Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
Parte terza
Capitolo III
Allorché giunsero alla Salonia
trovarono che tutti gli altri inquilini della fattoria caricavano muli ed asinelli per
fuggirsene. Inutilmente Bomma, che era venuto dalla vigna, lì vicino, si sgolava a
gridare:
- Bestie! s'è una perniciosa!... se ha
una febbre da cavallo! Non si muore di colèra con la febbre!
- Non me ne importa s'è una perniciosa! -
borbottò infine Giacalone. - I medici già son pagati per questo!...
Mastro Nunzio stava male davvero: la morte
gli aveva pizzicato il naso e gli aveva lasciato il segno delle dita sotto gli occhi,
un'ombra di filiggine che gli tingeva le narici assottigliate, gli sprofondava gli occhi e
la bocca sdentata in fondo a dei buchi neri, gli velava la faccia terrea e sporca di peli
grigi. Aprì quegli occhi a stento, udendo suo figlio Gesualdo che gli stava dinanzi al
letto, e disse colla voce cavernosa:
- Ah! sei venuto a vedere la festa,
finalmente?
Santo, come un allocco, stava seduto sullo
scalino dell'uscio, senza dir nulla, coi lucciconi agli occhi. Burgio e sua moglie si
affrettavano a insaccare un po' di grano, per non morir di fame dove andavano, appena
avrebbe chiusi gli occhi il vecchio. Nel cortile c'erano anche le mule cariche di roba.
Don Gesualdo afferrò pel vestito Bomma, il quale stava per andarsene anche lui.
- Che si può fare, don Arcangelo?
Comandate! Tutto quello che si può fare, per mio padre... tutto quello che ho!... Non
guardate a spesa...
- Eh! avrete poco da spendere... Non c'è
nulla da fare... Sono venuto tardi. La china non giova più!... una perniciosa coi
fiocchi, caro voi! Ma però non muore di colèra, e non c'è motivo di spaventare tutto il
vicinato, come fanno costoro!
Il vecchio stava a sentire, cogli occhi
inquieti e sospettosi in fondo alle orbite nere. Guardava Gesualdo che si affannava
intorno al farmacista, Speranza la quale strillava e singhiozzava aiutando il marito ne'
preparativi della partenza, Santo che non si muoveva, istupidito, i nipoti qua e là per
la casa e nel cortile, e Bomma che gli voltava le spalle, scrollando il capo, facendo
gesti d'impazienza. Speranza infine andò a consegnare le chiavi a suo fratello,
seguitando a brontolare:
- Ecco! Mi piace che siete venuto... Così
non direte che vogliamo fare man bassa sulla roba, io e mio marito, appena chiude gli
occhi nostro padre...
- Non sono ancora morto, no! - si lamentò
il vecchio dal suo cantuccio. Allora si alzò come una furia l'altro figliuolo, Santo, con
la faccia sudicia di lagrime, vociando e pigliandosela con tutti quanti:
- Il viatico che non glielo date, razza di
porci?... Che lo fate morire peggio di un cane?...
- Non sono ancora morto! - piagnucolò di
nuovo il moribondo. - Lasciatemi morire in pace, prima!...
- Non è per la roba, no! - gli rispose il
genero Burgio accostandosi al letto e chinandosi sul malato come parlasse a un bambino: -
Anzi è per vostro amore che vogliamo farvi confessare e comunicare prima di chiudere gli
occhi.
- Ah!... ah!... Non vi par l'ora!...
Lasciatemi in pace... lasciatemi!...
Giunse la sera e passò la notte a quel
modo. Mastro Nunzio nell'ombra stava zitto e immobile, come un pezzo di legno; soltanto
ogni volta che gli facevano inghiottire a forza la medicina, gemeva, sputava, e
lamentavasi ch'era amara come il veleno, ch'era morto, che non vedevano l'ora di levarselo
dinanzi. Infine, perché non lo seccassero, voltò il naso contro il muro, e non si mosse
più. - Poteva essere mezzanotte, sebbene nessuno s'arrischiasse ad aprire la finestra per
guardar le stelle. - Speranza ogni tanto s'accostava al malato in punta di piedi, lo
toccava, lo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poi tornava a discorrere sottovoce col
marito che aspettava tranquillamente, accoccolato sullo scalino, dormicchiando. Gesualdo
stava seduto dall'altra parte col mento fra le mani. In fondo allo stanzone si udiva il
russare di Santo. I nipoti erano già partiti colla roba, insieme agli altri inquilini e
un gatto abbandonato s'aggirava miagolando per la fattoria, come un'anima di Purgatorio:
una cosa che tutti alzavano il capo trasalendo, e si facevano la croce al vedere quegli
occhi che luccicavano nel buio, fra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete
sudicia vedevasi sempre l'ombra del berretto del vecchio, gigantesca, che non dava segno
di vita. Poi, tre volte, si udì cantare la civetta.
