Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
Parte quarta
Capitolo III
Giunse poco dopo una lettera d'Isabella
la quale non sapeva nulla ancora della catastrofe, e fece piangere gli stessi sassi. Il
duca scrisse anche lui - un foglietto con una lista nera larga un dito, e il sigillo
stemmato, pur esso nero, che stringeva il cuore - inconsolabile per la perdita della
suocera. Diceva che alla duchessa s'era dovuto nascondere la verità per consiglio degli
stessi medici, visto che sarebbe stato un colpo di fulmine, malaticcia com'era anch'essa,
giusto alla vigilia di mettersi in viaggio per andare a vedere sua madre!... Terminava
chiedendo per lei qualche ricordo della morta, una bazzecola, una ciocca di capelli, il
libro da messa, l'anellino nuziale che soleva portare al dito...
Al notaro poi scrisse per chiedere se la
defunta, buon'anima, avesse lasciati beni stradotali. - Si seppe poi da don Emanuele
Fiorio, l'impiegato della posta, il quale scovava i fatti di tutto il paese, giacché il
notaro non rispose neppure, e solo con qualche intimo, brontolone come s'era fatto
coll'età, andava dicendo:
- Mi pare che il signor duca sia ridotto a
cercare la luna nel pozzo, mi pare!
La povera morta se n'era andata alla
sepoltura in fretta, fra quattro ceri, nel subbuglio della gente ammutinata che voleva
questo, e voleva quell'altro, stando in piazza dalla mattina alla sera, a bociare colle
mani in tasca e la bocca aperta, aspettando la manna che doveva piovere dal campanile
imbandierato. Ciolla ch'era diventato un pezzo grosso alfine, con una penna nera nel
cappello e un camiciotto di velluto che sembrava un bambino, a quell'età, passeggiava su
e giù per la piazza, guardando di qua e di là come a dire alla gente: - Ehi! badate a
voi adesso! - Don Luca, portando la croce dinanzi alla bara, ammiccava gentilmente, per
farsi strada fra la folla, e sorrideva ai conoscenti, come udiva lungo la via tutti quei
gloria che recitava la gente alle spalle di mastro-don Gesualdo.
- Un brigante! un assassino! uno che s'era
arricchito, mentre tanti altri erano rimasti poveri e pezzenti peggio di prima! uno che
aveva i magazzini pieni di roba, e mandava ancora l'usciere in giro per raccogliere il
debito degli altri. - A strillare più forte erano i debitori che s'erano mangiato il
grano in erba prima della messe. Gli rinfacciavano pure di essere il più tenace a non
voler che gli altri si pigliassero le terre del comune, ciascuno il suo pezzetto. Non si
sapeva donde fosse partita l'accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il
canonico Lupi armato sino ai denti, il barone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come
un povero diavolo. Essi erano continuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e
bonaccioni, col cuore sulle labbra: - Quel mastro-don Gesualdo sempre lo stesso! aveva
fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che
l'aveva messo all'onore del mondo! A che l'era giovato essere tanto ricca? - Il canonico
si lasciava sfuggire dell'altro ancora, in confidenza: Le stesse messe in suffragio
dell'anima avevano lesinato alla poveretta! - Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se
non ha cuore neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlare, chè domattina devo dir
messa! - Nobili e plebei, passato il primo sbigottimento, erano diventati tutti una
famiglia. Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà; preti e frati col
crocifisso sul petto, o la coccarda di Pio Nono, e lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino
Margarone s'era fatto capitano, cogli speroni e il berretto gallonato. Donna Agrippina
Macrì preparava filacce e parlava d'andare al campo, appena cominciava la guerra. La
signora Capitana raccoglieva per la compera dei fucili, vestita di tre colori, il
casacchino rosso, la gonnella bianca, e un cappellino calabrese colle penne verdi ch'era
un amore. Le altre dame ogni giorno portavano sassi alle barricate, fuori porta, coi
canestrini ornati di nastri e la musica avanti. Sembrava una festa, mattina e sera, con
tutte quelle bandiere, quella folla per le strade, quelle grida di viva e di abbasso, ogni
momento, lo scampanìo, la banda che suonava, la luminaria più tardi. Le sole finestre
che rimanessero chiuse erano quelle di don Gesualdo Motta. Lui il solo che se ne stesse
rintanato come un lupo, nemico del suo paese, adesso che ci s'era ingrassato, lagnandosi
continuamente che venivano a pelarlo ogni giorno, la commissione per i poveri, il prestito
forzoso la questua pei fucili!... Lui lo mettevano in capo lista, lo tassavano il doppio
degli altri. Gli toccava difendersi e litigare. I signori del Comitato che tornavano
stanchi di casa sua, dopo un'ora di tira e molla, ne contavano delle belle. Dicevano che
non capiva più niente, uno stupido, l'ombra di mastro-don Gesualdo, un cadavere
addirittura, che stava ancora in piedi per difendere i suoi interessi, ma la mano di Dio
arriva, tosto o tardi!
