Giovanni Verga
Mastro don Gesualdo
Parte quarta
Capitolo I
Erano appena trascorsi sei mesi, quando
sopravvennero altri guai a don Gesualdo. Isabella minacciava di suicidarsi; il genero
aveva preso a viaggiare fuori regno, e faceva temere di voler intentare causa di
separazione, per incompatibilità di carattere. Altre chiacchiere giunsero in segreto sino
al povero padre, il quale corse a rotta di collo alla villa di Carini, dov'era confinata
la duchessa per motivi di salute. Ritornò poi invecchiato di dieci anni, pigliandosela
colla moglie che non capiva nulla, maledicendo in cuor suo la Cirmena e tutto il parentado
che gli dava soltanto bocconi amari, costretto a correr dietro al notaio per accomodare la
faccenda e placare il signor genero a furia di denari. Fu un gran colpo pel poveretto.
Tacque alla moglie il vero motivo, per non affliggerla inutilmente; tenne tutto per sè;
ma non si dava pace; parevagli che la gente lo segnasse a dito; sentivasi montare il
sangue al viso quando ci pensava, da solo, o anche se incontrava quell'infame della
Cirmena. Lui era un villano; non c'era avvezzo a simili vergogne! Intanto la figlia
duchessa gli costava un occhio. Prima di tutto le terre della Canziria, d'Alìa e Donninga
che le aveva assegnato in dote, e gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a
vederle, date in affitto a questo e a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti
durati a metterle insieme, mal tenute, mal coltivate, lontane dall'occhio del padrone,
quasi fossero di nessuno. Di tanto in tanto gli arrivavano pure all'orecchio altre male
nuove che non gli lasciavano requie, come tafani, come vespe pungenti; dicevasi in paese
che il signor duca vi seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine, la
medesima gramigna che devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio
delle cavallette. Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a don Gesualdo,
tante privazioni, dove aveva sentito la prima volta il rimescolìo di mettere nella terra
i piedi di padrone! Donninga per cui si era tirato addosso l'odio di tutto il paese! le
buone terre dell'Alìa che aveva covato dieci anni cogli occhi, sera e mattina, le buone
terre al sole, senza un sasso, e sciolte così che le mani vi sprofondavano e le sentivano
grasse e calde al pari della carne viva... tutto, tutto se ne andava in quella cancrena!
Come Isabella aveva potuto stringere la penna colle sue mani, e firmare tanti debiti?
Maledetto il giorno in cui le aveva fatto imparare a scrivere! Sembravagli di veder
stendere l'ombra delle ipoteche sulle terre che gli erano costate tanti sudori, come una
brinata di marzo, peggio di un nebbione primaverile, che brucia il grano in erba. Due o
tre volte, in circostanze gravi, era stato costretto a lasciarsi cavar dell'altro sangue.
Tutti i suoi risparmi se ne andavano da quella vena aperta, le sue fatiche, il sonno della
notte, tutto. E pure Isabella non era felice. L'aveva vista in tale stato, nella villa
sontuosa di Carini! Indovinava ciò che doveva esserci sotto, quando essa scriveva delle
lettere che gli mettevano addosso la febbre, l'avvelenavano coll'odore sottile di quei
foglietti stemmati, lui che aveva fatto il cuoio duro anche alla malaria. Il signor duca
invece trattava simili negozi per mezzo del notaro Neri - poichè non erano il suo forte.
- E alla fine, quando mastro-don Gesualdo s'impennò sul serio, sbuffando, recalcitrando,
gli fece dire:
- Si vede che mio suocero, poveretto, non
sa quel che ci vuole a mantenere la figliuola col decoro del nome che porta...
- Il decoro?... Io me ne lustro gli
stivali del decoro! Io mangio pane e cipolle per mantenere il lustro della duchea!
Diteglielo pure al signor genero! In pochi anni s'è mangiato un patrimonio!
Fu un casa del diavolo. Donna Bianca, la
quale era assai malandata, e sputava sangue ogni mattina, fece una ricaduta che in
quindici giorni la condusse in fin di vita. Nel paese ormai si sapeva ch'era tisica: tutti
così quei Trao! una famiglia che si estingueva per esaurimento, diceva il medico.
Soltanto il marito, ch'era sempre fuori, in faccende, occupato dai suoi affari, con tanti
pensieri e tanti guai per la testa, si lusingava di farla guarire appena avrebbe potuto
condursela a Mangalavite, in quell'aria balsamica che avrebbe fatto risuscitare un morto.
