Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
Parte prima
Capitolo V
Masi, il garzone, corse a svegliare don
Gesualdo prima dell'alba, con una voce che faceva gelare il sangue nelle vene:
- Alzatevi, vossignoria; ch'è venuto il
manovale da Fiumegrande e vuole parlarvi subito!...
- Da Fiumegrande?... a quest'ora?... -
Mastro-don Gesualdo andava raccattando i panni tastoni, al buio, ancora assonnato, con un
guazzabuglio nella testa. Tutt'a un tratto gridò:
- Il ponte!... Deve essere accaduta
qualche disgrazia!... - Giù nella stalla trovò il manovale seduto sulla panchetta,
fradicio di pioggia, che faceva asciugare i quattro cenci a una fiammata di strame. Appena
vide giungere il padrone, cominciò a piagnucolare di nuovo:
- Il ponte!... Mastro Nunzio, vostro
padre, disse ch'era ora di togliere l'armatura!... Nardo vi è rimasto sotto!...
Era un parapiglia per tutta la casa:
Speranza, la sorella, che scendeva a precipizio, intanto che suo marito s'infilava le
brache; Santo, ancora mezzo ubbriaco, ruzzoloni per la scaletta della botola, urlando
quasi l'accoppassero. Il manovale, a ciascuno che capitava, tornava a dire:
- Il ponte!... l'armatura!... Mastro
Nunzio dice che fu il cattivo tempo!...
Don Gesualdo andava su e giù per la
stalla, pallido, senza dire una parola, senza guardare in viso nessuno, aspettando che
gl'insellassero la mula, la quale spaventata anch'essa sparava calci, e Masi dalla
confusione non riusciva a mettergli il basto. A un certo punto gli andò coi pugni sul
viso, cogli occhi che volevano schizzargli dall'orbita.
- Quando? santo e santissimo!... Non la
finisci più, peste che ti venga!
- Colpa vostra! Ve l'avevo detto! Non sono
imprese per noialtri! - sbraitava la sorella in camicia, coi capelli arruffati, una furia
tale e quale! Massaro Fortunato, più calmo, approvava la moglie, con un cenno del capo,
silenzioso, seduto sulla panchetta, simile a una macina di mulino. - Voi non dite nulla!
state lì come un allocco!
Adesso Speranza inveiva contro suo marito:
- Quando si tratta d'aiutar voi, che pure siete suo cognato!... carico di figliuoli
anche!... allora saltano fuori le difficoltà!... denari non ce ne sono!... i denari che
si son persi nel ponte della malora!
Gesualdo da principio si voltò verso di
lei inviperito, colla schiuma alla bocca. Poscia mandò giù la bile, e si mise a
canterellare mentre affibbiava la testiera della mula: un'allegria che gli mangiava il
fegato. Si fece il segno della croce, mise il piede alla staffa; infine di lassù, a
cavallo, che toccava quasi il tetto col capo, sputò fuori il fatto suo, prima
d'andarsene:
- Avete ragione! M'ha fatto fare dei bei
negozi, tuo marito! La semenza che abbiamo buttato via a Donninga! La vigna che m'ha fatto
piantare dove non nasce neppure erba da pascolo!... Testa fine tuo marito!... M'è toccato
pagarle di tasca mia le vostre belle speculazioni! Ma son stanco, veh, di portare la soma!
L'asino quand'è stanco si corica in mezzo alla via e non va più avanti...
E spronò la mula, che borbottava ancora;
la sorella sbraitandogli dietro, dall'uscio della stalla, finché si udirono i ferri della
cavalcatura sui ciottoli della stradicciuola, nel buio. Il manovale si mise a correre,
affannato, zoppicando; ma il padrone, che aveva la testa come un mulino, non se ne avvide.
Soltanto allorché furono giunti alla chiusa del Carmine, volse il capo all'udire lo
scalpiccìo di lui nella mota, e lo fece montare in groppa. Il ragazzo, colla voce rotta
dall'andatura della mula, ripeteva sempre la stessa cosa:
- Mastro Nunzio disse che era tempo di
togliere l'armatura... Era spiovuto dopo il mezzogiorno... - No, vossignoria, disse mastro
Nardo; lasciamo stare ancora sino a domani... - Disse mastro Nunzio: - tu parli così per
papparti un'altra giornata di paga... - Io intanto facevo cuocere la minestra per gli
uomini... Dal monte si udiva gridare: "La piena! cristiani!..." Mentre Nardo
stava sciogliendo l'ultima fune...
