Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
Parte quarta
Capitolo IV
C'era un teatrone, poiché s'entrava
gratis. Lumi, cantate, applausi che salivano alle stelle. La signora Aglae era venuta
apposta da Modica, a spese del comune, per declamare l'inno di Pio Nono ed altre poesie
d'occasione. Al vederla vestita alla greca, con tutta quella grazia di Dio addosso, prosit
a lei, don Ninì Rubiera, nella commozione generale, si sentiva venire le lagrime agli
occhi, e smanacciava più forte degli altri, borbottando fra di sé:
- Corpo di!... È ancora un bel pezzo di
donna!... Fortuna che non ci sia mia moglie qui!...
Ma i rimasti fuori, che spingevano senza
poter entrare, partirono finalmente a strillare viva e morte per conto proprio; e quanti
erano in teatro, al baccano, uscirono in piazza, lasciando la prima donna e il signor
Pallante a sbracciarsi da soli, colle bandiere in mano. In un momento si riunì una gran
folla, che andava ingrossando sempre al par di un fiume.
Udivasi un gridìo immenso, degli urli che
nel buio e nella confusione suonavano minacciosi. Don Niccolino Margarone, Zacco, Mommino
Neri, tutti i bene intenzionati, si sgolavano a chiamare "fuori i lumi!" per
vederci chiaro, e che non nascessero dei guai.
La folla durò un pezzo a vociare di qua e
di là. Indi si rovesciò come un torrente giù per la via di San Giovanni. Dinanzi
all'osteria di Pecu-Pecu c'era un panchettino con dei tegami di roba fritta che andò a
catafascio - petronciani e pomidoro sotto i piedi. Santo Motta, che stava lì di casa e
bottega, strillava come un ossesso, vedendo andare a male tutta quella roba.
- Bestie! animali! Che non ne mangiate
grazia di Dio? - Quasi pestavano anche lui, nella furia. Giacalone e i più infervorati
proposero di sfondar l'uscio della chiesa e portare il santo in processione, per far più
colpo. Sì e no. - Bestemmie e sorgozzoni, lì all'oscuro, sul sagrato. Mastro Cosimo
intanto s'era arrampicato sul campanile e suonava a distesa. Le grida e lo scampanìo
giungevano sino all'Alìa, sino a Monte Lauro, come delle folate di uragano. Dei lumi si
vedevano correre nel paese alto, - un finimondo. A un tratto, quasi fosse corsa una parola
d'ordine, la folla s'avviò tumultuando verso il Fosso, dietro coloro che sembravano i
caporioni. Mèndola, don Nicolino, lo stesso canonico Lupi che s'era cacciato nella
baraonda a fin di bene, strillavano inutilmente: - Ferma! ferma! - Il barone Zacco, non
avendo più le gambe di prima, faceva piovere delle legnate, a chi piglia piglia, per far
intender ragione agli orbi.
- Ehi? Che facciamo?... Adagio, signori
miei!.. Non cominciamo a far porcherie! In queste cose si sa dove si comincia e non si
sa...
Come molti avevano messo orecchio al
discorso di sfondar usci e far la festa a tutti i santi, la marmaglia ora pigiavasi
dinanzi ai magazzini di mastro-don Gesualdo. Dicevasi ch'erano pieni sino al tetto. - Uno
ch'era nato povero come Giobbe, e adesso aveva messo superbia, ed era nemico giurato dei
poveretti e dei liberali! - Coi sassi, coi randelli - due o tre s'erano armati di un
pietrone e davano sulla porta che parevano cannonate. Si udiva la vocetta stridula di
Brasi Camauro il quale piagnucolava come un ragazzo:
- Signori miei! Non c'è più religione!
Non vogliono più sapere né di cristi né di santi! Vogliono lasciarci crepare di fame
tutti!
All'improvviso dal frastuono scapparono
degli urli da far accapponare la pelle. Santo Motta malconcio e insanguinato, rotolandosi
per terra, riescì a far fare un po' di largo dinanzi all'uscio del magazzino. Allora i
galantuomini, vociando anche loro, spingendo, tempestando, cacciarono indietro i più
riottosi. Il canonico Lupi, aggrappato alla inferriata della finestra, tentava di farsi
udire:
-... maniera?... religione!... la roba
altrui!... il Santo Padre!... se cominciamo... - Altre grida rispondevano dalla
moltitudine: -... eguali... poveri... tirare pei piedi!... bue grasso!... - Giacalone,
onde aizzar la folla, spinse avanti i due bastardi di Diodata ch'erano nella calca,
schiamazzando: -... don Gesualdo!... se c'è giustizia!... abbandonati in mezzo a una
strada!... se ne lagna anche Domeneddio!... andare a fare i conti con lui!...
Dalla piazza di Santa Maria di Gesù,
dalle prime case di San Sebastiano, i vicini, spaventati, videro passare una fiumana di
gente, una baraonda, delle armi che luccicavano, delle braccia che si agitavano in aria,
delle facce accese e stravolte che apparivano confusamente al lume delle torce a vento.
Usci e finestre si chiudevano con fracasso. Si udivano da lontano strilli e pianti di
donne, voci che chiamavano: - Maria Santissima! Santi cristiani!...
Don Gesualdo era in letto malato, quando
udì bussare alla porticina del vicoletto che pareva volessero buttarla giù. Poi il rombo
della tempesta che sopravveniva. La sera stessa un'anima caritatevole era corsa a
prevenirlo: - Badate, don Gesualdo! Ce l'hanno con voi perché siete borbonico. Chiudetevi
in casa! - Lui, che aveva tanti altri guai, s'era stretto nelle spalle. Ma al vedere
adesso che facevano sul serio, balzò dal letto così come si trovava, col fazzoletto in
testa e il cataplasma sullo stomaco, infilandosi i calzoni a casaccio, mettendo da parte i
suoi malanni, a quella voce che gli gridava:
- Don Gesualdo!... presto!... scappate!...