Quando Dio volle, a giorno fatto, dopo un
pezzo che il giorno trapelava dalle fessure delle imposte e faceva impallidire il lume
posato sulla botte, Burgio si decise ad aprire l'uscio. Era una giornata fosca, il cielo
coperto, un gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei casolari nerastri qua e
là, l'estremità del paese sulla collina in fondo, sembravano sorgere lentamente dalla
caligine, deserti e silenziosi. Non un uccello, non un ronzìo, non un alito di vento.
Solo un fruscìo fuggì spaventato fra le stoppie all'affacciarsi che fece Burgio,
sbadigliando e stirandosi le braccia.
- Massaro Fortunato!... venite qua,
venite! - chiamò in quel punto la moglie colla voce alterata.
Gesualdo chino sul lettuccio del genitore,
lo chiamava, scuotendolo. La sorella, arruffata, discinta, che sembrava più gialla in
quella luce scialba, preparavasi a strillare. Infine Burgio, dopo un momento, azzardò la
sua opinione: - Signori miei, a me sembra morto di cent'anni.
Scoppiò allora la tragedia. Speranza
cominciò a urlare e a graffiarsi la faccia. Santo, svegliato di soprassalto, si dava dei
pugni in testa, fregandosi gli occhi, piangendo come un ragazzo. Il più turbato di tutti
però era don Gesualdo, sebbene non dicesse nulla, guardando il morto che guardava lui
colla coda dell'occhio appannato. Poi gli baciò la mano, e gli coprì la faccia col
lenzuolo. Speranza, inconsolabile, minacciava di correre al paese per buttarsi nella
cisterna, di lasciarsi morir di fame: - Cosa ci fo più al mondo adesso? Ho perso il mio
sostegno! la colonna della casa! - Quel piagnisteo durò la giornata intera. Inutilmente
il marito per consolarla le diceva che don Gesualdo non li avrebbe abbandonati. Erano
tutti figli suoi, orfanelli bisognosi. Santo col viso sudicio guardava or questo e or
quello come aprivano bocca. - No! - s'ostinava Speranza. - È morto, ora, mio padre! Non
c'è nessuno che pensi a noi!
Gesualdo che l'aveva lasciata sfogare un
pezzo tentennando il capo, cogli occhi gonfi, le disse infine:
- Hai ragione!... Non ho fatto mai nulla
per voialtri!... Hai ragione di lagnarti della buona misura!...
- No, - interruppe Burgio. - No! Parole
che scappano nel brucio, cognato.
Intanto bisognava pensare a seppellire il
morto, senza un cane che aiutasse, a pagarlo tant'oro! Un falegname, lì al Camemi, mise
insieme alla meglio quattro asserelle a mo' di bara, e mastro Nardo scavò la buca dietro
la casa. Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colle loro mani. Burgio però
stava a vedere da lontano, timoroso del contagio, e sua moglie piagnucolava che non le
bastava l'animo di toccare il morto. Le faceva male al cuore, sì! Dopo, asciugatisi gli
occhi, rifatto il letto, rassettata la casa, nel tempo che mastro Nardo preparava le
cavalcature, e aspettavano seduti in crocchio, ella attaccò il discorso serio.
- E ora, come restiamo intesi?
Tutti quanti si guardarono in faccia a
quell'esordio. Massaro Fortunato tormentava la nappa della berretta, e Santo sgranò gli
occhi. Don Gesualdo però non aveva capito l'antifona, col viso in aria, cercava il verbo.
- Come restiamo intesi? Perché? Di che
cosa?
- Per discorrere dei nostri interessi, eh?
