|
Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore. Il canto XXXII si è chiuso su una nota di cupa attesa: dal
modo in cui il Poeta si è rivolto al dannato che rodeva il teschio del suo
compagno, e soprattutto dalle ultime parole da lui pronunciate (se quella con
ch’io parlo non si secca), si è sprigionata un’intensa, trattenuta commozione.
Il canto XXXIII inizia con un’intonazione epica, solennemente scandita, che
riscatta l’orrido dei singoli particolari. “La bocca, così in cima al verso, ha
un gran rilievo. E bocca, dove potrebbe dirsi anche testa, ha una convenienza
particolare: l’anima di Ugolino è tutta nella bocca, e il pensiero di Dante
spettatore e di noi lettori è tutto a quella bocca, che smette un’operazione
orribile e si dispone a un racconto terribile... Quel forbirsi la bocca, che in
sé sarebbe cosa non solo da uomo ma di galateo, e quei capelli, che pur essi ci
richiamano all’umano, ci fanno inaspettatamente sentire ancor più l’inumano del
pasto stesso e volgon poi in nuova inumanità l’accessorio che parea tornarci
all’umano.” (D’Ovidio). Il modo in cui la chiusura del canto XXXII si lega
all’esordio del canto XXXIII ripropone, da un punto di vista formale, la
soluzione adottata da Virgilio per legare il I al Il libro dell’Eneide. Anche
l’inizio del secondo racconto di Francesca (canto V, versi 121-126) deriva dal
Il libro dell’Eneide (versi 3-13), “ma - rileva il D’Ovidio - i due esordi
danteschi hanno accenti diversi tra sé, e diversi rapporti col modello.
Francesca mantiene il tono elegiaco di Enea, sebben lo faccia più molle e
accorato, come pure più sobrio. Enea e Francesca son sedotti a parlare dal
sentimento pietoso che muove la curiosità di chi gl’interroga, cedono per non
saper resistere all’altrui simpatia amorevole, chiamano amore o affetto quella
curiosità. Ugolino chiama con parola più violenta disperato il suo dolore, e
dice energicamente che gli preme il cuore, al solo pensarci; ma cede all’odio,
alla speranza d’infamare peggio il suo nemico”. Poi incominciò a dire: «Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli. Ma se le mie parole devono essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere. Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare mi sembri davvero fiorentino. Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto. Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, signore di
numerosi castelli nella Maremma pisana e in Sardegna, fu uno dei personaggi più
in vista nelle vicende che travagliarono la vita politica pisana tra il 1270 e
il 1289. Appartenente ad una famiglia ghibellina, favorì, insieme col nipote
Nino Visconti, l’instaurazione nella ghibellina Pisa di un governo favorevole
ai Guelfì e, raggiunta una posizione di predominio nella direzione degli affari
della città, comandò la flotta pisana che fu sconfitta dai Genovesi alla
Meloria (1284). Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi; ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi. Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne) che a causa mia è soprannominato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro. Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca. Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne farneliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo minuto, “che comunemente è magro e povero”), sollecite a cacciare ed esperte. Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate. Il sogno di Ugolino è una trasfigurazione simbolica del
modo in cui fu catturato insieme con i figli e i nipoti e costituisce al tempo
stesso un presagio della prossima fine. Osserva il D’Ovidio: “A Lucca
ricorrevano per rifugio e per aiuto i Guelfi di Pisa, e l’ostacolo a toccar
presto la terra amica era quel monte che ne sbarra la via... Tutta la caccia è
come una proiezione campestre della... cattura [di Ugolino] in città, una
trasformazione bucolica del fatto politico. E la più calzante rappresentazione
topografica della sua mancata fuga a Lucca, era l’impacciata corsa del lupo al
monte di San Giuliano... Questa viva immagine del suo passato, apparsagli con
tanta evidenza, con un così stretto intreccio di persone vere e di chiari
simboli, lo turba, gli sembra di pessimo augurio; e gli sembra che sia altresì
una prefigurazione di un prossimo avvenire, in ispecie per quella lacerazione
che ai fianchi dei lupi fanno le terribili cagne. Ugolino legge così
chiaramente in ciò la sorte sua e dei suoi, che gli vien fatto di chiamare con