Gesualdo, col viso al vento, frustato
dalla burrasca, spronava sempre la mula colle calcagna, senza aprir bocca. - Eh?... Che
dite, don Gesualdo?... Non rispondete?... - Che non ti casca mai la lingua? - rispose
infine il padrone.
Cominciava ad albeggiare prima di giungere
alla Torretta.
Un contadino che incontrarono spingendo
innanzi l'asinello, pigliandosi l'acquazzone sotto la giacca di cotonina, col fazzoletto
in testa e le mani nelle tasche, volle dire qualche cosa; accennava laggiù, verso il
fiume, mentre il vento si portava lontano la voce. Più in là una vecchierella
raggomitolata sotto un carrubbio si mise a gridare:
- Non potete passare, no!... Il fiume!...
badate!...
In fondo, nella nebbia del fiume e della
pioggia, si scorgeva confusamente un enorme ammasso di rovine, come un monte franato in
mezzo al fiume, e sul pilone rimasto in piedi, perduto nella bruma del cielo basso,
qualcosa di nero che si muoveva, delle braccia che accennavano lontano. Il fiume, di qua e
di là dei rottami, straripava in larghe pozze fangose. Più giù, degli uomini messi in
fila, coll'acqua fino al ginocchio, si chinavano in avanti tutti in una volta, e poi
tiravano insieme, con un oooh! che sembrava un lamento.
- No! no! - urlavano i muratori
trattenendo pel braccio don Gesualdo. - Che volete annegarvi, vossignoria?
Egli non rispondeva, nel fango sino a
mezza gamba, andando su e giù per la riva corrosa, coi capelli che gli svolazzavano al
vento. Mastro Nunzio, dall'alto del pilone, gli gridava qualche cosa: delle grida che le
raffiche gli strappavano di bocca e sbrindellavano lontano.
- Che ci fate adesso lassù?... State a
piangere il morto? Lasciate... lasciate andare! - gli rispose Gesualdo dalla riva. Il
rumore delle acque si mangiò anche le sue parole furiose. Il vecchio, in alto, nella
nebbia, accennava sempre di no, testardo. Dell'altra gente gridava anche dalla riva
opposta, sotto gli ombrelloni d'incerata, senza potere farsi intendere, indicando verso il
punto dove gli uomini tiravano in salvo delle travi. A seconda del vento giungevano pure
di lassù, donde veniva la corrente, delle voci che sembravano cadere dal cielo, delle
grida disperate, e un suono di corno rauco.
Gesualdo, curvo sotto l'acquazzone,
sfangando sulla riva, aiutava a tirare in salvo i legnami dell'armatura che la corrente
furiosa seguitava a scuotere e a sfasciare. - A me!... santo Dio!... non vedete che si
porta anche quelli?... - A un certo punto barcollò e stava per affondare nella melma
spumosa che dilagava.
- Santo diavolone! Che volete lasciarvi
anche la pelle? - urlò il capomastro afferrandolo pel bavero. - Un altro po' strascinate
me pure alla perdizione!
Egli, pallido come un morto, cogli occhi
stralunati, i capelli irti sul capo, quasi colla schiuma alla bocca, rispondeva:
- Lasciatemi crepare! A voi non ve ne
importa!... Dite così perché voi non ci avete il sangue vostro in mezzo a
quell'acqua!... Lasciatemi crepare!
Mastro Nunzio, vedendo smaniare a quel
modo il suo figliuolo, voleva buttarsi a capo fitto giù nella corrente addirittura: - Per
non stare a sentir lui!... Adesso mi dirà ch'è tutta colpa mia!... vedrete!... Non son
padrone di muovere un dito in casa mia... Sono padrone da burla... Allora è meglio
finirla in una volta!... - E andava tentando l'acqua col piede.
- Sentite! - interruppe il figliuolo con
voce sorda. - Lasciatemi in pace anche voi! Io v'ho lasciato fare, voi! Avete voluto che
prendessi l'appalto del ponte... per non stare in ozio... Vedete com'è andata a
finire!... E bisogna tornare da capo, se non voglio perdere la cauzione... Potevate
starvene quieto e tranquillo a casa... Che vi facevo mancare?... Lasciatemi in pace
almeno. Tanto, voi non ci avete perso nulla...
- Ah! Non ci ho perso nulla?... Sapevo
bene che glielo avresti rinfacciato... a tuo padre!... Già non conto più nulla io! Non
so far più nulla!... Ti ho fatto quel che sei!... Come se non fossi il capo di casa!...
come se non conoscessi il mio mestiere!...