Per dividerci l'eredità che ha lasciato quella buon'anima, tanto paradiso! Siamo tre
figliuoli... Ciascuno la sua parte... secondo vi dice la coscienza... Voi siete il
maggiore, voi fate le parti... e ciascuno di noi piglia la sua... Però se ci avete il
testamento... Non dico... Allora tiratelo fuori, e si vedrà.
Don Gesualdo, che era don Gesualdo, rimase
a bocca aperta a quel discorso. Stupefatto, cercava le parole, balbettava:
- L'eredità?... Il testamento?... La
parte di che cosa?...
Allora Speranza infuriò. - Come? Di
questo si parlava. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capo della casa chi era
stato? Sinora aveva avuto le mani in pasta don Gesualdo, vendere, comprare... Ora,
ciascuno doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dio, quelle belle terre, la
Canziria, la Salonia stessa dove avevano i piedi, erano forse piovuti dal cielo? - Burgio,
più calmo, metteva buone parole; diceva che non era quello il momento, col morto ancora
caldo. Tappava la bocca alla moglie; cacciava indietro il cognato Santo, il quale aveva
aperto tanto d'orecchi e vociava: - No, no, lasciatela dire! - Infine volle che si
abbracciassero, lì, nella stanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesualdo era un
galantuomo, un buon cuore. Non l'avrebbe fatta una porcheria. - Non scappate! Sentite qua!
Non è vero? Non siete un galantuomo?
- No! no! Lasciatemi sentire quello che
pretendono. È meglio spiegarsi chiaro.
Ma la sorella non gli dava più retta,
seduta su di un sasso, fuori dell'uscio, borbottando fra di sè. Massaro Fortunato toccò
pure degli altri tasti: il gastigo di Dio che avevano sulle spalle, l'ora che si faceva
tarda. Intanto mastro Nardo tirò fuori la mula dalla stalla. Rimasero ancora un pezzetto
lì fuori a tenersi il broncio. Poi don Gesualdo propose di condurseli tutti a
Mangalavite. Il cognato Burgio serrava l'uscio a chiave, e caricava sul basto i pochi
panni, che aveva raccolti in un fagottino. Speranza non rispose subito all'invito del
fratello, sciorinando lo scialle per accingersi alla partenza, guardando di qua e di là,
cogli occhi torvi. Infine spiattellò quel che aveva sullo stomaco:
- A Mangalavite?... No, grazie tante!...
Cosa ci verrei a fare... se dite che è roba vostra?... Sarebbe anche un disturbo per
vostra moglie e la figliuola... due signore avvezze a stare coi loro comodi... Noi
poveretti ci accomodiamo alla meglio... Andremo alla Canziria. Andremo piuttosto alla
fornace del gesso che ha lasciato mio padre, buon'anima... Quella sì!... Colà almeno
saremo a casa nostra. Non direte d'averla comperata coi vostri guadagni la fornace del
gesso!... No, no, sto zitta, massaro Fortunato! Se ne parlerà poi, chi campa. Chi campa
tutto l'anno vede ogni festa. Vi saluto, don Gesualdo. Sarà quel che vuol Dio. Beato quel
poveretto che adesso è tranquillo, sottoterra!...
Brontolava ancora ch'era già in viaggio,
sballottata dall'ambio della cavalcatura, colla schiena curva, e il vento che le gonfiava
lo scialle dietro. Don Gesualdo montò a cavallo lui pure, e se ne andò dall'altra parte,
col cuore grosso dell'ingratitudine che raccoglieva sempre, voltandosi indietro, di tanto
in tanto, a guardare la fattoria rimasta chiusa e deserta, accanto alla buca ancora
fresca, e la cavalcata dei suoi che si allontanavano in fila, uno dopo l'altro, di già
come punti neri nella campagna brulla che s'andava oscurando. Dopo un pezzetto, mastro
Nardo che ci aveva pensato su, fece l'orazione del morto:
- Poveretto! Ha lavorato tanto... per
tirare su i figliuoli... per lasciarli ricchi... Ora è sotto terra! Vi rammentate,
vossignoria, quando è rovinato il ponte, a Fiumegrande, e voleva annegarsi?... Ecco
cos'è il mondo! Oggi a te, domani a me.
Il padrone gli rivolse un'occhiata brusca,
e tagliò corto:
- Zitto, bestia!... Anche tu!...
