Pietro Verri
Osservazioni sulla tortura
e singolarmente sugli effetti
che produsse all'occasione delle unzioni malefiche
alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630
VII
Come terminasse il processo delle unzioni pestifere
Se volessi porre esattamente sott'occhio al lettore la scena degli orrori metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchieri, ai loro scritturali ed altre civili persone; torture crudelissime, date per obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava qualunque somma di danaro a chiunque anche sconosciuto, purché nominasse D. Giovanni di Padilla; e danaro, che si sborsava senza averne alcuna quitanza e senza scriversi partita ne' loro libri: e tutte queste assurde proposizioni emanate dal forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di sopra ne ho dato, e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l'atroce fanatismo del giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e portarlo alle estreme angosce, d'onde l'infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro se medesimo, se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena d'orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il barbiere Gian-Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la colonna infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava il Foresè, Francesco Manzone, Caterina Rozzana e moltissimi altri; questi condotti su di un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono perfine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume. L'iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora, così dice:
HIC.UBI.HAEC.AREA.PATENS.EST SURGEBAT.OLIM.TONSTRINA JO.JACOBI.MORAE QUI.FACTA.CUM.GULIELMO.PLATEA PUB.SANIT.COMMISSARIO ET.CUM.ALIIS.CONJURATIONE DUM.PESTIS.ATROX.SAEVIRET LAETIFERIS.UNGUENTIS.HUC.ET.ILLUC.ASPERSIS PLURES.AD.DIRAM.MORTEM.COMPULIT HOS.IGITUR.AMBOS.HOSTES.PATRIAE.JUDICATOS EXCELSO.IN.PLAUSTRO CANDENTI.PRIUS.VELLIICATOS.FORCIPE ET.DEXTERA.MULCTATOS.MANU ROTA.INFRINGI ROTAQUE.INTEXTOS.POST.HORAS.SEX.JUGULARI COMBURI.DEINDE AC.NE.QUID.TAM.SCELESTORUM.HOMINUM RELIQUI.SIT PUBLICATIS.BONIS CINERES.IN.FLUMEN.PROJICI SENATUS.JUSSIT CUJUS.REI.MEMORIA.AETERNA.UT.SIT HANC.DOMUM.SCELERIS.OFFICINAM SOLO.AEQUARI AC.NUNQUAM.IMPOSTERUM.REFICI ET.ERIGI.COLUMNAM QUAE.VOCETUR.INFAMIS PROCUL.HINC.PROCUL.ERGO BONI.CIVES NE.VOS.INFELIX.INFAME.SOLUM COMACULET MDCXXX.KAL.AUGUSTI |
Qui dov'è questa piazza sorgeva un tempo la Barbieria di Gian Giacomo Mora il quale con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri fatta una congiura mentre la peste infieriva più atroce sparsi qua e là mortiferi unguenti molti trasse a cruda morte entrambi adunque giudicati nemici della patria sopra un alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e troncata la mano destra si frangessero colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati poscia abbruciati e perché d'uomini così scellerati nulla resti confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume il senato medesimo ordinò a memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto di radere al suolo e giammai rialzarsi in futuro ed erigere una colonna che si appelli infame lungi adunque lungi da qui buoni cittadini che voi l'infelice infame suolo non contamini il primo d'agosto MDCXXX. |
Come poi subissero la pena, il canonico
Giuseppe Ripamonti, che era vivo in que' tempi, ce lo dice: Confessique isti flagitium,
et tormentis omnibus excruciati perseveravere confitentes donec in patibulum agerentur. Hi
demum juxta laqueum inter carnificis manus de sua innocentia ad populum ita dixere: mori
se libenter ob scelera alia, quae admisissent; caeterum unguendi artem se factitavisse
nunquam, nulla sibi veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium,
sive perversitas, et livor astusque daemonis erat. Sic indicia rerum, et judicum animi
magis magisque confundebantur. (Dopo di avere ne' tormenti confessato ogni delitto, di
cui erano ricercati, protestavano all'atto di subire la morte di morir rassegnati per
espiare i loro peccati avanti Dio, ma di non aver mai saputo l'arte di ungere, né
fabbricar veleni, né sortilegi.) Così dice il Ripamonti, che pure sostiene l'opinione
comune, cioè che fossero colpevoli.
