Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
Parte prima
Capitolo III
La signora Sganci aveva la casa piena
di gente, venuta per vedere la processione del Santo patrono: c'erano dei lumi persino
nella scala; i cinque balconi che mandavano fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo;
don Giuseppe Barabba in gran livrea e coi guanti di cotone, che annunziava le visite.
- Mastro-don Gesualdo! - vociò a un
tratto, cacciando fra i battenti dorati il testone arruffato. - Devo lasciarlo entrare,
signora padrona?
C'era il fior fiore della nobiltà:
l'arciprete Bugno, lucente di raso nero; donna Giuseppina Alòsi, carica di gioie; il
marchese Limòli, con la faccia e la parrucca del secolo scorso. La signora Sganci,
sorpresa in quel bel modo dinanzi a tanta gente, non seppe frenarsi.
- Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo
Motta, si dice! bestia!
Mastro-don Gesualdo fece così il suo
ingresso fra i pezzi grossi del paese, raso di fresco, vestito di panno fine, con un
cappello nuovo fiammante fra le mani mangiate di calcina.
- Avanti, avanti, don Gesualdo! - strillò
il marchese Limòli con quella sua vocetta acre che pizzicava. - Non abbiate suggezione.
Mastro-don Gesualdo però esitava
alquanto, intimidito, in mezzo alla gran sala tappezzata di damasco giallo, sotto gli
occhi di tutti quei Sganci che lo guardavano alteramente dai ritratti, in giro alle
pareti.
La padrona di casa gli fece animo:
- Qui, qui, c'è posto anche per voi, don
Gesualdo.
C'era appunto il balcone del vicoletto,
che guardava di sbieco sulla piazza, per gli invitati di seconda mano ed i parenti poveri:
donna Chiara Macrì, così umile e dimessa che pareva una serva; sua figlia donna
Agrippina, monaca di casa una ragazza con tanto di baffi, un faccione bruno e bitorzoluto
da zoccolante, e due occhioni neri come il peccato che andavano frugando gli uomini. In
prima fila il cugino don Ferdinando, curioso più di un ragazzo, che s'era spinto innanzi
a gomitate, e allungava il collo verso la Piazza Grande dal cravattone nero, al pari di
una tartaruga, cogli occhietti grigi e stralunati, il mento aguzzo e color di filiggine,
il gran naso dei Trao palpitante, il codino ricurvo, simile alla coda di un cane sul
bavero bisunto che gli arrivava alle orecchie pelose; e sua sorella donna Bianca
rincantucciata dietro di lui, colle spalle un po' curve, il busto magro e piatto, i
capelli lisci, il viso smunto e dilavato, vestita di lanetta in mezzo a tutto il parentado
in gala.
La zia Sganci tornò a dire:
- Venite qui, don Gesualdo. V'ho serbato
il posto per voi. Qui, vicino ai miei nipoti.
Bianca si fece in là, timidamente. Don
Ferdinando, temendo d'esser scomodato, volse un momento il capo, accigliato, e mastro-don
Gesualdo si avvicinò al balcone, inciampando, balbettando, sprofondandosi in scuse.
Rimase lì, dietro le spalle di coloro che gli stavano dinanzi, alzando il capo a ogni
razzo che saliva dalla piazza per darsi un contegno meno imbarazzato.
- Scusate! scusate! - sbuffò allora donna
Agrippina Macrì, arricciando il naso, facendosi strada coi fianchi poderosi, assettandosi
sdegnosa il fazzoletto bianco sul petto enorme; e capitò nel crocchio dove era la zia
Cirmena colle altre dame, sul balcone grande, in mezzo a un gran mormorìo, tutte che si
voltavano a guardare verso il balcone del vicoletto, in fondo alla sala.
- Me l'han messo lì... alle costole,
capite!... Un'indecenza!
- Ah, è quello lo sposo! - domandò
sottovoce donna Giuseppina Alòsi, cogli occhietti che sorridevano in mezzo al viso
placido di luna piena.
- Zitto! zitto. Vado a vedere... - disse
la Cirmena, e attraversò la sala - come un mare di luce nel vestito di raso giallo - per
andare a fiutare che cosa si macchinasse nel balcone del vicoletto. Lì tutti sembravano
sulle spine: la zia Macrì fingendo di guardare nella piazza, Bianca zitta in un
cantuccio, e don Ferdinando solo che badava a godersi la festa, voltando il capo di qua e
di là, senza dire una parola.
- Vi divertite qui, eh? Tu ti diverti,
Bianca?
Don Ferdinando volse il capo infastidito;
poi vedendo la cugina Cirmena, borbottò: - Ah... donna Sarina... buona sera! buona sera!
- E tornò a voltarsi dall'altra parte. Bianca alzò gli occhi dolci ed umili sulla zia e
non rispose; la Macrì abbozzò un sorriso discreto.
La Cirmena riprese subito, guardando don
Gesualdo:
- Che caldo, eh? Si soffoca! C'è troppa
gente questa volta..
La cugina Sganci ha invitato tutto il
paese...
Mastro-don Gesualdo fece per tirarsi da
banda.
- No, no, non vi scomodate, caro voi...
Sentite piuttosto, cugina Macrì...
- Signora! signora! - vociò in quel
momento don Giuseppe Barabba, facendo dei segni alla padrona.
- No, - rispose lei, - prima deve passare
la processione.
Il marchese Limòli la colse a volo mentre
s'allontanava, fermandola pel vestito: - Cugina, cugina, levatemi una curiosità: cosa
state almanaccando con mastro-don Gesualdo?
- Me l'aspettavo... cattiva lingua!... -
borbottò la Sganci; e lo piantò lì, senza dargli retta, che se la rideva fra le gengive
nude, sprofondato nel seggiolone, come una mummia maliziosa.
Entrava in quel punto il notaro Neri,
piccolo, calvo, rotondo, una vera trottola, col ventre petulante, la risata chiassosa, la
parlantina che scappava stridendo a guisa di una carrucola. - Donna Mariannina!... Signori
miei!... Quanta gente!... Quante bellezze!... - Poi, scoperto anche mastro-don Gesualdo in
pompa magna, finse di chinarsi per vederci meglio, come avesse le traveggole, inarcando le
ciglia, colla mano sugli occhi; si fece il segno della croce e scappò in furia verso il
balcone grande, cacciandosi a gomitate nella folla, borbottando:
- Questa è più bella di tutte!... Com'è
vero Dio!
Donna Giuseppina Alòsi istintivamente
corse con la mano sulle gioie; e la signora Capitana, che non avendo da sfoggiarne metteva
in mostra altre ricchezze, al sentirsi frugare nelle spalle si volse come una vipera.
- Scusate, scusate; - balbettava il
notaro. - Cerco il barone Zacco.
