Pietro Verri
Osservazioni sulla tortura
e singolarmente sugli effetti
che produsse all'occasione delle unzioni malefiche
alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630
XIV
Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura,
ed usi odierni di alcuni stati
Né mancarono di tempo in tempo
uomini illuminati, che apertamente mostrarono la disapprovazione loro all'uso della
tortura. Veggasi Cicerone nella citata orazione Pro Silla; egli chiaramente dice: Illa
tormenta moderatur dolor, gubernat natura cujsque tum animi, tum corporis, regit
quaesitor,flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil
veritati locus relinquatur. (La tortura è dominata dallo spasimo, governata dal
temperamento di ciascuno, sì d'animo che di membra; la ordina il giudice, la piega il
livore, la corrompe la speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce
nessun luogo rimane alla verità.) Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co' soli
servi venisse allora costumata. Veggasi S. Agostino dove tratta dell'errore degli umani
giudizj quando la verità è nascosta, de errore humanorum judiciorum dum veritas latet,
ove chiaramente disapprova l'uso della tortura: «Mentre si esamina se un uomo sia
innocente si tormenta, e per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo; non perché
si sappia che sia reo il paziente, ma perché non si sa se sia reo, quindi l'ignoranza del
giudice ricade nell'esterminio dell'innocente». ( Dum quaeritur utrum sit innocens
cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas, non quia illud
commisisse detegitur, sed quia commisisse nescitur, ac per hoc ignorantia judicis
plerumque est calamitas innocentis.) Quintiliano pure accenna la disputa che eravi fra
quei che sostenevano che la tortura è un mezzo di scoprire la verità, e quei che
insegnavano esser questa la cagione di esporre il falso, poiché i pazienti tacendo
mentiscono, e i deboli sforzatamente mentiscono parlando: Sicut in tormentis, qui est
locus frequentissimus cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera
saepe etiam causam falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis
infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca dice: Etiam innocentes cogit
mentiri: Il dolore sforza anche gl'innocenti a mentire. Valerio Massimo tratta pure
della tortura disapprovandola. Principalmente poi il Vives, nel Commentario al citato
passo di S. Agostino, detesta la pratica della tortura ampiamente: io però ne riferirò
soltanto parte. «Io mi maraviglio», dice quest'autore, «che noi Cristiani riteniamo
tuttavia delle usanze gentilesche, e ostinatamente le difendiamo: usanze non solamente
opposte alla carità Cristiana, ma alla stessa umanità». ( Miror Christianos homines
tam multa gentilia et ea non modo charitati et mansuetudini christianae contraria, sed
omni etiam humanitate, mordicus retinere.) Indi soggiunge: «Qual'è mai questa
pretesa necessità di tormentare gli uomini, necessità deplorabile, e che se fosse
fattibile dovrebbe con un rivo di lacrime cancellarsi, se la tortura non è utile, anzi se
se ne può far senza, né perciò ne verrebbe danno alcuno alla sicurezza pubblica? E come
vivono adunque sì gran numero di nazioni anche barbare, come le chiamano i Greci ed i
Latini, le qual nazioni credono feroce e orrenda cosa torturare un uomo, della di cui
reità si dubita?... Non vediamo noi ben sovente degl'infelici che incontrano la morte,
anzi che poter sopportare lo spasimo e si accusano di un delitto non commesso, certi del
supplizio, per evitare la tortura? In vero debbe aver l'animo da carnefice chi può
reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme angosce espresse dallo spasimo di un uomo
che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così iniqua pratica lasciamo noi che
domini sul capo di ciascuno di noi?». ( Quae est enim ista necessitas tam
intollerabilis et tam plangenda, etiam si fieri potest fontibus lacrymarum irriganda, si
nec utilis est, et sine damno rerum publicarum tolli potest? Quomodo vivunt multae gentes
et quidem barbarae, ut Graeci et Latini putant, quae ferum et immane arbitrantur torqueri