Una voce che non l'avrebbe dimenticata in
mille anni! Arruffato, scamiciato, cogli occhi che luccicavano, simili a quelli di un
gatto inferocito, nella faccia verde di bile, andava e veniva per la stanza, cercando
pistole e coltellacci, risoluto a vender cara la pelle almeno. Mastro Nardo e quei pochi
di casa che gli erano rimasti affezionati pel bisogno si raccomandavano l'anima a Dio.
Finalmente il barone Mèndola riescì a farsi aprire l'uscio del vicoletto. Don Gesualdo,
appostato alla finestra col fucile, stava per fare un subisso.
- Eh! - gridò Mèndola entrando
trafelato. - Tirate ad ammazzarmi, per giunta? Questa è la ricompensa?
L'altro non voleva sentir ragione. Tremava
tutto dalla collera.
- Ah! così? A questo punto siamo
arrivati, che un galantuomo non è sicuro neppure in casa? che la roba sua non è più
sua? Eccomi! Cadrà Sansone con tutti i Filistei, però! Lo stesso lupo, quando lo mettono
colle spalle al muro!... - Zacco, e due o tre altri benintenzionati ch'erano sopravvenuti
intanto, sudavano a persuaderlo, vociando tutti insieme:
- Che volete fare? Contro un paese intero?
Siete impazzito? Bruceranno ogni cosa! Cominciano di qua la Strage degli Innocenti! Ci
farete ammazzare tutti quanti!
Lui s'ostinava, furibondo, coi capelli
irti:
- Quand'è così!... Giacché pretendono
metterci le mani in tasca per forza!... Giacchè mi pagano a questo modo!... Ho fatto del
bene... Ho dato da campare a tutto il paese... Ora gli fo mangiar la polvere, al primo che
mi capita!...
Proprio! Era risoluto di fare uno
sterminio. Per fortuna irruppe nella stanza il canonico Lupi, e gli si buttò addosso
senza badare al rischio, spingendolo e sbatacchiandolo di qua e di là, finché arrivò a
strappargli di mano lo schioppo. - Che diavolo! Colle armi da fuoco non si scherza! -
Aveva il fiato ai denti, il cranio rosso e pelato che gli fumava come quando era giovane,
e balbettava colla voce rotta:
- Santo diavolone!... Domeneddio,
perdonatemi! Mi fate parlare come un porco, don asino! Siamo qui per salvarvi la vita, e
non ve lo meritate! Volete far mettere il paese intero a sacco e fuoco? Non m'importa di
voi, bestia che siete! Ma certe cose non bisogna lasciarle incominciare neppure per
ischerzo, capite? Neppure a un nemico mortale! Se coloro che sinora si sfogano a gridare,
pigliano gusto anche a metter mano nella roba altrui, siamo fritti!
Il canonico era addirittura fuori della
grazia di Dio. Gli altri davano addosso ancor essi su quella bestia testarda di mastro-don
Gesualdo che risicava di comprometterli tutti quanti; lo mettevano in mezzo; lo spingevano
verso il muro; gli rinfacciavano l'ingratitudine; lo stordivano. Il barone Zacco arrivò a
passargli un braccio al collo, in confidenza, confessandogli all'orecchio ch'era con lui,
contro la canaglia; ma pel momento ci voleva prudenza, lasciar correre, chinare il capo. -
Dite di sì... tutto quello che vogliono, adesso... Non c'è lì il notaio per mettere in
carta le vostre promesse... Un po' di maniera, un po' di denaro... Meglio dolor di borsa
che dolor di pancia...
Don Gesualdo, seduto su di una seggiola,
asciugandosi il sudore colla manica della camicia, non diceva più nulla, stralunato. Giù
al portone intanto il barone Rubiera, don Nicolino, il figlio di Neri, si sbracciavano a
calmare i più riottosi.
- Signori miei... Avete ragione... Si
farà tutto quello che volete... Abbiamo la bocca per mangiare tutti quanti... Viva!
viva!... Tutti fratelli!... Una mano lava l'altra... Domani... alla luce del sole. Chi ha
bisogno venga qui da noi... Ora è tardi, e siamo tutti d'un colore... birbanti e
galantuomini... Ehi! ehi, dico!...
Don Nicolino dovette afferrare pel collo
un tale che stava per cacciarsi dentro il portone socchiuso, approfittando della
confusione e della ressa che facevasi attorno a una donna la quale strillava e supplicava:
- Nunzio! Gesualdo! Figliuoli miei!... Che
vi fanno fare?... Nunzio... Ah Madonna santa!...
Era Diodata, la quale aveva sentito dire
che i suoi ragazzi erano nella baraonda, a gridare viva e morte contro don Gesualdo anche
loro, ed era corsa colle mani nei capelli. - Madonna santa! che vi fanno fare!... - Zacco
e mastro Nardo portarono giù intanto dei barili pieni, e aiutavano a metter pace mescendo
da bere a chi ne voleva, mentre il canonico di lassù predicava:
- Domani! Tornate domani, chi ha
bisogno... Adesso non c'è nessuno in casa... Don Gesualdo è fuori, in campagna... ma col
cuore è anch'esso qui, con noialtri... per aiutarvi... Sicuro... Ciascuno ha da avere il
suo pezzo di pane e il suo pezzo di terra... Ci aggiusteremo... Tornate domani...
- Domani, un corno! - brontolò di dentro
don Gesualdo. - Mi pare che vossignoria aggiustate ogni cosa a spese mie, canonico!
- Volete star zitto! Volete farmi fare la
figura di bugiardo?... Se ho detto che non ci siete, per salvarvi la pelle...