Dalla via San Sebastiano, al disopra dei
tetti, si vedeva crescere verso la piazza un chiarore d'incendio, dal quale di tratto in
tratto scappavano dei razzi, dinanzi alla statua del santo, con un vocìo di folla che
montava a guisa di tempesta.
- La processione! la processione! -
strillarono i ragazzi pigiati contro la ringhiera. Gli altri si spinsero innanzi; ma la
processione ancora non spuntava. Il cavaliere Peperito, che si mangiava con gli occhi le
gioie di donna Giuseppina Alòsi - degli occhi di lupo affamato sulla faccia magra, folta
di barba turchiniccia sino agli occhi - approfittò della confusione per soffiarle
nell'orecchio un'altra volta:
- Sembrate una giovinetta, donna
Giuseppina! parola di cavaliere!
- Zitto, cattivo soggetto! - rispose la
vedova. - Raccomandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per arrivare.
- Sì, sì, se mi fa la grazia...
Dal seggiolone dove era rannicchiato il
marchese Limòli sorse allora la vocetta fessa di lui:
- Servitevi, servitevi pure! Già son
sordo, lo sapete.
Il barone Zacco, rosso come un peperone,
rientrò dal balcone, senza curarsi del santo, sfogandosi col notaro Neri:
- Tutta opera del canonico Lupi!... Ora mi
cacciano fra i piedi anche mastro-don Gesualdo per concorrere all'asta delle terre
comunali!... Ma non me le toglieranno! dovessi vendere Fontanarossa, vedete! Delle terre
che da quarant'anni sono nella mia famiglia!...
Tutt'a un tratto, sotto i balconi, la
banda scoppiò in un passodoppio furibondo, rovesciandosi in piazza con un'onda di popolo
che sembrava minacciosa. La signora Capitana si tirò indietro arricciando il naso.
- Che odore di prossimo viene di laggiù!
- Capite? - seguitava a sbraitare il
barone Zacco - delle terre che pago già a tre onze la salma! E gli par poco!
Il notaro Neri, che non gli piaceva far
sapere alla gente i fatti suoi, si rivolse alla signora Capitana scollacciata ch'era
un'indecenza, col pretesto che si faceva mandare i vestiti da Palermo, la quale civettava
in mezzo a un gruppo di giovanotti.
- Signora Capitana! signora Capitana!
Così rubate la festa al santo! Tutti gli voltano le spalle!
- Come siete stupidi, tutti quanti! -
rispose la Capitana, gongolante. - Vado a mettermi vicino al marchese, che ha più
giudizio di voi.
- Ahimè! ahimè! signora mia!...
Il marchese, cogli occhietti svegli
adesso, andava fiutandole da presso il profumo di bergamotta tanto che essa doveva
schermirsi col ventaglio, e il vecchietto ad ostinarsi:
- No! no! lasciatemi fare le mie
devozioni!...
L'arciprete prese tabacco, si spurgò,
tossì, infine si alzò, e si mosse per andarsene, gonfiando le gote - le gote lucenti la
sottana lucente, il grosso anello lucente, tanto che le male lingue dicevano fosse falso;
mentre il marchese gli gridava dietro:
- Don Calogero! don Calogero! dico per
dire che diavolo! Alla mia età...
E appena cessarono le risate alla sortita
del marchese, si udì donna Giuseppina Alòsi, che faceva le sue confidenze al cavaliere.
-... come fossi libera, capite! Le due
grandi al Collegio di Maria; il maschio al Seminario; in casa ci ho soltanto l'ultimo,
Sarino, ch'è meno alto di questo ventaglio. Poi i miei figliuoli hanno la roba del loro
padre, buon'anima...
Donna Sarina tornò verso il balcone
grande chiacchierando sottovoce colla cugina Macrì, con delle scrollatine di capo e dei
sorrisetti che volevano dire.
- Però non capisco il mistero che vuol
farne la cugina Sganci!... Siamo parenti di Bianca anche noi, alla fin fine!...
- È quello? quello lì? - tornò a
chiedere donna Giuseppina col sorriso maligno di prima.
La Cirmena accennò di sì, stringendo le
labbra sottili, cogli occhi rivolti altrove, in aria di mistero anch'essa. Infine non si
tenne più:
- Fanno le cose sottomano... come se
fossero delle sudicerie. Capiscono anche loro che manipolano delle cose sporche... Ma la
gente poi non è così sciocca da non accorgersi... Un mese che il canonico Lupi si
arrabatta in questo negozio... un va e vieni fra la Sganci e la Rubiera...
- Non me lo dite! - esclamò Peperito. -
Una Trao che sposa mastro-don Gesualdo!... Non me lo dite!... Quando vedo una famiglia
illustre come quella scendere tanto basso mi fa male allo stomaco, in parola d'onore!
E volse le spalle soffiandosi il naso come
una trombetta nel fazzoletto sudicio, fremendo d'indignazione per tutta la personcina
misera, dopo aver saettato un'occhiata eloquente a donna Giuseppina.
- Chi volete che la sposi?... senza
dote!... - ribatté la Cirmena al cavaliere ch'era già lontano. - Poi, dopo quello ch'è
successo!...
- Almeno si metterà in grazia di Dio! -
osservò piano la zia Macrì. La sua figliuola che stava ad ascoltare senza dir nulla,
fissando in volto a chi parlava quegli occhioni ardenti, scosse la tonaca, quasi avesse
temuto d'insudiciarla fra tante sozzure, e mormorò colla voce d'uomo, colle grosse labbra
sdegnose sulle quali sembrava veder fremere i peli neri, rivolta al chiarore della
processione che s'avvicinava al di sopra dei tetti della via, come un incendio:
- Santo Patrono! Guardatemi voi!
- Queste sono le conseguenze!... La
ragazza si era messa in testa non so che cosa... Un disonore per tutto il parentado!... La
cugina Sganci ha fatto bene a ripararvi... Non dico di no!... Ma avrebbe dovuto parlarne a
noi pure che siamo parenti di Bianca al par di lei... Piuttosto che fare le cose di
nascosto... Scommetto che neppure don Ferdinando ne sa nulla...
- Ma l'altro fratello... don Diego, cosa
ne dice?...
- Ah, don Diego?... sarà a rovistare fra
le sue cartacce... Le carte della lite!... Non pensa ad altro... Crede d'arricchire colla
lite!... Lo vedete che non è uscito di casa neppure per la festa... Poi forse si vergogna
a farsi vedere dalla gente... Tutti così quei Trao... Degli stupidi!... gente che si
troveranno un bel giorno morti di fame in casa, piuttosto di aprir bocca per...
- Il canonico, no! - stava dicendo il
notaro mentre s'avvicinavano al balcone discorrendo sottovoce col barone Zacco. -
Piuttosto la baronessa... offrendole un guadagno... Quella non ha puntiglio!... Del
canonico non ho paura... - E tutto sorridente poi colle signore:
- Ah!... donna Chiara!... La bella monaca
che avete in casa!... Una vera grazia di Dio!...
