Brunetto Latini
Il Tesoretto
vv. 2003-2426
Di tanto ti conforto, che, se t'è fatto torto, arditamente e bene la tua ragion mantene. Ben ti consiglio questo: che, se tu col ligisto atartene potessi, vorria che lo facessi, ch'egli è maggior prodezza rinfrenar la mattezza con dolci motti e piani che venire a le mani. E non mi piace grido; pur con senno mi guido; ma se 'l senno non vale, metti mal contra male, né già per suo romore non bassar tuo onore; ma s'è di te più forte, fai senno se 'l comporte e da' loco a la mischia, ché foll' è chi s'arischia quando non è potente: però cortesemente ti parti di romore; ma se per suo furore non ti lascia partire, vogliendoti ferire, consiglioti e comando no 'nde vada [da] bando: abbie le mani acorte, non dubbiar de la morte, ché tu sai per lo fermo che già di nullo schermo si pote omo covrire, che non vada al morire quando lo punto vene. Però fa grande bene chi s'arischi' al morire anzi che soferire vergogna né grave onta: ché 'l maestro ne conta che omo teme sovente tal cosa, che neente li farà nocimento. Né non mostrar pavento a om ch'è molto folle, ché, se ti truova molle, piglierànne baldanza; ma tu abbi membranza di farli un ma·riguardo, sì sarà più codardo. Se tu hai fatto offesa altrui, che sia ripresa in grave nimistanza, sì abbi per usanza di ben guardarti d' esso, ed abbi sempre apresso e arme e compagnia a casa e per la via; e se tu vai atorno, sl va' per alto giorno, mirando d'ogne parte, ché non ci ha miglior arte per far guardia sicura che buona guardatura: l'occhio ti guidi e porti, e lo cor ti conforti. E un'altra ti dico: se questo tuo nemico fosse di basso afare, non ce t'asecurare, perché sie più gentile; no·llo tenere a vile, ch'ogn'omo ha qualch' aiuto: e i' ho già veduto ben fare una vengianza, che quasi rimembranza no 'nd' era tra la gente. Però cortesemente del nemico ti porta, e abbie usanza acorta: se 'l truovi in alcun lato, paia l'abbie innorato; se 'l truovi in alcun loco, per ira né per gioco no·lli mostrare asprezza ne villana fierezza; dà·lli tutta la via: però che maestria afina più l'ardire che non fa pur ferire. Chi fere bene ardito, pò ben esser ferito; e se tu hai coltello, altri l'ha buono e bello: ma maestria conchiude la forza e la vertude, e fa 'ndugiar vendetta e alungar la fretta e mettere in obria e atutar follia. E tu sia bene apreso: che se ti fosse ofeso di parole o di detto, non rizzar lo tu' petto, ne non sie più corrente che porti 'l convenente. Al postutto non voglio ch'alcuno per suo orgoglio dica né faccia tanto che 'l gioco torni 'n pianto, né che già per parola si tagli mano o gola. E i' ho già veduto omo ch'è pur seduto, non facendo mostranza, far ben dura vengianza. S'afeso t'è di fatto, dicoti a ogne patto che tu non sie musorno, ma di notte e di giorno pensa de la vendetta, e non aver tal fretta che tu ne peggior' onta, ché 'l maestro ne conta che fretta porta inganno, e 'ndugio è par di danno; e tu così digrada: ma pur, come che vada la cosa, lenta o ratta, sia la vendetta fatta. E se 'l tuo buono amico ha guerra di nemico, tu ne fa' quanto lui, e guàrdati di plui: non menar tal burbanza ched elli a tua fidanza coninciasse tal cosa che mai non abbia posa. E ancor non ti caglia d'oste né di battaglia, né non sie trovatore di guerra o di romore. Ma se pur avenisse che 'l tuo Comun facesse oste o cavalcata, voglio che 'n quell'andata ti porte con barnaggio e dimostreti maggio che non porta tuo stato; e déi in ogne lato mostrar tutta franchezza e far buona prodezza. Non sie lento né tardo, ché già omo codardo non aquistò onore né divenne maggiore. E tu per nulla sorte non dubitar di morte, ch'assai è più piacente morire orratamente ch'esser vituperato, vivendo, in ogne lato. Or torna in tuo paese, e sie prode e cortese: non sia lanier né molle né corrente né folle». Così noi due stranieri ci ritornammo arrieri: colui n'andò in sua terra ben apreso di guerra, e io presi carriera per andar là dov' iera tutto mio intendimento e 'l final pensamento, per esser veditore di Ventur' e d'Amore. Or si ne va il maestro per lo camino a destro, pensando duramente intorno al convenente de le cose vedute: e son maggior essute ch'io non so divisare; e ben si dee pensare chi ha la mente sana od ha sale 'n dogana che 'l fatto è smisurato, e troppo gran