Intanto i villani e gli affamati che
stavano in piazza dalla mattina alla sera, a bocca aperta, aspettando la manna che non
veniva, si scaldavano il capo a vicenda, discorrendo delle soperchierie patite, delle
invernate di stenti, mentre c'era della gente che aveva i magazzini pieni di roba, dei
campi e delle vigne!... Pazienza i signori, che c'erano nati... Ma non si davano pace,
pensando che don Gesualdo Motta era nato povero e nudo al par di loro. - Se lo
rammentavano tutti povero bracciante. - Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, di
faccia alla bandiera inalberata sul Palazzo di Città, ch'era giunto alfine il momento di
restituire il mal tolto, di farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i
suoi figliuoli che s'erano fatti grandi e grossi, e capaci di far valere le loro ragioni,
se non fossero stati due capponi, come il genitore, che s'era acquetato subito, quando il
cognato aveva mandato un gruzzoletto, allorché Bianca stava male, dicendo che voleva fare
la pace con tutti quanti, e dei guai ne aveva anche troppi. Giacalone, a cui don Gesualdo
aveva fatto pignorar la mula pel debito del raccolto, l'erede di Pirtuso, che litigava
ancora con lui per certi denari che il sensale s'era portati all'altro mondo, tutti coloro
che gli erano contro per un motivo o per l'altro, soffiavano adesso nel fuoco, dicendone
roba da chiodi, raccontando tutte le porcherie di mastro-don Gesualdo, sparlandone in ogni
bettola e in ogni crocchio, stuzzicando anche gli indifferenti, con quella storia delle
terre comunali che dovevano spartirsi fra tutti quanti, delle quali ciascuno aspettava il
suo pezzetto, di giorno in giorno, e ancora non se ne parlava, e chi ne parlava lo
facevano uccidere a tradimento, per tappargli la bocca... Si sapeva da dove era partito il
colpo! Mastro Titta aveva riconosciuto Gerbido, l'antico garzone di don Gesualdo, mentre
fuggiva celandosi il viso nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia di Nanni l'Orbo
il quale s'era accollata la ganza di don Gesualdo coi figliuoli, dei poveri trovatelli che
andavano a zappare nei campi del genitore per guadagnarsi il pane, e gli baciavano le mani
per giunta, come quella bestia di Diodata che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie.
Dài e dài erano arrivati a scatenargli
contro anche loro, una sera che li avevano tirati in quelle chiacchiere all'osteria, e i
due ragazzacci non possedevano neppure di che pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si
vide comparire a quell'ora Nunzio, il più ardito. - Il nome del nonno, sì glielo aveva
dato; ma la roba no! - Per poco non s'accapigliarono, padre e figlio. Si fece un gran
gridare, una lite che durò mezz'ora. Accorse anche Diodata, coi capelli per aria, vestita
di nero. Nunzio, ubbriaco fradicio, pretendeva il fatto suo lì su due piedi, e gliene
disse di tutte le specie, a lei e a lui. Lo zio Santo, che s'era accomodato col fratello,
dopo la morte della cognata, aiutandolo a passar l'angustia, mangiando e bevendo alla sua
barba, afferrò la stanga per metter pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più
morto che vivo.
In mezzo a tanti dispiaceri s'era ammalato
davvero. Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fare alla gente. Don Luca
il sagrestano, il quale gli s'era ficcato in casa, quasi fosse già l'ora di portargli
l'olio santo, pretendeva che don Gesualdo dovesse aprire i magazzini alla povera gente, se
voleva salvare l'anima e il corpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinque
bocche da sfamare, e la moglie sei. Mastro Titta, quand'era venuto a cavargli sangue, gli
cantò il resto, colla lancetta in aria:
- Vedete? Se non mettono giudizio,
certuni, va a finir male, stavolta! La gente non ne può più! Sono quarant'anni che levo
pelo e cavo sangue, e sono ancora quello di prima, io!