- Eh, marchese? eh? Chi ve l'avrebbe
detto, ai vostri tempi?... che sareste arrivato a vedere la processione del santo Patrono
spalla a spalla con mastro-don Gesualdo, in casa Sganci! - riprese il barone Zacco, il
quale pensava sempre a una cosa, e non poteva mandarla giù, guardando di qua e di là
cogli occhiacci da spiritato, ammiccando alle donne per farle ridere.
Il marchese, impenetrabile, rispose solo:
- Eh, eh, caro barone! Eh, eh!
- Sapete quanto ha guadagnato nella
fabbrica dei mulini mastro-don Gesualdo? - entrò a dire il notaro a mezza voce in aria di
mistero. - Una bella somma! Ve lo dico io!... Si è tirato su dal nulla... Me lo ricordo
io manovale, coi sassi in spalla... sissignore!... Mastro Nunzio, suo padre, non aveva di
che pagare le stoppie per far cuocere il gesso nella sua fornace... Ora ha l'impresa del
ponte a Fiumegrande!... Suo figlio ha sborsato la cauzione, tutta in pezzi da dodici
tarì, l'un sull'altro... Ha le mani in pasta in tutti gli affari del comune... Dicono che
vuol mettersi anche a speculare sulle terre... L'appetito viene mangiando... Ha un
bell'appetito... e dei buoni denti, ve lo dico io!... Se lo lasciano fare, di qui a un po'
si dirà che mastro-don Gesualdo è il padrone del paese!
Il marchese allora levò un istante la sua
testolina di scimmia; ma poi fece una spallucciata, e rispose, con quel medesimo risolino
tagliente:
- Per me... non me ne importa. Io sono uno
spiantato.
- Padrone?... padrone?... quando saran
morti tutti quelli che son nati prima di lui!... e meglio di lui! Venderò Fontanarossa;
ma le terre del comune non me le toglie mastro-don Gesualdo! Né solo, né coll'aiuto
della baronessa Rubiera!
- Che c'è? che c'è? - interruppe il
notaro correndo al balcone, per sviare il discorso, poiché il barone non sapeva frenarsi
e vociava troppo forte.
Giù in piazza, dinanzi al portone di casa
Sganci, vedevasi un tafferuglio, dei vestiti chiari in mezzo alla ressa, berretti che
volavano in aria, e un tale che distribuiva legnate a diritta e a manca per farsi largo.
Subito dopo comparve sull'uscio dell'anticamera don Giuseppe Barabba, colle mani in aria
strangolato dal rispetto.
- Signora!... signora!...
Era tutto il casato dei Margarone
stavolta: donna Fifì, donna Giovannina, donna Mita, la mamma Margarone, donna Bellonia,
dei Bracalanti di Pietraperzia, nientemeno, che soffocava in un busto di raso verde,
pavonazza, sorridente; e dietro, il papà Margarone, dignitoso, gonfiando le gote,
appoggiandosi alla canna d'India col pomo d'oro, senza voltar nemmeno il capo, tenendo per
mano l'ultimo dei Margarone, Nicolino, il quale strillava e tirava calci perché non gli
facevano vedere il santo dalla piazza. Il papà, brandendo la canna d'India, voleva
insegnargli l'educazione.
- Adesso? - sogghignò il marchese per
calmarlo. - Oggi ch'è festa? Lasciatelo stare quel povero ragazzo, don Filippo!
Don Filippo lasciò stare, limitandosi a
lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia autorevole al ragazzo che non gli badava.
Intanto gli altri facevano festa alle signore Margarone: - Donna Bellonia!... donna
Fifì!... che piacere, stasera!... - Perfino don Giuseppe Barabba, a modo suo,
sbracciandosi a portar delle altre seggiole e a smoccolare i lumi. Poi dal balcone si mise
a fare il telegrafo con qualcuno ch'era giù in piazza, gridando per farsi udire in mezzo
al gran brusìo della folla: - Signor barone! signor barone! - Infine corse dalla padrona,
trionfante:
- Signora! signora! Eccolo che viene! ecco
don Ninì!.
Donna Giuseppina Alòsi abbozzò un
sorrisetto alla gomitata che le piantò nei fianchi il barone Zacco. La signora Capitana
invece si rizzò sul busto - come se sbocciassero allora le sue belle spalle nude dalle
maniche rigonfie.
- Sciocco! Non ne fai una bene! Cos'è
questo fracasso? Non è questa la maniera!
Don Giuseppe se ne andò brontolando.
Ma in quella entrava don Ninì Rubiera, un
giovanotto alto e massiccio che quasi non passava dall'uscio, bianco e rosso in viso, coi
capelli ricciuti, e degli occhi un po' addormentati che facevano girare il capo alle
ragazze. Donna Giovannina Margarone, un bel pezzo di grazia di Dio anch'essa, cinghiata
nel busto al pari della mamma, si fece rossa come un papavero, al vedere entrare il
baronello. Ma la mamma le metteva sempre innanzi la maggiore, donna Fifì, disseccata e
gialla dal lungo celibato, tutta pelosa, con certi denti che sembrava volessero
acchiappare un marito a volo, sopraccarica di nastri, di fronzoli e di gale, come un
uccello raro.
- Fifì vi ha scoperto per la prima in
mezzo alla folla!... Che folla, eh? Mio marito ha dovuto adoperare il bastone per farci
largo. Proprio una bella festa! Fifì ci ha detto: Ecco lì il baronello Rubiera, vicino
al palco della musica...
Don Ninì guardava intorno inquieto. A un
tratto scoprendo la cugina Bianca rincantucciata in fondo al balcone del vicoletto, smorta
in viso, si turbò, smarrì un istante il suo bel colorito fiorente, e rispose
balbettando:
- Sissignora... infatti... sono della
commissione...
- Bravo! bravo! Bella festa davvero! Avete
saputo far le cose bene!... E vostra madre, don Ninì?...
- Presto! presto! - chiamò dal balcone la
zia Sganci. - Ecco qui il santo!
Il marchese Limòli, che temeva l'umidità
della sera, aveva afferrato la mamma Margarone pel suo vestito di raso verde e faceva il
libertino: - Non c'è furia, non c'è furia! Il santo torna ogni anno. Venite qua, donna
Bellonia. Lasciamo il posto ai giovani, noi che ne abbiamo viste tante delle feste!
E continuava a biasciarle delle
barzellette salate nell'orecchio che sembrava arrossire dalla vergogna; divertendosi alla
faccia seria che faceva don Filippo sul cravattone di raso; mentre la signora Capitana,
per far vedere che sapeva stare in conversazione, rideva come una matta, chinandosi in
avanti ogni momento, riparandosi col ventaglio per nascondere i denti bianchi, il seno
bianco, tutte quelle belle cose di cui studiava l'effetto colla coda dell'occhio, mentre
fingeva d'andare in collera allorché il marchese si pigliava qualche libertà soverchia -
adesso che erano soli - diceva lui col suo risolino sdentato di satiro.