Potevano essere due ore di notte quando
arrivarono alla Fontana di don Cosimo, con una bella sera stellata, il cielo tutto che
sembrava formicolare attorno a Budarturo, sulla distesa dei piani e dei monti che
s'accennava confusamente. La mula, sentendo la stalla vicina, si mise a ragliare. Allora
abbaiarono dei cani; laggiù in fondo comparvero dei lumi in mezzo all'ombra più fitta
degli alberi che circondavano la casina, e s'udirono delle voci, un calpestìo precipitoso
come di gente che corresse; lungo il sentiero che saliva dalla valle si udì un fruscìo
di foglie secche, dei sassi che precipitarono rimbalzando, quasi alcuno s'inerpicasse
cautamente. Poi silenzio. A un tratto, dal buio, sul limite del boschetto, partì una
voce:
- Ehi, don Gesualdo?
- Ehi, Nanni, che c'è?
Compare Nanni non rispose, mettendosi a
camminare accanto alla mula. Dopo un momento masticò sottovoce, quasi a malincuore:
- C'è che son qui per guardarvi le
spalle!
Don Gesualdo non chiese altro. Scendevano
per la viottola in fila. Nanni l'Orbo aggiunse soltanto, di lì a un po': - Si fece la
festa, eh? - E come il padrone continuava a tacere, conchiuse: - L'ho capito alla cera che
avete, vossignoria. Mondo di guai!... L'uno dopo l'altro! - Giunti alla fontana infine
disse:
- Smontiamo qui, eh? Mastro Nardo se ne
andrà pel viale colle cavalcature, e noi da questa parte, per far più presto.
Don Gesualdo capì subito, e non se lo
fece dire due volte. Andavano in silenzio, lungo il muro, quasi ci vedessero al buio. A un
certo punto l'Orbo accennò delle pietre sparse per terra, una specie di breccia fra le
spine che coronavano il muro, e disse piano: - Vedete, vossignoria? - L'altro affermò col
capo, e scavalcò il chiuso. Nanni l'Orbo coll'acciarino accese un zolfanello e andarono
seguendo le pedate passo passo, sino alla casina. Sotto la finestra di donna Isabella
l'Orbo additò in silenzio l'erba ch'era tutta pesta, quasi ci si fossero davvero sdraiati
degli asini.
- I cani poi come fossero alloppiati! -
osservò compare Nanni con quel fare misterioso. - Se non ero io, che ho l'orecchio
fino... Dicevo a Diodata: Finché manca il padrone bisogna stare coll'orecchio teso, per
guardargli le spalle... Allora ho mandato Nunzio sul ponticello, mentre io con Gesualdo
arrivavo dalla parte del palmento... Sissignore dov'è alloggiata donna Sarina col
nipote... Se i cani sono stati zitti, dicevo fra di me...
- Va bene. Adesso taci. Di lassù
potrebbero udirti.
Il giorno dopo, ricevendo le visite di
condoglianza, vestito di nero, colla barba lunga, appena donna Sarina ebbe fatto l'elogio
del morto e del vivo, asciugandosi gli occhi, rimboccandosi le maniche per correre in
cucina ad aiutare in quello scompiglio, don Gesualdo la fermò nell'andito, senza tanti
complimenti.
- Sapete, donna Sarina?... il servizio che
dovreste farmi sarebbe d'andarvene. Patti chiari e amici cari, non è vero? Ho bisogno di
quelle due stanze... pei miei motivi. Sinora non vi ho detto nulla. Ma voi avrete ammirato
la mia prudenza, eh?
La Cirmena diventò verde. S'aggiustò il
vestito, sorridendo, pigliandola con disinvoltura: - Bene, bene. Ho capito. Una volta che
vi servono quelle due stanzuccie... Se avete i vostri motivi... Anche subito, su due
piedi... colèra o no!... La gente non ha da dire se me ne mandate via in mezzo al
colèra!... Siete il padrone. Ciascuno sa i fatti di casa sua. Soltanto, se permettete,
vado prima a salutare mia nipote. Non so cosa potrebbero pensare se me ne andassi zitta
zitta... Le male lingue, sapete!...