Don Gesualdo tornò a ribellarsi:
- Perchè? Che ho fatto? Io sono in casa
mia!...
- Avete fatto che siete ricco come un
maiale! - gli urlò infine all'orecchio il canonico che perse la pazienza. Gli altri
allora l'assaltarono tutti insieme, colle buone, colle cattive, dicendogli che se i
rivoltosi lo trovavano lì, della casa non lasciavano pietra sopra pietra; pigliavano ogni
cosa; neanche gli occhi per piangere gli lasciavano. Finché lo indussero a scappare dalla
parte del vicoletto. Mèndola corse a bussare all'uscio dello zio Limòli.
Al baccano, il marchese, oramai sordo come
una talpa, s'era buttato un ferraiuolo sulle spalle, e stava a vedere dietro l'invetriata
del balcone, in camicia, collo scaldino in mano e i piedi nudi nelle ciabatte, quando gli
capitò quella nespola fra capo e collo. Ci volle del bello e del buono a fargli capire
ciò che volevano da lui a quell'ora, mastro-don Gesualdo più morto che vivo, gli altri
che gli urlavano nell'orecchio, uno dopo l'altro:
- Vogliono fargli la festa... a vostro
nipote don Gesualdo... Bisogna nasconderlo...
Egli ammiccava, colle palpebre floscie e
cascanti, accennando di sì, mentre abbozzava un sorriso malizioso.
- Ah?... la festa?... a don Gesualdo?...
È giusto! È venuto il vostro tempo, caro mio... Siete il campione della mercanzia!...
Ma finalmente, al sentire che invece
volevano accopparlo, mutò registro, fingendo d'essere inquieto, colla vocetta fessa:
- Che?... Lui pure? Cosa vogliono
dunque?... Dove andiamo di questo passo?
Mèndola gli spiegò che don Gesualdo era
il pretesto per dare addosso ai più denarosi; ma lì non sarebbero venuti a cercarne dei
denari. Il vecchio accennava di no anche lui, guardando intorno, con quel sorrisetto agro
sulla bocca sdentata.
Erano due stanzacce invecchiate con lui,
nelle quali ogni sua abitudine aveva lasciato l'impronta: la macchia d'unto dietro la
seggiola su cui appisolavasi dopo pranzo, i mattoni smossi in quel breve tratto fra
l'uscio e la finestra, la parete scalcinata accanto al letto dove soleva accendere il
lume. E in quel sudiciume il marchese ci stava come un principe, sputando in faccia a
tutti quanti le sue miserie.
- Scusate, signori miei, se vi ricevo in
questa topaia... Non è pel vostro merito, don Gesualdo... La bella parentela che avete
presa, eh?...
Sul vecchio canapè addossato al muro,
puntellandolo cogli stessi mattoni rotti, improvvisarono alla meglio un letto per don
Gesualdo che non stava più in piedi, mentre il marchese continuava a brontolare:
- Guardate cosa ci capita! Ne ho viste
tante! Ma questa qui non me l'aspettavo...
Pure gli offrì di dividere con lui la
scodella di latte in cui aveva messo a inzuppare delle croste di pane.
- Son tornato a balia, vedete. Non ho
altro da offrirvi a cena. La carne non è più pei miei denti, né per la mia borsa... Voi
sarete avvezzo a ben altro, amico mio... Che volete farci? Il mondo gira per tutti, caro
don Gesualdo!...
- Ah! - rispose lui. - Non è questo, no,
signor marchese. È che lo stomaco non mi dice. L'ho pieno di veleno! Un cane arrabbiato
ci ho.
- Bene, - dissero gli altri. - Ringraziate
Iddio. Qui nessuno vi tocca.
Fu un colpo tremendo per mastro-don
Gesualdo. L'agitazione, la bile, il malanno che ci aveva in corpo... La notte passò come
Dio volle. Ma il giorno dopo, all'avemaria, tornò Mèndola intabarrato, col cappello
sugli occhi, guardandosi intorno prima d'infilar l'uscio.
- Un'altra adesso! - esclamò entrando. -
Vi hanno fatto la spia, don Gesualdo! E vogliono stanarvi anche di qua per costringervi a
mantenere ciò che ha promesso il canonico... Ciolla in persona... l'ho visto laggiù a
far sentinella...
Il marchese, ch'era tornato arzillo e gaio
fra tutto quel parapiglia, aguzzando l'udito, ficcandosi in mezzo per acchiappar qualche
parola, corse al balcone.
- Sicuro! Eccolo lì col camiciotto, come
un bambino... Vuol dire che si torna indietro tutti!...
Don Gesualdo s'era alzato sbuffando,
gridando ch'era meglio finirla, che correva giù a dargliela lui, la promessa, al Ciolla!
E giacchè lo cercavano, era lì, pronto a riceverli!...
- Certo, certo, - ripeteva il marchese. -
Se vi cercano vuol dire che hanno bisogno di voi. Di me non vengono a cercare sicuro!
Vogliono farvi gridare viva e morte insieme a loro? E voi andateci! Viva voi che avete da
farli gridare!
- No! So io quello che vogliono! -
ribattè don Gesualdo imbestialito.
- Scusate, non si tratta soltanto di voi
adesso, - osservò Mèndola. - È che dietro di voi ci siamo tutto il paese!...
Sopraggiunse il canonico, grattandosi il
capo, impensierito della piega che pigliava la faccenda. Durava la baldoria. Una bella
cosa per certa gente! Quei bricconi s'erano legate al dito le parole di pace ch'egli si
era lasciato sfuggire in quel frangente, e stavano in piazza tutto il giorno ad aspettare
la manna dal cielo: - M'avete messo in un bell'imbroglio, voi, don Gesualdo!
A quell'uscita del canonico successe un
altro battibecco fra loro due: - Io, eh?... Io!... Son io che ho promesso mari e monti?