Le crudeltà usate da più di un giudice in quel
disgraziato tempo giunsero a segno, che più di uno fu tormentato tant'oltre da morire fra
le torture: il Ripamonti lo dice, e invece d'incolpare la ferocia de' giudici, va al suo
solito a trovame la meno ragionevole cagione, cioè che il Demonio li strangolasse. Constitit
flagitii reos in tormentis a Daemone fuisse strangulatos [Constatava che alcuni reii
del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio].
Il cardinale Federico Borromeo, nostro illustre
arcivescovo in que' tempi, dubitava della verità del delitto, e in una di lui scrittura
inserita nel Ripamonti cosi disse: Non potuisse privatis sumptibus haec potenta
patrari. Regum, principumque nullus opes authoritatemque comodavit. Ne caput quidem,
authorve quispiam unctorum istorum, furiarumque reperitur; et haud parva conjectura
vanitatis est, quod sua sponte evanuit scelus, duraturum haud dubio usque in extrema, si
vi aliqua consilioque certo niteretur. Media inter haec sententia, mediumque inter ambages
dubiae historiae iter. (Non si sarebbe co' danari d'un semplice privato potuto fare
una così portentosa cospirazione. Nessun re o principe ne somministrò i mezzi, o vi diè
protezione. Non apparve nemmeno chi fosse l'autore o il capo di tali unzioni e furiosi
disegni; e non è piccola congettura che fosse un sogno il vedere una tale cospirazione
svanita da sé, mentre avrebbe dovuto durare sino al totale esterminio, se eravi una
forza, un disegno, un progetto, che dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubbietà e
incertezze deve la storia farsi la strada.) Né quel solo illuminato cardinale vi fu
allora che ne dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse di varj, poiché
tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que' tempi si estendono a provare
la reità dei condannati; cosa che non avrebbero certamente fatta, se non fosse stato
bisogno di combattere un'opinione contraria. Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito
scrisse la storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione
sostenne l'opinione degli unti malefici, dolendosi egli del difficile passo in cui si
trova di opinare se oltre gl'innocenti, i quali furono di tal delitto incolpati, realmente
vi fossero veri spargitori dell'appestata unzione, mostri di natura, obbrobrj della
umanità e nemici pubblici; né tanto gli sembra scabroso il passo per la dubbiezza del
fatto, quanto perché non trovavasi posto in quella libertà in cui uno scrittore possa
spiegare i sentimenti dell'animo suo, «poiché se io dirò (così il Ripamonti) che
unzioni malefiche non vi furono, tosto si griderà ch'io sia un empio e manchi di rispetto
ai tribunali. L'orgoglio de' nobili e la credulità della plebe hanno già adottata questa
opinione, e la difendono come inviolabile, onde cosa inutile e ingrata sarebbe se io
volessi oppormivi». Eccone le parole:
Caeterum his ita expositis anceps atque
difficilis mihi locus oritur exponendi, praeter innoxio istos unctores, et capita honesta
quae nihil cogitavere mali et periculum adiere ingens, putemne veros etiam fuisse
unctores, monstra naturae, propudia generis humani, vitae communis inimicos, quales etiam
isti (cioè alcuno de' quali ha raccontato i casi) nimium injuriosa suspicione
destinabantur. Neque eo tantum difficilis ancepsve locus est, quia res etiam ipsa dubia
adhuc et incerta, sed quia ne illud quidem liberum solutumque mihi relinquitur quod a
scriptore maxime exigitur, ut animi sui sensum de unaquaque re depromat atque explicet.