Bianca non arrivava a capacitarsi: - Come?
andarsene via? nel fitto del colèra? Perché? Cos'era stato? - La zia Cirmena adduceva
diversi pretesti strambi: forza maggiore; ciascuno ha i suoi motivi; interessi gravi di
casa; Corrado aveva ricevuto una lettera urgentissima. - Gli rincresce anche a lui,
poveretto. Gli è arrivata fra capo e collo. S'era tanto affezionato a questi luoghi...
Anche poco fa mi diceva: - Zia, oggi è l'ultima passeggiata che andrò a fare alla
sorgente... - Don Gesualdo, fuori dei gangheri, tagliò corto a quei discorsi sciocchi.
- Scusate, donna Sarina. Mia moglie non
capisce più niente... Diventano tutti così nella sua famiglia... Doveva toccare a me!...
Isabella invece s'era fatta pallida come
un cadavere. Ma non si mosse, non disse nulla, una vera Trao, col viso fermo e
impenetrabile. Ricambiava anche gli abbracci e i saluti affettuosi della zia, sforzandosi
di sorridere, con una ruga sottile fra le ciglia. Poi, quando fu sola, a un tratto, con un
gesto disperato, si strappò la gorgierina che la soffocava, con un'onda di sangue al
volto, un abbarbagliamento improvviso dinanzi agli occhi, una fitta, uno spasimo acuto che
la fece vacillare, annaspando, fuori di sé.
Voleva vederlo, l'ultima volta, a
qualunque costo, quando tutti sarebbero stati a riposare, dopo mezzogiorno, e che alla
casina non si moveva anima viva. La Madonna l'avrebbe aiutata: - La Madonna!... la
Madonna!... - Non diceva altro, con una confusione dolorosa nelle idee, la testa in
fiamme, il sole che le ardeva sul capo, gli occhi che le abbruciavano, una vampa nel cuore
che la mordeva, che le saliva alla testa, che l'accecava, che la faceva delirare: -
Vederlo! a qualunque costo!... Domani non lo vedrò più!... più!... più!... - Non
sentiva le spine; non sentiva i sassi del sentiero fuori mano che aveva preso per arrivare
di nascosto sino a lui. Ansante, premendosi il petto colle mani, trasalendo a ogni passo,
spiando il cammino con l'occhio ansioso. Un uccelletto spaventato fuggì con uno strido
acuto. La spianata era deserta, in un'ombra cupa. C'era un muricciuolo coperto d'edera
triste, una piccola vasca abbandonata nella quale imputridivano delle piante acquatiche, e
dei quadrati d'ortaggi polverosi al di là del muro, tagliati dai viali abbandonati che
affogavano nel bosco irto di seccumi gialli. Da per tutto quel senso di abbandono, di
desolazione, nella catasta di legna che marciva in un angolo, nelle foglie fradicie
ammucchiate sotto i noci, nell'acqua della sorgente la quale sembrava gemere stillando dai
grappoli di capelvenere che tappezzavano la grotta, come tante lagrime. Soltanto fra le
erbacce del sentiero pel quale lui doveva venire, dei fiori umili di cardo che luccicavano
al sole, delle bacche verdi che si piegavano ondeggiando mollemente, e dicevano: Vieni!
vieni! vieni! Attraversò guardinga il viale che scendeva alla casina, col cuore che le
balzava alla gola, le batteva nelle tempie, le toglieva il respiro. C'erano lì, fra le
foglie secche, accanto al muricciuolo dove lui s'era messo a sedere tante volte, dei brani
di carta abbruciacchiati, umidicci, che s'agitavano ancora quasi fossero cose vive; dei
fiammiferi spenti, delle foglie d'edera strappate, dei virgulti fatti in pezzettini minuti
dalle mani febbrili di lui, nelle lunghe ore d'attesa, nel lavorìo macchinale delle
fantasticherie. S'udiva il martellare di una scure in lontananza; poi una canzone
malinconica che si perdeva lassù, nella viottola. Che agonìa lunga! Il sole abbandonava
lentamente il sentiero; moriva pallido sulla rupe brulla di cui le forre sembravano più
tristi, ed ella aspettava ancora, aspettava sempre.
- Signor don Gesualdo... Venite qua, se
permettete... Ho da parlarvi. - Nanni l'Orbo, continuando a chiamarlo, dall'aia, affettava
di non poter mettere il piede nel cortile, coll'aria misteriosa, finchè il padrone andò
a sentire quel che diavolo volesse, dandogli una buona strapazzata, per cominciare:
- T'ho detto tante volte di non lasciarti
vedere da queste parti! Che diavolo!... Se lo fai apposta...