Essa sorrideva tristamente e non diceva nulla.
Era ridotta uno scheletro, docile e
rassegnata al suo destino, senza aspettare o desiderare più nulla. Soltanto avrebbe
voluto rivedere la figliuola. Suo marito glielo aveva anche promesso. Ma siccome erano in
dissapore col genero non ne aveva più parlato. Isabella prometteva sempre di venire, da
un autunno all'altro, ma non si decideva mai, come avesse giurato di non metterci più i
piedi in quel paese maledetto, e se lo fosse tolto dal cuore interamente. A misura che le
mancavano le forze, Bianca sentiva dileguare anche quella speranza, come la vita che le
sfuggiva, e sfogavasi a ruminare dei progetti futuri, vaneggiando, accendendosi in viso
delle ultime fiamme vitali, con gli occhi velati di lagrime che volevano sembrare di
tenerezza ed erano di sconforto: - Farò questo! farò quell'altro! - Faceva come quegli
uccelletti in gabbia i quali provano il canto della primavera che non vedranno. Il letto
le mangiava le carni; la febbre la consumava a fuoco lento. Adesso, quand'era presa dalla
tosse, si metteva ad ansare, sfinita, colla bocca aperta, gli occhi smaniosi in fondo alle
occhiaie che sembravano fonde fonde, brancicando colle povere braccia stecchite quasi
volesse afferrarsi alla vita.
- Bene! - sospirò infine don Gesualdo che
vedeva la moglie in quello stato. - Farò anche questa!... Pagherò anche stavolta perché
il signor duca ti faccia rivedere la figliuola!... Già son fatto per portare il carico...
Il medico andava e veniva; provava tutti i
rimedi, tutte le sciocchezze che leggeva nei suoi libracci; c'era un conto spaventoso
aperto dal farmacista. - Almeno giovassero a qualche cosa! - brontolava don Gesualdo. - Io
non guardo ai denari spesi per mia moglie; ma voglio spenderli perché le giovino e le si
veggano in faccia... non già per provare i medicamenti nuovi come all'ospedale!... Ora
che si sono messi in testa ch'io sia ricco, ciascuno se ne giova pei suoi fini...
La prima volta però che s'arrischiò a
fare velatamente queste lagnanze allo stesso medico, Saleni, un altro dottorone ch'era
peggio di Tavuso, buon'anima, gli piantò in faccia gli occhiacci, e rispose burbero:
- Allora perché mi chiamate?
Dovette anche pregarlo e scongiurarlo di
continuare a fare il comodo suo, quantunque non giovasse a nulla. La vigilia
dell'Immacolata parve proprio che la povera Bianca volesse rendere l'anima a Dio. Il
marito ch'era andato ad aspettare il medico sulla scala gli disse subito:
- Non mi piace, dottore! Stasera mia
moglie non mi piace!
- Eh! ve ne accorgete soltanto adesso? A
me è un pezzo che non mi piace. Credevo che l'aveste capita.
- Ma che non c'è rimedio, vossignoria?
Fate tutto ciò che potete. Non guardate a spesa... I denari servono in queste
occasioni!...
- Ah, adesso me lo dite? Adesso capite la
ragione? Me ne congratulo tanto!
Saleni ricominciò la commedia: il polso,
la lingua, quattro chiacchiere seduto ai piedi del letto, col cappello in testa e il
bastone fra le gambe. Poi scrisse la solita ricetta, le solite porcherie che non giovavano
a nulla, e se ne andò lasciando nei guai marito e moglie. La casa era diventata una
spelonca. Tutti che vogavano alla larga. Finanche le serve temevano del contagio. Zacco
era il solo parente che si rammentasse di loro nella disgrazia, dacchè avevano fatto
società per l'appalto dello stradone, tornati amici con don Gesualdo. Egli veniva ogni
giorno insieme a tutta la famiglia, la baronessa impresciuttita e ubbidiente, le figliuole
che empivano la camera, stagionate, grasse e prosperose che sfidavano le cannonate. - Lui
non aveva paura del contagio! Sciocchezze!... Poi, quando si tratta di parenti!... Quella
sera aveva sentito dire in piazza che la cugina Bianca stava peggio ed era giunto più
presto del solito. - Per distrarre un po' don Gesualdo lo tirò nel vano del balcone, e
cominciò a parlargli dei loro negozi.