Nam si dicere ego velim unctores fuisse nullos frustra caelestes iras et consilia divina
trahi ad fraudes artesque hominum, exclamabunt illico multi historiam esse impiam, meque
ipsum impietatis teneri, judiciorumque violatorem. Adeo sedet contraria opinio animis;
pariterque et credula suo more plebs, et superba nobilitas cursu in eam vadunt amplexi
rumoris hanc auram, quomodo qui aras et focos et sacra tueretur. Adversus hosce capessere
pugnam ingratum mihi nunc, inutileque est [Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e
difficile a svolgere; se oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla
macchinarono di male, e colsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri
untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, siccome con
troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo perché di
dubbioso in se stesso; ma altresì perché non mi è conceduta la libertà sì necessaria
allo storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov'io
volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle
arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molt griderebbero
tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi. L'opposta opinione
è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com'è suo stile, ed i superbi nobili essi
pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore come se avessero
a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il
combattere siffatta credenza]. Da ciò conoscesi qual fosse la opinione del troppo timido
Ripamonti, il quale dice: Quaestio multiplici torsit ambage dubitantes fuerintne venena
haec, et aliqua ungendi ars, an vanus absque re ulla timor, qualia saepe in extremis malis
deliramenta animos occupare consueverunt [Gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze
circa la questione se vi furono realmente unti ed un'arte di spargerli, ovvero se fu uno
di quei vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti
nell'estremo de' mali]; perloché evidentemente si conosce, che malgrado l'infelicità de'
tempi vi era nella città nostra un ceto d'uomini che non si lasciarono strascinare dal
furore del volgo, e sentirono l'assurdità del supposto delitto e la falsità
dell'opinione.
Riepilogando tutto lo sgraziato amrnasso delle
cose sin qui riferite, ogni uomo ragionevole conoscerà, che fu immenso il disastro che
rovinò in quell'epoca infelicissima i nosti maggiori, e che quest'ammasso crudele di
miserie nacque tutto dall'ignoranza e dalla sicurezza ne' loro errori, che formò il
carattere de' nostri avi. Somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella
patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti, nel ricusare
l'esame di un avvenimento cosi interessante; somma superstizione nell'esigere dal cielo un
miracolo, acciocché non si accrescesse il male contagioso coll'affollare unitamente il
popolo; somma crudeltà e ignoranza nel distruggere gl'innocenti cittadini, lacerarli e
tormentarli con infernali dolori per espiare un delitto sognato. Insomma la proscritta
verità in nessun conto poté manifestarsi; i latrati della superstizione e l'insolente
ignoranza la costrinsero a rimanersene celata. Per tutto il passato secolo si risentì in
questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di
agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e fors'anche al giorno d'oggi abbiamo
de' terreni incolti, che prima di quell'esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il
restante del popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze,
e non si citerà una casa fabbricata per cinquant'anni dopo la pestilenza, che non sia
meschina. I nobili s'inselvatichirono; ciascuno vivendo in una società molto angusta di
parenti, si risguardò come isolato nella sua patria; e non si rípigliarono i costumi
sociali, che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al
principio del secolo presente. Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!
VIII
Se la tortura sia un tormento atroce
Non può mettersi in dubbio, che nell'epoca
delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente atrocissima Ma si
potrebbe anche dire che i tempi sono mutati, e che fu allora un eccesso cagionato dalla
estremità de' mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno
d'oggi la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel
1630, e appoggiato su questi parmi facile cosa il conoscere, che veramente la tortura è
un infernale supplizio.
Col nome di tortura non intendo una pena data a
un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co' tormenti. Quaestio
est veritatis indagatio per tormentum, seu per torturam; et potest tortura appellari
quaestio a quaerendo, quod judex per tormenta inquirit veritatem [L'interrogatorio è
l'indagine della verità per mezzo dei tormenti, ovvero della tortura; e la tortura si
può chiamare interrogatorio, essendo questo un'inchiesta, poiché il giudice inquisisce
la verità per mezzo dei tormenti].
I fautori della tortura cercano calmare il
ribrezzo, che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il
male, dicono essi, che ne soffre il torturato; si tratta di un dolore passaggiero, per cui
non accade mai l'opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si suppongono.