Don Gesualdo, malato, giallo, colla bocca
sempre amara, aveva perso il sonno e l'appetito; gli erano venuti dei crampi allo stomaco
che gli mettevano come tanti cani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amico che
gli fosse rimasto. E la gente diceva pure che doveva averci il suo interesse a fargli
l'amico, qualche disegno in testa. Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva la
moglie e le figliuole, vestiti di nero tutti quanti, che annebbiavano una strada. Gli
lasciava la sua ragazza per curarlo: - Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti. -
Lavinia è un diavolo, per tener d'occhio una casa. - Lasciate fare a Lavinia che sa dove
metter le mani. - Dall'altro canto poi faceva il viso brusco se Diodata aveva la faccia di
farsi vedere ancora lì, da don Gesualdo, con il fazzoletto nero in testa, carica di
figliuoli, di già canuta e curva come una vecchia: - No, no, buona donna. Non abbiamo
bisogno di voi! Badate ai fatti vostri piuttosto, ché qui la cuccagna è finita. - Poscia
in confidenza spifferava anche delle paternali all'amico. - Che diavolo ne fate di quella
vecchia?... Non vi conviene di lasciarvela bazzicar fra i piedi colei, ora ch'è
vedova!... Dopo che l'avete avuta in casa anche da zitella... Il mondo, sapete bene, ha la
lingua lunga! Poi, quell'altra storia... la morte di suo marito... È vero che se lo
meritava!... Ma infine è meglio chiudere la bocca alla gente!... Del resto, non avete
bisogno di nulla, ora che ci abbiamo qui la mia ragazza.
Lui stesso si faceva in quattro a disporre
e a ordinare nella casa del cugino don Gesualdo, a ficcare il naso in tutti i suoi affari,
a correre su e giù con le chiavi dei magazzini e della cantina. Gli consigliava pure di
mettere a frutto il denaro contante, se ce ne aveva in serbo, caso mai le faccende
s'imbrogliassero peggio.
- Datelo a mutuo, col suo bravo atto
dinanzi notaio... un po' per uno, a tutti coloro che gridano più forte perché non hanno
nulla da perdere, e minacciano adesso di scassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa.
Taceranno, per adesso. Poi, se arrivano a pigliarsi le terre del comune, voi ci mettete
subito una bella ipoteca. Le cose non possono andare sempre a questo modo. I tempi
torneranno a cambiare, e voi ci avrete messo sopra le unghie a tempo.
Ma lui non voleva sentir parlare di
denaro. Diceva che non ne aveva, che suo genero l'aveva rovinato, che preferiva riceverli
a schioppettate, quelli che venivano a bruciargli la casa o a scassinargli i magazzini.
Era diventato una bestia feroce, verde dalla bile, la malattia stessa gli dava alla testa.
Minacciava: - Ah! La mia roba? Voglio vederli! Dopo quarant'anni che ci ho messo a
farla... un tarì dopo l'altro!... Piuttosto cavatemi fuori il fegato e tutto il resto in
una volta, ché li ho fradici dai dispiaceri... A schioppettate! Voglio ammazzarne prima
una dozzina! A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!
Perciò aveva armato Santo e mastro Nardo,
il vecchio manovale, con sciabole e carabine. Teneva il portone sbarrato, due mastini
feroci nel cortile. Dicevasi che in casa sua ci fosse un arsenale; che la sera ricevesse
Canali, il marchese Limòli, dell'altra gente ancora, per congiurare, e un bel mattino si
sarebbero trovate le forche in piazza, e appesi tutti coloro che avevano fatta la
rivoluzione. I pochi amici perciò l'avevano abbandonato, onde non esser visti di cattivo
occhio. E Zacco correva davvero un brutto rischio continuando ad andare da lui e a
condurgli tutta la famiglia. - Peccato che con voi ci si rimette il ranno e il sapone! -
gli disse però più di una volta. Sua moglie infine, vedendo che non si veniva a una
conclusione con quell'uomo, lasciò scoppiare la bomba, un giorno che don Gesualdo s'era
appisolato sul canapè, giallo come un morto, e la sua ragazza gli faceva da infermiera,
messa a guardia accanto alla finestra.