hominem, de cujus facinore dubitatur... An non frequentes quotidie videmus, qui mortem
perpeti malint quam tormenta, et fateantur fictum crimen de supplicio certi, ne
torqueantur? Profecto carnifices animos habemus, qui sustinere possumus gemitus et
lacrymas, tanto cum dolore expressas, hominis quem nescimus sit ne nocens. Quidquod
acerbam et per quam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari?) Né fra i
criminalisti medesimi mancò mai un numero di uomini più ragionevoli e colti, che
detestarono l'uso de' tormenti: così lo Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado, Segla,
Rupert, il Weissenbac, il Wesembeccio e simili; l'ultimo chiama la tortura una invenzione
diabolíca portata dall'inferno per torrnentare gli uomini: inventum diabolicum ad
excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum. E il Mattei nel suo trattato De
criminibus ha scritto contro l'uso de tormenti; e il Tommassi dice, che onestamente
confessa che la tortura è cosa iniqua e indegna di un popolo cristiano: iniquam esse
torturam et Christianas respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un
trattato completo scrisse su tal argomento Giovanni Grevio col titolo: Tribunal
reformatum, in quo sanioris et tutioris justitiae via judici Christiano in processu
criminali commonstratur, rejecta et fugata tortura, cujus iniquitatem et multiplicem
fallaciam, atque illicitum inter Christianos usum libera et necessaria dissertatione
aperuit Joannes Grevius ecc. [la Riforma del tribunale, in cui si indica al giudice
cristiano la via di una più sana e più sicura giustizia da seguire nei processi, viene
negata e messa al bando la tortura; la cui iniquità e frequente fallacia e l'ingiusto uso
che se ne fa dai cristiani, Giovanni Grevio ha acclarato in una libera e indispensabile
discussione].
Da questa serie d'autorità sembra bastantemente
chiaro il torto di coloro, che asseriscono che sia un nuovo ritrovato de' moderni filosofi
l'orrore per la tortura; essi non possono aspirare a questa gloria di aver i primi sentita
la voce della ragione e dell'umanità su di tale proposito; ma tanto è antica la
contraddizione a questa barbara costumanza, quanto è antico il ragionare e l'abborrire le
inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno de' moderni filosofi, contento di aver
allegate le autorità di Cicerone, di S. Agostino, di Quintiliano, di Valerio Massimo e
degli altri.
Resta finalmente da conoscere, se quello che
poté praticarsi presso la repubblica degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma, sia
eseguibile ancora ai tempi nostri. Io su tal proposito citerò uno squarcio di quello che
il re di Prussia ha scritto nella dissertazione, Dei motivi di stabilire o d'abrogare
le leggi. «Mi si perdoni», dice il reale autore, «se alzo la voce contro la
tortura; ardisco assumere le parti dell'umanità contro di una usanza indegna de'
Cristiani, indegna di ogni nazione incivilita, e tanto inutile quanto crudele.
Quintiliano, il più saggio e il più eloquente retore, riguarda la tortura come una prova
di temperamento; uno scellerato robusto nega il fatto, un innocente gracile se ne accusa.
È accusato un uomo; vi sono degli indizj, il giudice vuol chiarirsene, si pone lo
sgraziato uomo alla tortura. Se egli è innocente, qual barbarie è ella mai l'avergli
fatto soffrire il martirio? Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare se stesso
indebitamente, quale detestabile inumanità è ella mai quella di opprimere cogli spasimi
i più violenti, e condannare poi al supplizio un cittadino virtuoso? Sarebbe men male
lasciar impuniti venti colpevoli, di quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le
leggi vengono stabilite per il bene de' popoli, come è mai possibile che si tollerino di
tali che prescrivono ai giudici di commettere metodicamente delle azioni tanto atroci, e
che ributtano la stessa umanità? Sono già otto anni (allora che il re scriveva, ora
saranno trenta) dacché la tortura è abolita in Prussia; siamo sicuri di non confondere
il reo coll'innocente, e la giustizia non perciò ha ella perduto punto del suo vigore».