- Ah!... il vostro mestiere?... perché
avevate la fornace del gesso?... e mi è toccato ricomprarvela due volte anche!... vi
credete un ingegnere!... Ecco il bel mestiere che sapete fare!...
Mastro Nunzio guardò infuriato il suo
figliuolo, annaspando, agitando le labbra senza poter proferire altre parole, strabuzzando
gli occhi per tornare a cercare il posto migliore da annegarsi, e infine brontolò:
- E allora perché mi trattieni?...
Perché non vuoi che mi butti nel fiume? perché?
Gesualdo cominciò a strapparsi i capelli,
a mordersi le braccia, a sputare in cielo. Poscia gli si piantò in faccia disperato,
scuotendogli le mani giunte dinanzi al viso.
- Per l'amor di Dio!... per l'anima di mia
madre!... con questo po' di tegola che m'è cascata fra capo e collo... capite che non ho
voglia di scherzare adesso!...
Il capomastro si intromise per calmarli. -
Infine quel ch'è stato è stato. Il morto non torna più. Colle chiacchiere non si
rimedia a nulla. Piuttosto venite ad asciugarvi tutti e due, che arrischiate di pigliare
un malanno per giunta, così fradici come siete.
Avevano acceso un gran fuoco di giunchi e
di legna rotte, nella capanna. Pezzi di travi su cui erano ancora appiccicate le immagini
dei santi che dovevano proteggere il ponte, buon'anima sua! Mastro Nunzio, il quale
perdeva anche la fede in quella disdetta, ci sputò sopra un paio di volte, col viso
torvo. Tutti piangevano e si fregavano gli occhi dal fumo, intanto che facevano asciugare
i panni umidi. In un canto, sotto quelle quattro tegole rotte, era buttato Nardo, il
manovale che s'era rotta la gamba, sudando e spasimando. Volle mettere anch'egli una buona
parola nel malumore fra padre e figlio:
- Il peggio è toccato a me; - si
lamentò, - che ora rimango storpio e non posso più buscarmi il pane.
Uno dei suoi compagni, vedendo che non
poteva muoversi, gli ammucchiò un po' di strame sotto il capo. Mastro Nunzio, sull'uscio,
coi pugni rivolti al cielo, lanciava fuoco e fiamme.
- Giuda Iscariota! Santo diavolone! Doveva
venire adesso questa grazia di Dio!...
Ciascheduno diceva la sua. Dei vicini,
venuti per vedere; dei viandanti che volevano passare il fiume, e aspettavano, al riparo,
con la schiena alla fiammata.
- Evviva voi! Avete fatto un bel lavoro!
Tanti denari spesi! I denari del comune!... Ora ci tocca aspettare chissà quanto, prima
di vedere un altro ponte... O com'era fatto, di ricotta?
- Questi altri, adesso!... Arrivate giusto
nel buon momento!... Volete che faccia scendere Dio e i santi di lassù?...- sbraitava
mastro Nunzio.
Gesualdo, lui, non diceva nulla, con la
faccia color di terra, seduto su di un sasso, le mani fra le cosce, penzoloni. Quindi
prese a sfogarsi col manovale.
- Guarda quella carogna! Mi lascia fuori
la mula, con questo tempo! Poltronaccio! Nemico del tuo padrone!
- Non vi disperate, vossignoria! -
piagnucolò Nardo dal suo cantuccio. - Finché c'è la salute, il resto è niente!...
Gesualdo gli lanciò addosso un'occhiata
furibonda.
- Parla bene, lui... che non ha nulla da
perdere!...
- No, no, vossignoria!... Non dite così,
che il Signore vi gastiga!...
Mastro Nunzio, appoggiato allo stipite
dell'uscio, stava masticando da un po' la sua idea, fra le gengive sdentate. Infine la
buttò fuori, rivolgendosi verso il figliuolo all'improvviso:
- E sai cos'ho da dirti? Che non ne voglio
più sapere di questo ponte della disgrazia! Piuttosto faremo un mulino, coi materiali che
riusciremo a mettere in salvo... Un affare sicuro quello...
- Un'altra adesso! - saltò su Gesualdo. -
Siete ammattito davvero? E la cauzione? Volete che ci perda anche quella? Se lasciassi
fare a voi!... Quando presi a fabbricare dei mulini, mi toccava sentire che era la
rovina... Ora che vi siete persuaso, non vorreste far altro... come se tutto il paese
dovesse macinarsi le ossa notte e giorno, e le mie prima degli altri!... santo e
santissimo!