- Scusatemi, cugino! Sono madre, e non
posso più tacere, infine... Tu, Lavinia, vai di là, chè ho da parlare col cugino don
Gesualdo... Ora che non c'è più la mia ragazza, apritemi il cuore, cugino mio... e
ditemi chiaro la vostra intenzione... Quanto a me ci avrei tanto piacere... ed anche il
barone mio marito... Ma bisogna parlarci chiaro...
Il poveraccio spalancò gli occhi
assonnati, ancora disfatto dalla colica: - Eh? Che dite? Che volete? Io non vi capisco.
- Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a
far qui la mia Lavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmente, e gli anni del giudizio li
dovete anche avere, per pigliare una risoluzione, e sapere quel che volete fare!
- Niente. Io non voglio far niente. Voglio
stare in pace, se mi ci lasciano stare...
- Ah? Così? Stateci pure a comodo
vostro... Ma intanto non è giusto... capite bene!... Sono madre...
E stavolta, risoluta, ordinò alla
figliuola di prendere il manto e venirsene via. Lavinia obbedì, furibonda anche lei.
Tutt'e due, uscendo da quella casa per l'ultima volta, fecero tanto di croce sulla soglia.
- Una galera, quella baracca! La povera cugina Bianca ci aveva lasciato le ossa col mal
sottile! - Zacco la sera stessa andò a far visita al barone Rubiera, invece di annoiarsi
con quel villano di mastro-don Gesualdo che passava la sera a lamentarsi, tenendosi la
pancia, all'oscuro, per risparmiare il lume.
- Mi volete, eh? cugino Rubiera... donna
Giuseppina...
Don Ninì era uscito per assistere a certo
conciliabolo in cui si trattavano affari grossi. Intanto che aspettava, il barone Zacco
volle fare il suo dovere colla baronessa madre, ch'era stato un pezzo senza vederla. La
trovò nella sua camera, inchiodata nel seggiolone di faccia al letto matrimoniale,
accanto al quale era ancora lo schioppo del marito, buon'anima, e il crocifisso che gli
avevano messo sul petto in punto di morte, imbacuccata in un vecchio scialle, e colle mani
inerti in grembo. Appena vide entrare il cugino Zacco si mise a piangere di tenerezza,
rimbambita: delle lagrime grosse e silenziose che si gonfiavano a poco a poco negli occhi
torbidi, e scendevano lentamente giù per le guance floscie. - Bene, bene, mi congratulo,
cugina Rubiera! La testa è sana! Conoscete ancora la gente! - Essa voleva narrargli anche
i suoi guai, biasciando, sbuffando e imbrogliandosi, con la lingua grossa e le labbra
pavonazze, spumanti di bava. Il barone, affettuoso, tendeva l'orecchio, si chinava su di
lei. - Eh? Che cosa? Sì, sì, capisco! Avete ragione, poveretta! - In quella sopraggiunse
la nuora infuriata. - Non si capisce una maledetta! - osservò Zacco. - Deve essere un
purgatorio per voialtri parenti. - La paralitica fulminò un'occhiata feroce, rizzando
più che poteva il capo piegato sull'omero, mentre donna Giuseppina la sgridava come una
bimba, asciugandole il mento con un fazzoletto sudicio. - Che avete? che volete?
stolida!... Vi rovinate la salute!... È proprio una creaturina di latte, Dio lodato! Non
bisogna credere a quello che dice! Ci vuole una pazienza da santi a durarla con lei!... -
La suocera adesso spalancava gli occhi, guardandola atterrita, rannicchiando il capo nelle
spalle, quasi aspettando di essere battuta: - Vedete? Santa pazienza!
- Ve l'ho detto, - conchiuse il barone. -
Avete il purgatorio in terra, per andarvene diritto in paradiso.
Indi giunse don Ninì a prendere le chiavi
della cantina. Trovando il cugino fece un certo viso sciocco.
- Ah... cugino!... che c'è di nuovo?
Vostra moglie sta bene?... Qui, da me, lo vedete... guai colla pala! Che c'è, mammà? i
soliti capricci? Permettetemi, cugino Zacco, devo scendere giù un momento...
Le chiavi stavano sempre lì, appese allo
stipite dell'uscio. La paralitica li accompagnava cogli occhi, senza poter pronunziare una
parola, sforzandosi più che potesse di girare il capo a ogni passo che faceva il
figliuolo, con delle chiazze di sangue guasto che le ribollivano a un tratto nel viso
cadaverico. Zacco allora cominciò a snocciolare il rosario contro di mastro-don Gesualdo.