- Volete ridere adesso? Il cugino Rubiera
dirà all'asta per gli altri due tronchi di strada!... Sissignore! quella bestia!... Eh?
eh? che ne dite?... Lui che non ha potuto pagarvi ancora i denari della prima donna?...
C'è l'inferno a causa vostra con la moglie che non vuol pagare del suo!... I figliuoli
sì, glieli ha portati in dote!... ma i denari vuol tenerseli per sé! È predestinato
quel povero don Ninì!... E sapete chi comparisce all'asta, eh? volete saperlo?... Canali,
figuratevi!... Canali che fa l'appaltatore in società col barone Rubiera!... Ora s'è
svegliata in tutti quanti la fame del guadagno!... Eh?... Non avevo ragione di dire?...
Non ridete?...
Ma l'amico non gli dava retta, inquieto,
coll'orecchio sempre teso dall'altra parte. Indi si alzò e andò a vedere se Bianca
avesse bisogno di qualche cosa. Essa non aveva bisogno di nulla, guardando fisso con
quegli occhi di creatura innocente, recandosi alla bocca di tanto in tanto il fazzoletto
che ricacciava poi sotto il guanciale insieme alla mano scarna. Le cugine Zacco stavano
sedute in giro dinanzi al letto, colle mani sul ventre. La mamma per rompere il silenzio
balbettò timidamente:
- Sembra un po' più calma... da che siam
qui noi...
Le figliuole a quelle parole guardarono
tutte insieme, e approvarono col capo.
Il barone s'accostò al letto lui pure,
dimostrando molto interesse per l'ammalata:
- Sì, sì, non c'è confronto!...
l'occhio è più sveglio; anche la fisonomia è più animata... Si capisce!... udendo
discorrere intorno a lei... Bisogna distrarla, tenerle un po' di conversazione... Per
fortuna siete in buone mani. Il dottore sa il fatto suo. Poi, quando si hanno dei
mezzi!... quando non manca nulla! Ne conosco tanti altri invece... ben nati... di buona
famiglia... cui manca di giorno il pane e di notte la coperta!... vecchi e malati, senza
medico né speziale...
Si chinò all'orecchio di don Gesualdo e
spifferò il resto. Bianca l'udì o l'indovinò, con gli occhi luminosi che fissavano in
volto la gente, e cavò di sotto il guanciale la mano scarna e pallida che sembrava quella
di una bambina, per far segno al marito d'avvicinarsi. Don Gesualdo s'era chinato su di
lei e accennava di sì col capo. Il barone vedendo che non era più il caso di misteri
parlò chiaro:
- Non verrà! Don Ferdinando è diventato
proprio un ragazzo. Non capisce nulla, poveretto!... Bisogna compatirlo. Diciamola qui,
fra noi parenti... Che gli sarebbe mancato?... Un cognato con tanto di cuore, come questo
qui!...
L'inferma agitò di nuovo in aria quella
mano che parlava da sola.
- Eh? Che dice? Cosa vuole? - domandò il
barone.
Donna Lavinia, la maggiore delle ragazze,
s'era alzata premurosa per servirla in quel che occorresse. Donna Marietta, l'altra
sorella, tirò invece il papà per la falda. Bianca s'era chiusa in un silenzio che le
affilò come un coltello il viso smunto, sì che il barone stesso se ne avvide e mutò
discorso.
- Domeneddio alle volte ci allunga i
giorni per farci provare altri guai... Parlo della baronessa Rubiera, poveretta! Eh?...
Vivere per vedersi disfare sotto i propri occhi la roba che s'è fatta!... senza poter
dire una parola né muovere un dito... eh?... eh? Suo figlio è una bestia. La nuora gli
conta i bocconi che mangia!... Com'è vero Iddio! Non vede l'ora di levarsela dai
piedi!... E lei, no! non vuole andarsene! Vuol vivere apposta per vedere come farà suo
figlio a togliersi dal collo il debito e don Gesualdo... Eh? Ho parlato or ora con vostro
marito dei gran progetti che ha don Ninì pel capo...
Don Gesualdo stava zitto, sopra pensieri.
Poi, siccome il barone aspettava la risposta della cugina Bianca, col risolino fisso in
bocca, brontolò:
- No, non c'è tanto da ridere... Dietro
il paravento dev'essere anche il canonico Lupi.