- Nossignore. Appunto, vi ho chiamato qui
fuori. Dobbiamo parlare da solo a solo, per quel che ho da dirvi... Qui nel giardino.
Siamo aspettati.
C'erano infatti Nunzio e Gesualdo di
Diodata, vestiti da festa, colle mani in tasca, e un fazzolettino nero al collo. Compare
Nanni lo fece notare al padrone. - Il sangue è sangue. Avete da ridirci? Tutti e due...
hanno voluto portare il lutto alla buon'anima di vostro padre... per rispetto, senza
secondi fini... Soltanto, vossignoria potete aiutarli senza mettere mano alla tasca...
Ecco, loro vorrebbero a mezzadria quel pezzo di terra ch'è sotto la fontana. Sono due
bravi ragazzi, laboriosi. Vi somigliano, don Gesualdo... Se date loro qualche
agevolazione, pensate infine che non lo fate per degli estranei!...
Don Gesualdo tentennava, insospettito da
una parte d'esser preso così alla sprovvista, e cedendo nel tempo istesso, suo malgrado,
a quella certa voce interna che gli andava ripicchiando dentro tutti gli argomenti messi
fuori da compare Nanni per persuaderlo. - Infine cosa domandavano?... del lavoro... Lui
che poteva tanto!... Un affare di coscienza!... Avrebbe fatto un buon negozio anche... - A
un certo punto l'Orbo propose di mandare a chiamare Diodata perché dicesse la sua. Don
Gesualdo allora, per levarsi quella noia, per sgravio di coscienza, come diceva
quell'altro fissando i due ragazzoni, che seguivano passo passo colle mani in tasca, senza
aprir bocca, si lasciò scappare: - Be'... be', se si parla soltanto del pezzo di terra
ch'è sotto la fontana... Se non fate come il riccio che poi allarga le spine...
- Sissignore! Che vuol dire! - saltò su
compare Nanni pigliandolo subito in parola. - Quello solo! Mezza salma di terra in tutto.
Possiamo andare a vedere. È qui vicino. Vi metteremo i segnali sotto i vostri occhi,
giacché siete qui, perchè non temiate che vi si rubi... Giusto!... ci abbiamo anche dei
testimoni, vedete... La signorina, lassù, sotto il gran noce...
Don Gesualdo guardò dove diceva l'Orbo, e
si sbiancò subito in viso. A un tratto, mutò cera e maniera, e congedò tutti
bruscamente:
- Va bene, ne parleremo... C'è tempo. Non
si piglia così la gente pel collo, santo e santissimo! Ho detto di sì; ora andatevene!
I due giovani sgattaiolarono mogi mogi a
quella sfuriata, mentre Nanni si cacciava fra le macchie per godersi la scena da lontano.
Don Gesualdo saliva già in fretta pel viale, come avesse vent'anni, sottosopra. Isabella
se lo vide comparire dinanzi all'improvviso con una faccia che quasi la fece tramortire
dallo spavento. Egli non le disse nulla. Se la prese per mano, come una bambina, e se la
portò a casa. Lei si lasciava condurre, come una morta, col cuore morto, senza vedere,
inciampando nei sassi. Solo di tanto in tanto si cacciava la mano nei capelli, quasi
sentisse lì un gran smarrimento, un gran dolore.
Bianca al vederli arrivare a quel modo si
mise a tremare come una foglia. Il marito le consegnò la figliuola con un'occhiata
terribile, tentennando il capo. Ma non disse nulla. Si mise a passeggiare per la stanza,
asciugandosi tratto tratto col fazzoletto il fiele che ci aveva in bocca. Poi aprì
l'uscio di colpo e se ne andò.
Girava da per tutto come un bue infuriato,
sbattendo gli usci, pigliandosela con chi gli capitava. Udivasi ovunque la sua voce che
faceva tremare la casa:
- Nardo, dove sei stato sino ad ora?