- Signore Iddio, me ne accuso e me ne pento! L'ho durata fin troppo con colui! Mi pareva
una brutta cosa abbandonarlo nel bisogno... in mezzo a tutti i suoi nemici... Non fosse
altro per carità cristiana... Ma via! è troppo... Neanche i suoi parenti possono
tollerarlo, quell'uomo! Figuratevi! neanche quello stolido di don Ferdinando!... Si
contenta di non uscire più di casa pur di non essere costretto a mettere il vestito nuovo
che gli ha mandato a regalare il cognato... Sin che campa, avete inteso? Quello è un uomo
di carattere! Infine sono stanco, avete capito? Non voglio rovinarmi per amore di
mastro-don Gesualdo. Ho moglie e figliuoli. Dovrei portarmelo appeso al collo come un
sasso per annegarmi?
- Ah!... ve l'avevo detto io! Vediamo,
via, in coscienza! Cosa era mastro-don Gesualdo vent'anni fa?... Ora ci mette i piedi sul
collo, a noialtri! Vedete, signori miei, un barone Zacco che gli lustra le scarpe e
s'inimica coi parenti per lui!
L'altro chinava il capo, contrito.
Confessava che aveva errato, a fin di bene, per impedirgli di far dell'altro male, e
cercare di cavarne quel poco di buono che si poteva. Una volta, in vita, si può
sbagliare...
- L'avete capita finalmente? Avete visto
chi aveva ragione di noi due?
La moglie gli chiuse la parola in bocca
con una gomitata: - Lasciatelo parlare. &grave lui che deve dire ciò che vuole adesso
da noi... quel ch'è venuto a fare...
- Bene! - conchiuse Zacco con una risata
bonaria. - Son venuto a fare il Figliuol Prodigo, via! Siete contenti?
Donna Giuseppina era contenta a bocca
stretta. Suo marito guardò prima lei, poi il cugino Zacco, e non seppe che dire.
- Bene, - riprese Zacco un'altra volta. -
So che stasera quei ragazzi vogliono fare un po' di chiasso per le strade. Ci avete
appunto in mano le chiavi della cantina per tenerli allegri. Badate che non ho peli sulla
lingua, se a qualcuno salta in mente di venire a seccarmi sotto le mie finestre. Ci ho
molta roba anch'io nello stomaco, e non voglio aver dei nemici a credenza, come mastro-don
Gesualdo!...
Marito e moglie si guardarono negli occhi.
- Son padre di famiglia! - tornò a dire
il barone. - Devo difendere i miei interessi... Scusate... Se giochiamo a darci il
gambetto fra di noi!...
Donna Giuseppina prese la parola lei,
scandolezzata:
- Ma che discorsi son questi?... Scusatemi
piuttosto se metto bocca nei vostri affari. Ma infine siamo parenti...
- Questo dico io. Siamo parenti! Ed è
meglio stare uniti fra di noi... di questi tempi!...
Don Ninì gli stese la mano: - Che
diavolo!... che sciocchezze!... - Quindi si sbottonò completamente, guardando ogni tanto
sua moglie: - Venite in teatro questa sera, per la cantata dell'inno. Fatevi vedere
insieme a noialtri. Ci sarà anche il canonico. Dice che non fa peccato, perché è l'inno
del papa... Discorreremo poi... Bisogna metter mano alla tasca, amico mio. Bisogna
spendere e regalare. Vedete io?
E agitava in aria le chiavi della cantina.
La vecchia, che non aveva perduto una parola di tutto il discorso, sebbene nessuno badasse
a lei, si mise a grugnire in una collera ostinata di bambina, gonfiando apposta le vene
del collo per diventar pavonazza in viso. Ricominciò il baccano: nuora e figliuolo la
sgridavano a un tempo; lei cercava di urlar più forte, agitando la testa furibonda.
Accorse anche Rosaria, col ventre enorme, le mani sudice nella criniera arruffata e
grigiastra, minacciando la paralitica lei pure:
- Guardate un po'! È diventata cattiva
come un asino rosso! Cosa gli manca, eh? Mangia come un lupo!
Rosaria non la finiva più su quel tono.
Il barone Zacco pensò bene di accomiatarsi in quel frangente.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998