( Qu'on me pardonne si je me recrie contre la question. J'ose prendre le parti de
l'humanité contre un usage honteux à des Chrétiens et à des peuples policés, et,
j'ose ajouter, contre un usage aussi cruel qu'inutile. Quintilien, le plus sage et le plus
éloquent des rhéteurs, dit en traitant de la question, que c'est une affaire de
tempérament: un scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d'une complexion faible
l'avoue. Un homme est accusé, il y a des indices, le juge est dans l'incertitude, il veut
s'éclaircir: ce malheureux est mis à la question. S'il est innocent, quelle barbarie de
lui faire souffrir le martire? Si la force des tourmens l'oblige à déposer contre
lui-meme, quelle inhumanité èpouvantable que d'exposer aux plus violentes douleurs, et
de condamner à la mort un citoyen vertueux, contre lequel il n'y a que des soupçons? Il
vaudrait mieux pardonner à vingts soupables, que de sacrifier un innocent. Si les loix se
doivent établir pour le bien des peuples, faut-il qu'on en tolère de pareilles qui
mettent les juges dans le cas de commettre méthodiquement des actions criantes, qui
révoltent l'humanité? Il y a huit ans que la question est abolie en Prusse: on est súr
de ne point confondre l'innocent et le coupable, et la justice ne s'en fait pas moins.)
Così parla, così attesta uno de' più grandi uomini che sta sul trono. In Prussia, nel
Brandeburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione prussiana non si dà più
tortura di veruna sorta, e la giustizia punisce i rei, e la società vi è sicura.
Nell'Inghilterra già da molto tempo non si tollera più la tortura: la legge condanna a
un genere di morte il reo che ricusa di rispondere al giudice, questa si chiama la
peine forte et dure, ma a torto chiamerebbesi tortura, poiché finisce colla morte e
non è veritatis indagatio per tormentum. Veggasi sul proposito dell'Inghilterra il
barone di Bielfeld. Dacché l'esperienza fa vedere che nell'Inghilterra e nella Prussia i
delitti si discoprono e si puniscono, che la giustizia si esercita e la società non ne
soffre, ella è cosa quasi barbara il non abolire l'uso della tortura. Chiunque ha
viscere, ed abbia una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana, non
può, cred'io, essere di un parere diverso; così egli: Depuis qu'on voit en Angleterre
et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu'ils sont punis, que la justice est
rendue, que la société n'en souffre point, il est presque barbare de ne pas abolir
l'usage de la question. Quiconque a des entrailles, et a vu une fois faire cette violence
à la nature humaine, ne saurait s'empêcher, je pense, d'etre de mon sentiment. Che
nell'Inghilterra sia affatto abolita la tortura, lo attesta anche il presidente di
Montesquieu. Anche nel regno della Svezia non si usano torture, se crediamo a Ottone
Tabor. Nei regni d'Ungheria, di Boemia, nell'Austria, nel Tirolo ecc., per una ordinazione
degna del regno di Maria Teresa, nell'anno 1776 restò abolito l'uso della tortura; e
sulla fine dell'anno medesimo un così umano regolamento promulgossi nella Polonia con una
legge che comincia così: «La costante esperienza dimostra quanto sia vizioso il mezzo
impiegato in varj processi criminali per venire in cognizione della verità mediante la
tortura, e nello stesso tempo quanto sia cosa crudele il farne uso per provare
l'innocenza»; quindi se ne abolisce la pratica, e si prescrive che si debbano adoperare i
soli mezzi di convinzlone.
Vi sono stati e vi sono tuttavia alcuni, i quali
per ultimo rifugio ricorrono alle locali circostanze del Milanese, ed asseriscono non
potersi far senza della tortura presso della nostra nazione. Incautamente al certo, e per
soverchia venerazione agli usi trapassati in tal guisa calunniano la nostra patria; quasi
che i cittadini nostri, d'indole oltre modo feroce e maligna, con altro miglior mezzo non
si potessero contenere se non trattandoli con atrocità e degradandoli all'essere di
schiavi; quasi che i principj di virtù e d sensibilità fossero talmente spenti nel
nostro popolo, che quei mezzi che bastano presso le altre nazioni fossero insufficienti
per noi! Io ben so che chi fa tale eccezione non riflette alle conseguenze, che pure
immediatamente ne emanano. Chiunque conosce la nostra patria, per i nostri concittadini ne
ha un'idea ben diversa; risovvengasi ciascuno dell'epoca non molto remota, quando la
nostra benefica ed immortale sovrana Maria Teresa essendo in pericolo di soccombere al
vajuolo, stavano aperte le chiese alle pubbliche preghiere; allora fu che ogni ceto di
persone, artigiani, contadini, nobili, plebei, tutti, posposti gli ufficj loro, a piè
degli altari singhiozzando offrivano voti all'Onnipotente per conservare i preziosi giorni
di una sovrana, alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere hanno guadagnato i cuori
sensibili. I teneri e spontanei movimenti della moltitudine, che non poteva essere mossa
da verun fine politico, bastano a provare il sentimento di bontà e di rettitudine che è
comunemente piantato ne' cuori. No, non si dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa
della regola.