vocabolo umario, lo padre e i figli, il lupo e i lupicini, e di esprimere con
stanco e mesto ritmo la loro vana corsa, e di descrivere con passionata
efficacia di parole e d’armonia imitativa lo squarciamento dei fianchi, come se
si sentisse quei denti nelle proprie carni”. Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pane. Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere? Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola. L’episodio, mantenuto inizialmente entro una cornice epica
nella quale il solo personaggio di Ugolino ha avuto modo di imporsi alla nostra
fantasia, come una “colossale statua dell’odio” (De Sanctis), acquista intimità
di risonanze per il contrapporsi dei dolore dei figli, innocentemente pieni di
fiducia nel padre, alla cupa e consapevole disperazione di costui. Io non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: “Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?” “Anselmuccio non sa definire, né spiegare - scrive il De
Sanctis a proposito del verso 51 - quel modo di guardare... Lo strazio è tutto
nella coscienza di quello sguardo senza parola e nell’innocenza di quello che
hai? accompagnato con lacrime... E se un pittore dovesse scegliere
un’attitudine sintetica che ti ponesse avanti i tratti sostanziali di questa
poesia, sarebbe quest’essa: perché qui sei proprio al momento decisivo del
racconto; ed hai già nella attitudine del padre e de’ figli tutt’ i motivi del
più alto patetico.” Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba. Sempre del De Sanctis, espositore ed interprete insuperato
della poesia di quest’episodio, sono le seguenti osservazioni: “Se il padre
prima non lacrimò e non fe’ motto perché rimase impietrato, ora non parla e non
lacrima per non addolorare più i figli. L’amore gli vieta ogni espansione...
quel padre dovrà divorare in silenzio il suo dolore, comprimere la natura,
forzare la faccia ed il gesto, essere statua e non uomo, la statua della
disperazione... La compressione è tanto più violenta, quanto maggiore è la
tenerezza di quello che hai?, e quanto è più commovente quell’Anselmuccio mio,
che ricorda tante care gioie di famiglia in tanto mutata situazione”. Non appena un po’ di luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi, e dissero: “Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene”. In questa tragedia priva di dialogo - che non sia quello
muto degli occhi - e aliena da ogni forma di amplificazione (il racconto
procede scandito dalle notazioni brevi che contrappongono al dolore del
protagonista le misure di un tempo disumano, privo di speranza), i versi 58-63
rappresentano il momento di più accesa evidenza drammatica. Per intenderne
l’intera portata occorre, tuttavia, non considerarli unicamente in rapporto
alla funzione che svolgono nel quadro dell’episodio - quella di dare un’espressione visibile, disperatamente
emblematica, alla sua più intima tensione (il motivo della fame, brutalmente
accennato nel verso 127 del canto XXXII, si ripercuote qui. trasfigurato, nel
gesto del padre, nella concorde offerta che i figli fanno delle loro misere
carni) - ma ricollocarli, come fa ad esempio il Gallardo, nella cornice degli
svolgimenti etico-religiosi della prima cantica. “Quel gesto di mordersi le
mani suscita nei figli, nei giovani che la fame ha resi orinai quasi disumani,
cui ha tolto fiducia e vitalità, un sentimento che è di affetto ancora per il
padre, di disperato e disumano affetto, nel quale si riflette però istintiva la
loro stessa fame, che li rende crudeli verso se stessi, e verso il misero padre
al quale offrono le loro carni. Un atto di dedizione ispirato, più che dalla
coscienza della sofferenza del padre, dalla loro stessa sofferenza fisica. A
questo più veramente il momento culminante della tragedia, e quello che più
duramente rispecchia l’atroce colpa di chi ha condannato esseri umani, teneri,
affettuosi ed innocenti, a questa alienazione da se stessi: la colpa di chi
freddamente ha deliberato su uomini, peggio, su giovani e innocenti. Una colpa
che consiste nell’avere spinto esseri umani ad una degradazione, ad uno stato
disumano: fino a rendere possibile anche il solo pensiero che un padre possa
cibarsi delle carni dei figli.” Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti? Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: “Padre, perché non m’aiuti?” Nota il Momigliano come il racconto di Ugolino sia “tutta
un’alternativa di interminabili silenzi e di scatti improvvisi: di quando in