La lite s'accese un'altra volta. Mastro
Nunzio che strillava e si lagnava di non esser rispettato. - Vedete se sono un
fantoccio?... un pulcinella?... il capo della casa... signori miei!... guardate un po'!...
- Gesualdo per finirla saltò di nuovo sulla mula, verde dalla bile, e se ne andò mentre
l'acqua veniva ancora giù dal cielo come Dio la mandava, col capo nelle spalle, bagnato
sino alle ossa, il cuore dentro più nero del cielo nuvolo che aveva dinanzi agli occhi;
il paese grigio e triste nella pioggia anch'esso, lassù in cima al monte, col suono del
mezzogiorno che passava a ondate, trasportato dal vento, e si sperdeva in lontananza.
Quanti lo incontravano, conoscendo la
disgrazia che gli era capitata, dimenticavano di salutarlo e tiravano via. Egli guardava
bieco e borbottava di tanto in tanto fra di sé:
- Sono ancora in piedi! Mi chiamo
mastro-don Gesualdo!... Finché sono in piedi so aiutarmi!
Un solo, un povero diavolo, che andava per
la stessa strada, gli offrì di prenderlo sotto l'ombrello. Egli rispose:
- Ci vuol altro che l'ombrello, amico mio!
Non temete, che non ho paura d'acqua e di grandine, io!
Arrivò al paese dopo mezzogiorno. Il
canonico Lupi s'era coricato allora allora, subito dopo pranzo. - Vengo, vengo, don
Gesualdo! - gli gridò dalla finestra, sentendosi chiamare.
Qualcheduno che andava ancora pei fatti
suoi, a quell'ora, vedendolo così fradicio, piovendo acqua come un ombrello, gli disse:
- Eh, don Gesualdo?... che disgrazia!...
Lui duro come un sasso, col sorriso amaro
sulle labbra sottili e pallide, rispondeva:
- Eh, cose che accadono. Chi va all'acqua
si bagna, e chi va a cavallo cade. Ma sinché non v'è uomini morti, a tutto si rimedia.
I più tiravano di lungo, voltandosi per
curiosità dopo ch'erano passati. Il canonico comparve infine sul portoncino,
abbottonandosi la sottana.
- Eh? eh? don Gesualdo? Eccovi qua...
eccovi qua!...
Don Gesualdo s'era fatta una faccia
allegra per quanto poteva, colla febbre maligna che ci aveva nello stomaco.
- Sissignore, eccomi qua! - rispose con un
sorriso che cercò di fare allargare per tutta la faccia scura. - Eccomi qua, come volete
voi... ai vostri comandi... Però, dite la verità, voi parlate col diavolo, eh?
Il canonico finse di non capire: -
Perché? pel ponte? No, in fede mia! Mi dispiace anzi!...
- No, no, non dico pel ponte!... Ma
andiamo di sopra, vossignoria. Non son discorsi da farsi qui, in istrada...
C'era il letto ancora disfatto nella
camera del canonico; tutt'in giro alle pareti un bel numero di gabbioline, dove il
canonico, gran cacciatore al paretaio, teneva i suoi uccelli di richiamo; un enorme
crocifisso nero di faccia all'uscio, e sotto la cassa della confraternita, come una bara
da morto, nella quale erano i pegni dei denari dati a prestito; delle immagini di santi
qua e là, appiccicate colle ostie, insudiciate dagli uccelli, e un puzzo da morire, fra
tutte quelle bestie.
Don Gesualdo cominciò subito a sfogarsi
narrando i suoi guai: il padre che si ostinava a fare di testa sua, per mostrare ch'era
sempre lui il capo, dopo aver dato fondo al patrimonio... Gli era toccato ricomprargliela
due volte la fornace del gesso! E continuava a metterlo in quegli impicci!... E se lui
diceva ahi! quando era costretto a farsi aprire la vena e a lasciarsi cavar dell'altro
sangue per pagare, allora il padre gridava che gli si mancava di rispetto. La sorella ed
il cognato che lo pelavano dall'altra parte. Una bestia, quel cognato Burgio! bestia e
presuntuoso! E chi pagava era sempre lui, Gesualdo!... Suo fratello Santo che mangiava e
beveva alle sue spalle, senza far nulla, da mattina a sera: - Col mio denaro, capite,
vossignoria? col sangue mio! So io quel che mi costa! Quando ho lasciato mio padre nella
fornace del gesso in rovina, che non si sapeva come dar da mangiare a quei quattro asini
del carico, colla sola camicia indosso sono andato via... e un paio di pantaloni che non
tenevano più, per la decenza... senza scarpe ai piedi, sissignore. La prima cazzuola per
incominciare a fare il muratore dovette prestarmela mio zio il Mascalise... E mio padre
che strepitava perché lasciavo il mestiere in cui ero nato... E poi, quando presi il
primo lavoro a cottimo... gridava ch'era un precipizio! Ne ho avuto del coraggio, signor
canonico! Lo so io quel che mi costa! Tutto frutto dei miei sudori, quello che ho... E
quando lo vedo a buttarmelo via, chi da una parte e chi dall'altra!... che volete,
vossignoria! il sangue si ribella!... Ho taciuto sinora per aver la quiete in famiglia...