- Mita! Mita! - chiamò infine la mamma
Margarone.
- No! no! Non mi scappate, donna
Bellonia!... Non mi lasciate solo con la signora Capitana... alla mia età!... Donna Mita
sa quel che deve fare. È grande e grossa quanto le sue sorelle messe insieme; ma sa che
deve fare la bambina, per non far torto alle altre due.
Il notaro Neri, che per la sua professione
sapeva i fatti di tutto il paese e non aveva peli sulla lingua, domandò alla signora
Margarone:
- Dunque, ce li mangeremo presto questi
confetti pel matrimonio di donna Fifì?
Don Filippo tossì forte. Donna Bellonia
rispose che sino a quel momento erano chiacchiere: la gente parlava perché sapeva don
Ninì Rubiera un po' assiduo con la sua ragazza:
- Nulla di serio. Nulla di positivo... -
Ma le si vedeva una gran voglia di non esser creduta. Il marchese Limòli al solito trovò
la parola giusta:
- Finché i parenti non si saranno
accordati per la dote, non se ne deve parlare in pubblico.
Don Filippo affermò col capo, e donna
Bellonia, vista l'approvazione del marito, s'arrischiò a dire:
- È vero.
- Sarà una bella coppia! - soggiunse
graziosamente la signora Capitana.
Il cavaliere Peperito, onde non stare a
bocca chiusa come un allocco, in mezzo al crocchio dove l'aveva piantato donna Giuseppina
per non dar troppo nell'occhio, scappò fuori a dire:
- Però la baronessa Rubiera non è
venuta!... Come va che la baronessa non è venuta dalla cugina Sganci?
Ci fu un istante di silenzio. Solo il
barone Zacco, da vero zotico, per sfogare la bile che aveva in corpo, si diede la briga di
rispondere ad alta voce, quasi fossero tutti sordi:
- È malata!... Ha mal di testa!... - E
intanto faceva segno di no col capo. Poscia, ficcandosi in mezzo alla gente, a voce più
bassa, col viso acceso:
- Ha mandato mastro-don Gesualdo in vece
sua!... il futuro socio!... sissignore!... Non lo sapete? Piglieranno in affitto le terre
del comune... quelle che abbiamo noi da quarant'anni... tutti i Zacco, di padre in
figlio!...!... Una bricconata! Una combriccola fra loro tre: Padre figliuolo e spirito
santo! La baronessa non ha il coraggio di guardarmi in faccia dopo questo bel tiro che
vogliono farmi... Non voglio dire che sia rimasta a casa per non incontrarsi con me... Che
diavolo! Ciascuno fa il suo interesse... Al giorno d'oggi l'interesse va prima della
parentela... Io poi non ci tengo molto alla nostra... Si sa da chi è nata la baronessa
Rubiera!... E poi fa il suo interesse... Sissignore!... Lo so da gente che può
saperlo!... Il canonico le fa da suggeritore; mastro-don Gesualdo ci mette i capitali, e
la baronessa poi... un bel nulla... l'appoggio del nome!... Vedremo poi quale dei due
conta di più, fra il suo e il mio!... Oh, se la vedremo!... Intanto per provare cacciano
innanzi mastro-don Gesualdo... vedete, lì, nel balcone dove sono i Trao?...
- Bianca! Bianca! - chiamò il marchese
Limòli.
- Io, zio?
- Sì, vieni qua. - Che bella figurina! -
osservò la signora Capitana per adulare il marchese, mentre la giovinetta attraversava la
sala, timida, col suo vestito di lanetta, l'aria umile e imbarazzata delle ragazze povere.
- Sì, - rispose il marchese. - È di
buona razza.
- Ecco! ecco! - si udì in quel momento
fra quelli ch'erano affacciati. - Ecco il santo!
Peperito colse la palla al balzo e si
cacciò a capo fitto nella folla dietro la signora Alòsi. La Capitana si levò sulla
punta dei piedi; il notaro, galante, proponeva di sollevarla fra le braccia. Donna
Bellonia corse a far la mamma, accanto alle sue creature; e suo marito si contentò di
montare su di una sedia, per vedere.
- Cosa ci fai lì con mastro-don Gesualdo?
- borbottò il marchese, rimasto solo colla nipote.
Bianca fissò un momento sullo zio i
grandi occhi turchini e dolci, la sola cosa che avesse realmente bella sul viso dilavato e
magro dei Trao, e rispose:
- Ma... la zia l'ha condotto lì...
- Vieni qua, vieni qua. Ti troverò un
posto io.
Tutt'a un tratto la piazza sembrò
avvampare in un vasto incendio, sul quale si stampavano le finestre delle case, i
cornicioni dei tetti, la lunga balconata del Palazzo di Città, formicolante di gente. Nel
vano dei balconi le teste degli invitati che si pigiavano, nere in quel fondo infuocato; e
in quello di centro la figura angolosa di donna Fifì Margarone, sorpresa da quella luce,
più verde del solito, colla faccia arcigna che voleva sembrar commossa, il busto piatto
che anelava come un mantice, gli occhi smarriti dietro le nuvole di fumo, i denti soli
rimasti feroci; quasi abbandonandosi, spalla a spalla contro il baronello Rubiera, il
quale sembrava pavonazzo a quella luce, incastrato fra lei e donna Giovannina; mentre Mita
sgranava gli occhi di bambina, per non vedere, e Nicolino andava pizzicando le gambe della
gente, per ficcarvi il capo framezzo e spingersi avanti.
- Cos'hai? ti senti male? - disse il
marchese vedendo la nipote così pallida.
- Non è nulla... È il fumo che mi fa
male... Non dite nulla, zio! Non disturbate nessuno!...
Di tanto in tanto si premeva sulla bocca
il fazzolettino di falsa batista ricamato da lei stessa, e tossiva, adagio adagio,
chinando il capo; il vestito di lanetta le faceva delle pieghe sulle spalle magre. Non
diceva nulla, stava a guardare i fuochi, col viso affilato e pallido, come stirato verso
l'angolo della bocca, dove erano due pieghe dolorose, gli occhi spalancati e lucenti,
quasi umidi. Soltanto la mano colla quale appoggiavasi alla spalliera della seggiola era
un po' tremante e l'altra distesa lungo il fianco si apriva e chiudeva macchinalmente:
delle mani scarne e bianche che spasimavano.
- Viva il santo Patrono! Viva san Gregorio
Magno! - Nella folla, laggiù in piazza, il canonico Lupi, il quale urlava come un
ossesso, in mezzo ai contadini, e gesticolava verso i balconi del palazzo Sganci, col viso
in su, chiamando ad alta voce i conoscenti:
- Donna Marianna?... Eh?... eh?...