quando la vita giovanile, lentamente soffocata dal destino, prorompe in un
impeto inutile... E questo isola tragicamente il padre nel suo dolore, invocato
invano dai giovani che cercano uno scampo verso la vita, oppresso, più che
dalla sciagura, da quelle invocazioni a cui non può dar soccorso e da quelle
parole di disperazione a cui non può dar risposta”. Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ». Nella sua concisione il verso 75 stende un velo d’ombra
sull’agonia di Ugolino, rimasto solo in mezzo ai corpi dei figli morti. “Verso
letteralmente chiarissimo - osserva il De Sanctis - e che suona: più che non
poté fare il dolore, fece la fame. Il dolore non poté ucciderlo; lo uccise la
farne. Ma è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’ sentimenti
e delle immagini che suscita, pei tanti « forse » che ne pullulano, e che sono
così poetici. Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad
ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è un sentimento di
disperazione. Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame più
potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la
voce. E’ un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti
sulle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle
sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il
delirio nell’inferno, perpetuando quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. E
un sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile; ‘tutto questo può
esser concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione
in qualche parola, in qualche accessione d’idea.” Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane. Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particella affermativa il «sì»), dal momento che le città vicine tardano a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirreno, situate in corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi abitanti! Poiché se correva voce che il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli. La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza. L’ira del Poeta contro coloro che hanno fatto morire,
insieme con un presunto colpevole, quattro innocenti, prorompe in un’invettiva
che si accorda allo stile dell’episodio del quale rappresenta la conclusione.
Nella tragedia del conte Ugolino “c’è - scrive il De Sanctis - il colosso, c’è
il gigantesco, dove la primitiva antichità esprimeva quei primi moti ancora
oscuri della coscienza, quel sentimento della grandezza, dell’infinito, tanto
più terribile alla fantasia, quanto... meno analizzato. Tale è il segreto di
questi formidabili schizzi danteschi, così scarsi di sviluppi, così pieni di
ombre e di lacune, che per sobrietà di contorno e di chiaroscuro ingigantiscono
le proporzioni e i sentimenti... Questo è anche l’effetto di quel movasi la
Capraia e la Gorgona. A la natura stessa che viola le sue leggi, esce dalla sua
immobilità, acquista coscienza, anima e moto, e corre a punire la rea città.
Una catastrofe tanto straordinaria di natura, una pena così fuori del corso
ordinario delle cose alza la colpa allo stesso livello e le dà proporzioni
colossali”. Passammo oltre, là dove il ghiaccio avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa verticalmente, ma tutta quanta supina. I due poeti entrano nella terza zona di Cocito, nella quale
sono puniti i traditori degli ospiti: la Tolomea. Essa prende nome da un
personaggio di cui è fatta menzione nella Scrittura (I Maccabei XVI, 11-16):
Tolomeo, che fece uccidere, durante un banchetto, il suocero Simone Maccabeo
con i suoi due figli Giuda e Mattatia. Il pianto stesso in quel luogo non consente di piangere, e il dolore che trova sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad aumentare l’angoscia, poiché le prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia, come visiere di cristallo. E sebbene a causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la dimora del mio volto, così come accade per una parte callosa, mi sembrava già di sentire parecchio vento: per cui dissi: « Maestro, chi lo produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore per produrre il vento)? » E Virgilio: « Presto sarai nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda ». Ed uno degli sciagurati immersi nella lastra gelata ci gridò: « Anime a tal punto spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora, Ultima posta: è l’ultima zona di Cocito, la Giudecca.