per mangiare in santa pace un boccone di pane, quando torno a casa stanco... Ma ora non ne
posso più! Anche l'asino quando è stanco si corica in mezzo alla via e non va più
avanti... Voi non sapete che gastigo di Dio è Speranza, mia sorella!... Voglio
finirla!... Ciascuno per casa sua. Dico bene, canonico mio?
Il canonico intanto governava i suoi
uccelli di richiamo. - Se non mi date retta, vossignoria, è inutile che parli!
- Sì, sì, vi ascolto. Che diavolo! non
ci vuole poi un sant'Agostino a capire quel che volete!... In conclusione si tratta di
salvare la cauzione, non è così? di avere qualche aiuto dal comune?
- Sissignore... la cauzione...
Poi Gesualdo gli piantò addosso gli occhi
grigi e penetranti, e riprese:
- E un'altra cosa anche... Vi dicevo che
voglio far casa da me... per conto mio... se trovo la moglie che mi conviene... Ma se non
mi date retta, vossignoria... allora è inutile... O se fingete di non capire... Vi
ricordate?... quel discorso che mi faceste la sera della festa del santo Patrono?... Ma se
fate le viste di non capire, perchè sono venuto qui da voi... quando vi ho detto per
prima cosa... Vi ho detto: "Eccomi qua, come volete voi..."
- Ah!... ah!... - rispose il canonico
alzando il capo come un asino che strappi la cavezza. Poi lasciò stare il nicchio che
andava spolverando attentamente, e gli fissò addosso anche lui i suoi occhi da uomo che
non si lascia mettere nel sacco.
- Sentite, don Gesualdo... questo non è
discorso che venite a farmi adesso, a questa maniera! Allora vuol dire che non conoscete
chi vi è amico e chi vi è nemico, benedetto Dio! Ho piacere che abbiate toccato con mano
se il consiglio che vi ho dato allora era tutt'oro! Una giovane ch'è una perla, avvezza
ad ogni guaio, che l'avreste tutta ai vostri comandi, e di famiglia primaria anche!... la
quale vi farebbe imparentare con tutti i pezzi grossi del paese!... Lo vedete adesso di
che aiuto vi sarebbe? Avreste dalla vostra i giurati e tutti quanti. Anche per l'altra
faccenda della gabella, poi, se volete entrarci insieme a noi...
- Sissignore - rispose Gesualdo vagamente.
- Tante cose si potrebbero fare... Si potrebbe parlarne...
- Si dovrebbe parlarne chiaro, amico mio.
Mi prendete per un ragazzo? Una mano lava l'altra. Aiutami che t'aiuto, dice pure lo
Spirito Santo. Voi, caro don Gesualdo, avete il difetto di credere che tutti gli altri
sien più minchioni di voi. Prima fate lo gnorri, non ci sentite da quell'orecchio, e poi,
al bisogno, quando vi casca la casa addosso, mi venite dinanzi con quella faccia.
- Sarà il caldo... saranno tutti quegli
uccelli... - balbettò l'altro un po' scombussolato. - Vorrei vedervi nei miei panni,
signor canonico! - esclamò infine.
- Nei vostri panni... sicuro... mi ci
metto! Voglio farvi vedere e toccar con mano chi vi vuol bene o no! Eccomi con voi.
Pensiamo a quest'affare del ponte prima... a salvare la cauzione... con un sussidio del
comune. Andremo adesso dal capitano... e dai giurati che non ci sarebbero contrari...
Peccato che il barone Zacco abbia già dei sospetti per l'affare della gabella!...
Lasciatemi pensare...
Mentre terminava di legarsi il mantello al
collo andava raccogliendo le idee, colle sopracciglia aggrottate, guardando in terra di
qua e di là.