Tale è il primo argomento, col quale si cerca di soffocare il raccapriccio, che alla
umanità sveglia la idea della tortura. Pure dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a
caratteri di sangue l'orrore di questi tormenti; le leggi, le pratiche sotto le quali
viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse
crudeltà, se non che ritornassero de' giudici simili a quelli d'allora. Si adopera
attualmente per tortura la lussazione dell'osso dell'omero; si adopera talvolta il fuoco
a' piedi, crudeli operazioni per se stesse, ma nessuna legge limita la crudeltà a questi
due modi; i dottori che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per
regola e norma de' giudizj criminali, non prescrivono certamente molta moderazione. Il
Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. De Torturis,
n. 2 dice: «Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la tortura debb'essere più
grave, che se si tagliassero ambe le mani; e soffrir la tortura, egli è patire le estreme
angosce dello spasimo... E basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per
conoscerlo: niente è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò spesse volte si dà la
tortura col fuoco, e quel che dice l'uomo tormentato col fuoco si reputa la verità
istessa». ( Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis dicitur quaestio: hinc est
quod gravior est tortura, quam utriusque manus abscissio; et pati torturam est supremas
angustias sustinere, ut vidimus et audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulas
de quaestionibus; sic etiam loquuntur doctores quod maxime patet dum congerunt instrumenta
et modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo crudelissimun, et ideo etiam igne
saepe rei torquentur: igne defatigati, quae dicunt ipsa videtur esse veritas.) Dopo
ciò non saprei mai come possa dirsi, che la tortura per sé sia un male da poco. Non nego
che un giudice umano potrà temperare la ferocia di questa pratica, ma la legge non è
certamente mite, né i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il Zigler
descrive questa inumanissima pratica «Oltre lo stiramento, con candele accese si suole
arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo; ovvero alle estremità delle dita
si conficcano sotto l'unghie de' pezzetti di legno resinoso, indi si appiccica il fuoco a
que' pezzetti; ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro
cui si gettano carboni ardenti, e coll'infuocarsi del metallo acerbamente e con
incredibili dolori si cruciano.» Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco
le parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem inquisiti cadentibus
luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt; vel partes digitorum extimas
immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque postmodum accensis per adustionem
inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel asino ex metallis formato, ut incalescenti
paullatim per ignes injectos, tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus
insidentes urgeant, delinquentes imponunt. Farinaccio istesso parlando de' suoi tempi
asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano
nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam
habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species. Tale è la natura
dell'uomo che superato il ribrezzo de' mali altrui e soffocato il benefico germe della
compassione, inferocisce e giubila della propria superiorità nello spettacolo della
infelicità altrui; di che ne serve d'esempio anche il furore de' Romani per i gladiatori.
Veggasi lo stesso Farinaccio, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed astenersi dal
tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un pretore, che prendeva il
carcerato pe' capelli e gli orecchi, e fortemente lo faceva cozzare contro di una colonna,
dicendogli: «ribaldo, confessa»; cosi egli: abstineat etiam judex se ab eo quod
aliqui judices facere solent, videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert
Paris de Puteo se vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per
aures, dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas veritatem,
ribalde [si astenga il giudice da ciò che alcuni giudici sogliono fare, dal torturare
cioè gli imputati con le proprie mani... Paride del Pozzo riferisce d'aver egli stesso
visto un giudice che afferrava il reo per i capelli, per le orecchie e, battendogli la
testa contro una colonna, diceva: confessa, ribaldo, di' la verità]. Il celebre Bartolo
di se stesso ci significa, come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo
colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile
accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi illum et statim
fere mortuus est; e con tale indifferenza racconta il fatto atroce quel freddissimo
dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e sull'esempio delle unzioni pestifere e sulle
dottrine de' maestri della tortura, ch'ella è crudele e crudelissima e che se a1 giorno
d'oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per se
medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori
legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che o non sia
moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita.
Né gli orrori della tortura si contengono
unicamente nello spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel
tormento più d'un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di
amministrarla. Il citato Bossi asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con
promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la
promessa del giudice non tiene. Il Tabor dice che anche a una donna che allatti si può
benissimo dar la tortura, purché non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam
mulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in
alimentis aliquid decedat, quam declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura
a un testimonio, basta che egli sia di estrazione vile perché sia autorizzato il
tormento: Vilitas personae est justa causa torquendi testem, e il Claro asserisce
che basta vi siano alcuni indizj contro un uomo, e si può metterlo alla tortura; e in
materia di tortura e di indizj, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si
rimette all'arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc, ut
torqueri possit... In hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire
debes, quod in materia judiciorum et torturae propter varietatem negotiorum et personarum,
non potest dari certa doctrina, sed remittitur arbitrio judicis. La sola fama basta
perché, se il giudice lo vuole, sia un uomo posto alla tortura. Basti un solo orrore per
tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro Milanese, che è il sommo maestro di
questa pratica. «Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto,
farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla. accarezzarla, fingere di
amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e con tal mezzo
un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi di un omicidio, e la condusse a
perdere la testa» Acciocché non si sospetti che quest'orrore contro la religione, la
virtú e tutti i più sacri principj dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris
dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, et eidem dicere
quod vult eam habere in suam, et fingere velle illam deosculari et ei pollicere
liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis
illis induxit ad consfitendum homicidium, quae postea decapitata fuit.