XV
Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso della tortura
Ma come costringeremo noi a rispondere un
uomo, che interrogato dal giudice si ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di
costringerlo coi tormenti? Gl'Inglesi medesimi, che si citano per abolire la tortura, in
tal caso la costumano. Ma a ciò si risponde, che è vero che gl'Inglesi nel solo caso in
cui si ricusi di rispondere al giudice, usano «la pena forte e dura» siccome essi la
chiamano, la quale termina colla morte, lasciando cadere un pesantissimo sasso a
schiacciare intieramente il contumace; ma questa non può chiamarsi tortura, ma
bensì supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni di soccombere, anzi che essere
giudicati rei di un delitto che portasse la confisca de' beni, oltre la morte; essendo che
le leggi del regno non permettono che il fisco si approprj i beni di chi morì colla
«pena forte e dura», e in tal guisa l'amore de' congiunti indusse alcuni a preferire il
silenzio e questa pena. Si dice di più, che forse gl'Inglesi hanno conservato una
porzione dell'antica barbarie col non abolire anche la «pena forte e dura», poiché se
nelle liti civili le leggi condannano il contumace reo a seconda delle ricerche
dell'attore, bastava portare alle procedure criminali quello stesso metodo, e riguardando
il contumace a rispondere come reo confesso condannarlo a norma delle leggi; cosi sarà
tolta ogni necessità di tormentare o chi non risponde, ovvero chi non risponde a
proposito. Se il prigioniero sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà
luogo di confessione de' delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che si
trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se medesimo.
A questo passo replicano i sostenitori della
pratica attuale: noi non abbiamo la legge che ci autorizzi a condannare come convinto
l'uomo, che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno
ragione di sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso
della giustizia, qualora contemporaneamente non venisse promulgata l'altra che dichiarasse
convinto il contumace.
La nostra pratica criminale è veramente un
labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo, che si sospetta reo di un
delitto. Quest'uomo cessa in quel momento di avere una esistenza personale. Egli è un
essere ideale posto nelle mani del fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo spreme,
lo tormenta sinché o colle contraddizioni o colle incoerenze, ovvero colla confessione
del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria e colle torture, possa il fisco
aver tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio. Fatte tutte queste lunghe
e crudeli procedure, nel qua1 tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso,
ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Nei
paesi più illuminati, invece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto in
carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio. Gli si pone
in faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli accusatori gli si pongono davanti, se ve
ne sono. Se gli cerca ragione o discolpa: e così facilmente, e per una via più chiara,
placida e regolare si termina ogni processo. Così si fa ne' processi militari, e così si
pratica nei due reggimenti milanesi composti certamente di soldati, i quali non sono
scelti né fra i più virtuosi né fra i più semplici del popolo; e i delitti celeremente
sono puniti, e vi è una fondata idea della rettitudine de' giudizj ne' consiglj militari.
Come mai, dicono gli apologisti della tortura,
come mai indurremo un reo a palesare i complici senza il mezzo della tortura? Tutte queste
obbiezioni sono in fatti una perenne supposizione di quello che è il soggetto appunto
della questione. Si suppone che la tortura sia un mezzo per rintracciare la verità. Ma
anche prescindendo da questo si risponde, che un uomo che accusa se medesimo non avrà
difficoltà di nominare ordinariamente i complici; che un uomo che nega il delitto, non li
può nominare senza accusare se stesso; che finalmente per volere saper tutto e scrivere
tutta la serie della vita di un uomo e de' delitti che ha commessi o veduti commettere,
ordinariamente si riempiono le prigioni di tanti disgraziati, e si vanno protraendo a
somma lentezza i processi. È men male l'ignorare un complice e il punire sollocitamente
un reo, di quello che sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del carcere per
mesi ed anni, punire più uomini di un delitto, di cui nessuno ha più memoria: cosicché
altro non vede il popolo, che la isolata atrocità che eseguisce solennernente il
carnefice.