T'avevo detto di portarmi quelle forbici alla vigna? - Non sono rientrati ancora i
puledri? Me li farà storpiare quell'animale di Brasi! Gli darò ora il fatto suo, appena
torna! - Di', Santoro? avete terminato di mietere i sommacchi lassù?... Cosa diavolo
avete fatto dunque tutta la giornata?... Appena manca un momento il padrone!... Assassini!
nemici salariati!... - Martino! il lume accendi, Martino, per mungere le pecore! Mi
verserai per terra tutto il latte, così al buio, bestia!... - Ancora non hanno acceso il
lume lassù! Che fanno? Recitano il rosario?... Concetta! Concetta! Siamo ancora al buio!
Cosa diavolo fate? Che casa, appena volto le spalle io!... Che succederà se io chiudo gli
occhi?...
Dopo un po' di tempo tornò a bussare
all'uscio delle donne, e siccome non aprivano subito lo sfondò con un calcio. Bianca
allora si rivoltò inferocita, simile a una chioccia che difende i pulcini, con un viso
che nessuno le aveva mai visto; il viso stralunato dei Trao, in cui gli occhi luccicavano
come quelli di una pazza sul pallore e la magrezza spaventosa, coprendo col suo il corpo
della figliuola ch'era stesa bocconi sul letto, col viso nel guanciale, scossa da sussulti
nervosi.
- Ah! me la volete uccidere dunque? Non vi
basta? Non vi basta? Me la volete uccidere?
Non si riconosceva più, tanto che lo
stesso don Gesualdo rimase sconcertato. Ora cercava di pigliarla colle buone, vinto da uno
sconforto immenso, dall'amarezza di tanta ingratitudine che gli saliva alla gola, colle
ossa rotte, il cuore nero come la pece.
- Avete ragione!... Io sono il tiranno! Ho
il cuore e la pelle dura, io! Sono il bue da lavoro... Se m'ammazzo a lavorare è per
voialtri, capite? A me basterebbe un pezzo di pane e formaggio... Vuol dire che ho
lavorato per buttare ogni cosa in bocca al lupo... il mio sangue e la mia roba!... Avete
ragione!...
Bianca volle balbettare qualche parola.
Allora egli si voltò infuriato contro di lei, con le mani in aria, la bocca spalancata.
Ma non disse nulla. Guardò la figliuola che si era appoggiata tutta tremante alla sponda
del lettuccio, col viso gonfio, le trecce allentate; allora lasciò cadere le braccia e si
mise a passeggiare innanzi e indietro per la camera, picchiando le mani una sull'altra,
soffiando e sbuffando, cogli occhi a terra, quasi cercasse le parole, cercando le maniere
che ci volevano per far capire la ragione a quelle teste dure.
- Via via, Isabella!... È una
sciocchezza, capisci!... È una sciocchezza guastarsi il sangue... Non voglio guastarmi il
sangue... Ho tanti altri guai! Ci ho il cuore grosso!... Vorrei che tu vedessi un po'
quanti guai ci ho in testa!... Ti metteresti a ridere, com'è vero Dio!... Vedresti che
sciocchezza è tutto il resto!... Ancora sei giovane... Certe cose non le capisci... Il
mondo, vedi, è una manica di ladri... Tutti che fanno: levati di lì e dammi il fatto
tuo... Ognuno cerca il suo guadagno... Vedi, vedi... te lo dico?... Se tu non avessi
nulla, nessuno ti seccherebbe... È un negozio, capisci?... Il modo d'assicurarsi il pane
per tutta la vita. Uno che è povero, uomo o donna, sia detto senza offendere nessuno,
s'industria come può... Gira l'occhio intorno; vede quello che farebbe al caso suo... e
allora mette in opera tutti i mezzi per arrivarci, ciascuno come può... Uno, poniamo, ci
mette il casato, e un altro quello che sa fare di meglio... le belle parole, le occhiate
tenere... Ma chi ha giudizio, dall'altra parte, deve badare ai suoi interessi... Vedi come
son sciocchi quelli che piangono e si disperano?...
Il discorso gli morì in bocca dinanzi al
viso pallido e agli occhi stralunati coi quali lo guardava la figliuola. Anche la moglie
non sapeva dir altro:
- Lasciatela stare!... Non vedete
com'è?...
- Come una sciocca è!... - gridò
mastro-don Gesualdo uscendo finalmente fuori dai gangheri. - Come una che non sa e non
vuol sapere!... Ma io non sarò sciocco, no!... Io lo so quello che vuol dire!...
E se ne andò infuriato.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998