- Per chetarli, in nome di Dio! Parole che
si dicono, si sa! Avrei voluto vedervi, dinanzi a quelle facce scomunicate!
Il marchese si divertiva: - Senti senti!
Guarda guarda!
- Insomma, - conchiuse Mèndola, - queste
son chiacchiere, e bisogna pigliar tempo. Intanto voi levatevi di mezzo, causa causarum!
In fondo a una cisterna, in un buco, dove diavolo volete, ma non è la maniera di
compromettere tanti padri di famiglia, per causa vostra!
- In casa Trao! - suggerì il canonico. -
Vostro cognato vi accoglierà a braccia aperte. Nessuno sa che c'è ancora lui al mondo, e
non verranno a cercarvi sin lì. - Il marchese approvò anch'esso: - Benissimo. È una
bella pensata! Cane e gatto chiusi insieme... - Don Gesualdo s'ostinava ad opporsi.
- Allora, - esclamò il canonico, - io me
ne lavo le mani come Pilato. Anzi vado a chiamarvi Ciolla e tutti quanti, se volete!...
Don Gesualdo era ridotto in uno stato che
di lui ne facevano quel che volevano. A due ore di notte, per certe stradicciuole fuori
mano, andarono a svegliare Grazia che aveva la chiave del portone, e al buio, tentoni,
arrivarono sino all'uscio di don Ferdinando.
- Chi è? - si udì belare di dentro una
voce asmatica. - Grazia, chi è?
- Siamo noi, don Gesualdo, vostro
cognato...
Nessuno rispose. Poi si udì frugare nel
buio. E a un tratto don Ferdinando si chiuse dentro col paletto, e si mise ad
ammonticchiare sedie e tavolini dietro l'uscio, continuando a strillare spaventato:
- Grazia! Grazia!
- Corpo del diavolo! - esclamò Mèndola.
- Qui si fa peggio! Quella bestia farà correre tutto il paese!
Il canonico rideva sotto il naso,
scuotendo il capo. Grazia intanto aveva acceso un mozzicone di candela, e li guardava in
faccia ad uno ad uno, allibbita, battendo le palpebre.
- Che volete fare, signori miei? -
azzardò infine timidamente. Don Gesualdo, che non si reggeva più in piedi, pallido e
disfatto, proruppe in tono disperato:
- Io voglio tornarmene a casa mia!... a
qualunque costo... Sono risoluto!...
- Nossignore! - interruppe il canonico. -
Qui siete in casa vostra. C'è la quota di vostra moglie. Ah, caspita! Avete avuto
pazienza sino adesso... Ora basta!... Lì, nella camera di donna Bianca. Il letto è
ancora tal quale.
Mèndola s'era messo di buon umore, mentre
preparavano la stanza. Frugava da per tutto. Andava a cacciare il naso nell'andito oscuro,
dietro l'usciolino. Trovava delle barzellette, ricordando le vecchie storie. Quanti casi!
Quante vicende! - Chi ve lo avrebbe detto, eh, don Gesualdo? - Lo stesso canonico Lupi si
lasciò sfuggire un sorrisetto.
- Intanto che siete qui, potete fare le
vostre meditazioni sulla vita e sulla morte, per passare il tempo. Che commedia, questo
mondaccio! Vanitas vanitatum!
Don Gesualdo gli rivolse un'occhiata nera,
ma non rispose. Ci aveva ancora dello stomaco per chiudervi dentro i suoi guai e le sue
disgrazie, senza farne parte agli amici, per divertirli. Si buttò a giacere sul letto, e
rimase solo al buio coi suoi malanni, soffocando i lamenti, mandando giù le amarezze che
ogni ricordo gli faceva salire alla gola. D'una cosa sola non si dava pace, che avrebbe
potuto crepare lì dove era, senza che sua figlia ne sapesse nulla. Allora, nella febbre,
gli passavano dinanzi agli occhi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri
ancora, un altro sé stesso che affaticavasi e s'arrabattava al sole e al vento, tutti col
viso arcigno, che gli sputavano in faccia: - Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!
A giorno tornò Grazia per aiutare un po',
sfinita, ansando se smuoveva una seggiola, fermandosi ogni momento per piantarsi dinanzi a
lui colle mani sul ventre enorme, e ricominciare le lagnanze contro i parenti di don
Ferdinando che le lasciavano quel poveretto sulle spalle, lesinandogli il pane e il vino.
- Sissignore, l'hanno tutti dimenticato, lì nel suo cantuccio, come un cane malato!... Ma
io il cuore non mi dice... Siamo stati sempre vicini... buoni servi della famiglia... una
gran famiglia... Il cuore non mi dice, no!
Dietro di lei veniva una masnada di
figliuoli che mettevano ogni cosa a soqquadro. Poi sopraggiunse Speranza strepitando che
voleva vedere suo fratello, quasi egli stesse per rendere l'anima a Dio.
- Lasciatemi entrare! È sangue mio
infine! Ora ch'è in questo stato mi rammento solo di essere sua sorella. - Lei, il
marito, i figliuoli. Mise a rumore tutto il vicinato. Don Gesualdo lasciò il letto
sbuffando. Non lo avrebbero tenuto le catene.
- Voglio tornare a casa mia! Che ci sto a
fare qui? Tanto, lo sanno tutti!...
A gran stento lo indussero ad aspettare la
sera. E dopo l'avemaria, quatti quatti, Burgio e tutti i parenti l'accompagnarono a casa.
Speranza volle restare a guardia del fratello, giacché trovavasi tanto malato, e per
miracolo quella notte non gli avevano messo ogni cosa a sacco e ruba.
- Non vuol dire se siamo in lite. Al
bisogno si vede il cuore della gente. Gli interessi sono una cosa, e l'amore è un'altra.