Prende nome da Giuda e contiene le anime di coloro che hanno tradito i
benefattori. toglietemi dal volto il ghiaccio, in modo che io possa sfogare un poco (attraverso le lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che il pianto geli nuovamente ». Contro la tesi del De Sanctis, il quale - equivocando tra
“vita” naturalisticamente intesa e vita poetica, legittimata cioè sul piano
dell’arte, dei personaggi della prima cantica - sosteneva che la vita dei
dannati, già morta - secondo lui - fin dal pozzo dei giganti, e risorta poi
quasi miracolosamente nell’episodio del conte Ugolino” tornava a morire “e per
sempre, in questa terza sezione della gelata”, il Chiari sottolinea il
significato umano e la riuscita poetica delle parole che il primo traditore
incontrato nella Tolomea rivolge a Dante: “par di sentire già in quella parola
veli in contrasto con l’aggettivo duri, l’accenno ad una amarezza così
sconsolata, che si esprime a volte in forma di fredda ironia, che è però
espressione di rabbia e di disperazione, di quell’ironia, che è propria di chi
si trova nelle più tristi condizioni e non ha che parole malvagie e per sé e
per gli altri, e disperando di tutto e non trovando più lacrime per il suo
dolore, si accanisce anche contro quelli stessi, che potrebbero in qualche modo
aiutarlo, o commenta sarcasticamente, con sorriso livido e tristissimo, la
terribilità della situazione”. Onde io: « Se vuoi che ti aiuti (ti sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino in fondo a Cocito ». I critici ritengono generalmente che Dante formuli questa
sua promessa al dannato in modo volutamente ambiguo, per poterla poi
trasgredire. Fin dall’inizio l’atteggiamento del Poeta sarebbe, secondo questa
tesi, duramente polemico. Per il Barbi si tratterebbe invece di Il un
giuramento vero e proprio, non mantenuto a ragion veduta quando Dante ha saputo
con che razza di traditore aveva da fare”. Allora rispose: « Sono frate Alberigo; sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è frutto più prelibato del fico)». Il frate Gaudente Alberigo dei Manfredì di Faenza fece
uccidere a tradimento due suoi congiunti mentre erano a banchetto insieme con
lui (1285). I due - Manfredo e il figlio di lui Alberghetto - vennero trucidati
da alcuni sicari quando frate Alberigo pronunziò la frase: “Vengano le frutta”.
L’espressione “le frutta di frate Alberìgo” divenne proverbiale. Per questo il
Poeta presenta il frate come quel dalle frutta del mal orto. Il particolare
delle frutta - particolare reale, che assurge ad una funzione di primo piano,
in esso manifestandosi per intero la natura malvagia del dannato - serve poi
come spunto allo sviluppo metaforico del verso 120, dove la contrapposizione
del dattero al figo ha un suono plebeo, di aspro e irriverente sarcasmo.
L’abiezione dei peccatori di Cocito è denunciata dal fatto che nessuno di loro
sente la maestà della giustizia che li punisce. « Oh! » gli dissi, « sei già morto? » Ed egli: « In quali condizioni si trovi il mio corpo nel mondo dei vivi, non so. Questa Tolomea ha il privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre Parche che recideva il filo della vita) le imprima il movimento. E perché più volentieri tu mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non appena l’anima tradisce nel modo usato da me, il suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli per vivere. L’anima dei traditori degli ospiti - dice frate Alberigo - si trova già all’inferno mentre il loro corpo continua a vivere, governato da un diavolo. “Il fondamento della tetro-allegra invenzione di cui, almeno in questi termini, nori pare esistano risc |