Zacco rimase interdetto: - Quel briccone?
quell'intrigante?... Come lo sapete?... Chi ve l'ha detto?...
- Nessuno. È un'idea mia. Ma vedrete che
non m'inganno. Del resto non me ne importa nulla! Ho altro pel capo adesso!
Ma il barone non si dava pace: - Che? Non
ve ne importa? Grazie tante! Sapete cosa dicono pure? Che vogliono levarci di mano le
terre del comune!... Dicono che stavolta hanno trovato il modo e la maniera... e che né
voi né io potremo rimediarci, capite?...
Don Gesualdo si strinse nelle spalle.
Sembrava che davvero non gliene importasse nulla di nulla adesso. Il barone a poco a poco
andò calmandosi, in mezzo al coro dei suoi che mormoravano sottovoce contro il canonico.
- Un intrigante!... un imbroglione!... Non
si fa nulla in paese che non voglia ficcarci il naso lui!... - Donna Marietta, più
prudente, tirò il babbo per la falda un'altra volta.
- Scusate! scusate! - aggiunse lui. - Si
chiacchiera per dire qualche cosa... per distrarre l'ammalata... Non si sa di che
parlare... Sapete voi cosa vanno narrando pure i malintenzionati come Ciolla?... che fra
otto giorni si farà la rivoluzione... per spaventare i galantuomini... Vi rammentate, nel
ventuno, eh? don Gesualdo?
- Ah?... Che volete?... La rivoluzione
adesso l'ho in casa!...
- Capisco, capisco... Ma infine, non mi
pare...
La baronessa, che parlava al bisogno, si
rivolse a don Gesualdo, con quella faccia di malaugurio, chiedendogli se alla duchessa
avessero scritto di sua madre che era in quello stato... Bianca aveva l'orecchio fino
degli ammalati gravi. - No! no! Non c'è premura! - interruppe Zacco. Intanto donna
Lavinia si era alzata per andare a prendere un bicchier d'acqua. Come si udì suonare il
campanello dell'uscio voleva anche correre a vedere chi fosse.
- Una spada a due mani! - esclamò
sottovoce il barone, quasi facesse una confidenza, e sorridendo di compiacimento. - Una
ragazza che in casa vale un tesoro... Giudiziosa!... Per sua cugina Bianca poi si
butterebbe nel fuoco!... - La mamma sorrideva lei pure discretamente. In quella
sopraggiunse la serva ad annunziare che c'era il barone Rubiera con la moglie.
- Lui? Ci vuole una bella faccia tosta!...
- saltò su il barone cercando il cappello che teneva in testa. - Vedrete che viene a
parlarvi di ciò che v'ho detto! Non ci avete un'altra uscita?... per non vederlo in
faccia, quella bestia!...
La sua famiglia toglieva commiato in
fretta e in furia al pari di lui, cercando gli scialli, rovesciando le seggiole, urtandosi
fra di loro, quasi don Ninì stesse per irrompere a mano armata nella camera. La povera
inferma, smarrita in quel parapiglia, si lasciò sfuggire con un filo di voce:
- Per l'amor di Dio... Non ne posso più!
- No... Non potete farne a meno, cugina
mia!... Sono parenti anch'essi!... Vedrete che vengono apposta, onde approfittare
dell'occasione... Finta di farvi una visita... Piuttosto ce ne andremo noi... È giusto...
Chi prima arriva al mulino...
Ma i Rubiera non spuntavano ancora. Don
Gesualdo andò nell'anticamera, dove seppe dalla serva che aspettavano nel salotto, come
avevano sentito che c'erano i Zacco...
- Meglio! - osservò il barone. - Vuol
dire che desidera parlarvi a quattr'occhi, don Ninì!... Allora noi non ci moviamo.
Restiamo a far compagnia alla cugina, intanto che voi fate gli affari vostri... Sentiremo
poi cosa è venuto a dirvi quello sciocco!