Non credo di essere acceso da molto entusiasmo,
se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere orribile la
facilità, colla quale può farsi soffrire ad arbitrio di un solo giudice nella solitudine
del carcere, ed essere veramente degna della ferocia de' tempi delle passate tenebre la
insidiosa morale, alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de' più classici autori.
Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di tutta l'attenzione, e non regge
quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l'importanza.
IX
Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità
Se la inquisizione della verità fra i
tormenti è per se medesima feroce, se ella naturalmente funesta la immaginazione di un
uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e
detestarla; nondimeno un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio
e contrapponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne
risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di
uno colla tranquillità di mille. Questo debb'essere il sentimento di ciascuno, che, nel
distribuire i sensi di umanità, non faccia l'ingiusto riparto di darla tutta per
compassionare i cittadini sospetti, e niente per il maggior numero de' cittadini
innocenti. Questa è la seconda ragione, alla quale si cerca di appoggiare la tortura da
chi ne sostiene al giorno d'oggi l'usanza come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla
salvezza dello stato.
Ma i sostenitori della tortura con questo
ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo
da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il
dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento
sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le
seguenti proposizioni:
I - Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire
la verità.
II - Che la legge e la pratica stessa criminale
non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità.
III - Che quand'anche poi un tal metodo fosse
conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.
Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo
per iscoprire la verità, comincierò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia
esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade, che de' rei
robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di
spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono né rari né
immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato
si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori, che ho di sopra fatti conoscere e
disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più d'un secolo, non provan eglino
abbastanza che quei molti infelici si dichiararono rei di un delitto impossibile e
assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne,
non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di
spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo stesso
Claro, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si confessarono rei
dell'omicidio d'un nobile e furono condannati a morte, sebbene poi alcuni anni dopo sia
comparso il supposto ucciso, che attestò non essere mai stato insultato da' condannati.
Veggasi il Muratori ne' suoi Annali d'Italia, ove parlando della morte del Delfino
così dice: «Ne fu imputato il conte Sebastiano Montecuccoli suo coppiere, onorato
gentiluomo di Modena, a cui di complessione dilicatissima... colla forza d'incredibili
tormenti fu estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe ad
istigazione di Antonio de Leva e dell'imperatore stesso, perloché venne poi condannato
l'innocente cavaliere ad una orribile morte». Il fatto dunque ci convince che i tormenti
non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono,
altre volte producono la menzogna.
Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione.
Quale è il sentimento che nasce nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento
è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più
sarà violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale
un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo? Coll'asserirsi reo del delitto
su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il
delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse
il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto egualrnente come il reo ad
accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la
verità, ma bensì un mezzo che spinge l'uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia
egli, ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi
per essere una perfetta dimostrazione.
Sulla faccia di un uomo abbandonato allo stato
suo natura delle sensazioni si può facilmente conoscere la serenità della innocenza,
ovvero il turbamento del rimorso. La placida sicurezza, la voce tranquilla, la facilità
di sciogliere le obbiezioni nell'esame possono far ravvisare talvolta l'uomo innocente; e
così il cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza, l'inviluppo delle
risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un reo e un innocente
fra gli spasimi, fra le estreme convulsioni della tortura; queste dilicate differenze si
eclissano; la smania, la disperazione, l'orrore si dipingono egualmente su di ambi i
volti, gemono egualmente, e in vece di distinguere la verità, se ne confondono
crudelmente tutte le apparenze.
Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e
selvaggia, robusto di corpo e incallito agli orrori resta sospeso alla torura, e con animo
deciso sempre rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura cedendo al dolore
attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita, e che
cedendo all'impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la
tortura. Un povero cittadino avvezzo a una vita più molle, che non si è addomesticato
agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibile tutta si scuote,
un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente,
questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore; questo è
quello che gli suggerisce l'angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si accusa di un
non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti dello spasimo sopra i due
diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo
per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo che
l'innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998