Dev'esserne contento il baronello Rubiera!... Baronello? don Ninì? siete contento?... Vi
saluto, don Gesualdo! Bravo! bravo! Siete lì!... - Poi corse di sopra a precipizio,
scalmanato, rosso in viso, col fiato ai denti, la sottana rimboccata, il mantello e il
nicchio sotto l'ascella, le mani sudice di polvere, in un mare di sudore: - Che festa, eh!
signora Sganci! - Intanto chiamava don Giuseppe Barabba che gli portasse un bicchier
d'acqua: - Muoio dalla sete, donna Marianna! Che bei fuochi, eh?... Circa duemila razzi!
Ne ho accesi più di duecento con le mie mani sole. Guardate che mani, signor marchese!...
Ah, siete qui, don Gesualdo? Bene! bene! Don Giuseppe? Chissà dove si sarà cacciato quel
vecchio stolido di don Giuseppe:
Don Giuseppe era salito in soffitta, per
vedere i fuochi dall'abbaino, a rischio di precipitare in piazza. Comparve finalmente, col
bicchier d'acqua, tutto impolverato e coperto di ragnateli, dopo che la padrona e il
canonico Lupi si furono sgolati a chiamarlo per ogni stanza.
Il canonico Lupi, ch'era di casa, gli
diede anche una lavata di capo. Poscia, voltandosi verso mastro-don Gesualdo, con una
faccia tutta sorridente:
- Bravo, bravo, don Gesualdo! Son
contentone di vedervi qui. La signora Sganci mi diceva da un pezzo: l'anno venturo voglio
che don Gesualdo venga in casa mia, a vedere la processione!
Il marchese Limòli, il quale aveva
salutato gentilmente il santo Patrono al suo passaggio, inchinandosi sulla spalliera della
seggiola, raddrizzò la schiena facendo un boccaccia.
- Ahi! ahi!... Se Dio vuole è passata
anche questa!... Chi campa tutto l'anno vede tutte le feste.
- Ma di veder ciò che avete visto
stavolta non ve l'aspettate più! - sogghignava il barone Zacco, accennando a mastro-don
Gesualdo. - No! no! Me lo rammento coi sassi in spalla... e le spalle lacere!... sul ponte
delle fabbriche, quest'amicone mio con cui oggi ci troviamo qui, a tu per tu!...
Però la padrona di casa era tutta
cortesie per mastro-don Gesualdo. Ora che il santo aveva imboccato la via di casa sua
sembrava che la festa fosse per lui: donna Marianna parlandogli di questo e di quello; il
canonico Lupi battendogli sulla spalla; la Macrì che gli aveva ceduto persino il posto;
don Filippo Margarone anche lui gli lasciava cadere dall'alto del cravattone complimenti
simili a questi:
- Il nascer grandi è caso, e non
virtù!... Venire su dal nulla, qui sta il vero merito! Il primo mulino che avete
costruito in appalto, eh? coi denari presi in prestito al venti per cento!...
- Sì signore, - rispose tranquillamente
don Gesualdo. - Non chiudevo occhio, la notte.
L'arciprete Bugno, ingelosito dei
salamelecchi fatti a un altro, dopo tutti quegli spari, quelle grida, quel fracasso che
gli parevano dedicati un po' anche a lui, come capo della chiesa, era riuscito a farsi un
po' di crocchio attorno pur esso, discorrendo dei meriti del santo Patrono: un gran
santo!... e una gran bella statua... I forestieri venivano apposta per vederla... Degli
inglesi, s'era risaputo poi, l'avrebbero pagata a peso d'oro, onde portarsela laggiù, fra
i loro idoli... Il marchese che stava per iscoppiare, l'interruppe alla fine:
- Ma che sciocchezze!... Chi ve le dà a
bere, don Calogero? La statua è di cartapesta... una brutta cosa!... I topi ci hanno
fatto dentro il nido... Le gioie?... Eh! eh! non arricchirebbero neppur me, figuratevi!
Vetro colorato... come tante altre che se ne vedono!... un fantoccio da carnevale!... Eh?
Cosa dite?... Sì, un sacrilegio! Il mastro che fece quel santo dev'essere a casa del
diavolo... Non parlo del santo ch'è in paradiso... Lo so, è un'altra cosa... Basta la
fede... Son cristiano anch'io, che diavolo!... e me ne vanto!...
La signora Capitana affettava di guardare
con insistenza la collana di donna Giuseppina Alòsi, nel tempo stesso che rimproverava il
marchese: - Libertino!... libertino! - Peperito s'era tappate le orecchie. L'arciprete
Bugno ricominciò daccapo: - Una statua d'autore!... Il Re, Dio guardi, voleva venderla al
tempo della guerra coi giacobini!... Un santo miracoloso!...
- Che c'è di nuovo, don Gesualdo? -
gridò infine il marchese ristucco, con la vocetta fessa, voltando le spalle
all'arciprete. - Abbiamo qualche affare in aria?
Il barone Zacco si mise a ridere forte,
cogli occhi che schizzavano fuori dell'orbita; ma l'altro, un po' stordito dalla ressa che
gli si faceva attorno, non rispose.
- A me potete dirlo, caro mio, - riprese
il vecchietto malizioso. - Non avete a temere che vi faccia la concorrenza, io!
Al battibecco si divertivano anche coloro
che non gliene importava nulla. Il barone Zacco, poi, figuriamoci! - Eh! eh! marchese!...
Voi non la fate, la concorrenza?... Eh! eh!
Mastro-don Gesualdo volse un'occhiata in
giro su tutta quella gente che rideva, e rispose tranquillamente:
- Che volete, signor marchese?... Ciascuno
fa quel che può...
- Fate, fate, amico mio. Quanto a me, non
ho di che lagnarmene...
Don Giuseppe Barabba si avvicinò in punta
di piedi alla padrona, e le disse in un orecchio, con gran mistero -
- Devo portare i sorbetti, ora ch'è
passata la processione?
- Un momento! un momento! - interruppe il
canonico Lupi, - lasciatemi lavar le mani.
- Se non li porto subito, - aggiunse il
servitore, - se ne vanno tutti in broda. È un pezzo che li ha mandati Giacinto, ed eran
già quasi strutti.
- Va bene, va bene... Bianca?
- Zia...
- Fammi il piacere, aiutami un po' tu.
Dall'uscio spalancato a due battenti
entrarono poco dopo don Giuseppe e mastro Titta, il barbiere di casa, carichi di due gran
vassoi d'argento che sgocciolavano; e cominciarono a fare il giro degli invitati, passo
passo, come la processione anch'essi. Prima l'arciprete, donna Giuseppina Alòsi, la
Capitana, gli invitati di maggior riguardo. Il canonico Lupi diede una gomitata al
barbiere, il quale passava dinanzi a mastro-don Gesualdo senza fermarsi. - Che so io?...
Se ne vedono di nuove adesso!... - brontolò mastro Titta. Il ragazzo dei Margarone
ficcava le dita dappertutto.