La serva aveva portato un lumicino nel
salotto, e in quella semioscurità don Ninì sembrava addirittura enorme, infagottato nel
cappotto, con la sciarpa di lana sino alle orecchie una zazzera sulla nuca che non
tagliava sino a maggio. Donna Giuseppina invece s'era aggobbita, aveva il viso floscio e
grinzoso nel cappuccio rotondo, i capelli di un grigio sudicio mal pettinati, lisciati in
fretta con le mani e fermati dal fazzoletto di seta che portava legato sotto il mento, le
mani corrose e nere, delle mani di buona massaia con le quali gesticolava per difendere
gli interessi del marito, agitandosi nel cappottino seminato di pillacchere, che la
copriva tutta quanta, mostrando in tutta la persona l'incuria e la trascuraggine della
signora ricca che non ha bisogno di parere, della moglie che ha cessato di far figliuoli e
non deve neppure piacere al marito. E sulla bocca sdentata teneva fisso un sorriso di
povera, il sorriso umile di chi viene a sollecitare un favore, mentre don Ninì cercava le
parole, girando il cappellaccio fra le mani, con quella sciarpa sino al naso che gli dava
un aspetto minaccioso. La moglie gli fece animo con un'occhiata, e cominciò lei:
- Abbiamo sentito che la cugina sta
male... Siam corsi subito con Ninì... Infine siamo parenti... dello stesso sangue... Le
questioni... gl'interessi... si sa, in tutte le famiglie... Ma ogni cosa deve mettersi da
banda in certe occasioni... Anche Ninì... poveretto, non si dava pace... Diceva sempre...
Infine vorrei sapere perché...
Don Ninì approvava coi gesti e con tutta
la persona che aveva lasciato cadere sul canapè facendolo scricchiolare; e subito
intavolò il discorso per cui erano venuti - sua moglie volle assolutamente che il cugino
sedesse in mezzo, fra due fuochi. - Abbiamo quell'affare del nuovo appalto, caro don
Gesualdo. Perché dobbiamo farci la guerra fra di noi, dico io? a vantaggio altrui?...
giacchè infine siamo parenti!...
- Sicuro! - interruppe la moglie. - Siamo
venuti per questo... Come sta la cugina?
- Come Dio vuole!... Come ci avessi il
gastigo di Dio sulle spalle!... Non ho testa di pensare agli affari adesso...
- No, no, non voglio che ci pensiate...
Appunto dicevo... dovreste rimettervene a una persona di fiducia... Salvo l'interesse, ben
inteso...
Don Ninì a un tratto si fece scuro in
viso, cacciandosi all'indietro appuntandogli in faccia gli occhi sospettosi:
- Ditemi un po' vi fidate voi di Zacco?
Eh? vi fidate?
Don Gesualdo malgrado il malumore che
aveva in corpo, mosse la bocca a riso, come a dire che non si fidava di nessuno.
- Bene! Se sapeste che roba è
quell'uomo!... Ciò che diceva di voi, prima!... prima di essere pane e cacio con voi!...
Che roba gli scappava di bocca!...
Donna Giuseppina, con le gote gonfie,
stringeva le labbra, quasi per non lasciarselo scappare neppur lei.
- Infine, lasciamo andare! Chiacchiera non
macina al mulino... È parente anche lui!... Dunque torniamo a noi. Perché ci facciamo la
guerra? Perché facciamo campare giudici ed avvocati alle nostre spalle? Cosa sono questi
malumori fra parenti? Per quella miseria che vi devo? Sì, una miseria! Per voi è una
presa di tabacco...
- Scusate, scusate, anche per voi...
Allora interloquì donna Giuseppina,
contando miserie, una famiglia numerosa, sua suocera, la baronessa, finché viveva lei...
- Scusate... Non c'entra... È che i
denari servono, sapete... I miei denari li ho dati a vostro marito.
Don Ninì prese a scusarsi, dinanzi alla
moglie. Certo... i denari se li era fatti prestare... in un momento che aveva persa la
testa... Quando si è giovani... sarebbe meglio tagliarsela la testa, alle volte... Voleva
pagare... col tempo... sino all'ultimo baiocco, senza liti, senza altre spese... appena
chiudeva gli occhi sua madre... Ma era giusto inasprirgli contro la baronessa, santo Dio?
Farle commettere qualche bestialità?...
- Ah? - disse don Gesualdo. - Ah? - E
guardò donna Giuseppina come per chiedere perché non pagasse lei.
Don Ninì imbarazzato guardava ora lui ed
ora la moglie. Essa infine interloquì, troncandogli la parola con un segno del fazzoletto
che aveva tirato fuori dalla borsa.
- Non è questo soltanto... L'affare delle
terre... Non glie ne avete ancora parlato al cugino don Gesualdo?...