Abbiamo litigato, litigheremo sino al giorno del Giudizio, ma siamo figli dello stesso
sangue! - Protestò che l'avrebbe tenuto meglio delle pupille dei propri occhi, lui e la
sua roba. Gli schierò dinanzi al letto marito e figliuoli che giravano intorno sguardi
cupidi, ripetendo:
- Questo è il sangue vostro! Questi non
vi tradiscono! - Lui, combattuto, stanco, avvilito, non ebbe neanche la forza di
ribellarsi.
Così, a poco a poco, gli si misero tutti
quanti alle costole. I nipoti scorazzando per la casa e pei poderi, spadroneggiando,
cacciando le mani da per tutto. La sorella, colle chiavi alla cintola, frugando,
rovistando, mandando il marito di qua e di là, pei rimedi, e a coglier erbe medicinali.
Come massaro Fortunato si lagnava di non aver più le gambe di vent'anni per affacchinarsi
a quel modo, essa lo sgridava:
- Che volete? Non lo fate per amore di
vostro cognato? Carcere, malattie e necessità si conosce l'amistà.
Lei non aveva suggezione di Ciolla e di
tutti gli altri della sua risma. Una volta che Vito Orlando pretese di venire a fare una
sbravazzata, colla pistola in tasca, per liquidare certi conti con don Gesualdo, essa lo
inseguì giù per le scale buttandogli dietro una catinella d'acqua sporca. Lo stesso
canonico Lupi aveva dovuto mettersi la coda fra le gambe, e non era tornato a fare il
generoso colla roba altrui, ora che Ciolla e i più facinorosi erano partiti a cercar
fortuna in città, con bandiere e trombette. Il canonico, onde chetare gli altri, aveva
preso il ripiego di sortire in processione, colla disciplina e la corona di spine; e così
gli altri si sfogavano in feste e quarant'ore, mentre lui andava predicando la fratellanza
e l'amore del prossimo.
- Però un baiocco non lo mette fuori! -
sbraitava comare Speranza. - E questo va bene. Ma se torna a fare il camorrista, qui da
noi, lo ricevo come va... tal quale Vito Orlando!
Intanto la casa di don Gesualdo era messa
a sacco e ruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un
batter d'occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare
contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e
saccheggiavano i poderi dello zio, quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio,
confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella;
pensava ai suoi guai. Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il
cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza,
amorevole, cercava erbe e medicine, consultava Zanni e persone che avevano segreti per
tutti i mali. Ciascuno portava un rimedio nuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la
reliquia e l'immagine benedetta del santo, che don Luca volle provare colle sue mani. Non
giovava nulla. L'infermo badava a ripetere:
- Non è niente... un po' di colica. Ho
avuto dei dispiaceri. Domani mi alzerò...
Ma non ci credeva più neppur lui, e non
si alzava mai. Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era
gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che
l'agguantava e l'affogava nelle ricchezze. Il signor genero scrisse da Palermo onde avere
notizie precise. Parlava anche d'affari da regolare, e di scadenze urgenti. Nella
poscritta c'erano due righe sconsolate d'Isabella, la quale non si era ancora riavuta dal
gran colpo che aveva ricevuto poco prima. Speranza, che era presente mentre il fratello
s'inteneriva sulla lettera, sputò fuori il veleno:
- Ecco! Ora vi guastate il sangue, per
giunta! Potreste andarvene all'altro mondo... solo e abbandonato, come uno che non ha nè
possiede!... Chi vi siete trovato accanto nel bisogno, ditelo? Vostra figlia vi manda
soltanto belle parole... Suo marito però va al sodo!
Don Gesualdo non rispose. Ma di nascosto,
rivolto verso il muro, si mise a piangere cheto cheto. Sembrava diventato un bambino. Non
si riconosceva più. Allorchè Diodata, sentendo ch'era tanto malato, volle andare a
visitarlo e a chiedergli perdono per la mancanza che gli avevano fatto i suoi ragazzi, la
notte della sommossa, rimase di stucco al vederlo così disfatto, che puzzava di
sepoltura, e gli occhi che a ogni faccia nuova diventavano lustri lustri.
- Signor don Gesualdo... son venuta a
vedervi perché mi hanno detto che siete in questo stato... Dovete perdonare... a quegli
screanzati che vi hanno offeso... Ragazzi senza giudizio... Si son lasciati prendere in
mezzo, senza sapere quello che facessero... Dovete perdonare per amor mio, signor don
Gesualdo!...
E si vedeva che parlava sincera, la
poveretta, con quel viso, mandando giù, per nasconderle, le lagrime che a ogni parola le
tornavano agli occhi, cercando di pigliargli la mano per baciargliela. Egli faceva un
gesto vago, e scuoteva il capo, come a dire che non gliene importava, oramai. In quella
sopravvenne Speranza, e fece una partaccia a quella sfacciata che veniva a tentarle il
fratello in fin di vita, per cavargli qualcosa, per pelarlo sino all'ultimo. Una
sanguisuga. Ci s'era ingrassata alle spalle di lui! Non le bastava? Ora calavano i corvi,
all'odor del carname. Il malato chiudeva gli occhi per sfuggire quel supplizio, e
agitavasi nel letto come al sopraggiungere di un'altra colica. Talché Diodata se ne andò
senza poterlo salutare, a capo chino, stringendosi nella mantellina. Speranza tornò al
fratello, tutta amorevole e sorridente.
- Per assistervi adesso ci avete qui
noi... Non vi lasceremo solo, non temete,.. Tutto ciò che avete bisogno... Comandate. Che
ne fareste adesso di quella strega? Vi mangerebbe anima e corpo. Neanche il viatico
potreste ricevere, con quello scandalo in casa!