- Ecco! Io vo prima dalla signora
Sganci... no! no! non le dico nulla per adesso! qualche parola così in aria... in via
accademica... Mi basta che donna Marianna scriva due righe al capitano. Quanto alla
baronessa Rubiera posso dormire fra due guanciali... è come se fosse la vostra stessa
persona, se mi promettete... Ma badiamo, veh!...
E il canonico sgranò gli occhi. Don
Gesualdo stese la mano verso il crocifisso.
- No, dico per l'altro affare, quello
della gabella. Non vorrei che giuocassimo a scarica barile fra di noi, caro don Gesualdo!
Costui voleva allungare la mano di nuovo;
ma il canonico aveva già infilato l'uscio. - Voi m'aspetterete giù, nel portone. Un
momento, vado e torno.
Tornò fregandosi le mani: - Ve l'avevo
detto. Non ci vede dagli occhi donna Marianna per quella nipote! Farete un affarone!
Appena fuori si imbatterono nel notaro
Neri, che andava ad aprire lo studio, e fece il viso di condoglianza a don Gesualdo. -
Brutto affare, eh? Mi dispiace! - Sotto si vedeva che gongolava. Il canonico, a tagliar
corto, rispose lui: - Cosa da nulla... Il diavolo poi non è così brutto...
Rimedieremo... Abbiamo salvato i materiali... - Dopo, quando furono lontani, e il notaio
con la chiave nella toppa li guardava ancora ridendo, il canonico gli soffiò
nell'orecchio, a mastro-don Gesualdo:
- È che avete una certa faccia, caro
mio!...
- Io?
- Sì. Non ve ne accorgete, ma l'avete! Se
fate quella faccia, tutti vi metteranno i piedi sopra per camminarvi!... Con quella faccia
non si va a chiedere un favore... Aspettatemi qui; salgo un momento dal cavalier Peperito.
È una bestia; ma l'hanno fatto giurato.
Appena il canonico se ne fu andato su per
la scala rotta e scalcinata, arrivò il cavaliere dal poderetto, montato su di un asinello
macilento, con una bisaccia piena di fave dietro. Don Gesualdo per ingraziarselo lo aiutò
a scaricar le fave, e a legar l'asino alla mangiatoia, sotto l'arco della scaletta; ma il
cavaliere parve un po' seccato d'esser stato sorpreso in quell'arnese, tutto infangato, e
col vestito lacero da campagna.
- Non ne facciamo nulla, - disse il
canonico ritornando poco dopo. - È una bestia! Crede di fare il cavaliere sul serio...
Deve avercela con voi... Bisogna trovare la persona. Ciolla? ohi? Ciolla? A voi dico,
Ciolla! Sapete s'è in casa don Filippo? L'avete visto uscire?
Ciolla ammiccò coll'unico occhio,
torcendo ancora la bocca di paralitico.
- No, Canali è ancora lì, da Bomma, che
l'aspetta per condurlo dalla cognata, la ceraiuola, sapete bene? È la loro passeggiata,
dopopranzo... a trastullarsi con lei, dietro lo scaffale... Che c'è di nuovo, don
Gesualdo? Andate a benedire il ponte, insieme al canonico?
Don Gesualdo si sfogò infine con lui,
appuntandogli contro le corna, con tutt'e due le mani.
- Vi stava sulla pancia quel ponte!...
Come aveste dovuto spendere di tasca vostra!...
Il canonico lo tirò per un braccio:
- Andiamo, andiamo! Volete chiudere la
bocca a tutti gli sfaccendati?
Nel salire per la stradicciuola dei
Margarone incontrarono il marchese Limòli, che andava a fare la sua passeggiatina solita
della sera, dal Rosario a Santa Maria di Gesù, sempre solo e con l'ombrello rosso sotto
il braccio. Il canonico, rispondendo alla scappellata cerimoniosa del marchese, ebbe
un'ispirazione.
- Aspettate, aspettate un momento!
Di lì a un po' tornò a raggiungere don
Gesualdo con tutt'altro viso.
- Un gran diavolo quel marchese! Povero
come Giobbe, ma è uno che ha voce in capitolo! S'aiutano fra di loro, tutti in un
gruppo!... una buona parola, alle volte!... fra di loro non possono dir di no... Lo
lascerebbero morir di fame, ma un favore non glielo negano...