- Sì... l'affare delle terre comunali...
- Lo so, - rispose don Gesualdo. -
L'affitto scade in agosto. Chi vorrà dire all'asta, poi...
- No! no!... né voi né io ce le
mangeremo.
- Legge nuova! - interruppe donna
Giuseppina con un sorriso agro. - Le terre non si dànno più in affitto! Il comune le dà
a censo... ai più poveri... Un bocconcino per ciascuno... Saremo tutti possidenti nel
paese, da qui a un po'!... Non lo sapete?
Don Gesualdo drizzò le orecchie, mettendo
da parte un momento i suoi guai. Indi abbozzò un sorriso svogliato.
- Come è vero Dio! - soggiunse il barone
Rubiera. - Ho visto il progetto, sì, al palazzo di città! Dicono che il comune ci
guadagna, e ciascuno avrà il suo pezzo di terra.
Allora don Gesualdo cavò fuori la
tabacchiera, fiutando un agguato.
- Cioè? cioè?
- Don Gesualdo! - chiamò la serva
dall'uscio. - Un momento, vossignoria...
- Fate, fate pure il comodo vostro! -
disse donna Giuseppina. - Non abbiamo premura. Aspetteremo.
- La padrona! Vuol parlare con
vossignoria!
- Eh? Che vogliono? Che dicono? -
L'assalirono subito i Zacco appena don Gesualdo entrò nella stanza dell'inferma. - Son io
che ho mandato a chiamarvi, - disse il barone col sorriso furbo.
Ma lui non rispose, chino sulla moglie, la
quale s'aiutava cogli occhi e con quella povera mano pallida e scarna che diceva per lei:
"No!... Non vi mettete con colui...
se volete darmi retta una volta sola... Non vi mettete insieme con mio cugino Rubiera,
voi!... Guardate che vi parlo in punto di morte!..."
Aveva la voce afonica, gli occhi che
penetravano, così lucenti e fissi. Zacco che si era chinato anche lui sul letto per
udire, esclamò trionfante:
- Benedetta! parla come una che vede al di
là! Non fareste nulla di buono con quell'uomo! Una bestia! Una banderuola! Ciò che vi
dice vostra moglie in un momento come questo è vangelo, don Gesualdo! Ricordatevi bene!
Io mi farei scrupolo a non darle retta, in parola d'onore!...
- E donna Giuseppina? Finta, maligna!... -
aggiunse la Zacco. - Ha abbreviato i giorni della suocera! Non vede l'ora di levarsela
dagli occhi!
- Andate, andate a sentire il resto. Qui
ci siamo noi. Andateci pure, se no vi restano lì fino a domani!
Don Ninì stava ancora seduto sul canapè,
sbuffando dal caldo nella sciarpa di lana, col cappello in testa; e donna Giuseppina si
era alzata per osservare al buio le galanterie disposte in bell'ordine sui mobili: il
servizio da caffè, i fiori di carta sotto le campane di cristallo, l'orologio che segnava
sempre la stessa ora. Vedendo don Gesualdo di ritorno gli disse subito:
- Vi ha fatto chiamare il barone Zacco?
Non c'era motivo... Qui non si fanno misteri...
- Non si fanno misteri! - ripigliò il
marito. - Si tratta di metterci d'accordo... tutti i bene intenzionati... Se è bene
intenzionato anche lui... quel signore!...
- Ma, - osservò don Gesualdo. - se la
cosa è come dite, io non saprei che farci... Cosa volete da me?
Donna Giuseppina si era perfino
trasformata in volto, appuntando in faccia a questo e a quello gli occhi come due spilli,
masticando un sorriso con la bocca nera. Cacciò indietro del tutto il marito, e si prese
tutto per sé il cugino Motta.
- Sì, il rimedio c'è!... c'è! - E
stette un po' a guardarlo fisso per fare più colpo. Poscia, tenendo stretta la borsa fra
le mani gli si accostò con una mossa dei fianchi, in confidenza:
- Si tratta di far prendere le terre a
gente nostra... sottomano... - disse il barone.