Lei lo assisteva meglio di una serva, e lo
curava con amore, senza guardare a spesa né a fatiche. Vedendo che nulla giovava, arrivò
a chiamare il figlio di Tavuso, il quale tornava fresco fresco da Napoli, laureato in
medicina, - un ragazzotto che non aveva ancora peli al mento e si faceva pagare come un
principe. - Però don Gesualdo gli disse il fatto suo, al vedergli metter mano alla penna
per scrivere le solite imposture:
- Don Margheritino, io vi ho visto
nascere! A me scrivete la ricetta? Per chi mi pigliate, amico caro!
- Allora, - ribattè il dottorino
infuriato, - allora fatevi curare dal maniscalco! Perché mi avete fatto chiamare? - Prese
il cappello, e se ne andò.
Ma siccome il malato soffriva tutti i
tormenti dell'inferno, nella lusinga che qualcheduno trovasse il rimedio che ci voleva,
per non far parlare anche i vicini che li accusavano di avarizia, dovettero chinare il
capo a codesto, chinare il capo a medici e medicamenti. Il figlio di Tavuso, Bomma quanti
barbassori c'erano in paese, tutti sfilarono dinanzi al letto di don Gesualdo. Arrivavano,
guardavano, tastavano, scambiavano fra di loro certe parolacce turche che facevano
accapponar la pelle, e lasciavano detto ciascuno la sua su di un pezzo di carta - degli
sgorbi come sanguisughe. Don Gesualdo, sbigottito, non diceva nulla, cercava di cogliere
le parole a volo; guardava sospettoso le mani che scrivevano. Soltanto, per non buttare
via il denaro malamente, prima di spedire la ricetta, prese a parte don Margheritino, e
gli fece osservare che aveva un armadio pieno di vasetti e boccettine, comperati per la
buon'anima di sua moglie. - Non ho guardato a spesa, signor dottore. Li ho ancora lì,
tali e quali. Se vi pare che possano giovare adesso...
Non gli davano retta neppur quando tornava
a balbettare, spaventato da quelle facce serie: - Mi sento meglio. Domani mi alzo.
Mandatemi in campagna che guarirò in ventiquattr'ore. - Gli dicevano di sì, per
contentarlo, come a un bambino. - Domani, doman l'altro. - Ma lo tenevano lì, per
smungerlo, per succhiargli il sangue, medici, parenti e speziali. Lo voltavano, lo
rivoltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita, gli facevano bere mille porcherie,
lo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti sullo stomaco. C'era di nuovo sul
cassettone un arsenale di rimedi, come negli ultimi giorni di Bianca, buon'anima. Egli
borbottava, tentennando il capo. - Siamo già ai medicamenti che costano cari! Vuol dire
che non c'è più rimedio. - Il denaro a fiumi, un va e vieni, una baraonda per la casa,
tavola imbandita da mattina a sera. Burgio, che non c'era avvezzo, correva a mostrare la
lingua ai medici, come venivano pel cognato; Santo non usciva più nemmeno per andare
all'osteria; e i nipoti, quando tornavano dai poderi, si pigliavano pei capelli: liti e
quistioni fra di loro che facevano a chi più arraffa, degli strepiti che arrivavano fin
nella camera dell'infermo, il quale tendeva l'orecchio, smanioso di sapere quello che
facevano della sua roba, e anche lui si metteva a strillare dal letto:
- Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho
tutti i miei interessi alla malora. Qui mi mangio il fegato. Lasciatemi andare, se no
crepo!
Ci aveva come una palla di piombo nello
stomaco, che gli pesava, voleva uscir fuori, con un senso di pena continuo; di tratto in
tratto, si contraeva, s'arroventava e martellava, e gli balzava alla gola, e lo faceva
urlare come un dannato, e gli faceva mordere tutto ciò che capitava. Egli rimaneva
sfinito, anelante, col terrore vago di un altro accesso negli occhi stralunati. Tutto ciò
che ingoiava per forza, per aggrapparsi alla vita, i bocconi più rari, senza chiedere
quel che costassero, gli si mutavano in veleno; tornava a rigettarli come roba
scomunicata, più nera dell'inchiostro, amara, maledetta da Dio. E intanto i dolori e la
gonfiezza crescevano: una pancia che le gambe non la reggevano più. Bomma, picchiandovi
sopra, una volta disse: - Qui c'è roba.
- Che volete dire, vossignoria? -
balbettò don Gesualdo, balzando a sedere sul letto, coi sudori freddi addosso.
Bomma lo guardò bene in faccia, accostò
la seggiola, si voltò di qua e di là per vedere s'erano soli.
- Don Gesualdo, siete un uomo... Non siete
più un ragazzo, eh?
- Sissignore, - rispose lui con voce
ferma, calmatosi a un tratto, col coraggio che aveva sempre avuto al bisogno. -
Sissignore, parlate.
- Bene, qui ci vuole un consulto. Non
avete mica una spina di fico d'India nel ventre! È un affare serio, capite! Non è cosa
per la barba di don Margheritino o di qualcun altro... sia detto senza offenderli, qui in
confidenza. Chiamate i migliori medici forestieri, don Vincenzo Capra, il dottor Muscio di
Caltagirone, chi volete... Denari non ve ne mancano...
A quelle parole don Gesualdo montò in
furia: - I denari!... Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ho guadagnato!... A che
mi servono... se non posso comprare neanche la salute?... Tanti bocconi amari m'hanno
dato... sempre!...
Ma però volle stare a sentire la
conclusione del discorso di Bomma. Alle volte non si sa mai... Lo lasciò finire, stando
zitto, tenendosi il mento, pensando ai casi suoi. Infine volle sapere:
- Il consulto? Che mi fa il consulto?
Bomma perse le staffe: - Che vi fa?