Don Filippo era ancora in casa, occupato a
rigar la carta per le aste di Nicolino: - Che buon vento? che buon vento?... - Poscia
vedendo entrare anche don Gesualdo, dietro il canonico, calò di nuovo gli occhiali sul
naso. - Ho tanto da fare!... Ah, sì!... la cauzione?... Volete che il comune vi aiuti a
ripescarla? Volete qualche agevolazione per riprendere i lavori?... Vedremo...
sentiremo... Se l'avete sbagliato la prima volta questo ponte benedetto?... È un affar
grave... Non so di che si tratti... Non sono informato... Da un pezzo che non me ne
occupo... Tanto da fare!... Non ho tempo di soffiarmi il naso... Vedremo... sentiremo...
In quella entrò Canali, il quale veniva a
cercare Margarone, sorpreso di non vederlo all'ora solita. Anch'esso sapeva del ponte, e
sembrava che si divertisse mezzo mondo a prolungare le condoglianze - il veleno che gli
scorreva sotto il faccione giallo: - Ahi! ahi! don Gesualdo!... Era un'impresa grossa!...
Un colpo da mandare ruzzoloni!... C'era troppa carne al fuoco in casa vostra!... - Don
Filippo, ora che aveva l'appoggio, si rivoltò anche lui: - Bisogna fare il passo secondo
la gamba, mio caro!... Volevate pigliare il cielo a pugni... Il posto a chi tocca, caro
amico!... Non bisogna mettersi in testa di dare il gambetto a un paese intero!...
Don Gesualdo allora perse la pazienza. Si
alzò di botto, rosso come un gallo, e aprì la bocca per sfogarsi. Ma il canonico gliela
tappò con una mano. - State zitto! Lasciate dire a me! Sentite qua, don Filippo!
Lo tirò per la falda nell'anticamera. Di
lì a un po' rientrarono a braccetto, don Filippo tornato un pezzo di zucchero con
mastro-don Gesualdo, spalancandogli addosso gli occhioni di bue, quasi lo vedesse allora
per la prima volta: - Vedremo!... Quanto a me... quel che si può fare... Ho parlato nel
vostro interesse, caro don Gesualdo...
Don Gesualdo, scendendo le scale,
brontolava ancora:
- Perché dovrei averli tutti contro?...
Non fo male a nessuno... Fo gli affari miei...
- Eh, caro don Gesualdo! - scappò a dire
infine il canonico. - Gli affari vostri fanno a pugni con gli affari degli altri, che
diavolo!... Apposta bisogna tirarli dalla vostra... Fra di loro si danno la mano... son
tutti parenti... Voi siete l'estraneo... siete il nemico, che diavolo!
Il canonico si fermò su due piedi, in
mezzo alla piazzetta, di fronte al palazzo dei Trao, alto, nero e smantellato, e guardando
fisso don Gesualdo, cogli occhietti acuti di topo che sembrava volessero ficcarglisi
dentro come due spilli, il viso a lama di coltello che sfuggiva da ogni parte:
- Vedete?... quando sarete entrato nel
campo anche voi... Quella è la dote che vi porterebbe donna Bianca!... È denaro sonante
per voi che avete le mani in tanti affari.
Mastro-don Gesualdo tornò a lisciarsi il
mento, come quando stava a combinare qualche negozio con uno più furbo di lui; guardò il
palazzo; guardò poi il canonico, e rispose:
- Però caparra in mano, eh? signor
canonico? Prima voglio vedere come la pigliano i parenti di lei.
- A braccia aperte la pigliano!... ve lo
dico io! Fate conto che il fiume torni a rifarvi il ponte meglio di prima, e andate a
dormirci su.
Nel vicoletto lì accanto, vicino a casa
sua, trovò Diodata che stava aspettandolo colla mantellina in testa, rincantucciata sotto
l'arco del ballatoio, poiché in casa non la volevano, Speranza principalmente, e la
tolleravano soltanto in campagna, pei servigi grossi. Appena la ragazza vide il suo
padrone ricominciò a piangere e a lamentarsi, quasi fosse caduto addosso a lei il ponte:
- Don Gesualdo, che disgrazia! Mi sarei contentata d'annegarmi io piuttosto!... Son venuta
a vedervi, vossignoria... con questa spina che dovete averci in cuore!...
- Quest'altra adesso! Perché sei venuta?
Tutta bagnata sei!... guarda! come le bestie!... dalla Canziria fin qui a piedi!...
apposta per farmi il piagnisteo... Come non ne avessi abbastanza dei miei guai!... Ora
dove vai a quest'ora?