- Zio?...
- Grazie, cara Bianca... Ci ho la tosse...
Sono invalido... come tuo fratello...
- Donna Bellonia, lì, sul balcone! -
suggerì la zia Sganci, la quale si sbracciava anche lei a servire gli invitati.
Dopo il primo movimento generale, un
manovrar di seggiole per schivare la pioggia di sciroppo, erano seguiti alcuni istanti di
raccoglimento, un acciottolìo discreto di piattelli, un lavorar guardingo e tacito di
cucchiai, come fosse una cerimonia solenne. Donna Mita Margarone, ghiotta, senza levare il
naso dal piatto. Barabba e mastro Titta in disparte, posati i vassoi, si asciugavano il
sudore coi fazzoletti di cotone.
Il baronello Rubiera il quale stava
discorrendo in un cantuccio del balcone grande naso a naso con donna Fifì, guardandosi
negli occhi, degli occhi che si struggevano come i sorbetti, si scostò bruscamente al
veder comparire la cugina, scolorandosi un po' in viso. Donna Bellonia prese il piattino
dalle mani di Bianca, inchinandosi goffamente:
- Quante gentilezze!... è troppo! è
troppo!
La figliuola finse di accorgersi soltanto
allora della sua amica:
- Oh, Bianca... sei qui?... che
piacere!... M'avevano detto ch'eri ammalata...
- Sì... un po',... Adesso sto bene...
- Si vede... Hai bella cera... E un bel
vestitino anche... semplice!... ma grazioso!...
Donna Fifì si chinò fingendo d'osservare
la stoffa, onde far luccicare i topazii che aveva al collo. Bianca rispose, facendosi
rossa:
- È di lanetta... un regalo della zia...
- Ah!... ah!...
Il baronello ch'era sulle spine propose di
rientrare in sala: - Comincia ad esser umido... Piglieremo qualche malanno...
- Sì!... Fifì! Fifì! - disse la signora
Margarone.
Donna Fifì dovette seguire la mamma,
coll'andatura cascante che le sembrava molto sentimentale, la testolina alquanto piegata
sull'omero, le palpebre che battevano, colpite dalla luce più viva, sugli occhi
illanguiditi come avesse sonno.
Bianca posò la mano sul braccio del
cugino, il quale stava per svignarsela anche lui dal balcone, dolcemente, come una
carezza, come una preghiera; tremava tutta, colla voce soffocata nella gola:
- Ninì!... Senti, Ninì!... fammi la
carità!... Una parola sola!... Son venuta apposta... Se non ti parlo qui è finita per
me... è finita!...
- Bada!... c'è tanta gente!... - esclamò
sottovoce il cugino, guardando di qua e di là cogli occhi che fuggivano. Ella gli teneva
fissi addosso i begli occhi supplichevoli, con un grande sconforto, un grande abbandono
doloroso in tutta la persona, nel viso pallido e disfatto, nell'atteggiamento umile, nelle
braccia inerti che si aprivano desolate.
- Cosa mi rispondi, Ninì?... Cosa mi dici
di fare?... Vedi... sono nelle tue braccia... come l'Addolorata!...
Egli allora cominciò a darsi dei pugni
nella testa, commosso, col cuore gonfio anch'esso, badando a non far strepito e che non
sopraggiungesse nessuno nel balcone. Bianca gli fermò la mano.
- Hai ragione!... siamo due
disgraziati!... Mia madre non mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!... Capisci?
capisci?... Ti pare che non ci pensi a te?... Ti pare che non ci pensi?... La notte... non
chiudo occhio!... Sono un povero disgraziato!... La gente mi crede felice e contento...
Guardava giù nella piazza, ora spopolata,
onde evitare gli occhi disperati della cugina che gli passavano il cuore, addolorato,
cogli occhi quasi umidi anch'esso.
- Vedi? - soggiunse. - Vorrei essere un
povero diavolo... come Santo Motta, laggiù!... nell'osteria di Pecu-Pecu... Povero e
contento!...
- La zia non vuole?
- No, non vuole!... Che posso farci?...
Essa è la padrona!
Si udiva nella sala la voce del barone
Zacco, che disputava, alterato; e poi, nei momenti ch'esso taceva, il cicaleccio delle
signore, come un passeraio, con la risatina squillante della signora Capitana, che faceva
da ottavino.
- Bisogna confessarle tutto, alla zia!...
Don Ninì allungò il collo verso il vano
del balcone, guardingo. Poscia rispose, abbassando ancora la voce:
- Gliel'ha detto tuo fratello... C'è
stato un casa del diavolo!... Non lo sapevi?
Don Giuseppe Barabba venne sul balcone
portando un piattello su ciascuna mano.
- Donna Bianca, dice la zia... prima che
si finiscano...
- Grazie; mettetelo lì, su quel vaso di
fiori...
- Bisogna far presto, donna Bianca. Non ce
n'è quasi più.
Don Ninì allora mise il naso nel
piattello, fingendo di non badare ad altro: - Tu non ne vuoi?
Essa non rispose. Dopo un po', quando il
servitore non era più lì, si udì di nuovo la voce sorda di lei:
- È vero che ti mariti?
- Io?...
- Tu... con Fifì Margarone...
- Non è vero... chi te l'ha detto?...
- Tutti lo dicono.
- Io non vorrei... È mia madre che si è
messa in testa questa cosa... Anche tu... dicono che vogliono farti sposare don Gesualdo
Motta...
- Io?...
- Sì, tutti lo dicono... la zia... mia
madre stessa...
Si affacciò un istante donna Giuseppina
Alòsi, come cercando qualcheduno; e vedendo i due giovani in fondo al balcone, rientrò
subito nella sala.
- Vedi? vedi? - disse lui. - Abbiamo tutti
gli occhi addosso!... Piglia il sorbetto... per amor mio... per la gente che ci osserva...
Abbiamo tutti gli occhi addosso!...
Essa prese dolcemente dalle mani di lui il
piattino che aveva fatto posare sul vaso dei garofani; ma tremava così che due o tre
volte si udì il tintinnìo del cucchiaino il quale urtava contro il bicchiere.
Barabba corse subito dicendo:
- Eccomi! eccomi!
- Un momento! Un momento ancora, don
Giuseppe!
Il baronello avrebbe pagato qualcosa di
tasca sua per trattenere Barabba sul balcone.
- Come vi tratta la festa, don Giuseppe?
- Che volete, signor barone?... Tutto
sulle mie spalle!... la casa da mettere in ordine, le fodere da togliere, i lumi da
preparare... Donna Bianca, qui, può dirlo, che mi ha dato una mano. Mastro Titta fu
chiamato solo pel trattamento. E domani poi devo tornare a scopare e rimettere le
fodere...