Caspita! Quello che vi può fare... Almeno non si dirà che vi lasciate morire senza
aiuto. Io parlo nel vostro interesse. Non me ne viene nulla in tasca... Io fo lo
speziale... Non è affar mio... Non me ne intendo. Vi ho curato per amicizia... - Come
l'altro tentennava il capo, diffidente, col sorriso furbo sulle labbra smorte, il
farmacista mise da banda ogni riguardo. - Morto siete, don minchione! A voi dico!
Allora don Gesualdo volse un'occhiata
lenta e tenace in giro, si soffiò il naso, e si lasciò andar giù sul letto supino. Di
lì a un po', guardando il soffitto, aggiunse con un sospiro:
- Va bene. Facciamo il consulto.
La notte non chiuse occhio. Tormentato da
un'ansietà nuova, con dei brividi che lo assalivano di tratto in tratto, dei sudori
freddi, delle inquietudini che lo facevano rizzare all'improvviso sul letto coi capelli
irti, guardando intorno nelle tenebre, vedendo sempre la faccia minacciosa di Bomma,
tastandosi, soffocando i dolori, cercando d'illudersi. Parevagli di sentirsi meglio
infatti. Voleva curarsi, giacché era un affar serio. Voleva guarire. Ripeteva le parole
stesse dello speziale: denari ne aveva; s'era logorata la vita apposta; non li aveva
guadagnati per far la barba al signor genero; perché se li godessero degli ingrati che lo
lasciavano crepare lontano: Lontano dagli occhi, lontan dal cuore! Il mondo è fatto
così, che ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Il mulino suo, di lui, era di riacquistare
la salute, coi suoi denari. C'erano al mondo dei buoni medici che l'avrebbero fatto
guarire, pagandoli bene. Allora asciugavasi quel sudore d'agonia, e cercava di dormire.
Voleva che i medici forestieri che aspettava il giorno dopo gli trovassero miglior cera;
contava le ore; gli pareva mill'anni che fossero lì dinanzi al suo letto. La stessa luce
dell'alba gli faceva animo. Poi, allorché udì le campanelle della lettiga che portava il
Muscio e don Vincenzo Capra si sentì slargare il cuore tanto fatto. Si tirò su svelto a
sedere sul letto come uno che si senta proprio meglio. Salutò quella brava gente con un
bel sorriso che doveva rassicurare anche loro, appena li vide entrare.
Essi invece gli badarono appena. Erano
tutti orecchi per don Margheritino che narrava la storia della malattia con gran
prosopopea; approvavano coi cenni del capo di tanto in tanto; volgevano solo qualche
occhiata distratta sull'ammalato che andavasi scomponendo in volto, alla vista di quelle
facce serie, al torcer dei musi, alla lunga cicalata del mediconzolo che sembrava
recitasse l'orazione funebre. Dopo che colui ebbe terminato di ciarlare s'alzarono l'uno
dopo l'altro, e tornarono a palpare e a interrogare il malato, scrollando il capo, con
certo ammiccare sentenzioso, certe occhiate fra di loro che vi mozzavano il fiato
addirittura. Ce n'era uno specialmente, dei forestieri, che stava accigliato e pensieroso,
e faceva a ogni momento uhm! uhm! senza aprir bocca. I parenti, la gente di casa, dei
vicini anche, per curiosità, si affollavano all'uscio, aspettando la sentenza, mentre i
dottori confabulavano a bassa voce fra di loro in un canto. A un cenno dello speziale,
Burgio e sua moglie andarono a sentire anch'essi, in punta di piedi.
- Parlate, signori miei! - esclamò allora
il pover'uomo pallido come un morto. - Sono io il malato, infine! Voglio sapere a che
punto sono.
Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece
più brutto. E don Vincenzo Capra, in bel modo, cominciò a spiegare la diagnosi della
malattia: Pylori cancer, il pyrosis dei greci. Non s'avevano ancora indizii d'ulcerazione;
l'adesione stessa del tumore agli organi essenziali non era certa; ma la degenerescenza
dei tessuti accusavasi già per diversi sintomi patologici. Don Gesualdo, dopo avere
ascoltato attentamente, riprese:
- Tutto questo va benone. Però ditemi se
potete guarirmi, vossignoria. Senza interesse... pagandovi secondo il vostro merito...
Capra ammutolì da prima e si strinse
nelle spalle.
- Eh, eh... guarire... certo... siamo qui
per cercar di guarirvi... - Il Muscio, più brutale, spifferò chiaro e tondo il solo
rimedio che si potesse tentare: l'estirpazione del tumore, un bel caso, un'operazione
chirurgica che avrebbe fatto onore a chiunque. Dimostrava il modo e la maniera,
accalorandosi nella proposta, accompagnando la parola coi gesti, fiutando già il sangue
cogli occhi accesi nel faccione che gli s'imporporava tutto, quasi stesse per rimboccarsi
le maniche e incominciare; tanto che il paziente spalancava gli occhi e la bocca, e
tiravasi indietro per istinto; e le donne, atterrite, scapparono a gemere e a
singhiozzare.
- Madonna del Pericolo! - cominciò a
strillare Speranza. - Vogliono ammazzarmi il fratello... squartarlo vivo come un maiale!
- Chetatevi! - balbettò lui passandosi un
lembo del lenzuolo sulla faccia che grondava goccioloni. Gli altri medici tacevano e
approvavano più o meno la proposta del dottor Muscio per cortesia. Don Gesualdo, visto
che nessuno fiatava, ripigliò a dire:
- Chetatevi!... Si tratta della mia
pelle... devo dir la mia anch'io... Signori miei... sono un uomo... Non sono un ragazzo...
Se dite ch'è necessaria... questa operazione... Se dite che è necessaria...
Sissignore... si farà... Però, lasciatemi dir la mia...
- È giusto. Parlate.
