; l’orrore per la colpa di Lucifero desta in essi la consapevolezza dei valori morali). Vi è laggiù un luogo situato all’estremità del sotterraneo che avevamo percorso, lontano da Lucifero tanto quanto è lungo questo sotterraneo, riconoscibile non per mezzo della vista (a causa del buio), ma per il rumore di un piccolo ruscello che qui scende (si tratta verosimilmente del Leté, il corso d’acqua che nel paradiso terrestre, posto sulla sommità della montagna del purgatorio, toglie alle anime purganti, nel momento in cui si accingono a salire in cielo, la memoria dei loro peccati; in tal modo ogni traccia di peccato torna nell’inferno) attraverso l’apertura di una roccia, a esso scavata, col suo corso a spirale, e in lieve pendenza. Virgilio ed io ci avviammo per quella via nascosta (nel grembo della terra; è la via che conduce dall’estremità della natural burella alla superficie dell’emisfero australe) per ritornare nel mondo luminoso; e senza curarci di interrompere il nostro cammino per riposare, salimmo, egli per primo e io dietro di lui, finché attraverso un foro rotondo vidi la luce degli astri: e attraverso questo foro uscimmo a rivedere il firmamento. Il cataclisma geologico seguito alla caduta dì Lucifero è
stato esposto - osserva il Petrocchi,
-”secondo un lucido procedimento scolastico, ma arricchito da un
sentimento drammatico del grande fenomeno che ha sconvolto la terra”. In virtù
di questo fenomeno - possiamo aggiungere - la stessa configurazione del globo
terracqueo esprime per Dante - al di là della sua accidentalità empirica - una
verità morale, una vicenda accaduta alle orìgini del tempo, che tuttavia non
cessa di proporsi alla nostra meditazione come attuale, perché eterna,
connaturata al nostro spirito. “Ma - aggiunge il Petrocchi - tra la disputatio
virgiliana e la chiosa narrativa [versi 127-139] di Dante c’è un’indubbia
differenza di tono, un cambiamento di registro: non più i vocaboli del
ragionamento scientifico, ma i termini di una descrizione naturale sulla quale
già cominciano a gettare luce i primi albori propiziatori dell’antipurgatorio.
Via per sempre, entro le tenebre dell’inferno, i vecchi sostantivi e aggettivi
che lo stile mezzano ha suggerito, offrendo per trentaquattro canti la materia
lessicale indispensabile. L’ultimo sarà il cammino ascoso. Ora s’annunciano le
nuove parole del purgatorio, vibranti del « dolce » stile tragico: chiaro
mondo... i’ vidi delle cose belle.. uscimmo a riveder le stelle. E in questo
preannuncio luminoso vibra già la tersa atmosfera lirica del sereno aspetto
[Purgatorio canto 1, verso 141 e del dolce color d’oriental zaffiro [Purgatorio
canto I, verso 131, s’apre il poetico scenario del secondo regno.” FINE CANTICA
INFERNO |
Copyright © 1999 Luigi De Bellis