La fece entrare nella stalla. Essa nello
staccarsi dal muro lasciò una pozza d'acqua, lì davanti all'uscio dove era stata ad
aspettare. Anche lui si sentiva le ossa rotte. Per giunta, sua sorella l'accolse come un
cane.
- Siete tornato dalla festa? Avete visto
che bel guadagno?
Poi si rivolse inviperita a suo marito,
nera, magra al par di un chiodo, cogli occhi di carbone, tanto di bocca aperta, quasi
volesse mangiarsi la gente:
- Voi non dite nulla?... A voi non bolle
il sangue?...
Burgio, più pacifico, cercava di
svignarsela, facendo le spalle grosse, chinando il testone di bue.
- Ecco!... Nessuno si dà pensiero dei
guai che ci càpitano!... Io sola mi mangio il fegato!
Il fratello Gesualdo, colla bocca amara,
le andava cantando:
- Lascia stare, Speranza! Lasciami stare,
che ne ho abbastanza, anche senza la tua predica!
- Non volete sentire neppure la predica?
Non volete che mi lamenti? Tanti denari persi!... Che non li guadagnate i vostri denari,
voi?...
Egli per fuggire quella vespa, andava
cercando in cucina qualcosa da mettere sotto il dente, dopo una giornata simile. Frugava
nel cassone del pane. Speranza sempre dietro, come il gastigo di Dio.
- Fra poco, seguitando di questo passo,
non ce ne sarà più del pane nel cassone, no!... e non ci sarà neppure il cassone, non
ci sarà!... La casa se ne andrà tutta al diavolo!...
Santo, che tornava affamato dal
bighellonare in piazza tutta la giornata, al trovare il fuoco spento diede nelle furie,
come un vero animale. I ragazzi che strillavano; tutti i vicini alle finestre per godersi
la scena; tanto che Gesualdo infine perse la pazienza:
- Sapete cosa vi dico? che mi fate fare
uno sproposito! Tante volte ve l'ho predicato!... ora lo fo sul serio, com'è vero Dio!
L'asino quando non ne può più si corica, e buona notte a chi resta!
E se ne andò nella stalla, mentre
Speranza gli strillava dietro:
- Scappate anche? per andare a trovare
Diodata? Vi pare che non l'abbia vista? Mezza giornata che vi aspetta, quella
sfacciata!...
Egli sbatacchiò l'uscio. Da prima non
voleva neppur mangiare, digiuno com'era da ventiquattr'ore, con tutti quei dispiaceri che
gli empivano lo stomaco. Diodata andò a comprargli del pane e del salame, bagnata sino
alle ossa al par di lui, colla gola secca. Lì, sulla panchetta della stalla, dinanzi a
una fiammata di strame, almeno si inghiottiva in pace un po' di grazia di Dio. - Ti piace,
eh, questa bella vita? Ti piace a te? - domandava egli masticando a due palmenti, ancora
imbronciato. Essa stava a vederlo mangiare, col viso arrossato dalla fiamma, e diceva di
sì, come voleva lui, con un sorriso contento adesso. Il giorno finiva sereno. C'era
un'occhiata di sole che spandevasi color d'oro sul cornicione del palazzo dei Trao,
dirimpetto, e donna Bianca la quale sciorinava un po' di biancheria logora, sul terrazzo
che non poteva vedersi dalla piazza, colle mani fine e delicate, la persona che sembrava
più alta e sottile in quella vesticciuola dimessa, mentre alzavasi sulla punta dei piedi
per arrivare alle funicelle stese da un muro all'altro.
- Vedi chi vogliono farmi sposare? - disse
lui. - Una Trao!... e buona massaia anche!... m'hanno detto la verità...
E rimase a guardare, pensieroso,
masticando adagio adagio. Diodata guardava anche lei, senza dir nulla, col cuore grosso.
Passarono le capre belando dal vicoletto. Donna Bianca, come sentisse alfine quegli occhi
fissi su di lei, voltò il viso pallido e sbattuto, e si trasse indietro bruscamente.
- Adesso accende il lume, - riprese don
Gesualdo. - Fa tutto in casa lei. Eh, eh... c'è poco da scialarla in quella casa!... Mi
piace perché è avvezza ad ogni guaio, e l'avrei al mio comando... Tu di', che te ne
pare?
Diodata volse le spalle, andando verso il
fondo della stalla per dare una manciata di biada fresca alla mula, e rispose dopo un
momento, colla voce roca:
- Vossignoria siete il padrone.
- È vero... Ma veh!... che bestia! Devi
aver fame anche tu... Mangia, mangia, poveretta. Non pensar solo alla mula.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998