Don Giuseppe seguitando a brontolare se ne
andò coi bicchieri vuoti. Dalla sala arrivò il suono di una sghignazzata generale,
subito dopo qualcosa che aveva detto il notaro Neri, e che non si poté intender bene
perché il notaro quando le diceva grosse abbassava la voce.
- Rientriamo anche noi, - disse il
baronello. - Per allontanare i sospetti...
Ma Bianca non si mosse. Piangeva cheta,
nell'ombra; e di tanto in tanto si vedeva il suo fazzoletto bianco salire verso gli occhi.
- Ecco!... Sei tu che fai parlare la gente! - scappò detto al cugino ch'era sulle spine.
- Che te ne importa? - rispose lei. - Che
te ne importa?... Oramai!...
- Sì! sì!... Credi che non ti voglia
più bene?...
Uno struggimento, un'amarezza sconfinata
venivano dall'ampia distesa nera dell'Alìa, dirimpetto, al di là delle case dei Barresi,
dalle vigne e gli oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del
Rosario ancora formicolante di lumi, dal lungo altipiano del Casalgilardo, rotto dall'alta
cantonata del Collegio, dal cielo profondo, ricamato di stelle - una più lucente, lassù,
che sembrava guardasse, fredda, triste, solitaria. Il rumore della festa si dileguava e
moriva lassù, verso San Vito. Un silenzio desolato cadeva di tanto in tanto, un silenzio
che stringeva il cuore. Bianca era ritta contro il muro, immobile; le mani e il viso
smorti di lei sembravano vacillare al chiarore incerto che saliva dal banco del venditore
di torrone. Il cugino stava appoggiato alla ringhiera, fingendo di osservare attentamente
l'uomo che andava spegnendo la luminaria, nella piazza deserta, e il giovane del paratore,
il quale correva su e giù per l'impalcato della musica, come un gattone nero, schiodando,
martellando, buttando giù i festoni e le ghirlande di carta. I razzi che scappavano
ancora di tratto in tratto, lontano, dietro la massa nera del Palazzo di Città, i colpi
di martello del paratore, le grida più rare, stanche e avvinazzate, sembravano spegnersi
lontano, nella vasta campagna solitaria. Insieme all'acre odore di polvere che dileguava,
andava sorgendo un dolce odor di garofani; passava della gente cantando; udivasi un
baccano di chiacchiere e di risate nella sala, vicino a loro, nello schianto di
quell'ultimo addio senza parole.
Nel vano luminoso del balcone passò
un'ombra magra, e si udì la tosserella del marchese Limòli:
- Eh, eh, ragazzi!... benedetti
voialtri!... Sono venuto a veder la festa... ora ch'è passata... Bianca, nipote mia...
bada che l'aria della sera ti farà male...
- No, zio, - rispose lei con voce sorda. -
Si soffoca lì dentro.
- Pazienza!... Bisogna sempre aver
pazienza a questo mondo... Meglio sudare che tossire... Tu, Nino, bada che le signore
Margarone stanno per andarsene.
- Vado, zio.
- Va, va, se no vedrai che denti! Non
vorrei averli addosso neppur io!... E sì che non posso fare lo schifiltoso!... Che
diavolo gli è saltato in corpo a tua madre, di farti sposare quei denti?...
- Ah... zio!...
- Sei uno sciocco! Dovresti lasciarle fare
il diavolo a quattro quanto le pare e piace, a tua madre!... Sei figlio unico!... A chi
vuoi che lasci la roba dopo la sua morte?
- Eh... da qui a trent'anni!... Il tempo
di crepare di fame intanto!... Mia madre sta meglio di voi e di me, e può campare ancora
trent'anni!...
- È vero! - rispose il marchese. - Tua
madre non sarebbe molto contenta di sentirsi lesinare gli anni... Ma è colpa sua.
- Ah! zio mio!... Credetemi ch'è un
brutto impiccio!...
- Càlmati! càlmati!... Consòlati
pensando a chi sta peggio di te.
S'affacciò la signora Capitana, svelta,
irrequieta, guardando sorridente di qua e di là nella strada.
- Mio marito?... Non viene ancora?...
- Il santo non è ancora rientrato -
rispose don Ninì. - Si ode subito il campanone di San Giovanni, appena giunge in chiesa,
e attacca l'altra festa.
Però la gente cominciava ad andarsene di
casa Sganci. Prima si vide uscire dal portone il cavalier Peperito, che scomparve dietro
la cantonata del farmacista Bomma. Un momento dopo spuntò il lanternone che precedeva
donna Giuseppina Alòsi, la quale attraversò la piazza, sporca di carta bruciata e di
gusci di fave e nocciuole, in punta di piedi, colle sottane in mano, avviandosi in su pel
Rosario; e subito dopo, dalla farmacia, scantonò di nuovo l'ombra di Peperito, che le si
mise dietro quatto quatto, rasente al muro. La signora Capitana fece udire una risatina
secca, e il baronello Rubiera confermò:
- È lui!... Peperito!... com'è vero Dio!
Il marchese prese il braccio di sua nipote
e rientrò con lei nella sala. In quel momento mastro-don Gesualdo, in piedi presso il
balcone, discorreva col canonico Lupi. Questi perorando con calore, sottovoce, in aria di
mistero, stringendoglisi addosso, quasi volesse entrargli in tasca col muso di furetto;
l'altro serio, col mento nella mano, senza dire una parola, accennando soltanto col capo
di tratto in tratto. - Tale e quale come un ministro! - sogghignava il barone Zacco. Il
canonico conchiuse con una stretta di mano enfatica, volgendo un'occhiata al barone, il
quale finse di non accorgersene, rosso al par di un gallo. La padrona di casa portava le
mantiglie e i cappellini delle signore, mentre tutti i Margarone in piedi mettevano
sossopra la casa per accomiatarsi.
- To'... Bianca!... Ti credevo già andata
via!... - esclamò donna Fifì col sorriso che mordeva.
Bianca rispose soltanto con un'occhiata
che sembrava attonita, tanto era smarrita e dolente; in quel tempo suo cugino si dava gran
moto fra le mantiglie e i cappellini, a capo basso.
- Un momento! un momento! - esclamò don
Filippo levando il braccio rimastogli libero, mentre coll'altro reggeva Nicolino
addormentato.
Si udiva un tafferuglio nella piazza;
strilli da lontano; la gente correva verso San Giovanni, e il campanone che suonava a
distesa, laggiù.
La signora Capitana rientrò dal balcone
tappandosi le orecchie colle belle mani candide, strillando in falsetto:
- Mio marito!... Si picchiano!...
E si abbandonò sul canapè, cogli occhi
chiusi. Le signore si misero a vociare tutte in una volta; la padrona di casa gridava a
Barabba di scendere a dare il catenaccio giù al portone; mentre donna Bellonia spingeva
le sue ragazze in branco nella camera di donna Mariannina, e il marchese Limòli picchiava
sulle mani della Capitana dei colpettini secchi. Il notaro Neri propose anche di
slacciarla.