- Ecco... Una cosa sola.. Voglio sapere
prima se mi garantite la pelle... Siamo galantuomini... Mi fido di voi... Non è un
negozio da farsi a occhi chiusi. Voglio vederci chiaro nel mio affare...
- Che discorsi son questi! - interruppe il
Muscio dimenandosi sulla seggiola. - Io fo il chirurgo, amico mio. Io fo il mio mestiere,
e non m'impiccio a far scommesse da ciarlatano! Credete di trattare col Zanni, alla fiera?
- Allora non ne facciamo nulla, - rispose
don Gesualdo. E gli voltò le spalle. - Andate là, Bomma, che m'avete dato un bel
consiglio!
Speranza, premurosa, vide giunta l'ora di
rivolgersi ai santi, e si diede le mani attorno a procurar reliquie e immagini benedette.
Neri pensò che si doveva avvertire subito la figliuola e il genero del pericolo che
correva don Gesualdo. Lui non dava più retta. Diceva che di santi e di reliquie ne aveva
un fascio, lì nell'armadio di Bianca, insieme alle altre medicine. Non voleva veder
nessuno. Giacché era condannato, voleva morire in pace, senza operazioni chirurgiche,
lontano dai guai, nella sua campagna. S'attaccava alla vita mani e piedi, disperato. Ne
aveva passate delle altre; s'era aiutato sempre da sé, nei mali passi. Coraggio ne aveva
e aveva il cuoio duro anche. Mangiava e beveva; si ostinava a star meglio; si alzava dal
letto due o tre ore al giorno; si trascinava per le stanze, da un mobile all'altro. Infine
si fece portare a Mangalavite, col fiato ai denti, mastro Nardo da un lato e Masi
dall'altro che lo reggevano sul mulo - un viaggio che durò tre ore, e gli fece dire cento
volte: - Buttatemi nel fosso, ch'è meglio.
Ma laggiù, dinanzi alla sua roba, si
persuase che era finita davvero, che ogni speranza per lui era perduta, al vedere che di
nulla gliene importava, oramai. La vigna metteva già le foglie, i seminati erano alti,
gli ulivi in fiore, i sommacchi verdi, e su ogni cosa stendevasi una nebbia, una
tristezza, un velo nero. La stessa casina, colle finestre chiuse, la terrazza dove Bianca
e la figliuola solevano mettersi a lavorare, il viale deserto, fin la sua gente di
campagna che temeva di seccarlo e se ne stava alla larga, lì nel cortile o sotto la
tettoia, ogni cosa gli stringeva il cuore; ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi? La sua
stessa roba, lì, i piccioni che roteavano a stormi sul suo capo, le oche e i tacchini che
schiamazzavano dinanzi a lui... Si udivano delle voci e delle cantilene di villani che
lavoravano. Per la viottola di Licodia, in fondo, passava della gente a piedi e a cavallo.
Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c'era più speranza per lui, roso dal
baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un
passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover
morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto
distruggere d'un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva
che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone
dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.
Di lì a qualche giorno arrivò il duca di
Leyra, chiamato per espresso, e s'impadronì del suocero e della casa, dicendo che voleva
condurselo a Palermo e farlo curare dai migliori medici. Il poveretto, ch'era ormai
l'ombra di sé stesso, lasciava fare; riapriva anzi il cuore alla speranza; intenerivasi
alle premure del genero e della figliuola che l'aspettava a braccia aperte. Gli pareva che
gli tornassero già le forze. Non vedeva l'ora d'andarsene, quasi dovesse lasciare il suo
male lì, in quella casa e in quei poderi che gli erano costati tanti sudori, e che gli
pesavano invece adesso sulle spalle. Il genero intanto occupavasi col suo procuratore a
mettere in sesto gli affari. Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiare, lo
misero in lettiga e partirono per la città. Era una giornata piovosa. Le case note, dei
visi di conoscenti che si voltavano appena, sfilavano attraverso gli sportelli della
lettiga. Speranza, e tutti i suoi, in collera dacché era venuto il duca a spadroneggiare,
non si erano fatti più vedere. Ma Nardo aveva voluto accompagnare il padrone sino alle
ultime case del paese. In via della Masera si udì gridare: - Fermate! fermate! - E
apparve Diodata, ché voleva salutare don Gesualdo l'ultima volta, lì, davanti il suo
uscio. Però, giunta vicino a lui, non seppe trovare le parole, e rimaneva colle mani allo
sportello, accennando col capo.
- Ah, Diodata... Sei venuta a darmi il
buon viaggio?... - disse lui. Essa fece segno di sì, di sì, cercando di sorridere, e gli
occhi le si riempirono di lagrime.
- Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del
tuo padrone...
Affacciò il capo allo sportello, cercando
forse degli altri, ma siccome pioveva lo tirò indietro subito.
- Guarda che fai!... sotto la pioggia... a
capo scoperto!... È il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti?
- Sissignore, - rispose lei semplicemente,
e continuava ad accompagnare le parole coi cenni del capo. - Sissignore, fate buon
viaggio, vossignoria.
Si staccò pian piano dalla lettiga, quasi
a malincuore, e tornò a casa, fermandosi sull'uscio, umile e triste. Don Gesualdo
s'accorse allora di mastro Nardo che l'aveva seguìto sin lì, e mise mano alla tasca per
regalargli qualche baiocco.
- Scusate, mastro Nardo... non ne ho...
sarà per un'altra volta, se torniamo a vederci, eh?... se torniamo a vederci... - E si
buttò all'indietro, col cuore gonfio di tutte quelle cose che si lasciava dietro le
spalle, la viottola fangosa per cui era passato tante volte, il campanile perduto nella
nebbia, i fichi d'India rigati dalla pioggia che sfilavano di qua e di là della lettiga.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998