Supponiamo che l'imperator Giustiniano fosse
stato obbedito dai posteri. Egli radunò le leggi sparse, le opinioni de' più accreditati
giureconsulti romani, le decisioni del senato, quelle del popolo, e ristringendo tutto
quello che credette utile e buono dalla sterminata mole de' libri, ne fece compilare il
Codice e le Pandette, nelle quali tutto il corpo della legislazione si conteneva,
proibendo decisamente che alcuno più non osasse farvi commenti a scrivere per
interpretarle. Se ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi i giudizj criminali?
Nessuna legge vi è per ammortizzare civilmente il prigioniero, per torturarlo, per farlo
poi rivivere dopo scritto il processo. Se non vi fossero stati il Claro, il Bossi, il
Farinaccio e gli altri che di sopra ho nominati, non si prenderebbe prigione alcun
cittadino se non vi fossero gravi sospetti della di lui reità. Questi o nascono da'
testimonj che lo accusano d'un delitto, ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena,
ovvero dalle spese che fa senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia violenta e
minacce contro un uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe il prigioniero avanti
non ad un solo, ma a molti destinati a giudicarlo; verrebbe allo stesso francamente posto
in faccia il sospetto e i motivi; s'interrogherebbe, se si tratta di un omicidio o furto,
a giustificare dove egli abbia passato le ore nelle quali fu commesso il delitto; se di un
furto, come egli abbia il danaro che se gli è trovato, e così a ciascun caso; e in poche
ore si conoscerebbe se veramente il prigioniero fosse reo, ovvero innocente. Questo è il
metodo che verrebbe usato, se nella giustizia criminale si osservassero le sole leggi, e
non una pratica fondata illegittimamente sulle private opinioni di alcuni oscuri e barbari
scrìttori. Tale è il metodo de' processi nella Gran Bretagna, ove altresì l'uomo
accusato ha due sommi vantaggi: uno cioè di essere giudicato da persone scelte fra i suoi
pari e non incallite ai giudizj criminali; I'altro di poter ricusare un dato numero degli
eletti per giudicarlo, qualora abbia motivo di diffidenza. Tale parimenti è il metodo che
si usa nel militare anche in Milano pei reggimenti italiani, e la giustizia fa rapidamente
il suo corso senza che si lagni alcuno di tirannia, e senza che si condannino come rei
gl'innocenti: caso che non tanto di raro avviene, quanto forse si crede.
XVI
Conclusione
Io ben so che le opinioni consacrate dalla pratica de' tribunali, e tramandateci colla veneranda autorità de' magistrati, sono le più difficili e spinose a togliersi, né posso lusingarmi che ai nostri sia per riformarsi di slancio tutto l'ammasso delle opinioni che reggono la giurisprudenza criminale. Credono tutti quei che vi hanno parte, che sia indispensabile alla sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente: la loro opinione, vera o falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move. Però conviene che gli sostenitori della tortura riflettano, che i processi contro le streghe e i maghi erano egualmente come la tortura appoggiati all'autorità d'infiniti autori, che hanno stampato sulla scienza diabolica; che la tradizione de' più venerati uomini e tribunali insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si consegnano ai pazzarelli, dacché è stato dimostrato che non si danno né maghi né streghe. Tutto quello che si può dire in favore della tortura, si poteva cinquant'anni sono dire della magia. Mi pare impossibile, che l'usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora, dopoché si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura: che ella è uno strazio crudelissimo, e adoperato talora nella più atroce maniera: che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l'inferocire come vuole: che questo non è un mezzo per avere la verità, né per tale lo considerano le leggi, né i dottori medesimi: che è intrinsecamente ingiusta: che le nazioni conosciute dell'antichità non la praticarono: che i più venerabili scrittori sempre la detestarono: che si è introdotta illegalmente ne' secoli della passata barbarie: e che finalrnente oggigiorno varie nazioni l'hanno abolita e la vanno abolendo senza inconvenionte alcuno.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998