- No! no!... Lasciate che gli spieghi
io... Le terre del comune devono darsi a censo, eh? a pezzi e a bocconi perché ogni
villano abbia la sua parte? Va bene! Lasciamoli fare. Anzi, mettiamo avanti, sottomano,
degli altri pretendenti... dei maestri di bottega, della gente che non sa cosa farsene
della terra e non ne caverà neppure i denari del censo. Ci hanno tutti lo stesso diritto,
non è vero? Allora, con un po' di giudizio, anticipando a questo e a quello una piccola
somma... Loro falliscono in capo all'anno, e noi ci pigliamo la terra in compenso del
credito. Avete capito? Bisogna evitare per quanto si può che ci mettano mano i villani.
Quelli non se lo lasciano scappare mai più il loro pezzetto di terra. Ci lasciano le ossa
piuttosto!
Don Gesualdo si alzò di botto, colle
narici aperte, la faccia rianimata a un tratto, e si mise a passeggiare per la stanza.
Poi, tornando in faccia ai due che s'erano alzati pure, sorpresi:
- Questa non viene da voi! - esclamò. -
Questa è buona! Questa so di dove viene!
- Ah! ah! capite? vedete?... - rispose il
barone trionfante. - Prima di tutto bisogna tappare la bocca a Nanni l'Orbo... Col
giudizio... con un po' di denaro... senza far torto a nessuno, ben inteso!... La
giustizia...
- Voi che ci avete mano... Quello è un
imbroglione, un arruffapopolo... capace di aizzarci contro tutto il paese. Voi che ci
avete mano dovreste chiudergli la bocca.
Don Gesualdo tornò a sedersi, pentito
d'essersi lasciato trasportare dal primo movimento, grattandosi il capo.
Ma il barone Zacco, che stava di là
coll'orecchio teso, non seppe più frenarsi.
- Scusate, scusate, signori miei! - disse
entrando. - Se disturbo... se avete da parlare in segreto... Me ne vo... - E si mise a
sedere lui pure, col cappello in testa.
Tacquero tutti, ciascuno sbirciando
sottecchi il compagno, don Ninì col naso dentro la sciarpa, sua moglie colle labbra
strette. Infine disse che le rincresceva tanto della malattia di Bianca. - Proprio! c'è
un lutto nel paese. Ninì è un pezzo che mi predica: Giuseppina mia, dobbiamo andare a
vedere come sta mia cugina... Gl'interessi sono una cosa, ma la parentela poi è
un'altra...
- Dunque, - riprese don Gesualdo, - questa
bella pensata di pigliarci sottomano le terre del comune chi l'ha fatta?
Allora non fu più il caso di fingere.
Donna Giuseppina tornò a discorrere del fermento che c'era in paese, della rivoluzione
che minacciavano. Il barone Zacco si agitò, facendo segno col capo a don Gesualdo.
- Eh? eh? Cosa vi ho detto or ora?...
- Infine... - conchiuse donna Giuseppina,
- è meglio parlarci chiaro e darci la mano tutti quelli che abbiamo da perdere...
E tornò su quella birbonata di sminuzzare
le terre del comune fra i più poveri, in tante briciole, un pizzico per ciascuno, che non
fa male a nessuno!... Essa rideva così che le ballava il ventre dalla bile.
- Ah??? - esclamò il barone pavonazzo in
viso, e cogli occhi fuori dell'orbita. - Ah??? - E non disse altro Don Gesualdo rideva
anche lui.
- Ah? voi ridete, ah?
- Cosa volete che faccia? Non me ne
importa nulla, vi dico!
Donna Giuseppina rimase stupefatta: -
Come!... voi!... - Quindi lo tirò in disparte, vicino al canterano dov'era l'orologio
fermo, parlandogli piano, con le mani negli occhi. Don Gesualdo stava zitto, lisciandosi
il mento, con quel risolino calmo che faceva schiattare la gente. I due baroni da lontano
tenevano gli occhi fissi su di lui, come due mastini. Infine egli scosse il capo.
- No! no! Ditegli al canonico Lupi che
denari non ne metto fuori più per simili pasticci. Le terre se le pigli chi vuole... Io
ho le mie...
Gli altri gli si rivoltarono contro tutti
d'accordo, vociando, eccitandosi l'un l'altro. Zacco, adesso che aveva capito di che si
trattava, scalmanavasi più di tutti: - Una pensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il
miglior modo per evitare quella birbonata di dividere fra i nullatenenti i fondi del
comune!... Capite?... Allora vuol dire che il mio non è più mio, e ciascuno vuole la sua
parte!... - Don Gesualdo, duro, scrollava il capo; badava a ripetere: - No! no! non mi ci
pigliano! - Tutt'a un tratto il barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spinse
verso il canapè quasi volesse mangiarselo, sussurrandogli nell'orecchio:
- Volete sentirla? Volete che ve la canti?