- Vi pare?... - diss'ella allora balzando
in piedi infuriata. - Per chi m'avete presa, don asino?
Giunse in quel momento il Capitano,
seguito da don Liccio Papa che sbraitava in anticamera, narrando l'accaduto, - non lo
avrebbero trattenuto in cento.
- La solita storia di ogni anno! - disse
finalmente il signor Capitano, dopo che si fu rimesso vuotando d'un fiato un bicchier
d'acqua. - I devoti di San Giovanni che danno mano al campanone un quarto d'ora prima!...
Soperchierie!... Quelli di San Vito poi che non vogliono tollerare... Legnate da orbi ci
sono state!
- La solita storia di ogni anno! - ripeté
il canonico Lupi. - Una porcheria! La Giustizia non fa nulla per impedire...
Il Capitano in mezzo alla sala,
coll'indice teso verso di lui, sbuffò infine:
- Sentitelo!... Perché non ci andate voi?
Un altro po' facevano la festa a me pure!... Vostro marito ha corso pericolo della vita,
donna Carolina!...
La signora Capitana, col bocchino stretto,
giunse le mani:
- Gesummaria!... Maria Santissima del
pericolo!...
- Stai fresca! - borbottò il notaro
voltandosi in là. - Stai fresca davvero!... se aspetti che tuo marito voglia arrischiare
la pelle per lasciarti vedova!...
Don Ninì Rubiera cercando il cappello
s'imbatté nella cugina, la quale gli andava dietro come una fantasima, stravolta,
incespicando a ogni passo.
- Bada!... - le disse lui. - Bada!... Ci
guardano!... C'è lì don Gesualdo!...
- Bianca! Bianca! Le mantiglie di queste
signore! - gridò la zia Sganci dalla camera da letto dove s'era ficcato tutto lo stormo
dei Margarone.
Essa frugava in mezzo al mucchio, colle
mani tremanti. Il cugino era così turbato anch'esso che seguitava a cercare il suo
cappello lui pure. - Guarda, ce l'ho in testa! Non so nemmeno quello che fo.
Si guardò attorno come un ladro, mentre
ciascuno cercava la sua roba in anticamera, e la tirò in disparte verso l'uscio
- Senti... per l'amor di Dio!... sii
cauta!... Nessuno ne sa nulla... Tuo fratello non sarà andato a raccontarlo... Ed io
neppure... Sai che t'ho voluto bene più dell'anima mia!...
Essa non rispose verbo, gli occhi soli che
parlavano, e dicevano tante cose.
- Non guardarmi con quella faccia,
Bianca!... no!... non guardarmi così... mi tradirei anch'io!...
Donna Fifì uscì col cappello e la
mantiglia, stecchita, le labbra strette quasi fossero cucite; e siccome sua sorella,
giovialona, si voltava a salutare Bianca, la richiamò con la voce stizzosa:
- Giovannina! andiamo! andiamo!
- Meno male questa qui! - borbottò il
baronello. - Ma sua sorella è un castigo di Dio.
La zia Sganci, accompagnando le Margarone
sino all'uscio, disse a mastro-don Gesualdo che si sprofondava in inchini sul
pianerottolo, a rischio di ruzzolare giù per la scala:
- Don Gesualdo, fate il favore...
Accompagnate i miei nipoti Trao... Già siete vicini di casa... Don Ferdinando non ci vede
bene la sera...
- Sentite qua! sentite qua! - gli disse il
canonico.
Zacco non si dava pace; fingeva di cercare
il lampione nelle cassapanche dell'anticamera, per darlo da portare a mastro-don Gesualdo.
- Giacché deve accompagnare donna Bianca... una dei Trao... Non gli sarebbe passato
neppure pel capo di ricevere tanto onore... a mastro-don Gesualdo!... - Però costui non
poteva udire perché aspettava nella piazza, discorrendo col canonico. Solo don Liccio
Papa, il quale chiudeva la marcia colla sciaboletta a tracolla, si mise a ridere: - Ah!
ah!
- Che c'è? - chiese il Capitano, che dava
il braccio alla moglie infagottata. - Che c'è, insubordinato?
- Nulla; - rispose il marchese. - Il
barone Zacco che abbaia alla luna.
Poi, mentre scendeva insieme a Bianca,
appoggiandosi al bastoncino, passo passo, le disse in un orecchio:
- Senti... il mondo adesso è di chi ha
denari... Tutti costoro sbraitano per invidia. Se il barone avesse una figliuola da
maritare, gliela darebbe a mastro-don Gesualdo!... Te lo dico io che son vecchio, e so
cos'è la povertà!...
- Eh? Che cosa? - volle sapere don
Ferdinando, il quale veniva dietro adagio adagio, contando i sassi.
- Nulla... Dicevamo che bella sera, cugino
Trao!
L'altro guardò in aria, e ripeté come un
pappagallo: - Bella sera! bella sera!
Don Gesualdo stava aspettando, lì davanti
al portone, insieme al canonico Lupi che gli parlava sottovoce nella faccia: - Eh? eh? don
Gesualdo?... che ve ne pare? - L'altro accennava col capo, lisciandosi il mento duro di
barba colla grossa mano. - Una perla! una ragazza che non sa altro: casa e chiesa!...
Economa... non vi costerà nulla... In casa non è avvezza a spender di certo!... Ma di
buona famiglia!... Vi porterebbe il lustro in casa!... V'imparentate con tutta la
nobiltà... L'avete visto, eh, stasera?... che festa v'hanno fatto?... I vostri affari
andrebbero a gonfie vele... Anche per quell'affare delle terre comunali... È meglio aver
l'appoggio di tutti i pezzi grossi!...
Don Gesualdo non rispose subito, sopra
pensieri, a capo chino, seguendo passo passo donna Bianca che s'avviava a casa per la
scalinata di Sant'Agata insieme allo zio marchese e al fratello don Ferdinando.
- Sì... sì... Non dico di no... È una
cosa da pensarci... una cosa seria... Temo d'imbarcarmi in un affare troppo grosso, caro
canonico... Quella è sempre una signora... Poi ho tante cose da sistemare prima di
risolvere... Ciascuno sa i propri impicci... Bisogna dormirci sopra. La notte porta
consiglio, canonico mio.
Bianca che se ne andava col cuore stretto,
ascoltando la parlantina indifferente dello zio, accanto al fratello taciturno e
allampanato, udì quelle ultime parole.
La notte porta consiglio. La notte scura e
desolata nella cameretta misera. La notte che si portava via gli ultimi rumori della
festa, l'ultima luce, l'ultima speranza... Come la visione di lui che se ne andava insieme
a un'altra, senza voltarsi, senza dirle nulla, senza rispondere a lei che lo chiamava dal
fondo del cuore, con un gemito, con un lamento d'ammalata, affondando il viso nel
guanciale bagnato di lagrime calde e silenziose.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998