È segno che quello lì ci ha il suo fine per farci rimaner tutti quanti siamo con tanto
di naso!... Lo conosco!...
Le signore Zacco allo strepito s'erano
affacciate sull'uscio dell'anticamera. Successe un istante d'imbarazzo fra i parenti.
Zacco e don Ninì si calmarono di botto, tornando cerimoniosi.
- Scusate! scusate! La cugina Bianca
crederà chissà cosa, al sentirci gridare... per nulla poi!... - Zacco sorrideva
bonariamente, con la faccia ancora infocata. Don Ninì s'avvolgeva di nuovo la sciarpa al
collo. Sua moglie, col sorriso amabile lei pure, tolse commiato.
- Tanti saluti a donna Bianca... Non
vogliamo disturbarla... Speriamo che la Madonna abbia a fare il miracolo... - Don Ninì
con la bocca coperta grugnì anche lui qualche parola che non potè udirsi. - Un momento.
Vengo con voi, - esclamò Zacco. - E fingendo di cercare il cappello e la canna d'India
s'accostò a don Gesualdo nel buio dell'anticamera.
- Sentite... Fate male, in parola d'onore!
Quella è una proposta seria!... Fate male a non intendervi col barone Rubiera!...
- No, non voglio impicci!... Ho tanti
altri fastidi pel capo!... Poi, mia moglie ha detto di no. Avete udito voi stesso.
Il barone stava per montare in furia
davvero!
- Ah!... vostra moglie?... Le date retta
quando vi accomoda! - Ma cambiò tono subito. - Del resto fate voi!... Fate voi, amico
mio!... Aspettate, don Ninì. Veniamo subito. - Sua moglie non la finiva più. Sembrava
che non potesse staccarsi dal letto dell'ammalata, rincalzando la coperta, sprimacciandole
il guanciale, mettendole sotto mano il bicchier d'acqua e le medicine, con la faccia
lunga, sospirando, biasciando avemarie. Voleva pure che restasse la sua ragazza ad
assistere la notte, se mai. Donna Lavinia acconsentiva di tutto cuore, dandosi da fare
anche essa, premurosa, impadronendosi già delle chiavi, vigilando su tutto, come una
padrona.
- No!... - mormorò Bianca con la voce
rauca. - No!... Non ho bisogno di nessuno!... Non voglio nessuno!...
Li seguiva per la camera con l'occhio
inquieto, sospettoso, diffidente, con un certo tono di rancore nella voce cavernosa.
Sforzavasi di mostrarsi più forte, sollevandosi a stento sui gomiti tremanti, cogli omeri
appuntati che sembravano forare la camiciuola da notte. Poscia, appena le Zacco se ne
furono andate, ricadde sfinita, facendo segno al marito d'accostarsi.
- Sentite!... sentite!... Non le voglio
più!... Non le fate venir più quelle donne... Si son messe in testa di darvi moglie...
come se fossi già morta.
E col capo seguitava a far segno di sì,
di sì, che non s'ingannava, col mento aguzzo nell'ombra della gola infossata, mentr'egli,
chino su di lei, le parlava come a una bimba sorridendo, con gli occhi gonfi però.
- Vi portano in casa la Lavinia... Non
vedono l'ora che io chiuda gli occhi... - Lui protestava di no che non gliene importava
nulla della Lavinia, che non voleva più rimaritarsi, che ne aveva visti abbastanza dei
guai. E la poveretta stava ad ascoltarlo tutta contenta, cogli occhi lustri che
penetravano fin dentro, per vedere se dicesse la verità.
- Sentite... ancora... un'altra cosa...
Accennava sempre con la mano, poichè la
voce le mancava, quella voce che sembrava venire da lontano, gli occhi che si velavano a
quando a quando di un'ombra. Aveva fatto anche uno sforzo per sollevarsi, onde passargli
un braccio al collo, come non le restasse che lui per attaccarsi alla vita, agitando il
viso che si era affilato maggiormente, quasi volesse nasconderglielo in petto, quasi
volesse confessarsi con lui. Dopo un momento allentò le braccia, col volto rigido e
chiuso, colla voce mutata:
- Più tardi... Vi dirò poi... Ora non
posso...
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998