trattato sarebbe a ricontare. Or voglio intralasciare tanto senno e savere quant' io fui a vedere, e contar mio vïaggio, come 'n calen di maggio, passati valli e monti e boschi e selve e ponti, io giunsi in un bel prato fiorito d'ogne lato, lo più ricco del mondo. Ma or parea ritondo, ora avea quadratura; ora avea l'aria scura, ora e chiara e lucente; or veggio molta gente, or non veggio persone; or veggio padiglione, or veggio case e torre; l'un giace e l'altro corre, l'un fugge e l'altro caccia, chi sta e chi procaccia, l'un gode e l'altro 'mpazza, chi piange e chi sollazza: così da ogne canto vedea gioco e pianto. Però, s'io dubitai o mi maravigliai, be·llo dëon sapere que' che stanno a vedere. Ma trovai quel suggello che da ogne rubello m'afida e m'asicura: così sanza paura mi trassi più avanti, e trovai quattro fanti ch'andavan trabattendo. E io, ch'ognora atendo di saper veritate de le cose trovate, pregai per cortesia che sostasser la via per dirmi il convenente de·luogo e de la gente. E l'un, ch'era più saggio e d'ogne cosa maggio, mi disse in breve detto: «Sappi, mastro Burnetto, che qui sta monsegnore ch'e capo e dio d'amore; e se tu non mi credi, passa oltra e sì 'l vedi; e più non mi toccare, ch'io non t'oso parlare». Così furon spariti e in un punto giti, ch'i' non so dove o come, né la 'nsegna né 'l nome. Ma i' m'asicurai, e tanto inanti andai ch'i' vidi al postutto e parte e mezzo e tutto; e vidi molte genti, cu' liete e cui dolenti; e davanti al segnore parea che gran romore facesse un'altra schiera; e 'n una gran chaiera io vidi dritto stante ignudo un fresco fante, ch'avea l'arco e li strali e avea penn' ed ali, ma neente vedea, e sovente traea gran colpi di saette, e là dove le mette convien che fora paia, chi che periglio n'aia; e questi al buon ver dire avea nome Piacere. E quando presso fui, io vidi intorno lui quattro donne valenti tener sopra le genti tutta la segnoria; e de la lor balìa io vidi quanto e come, e so di lor lo nome: Paura e Disianza e Amore e Speranza. E ciascuna in disparte adovera su' arte e la forza e 'l savere, quant' ella può valere: ché Desïanza punge la mente e la compunge e sforza malamente d'aver presentemente la cosa disïata, ed è sì disvïata che non cura d'onore, né morte né romore né periglio ch'avegna né cosa che sostegna; se non che la Paura la tira ciascun'ora, sì che non osa gire né solo u·motto dire né far pur un semblante, però che 'l fino amante riteme a dismisura. Ben ha la vita dura chi così si bilanza tra tema e disïanza; ma Fino Amor solena del gran disio la pena, e fa dolce parere, e leve a sostenere, lo travaglio e l'afanno e la doglia e lo 'nganno. D'altra parte Speranza aduce gran fidanza incontro a la Paura, e sempre l'asicura d'aver buon compimento di suo inamoramento. E questi quattro stati son di Piacere nati, con essi sì congiunti che già ora né punti non potresti contare tra·llor lo 'ngenerare: ché, quando omo 'namora, io dico che 'n quell'ora disia ed ha temore e speranza ed amore di persona piaciuta; ché la saetta aguta che move di piacere lo punge, e fa volere diletto corporale, tant'è l'amor corale. Così ciascuno in parte aòverar su' arte divisa ed in comuno; ma tutti son pur uno, cui la gente ha temore, sì 'l chiaman Dio d'Amore, perciò che 'l nome e l'atto s'acorda più al fatto. Assai mi volsi intorno e di notte e di giorno, credendomi campire del fante, che ferire lo cor non mi potesse; e s'io questo tacesse, farei maggio savere, ch'io fui messo in podere e in forza d'Amore. Però, caro segnore, s'io fallo nel dettare, voi dovete pensare che l'om ch'è 'namorato sovente muta stato. Poi mi tornai da canto, e in un ricco manto vidi Ovidio maggiore, che gli atti dell'amore, che son così diversi, rasembra 'n motti e versi. E io mi trassi apresso, e domandai lu' stesso ched elli apertamente mi dica il convenente e lo bene e lo male de l[o] fante dell'ale, c'ha le saette e l'arco, e onde tale incarco li venne, che non vede. Ed elli in buona fede mi rispose 'n volgare che la forza d'amare non sa chi no lla prova: «Perciò, s'a te ne giova, cércati fra lo petto del bene e del diletto, del male e de l'errore che nasce per amore». E così stando un poco, io mi mutai di loco, credendomi fuggire; ma non potti partire, ch'io v'era sì 'nvescato che già da nullo lato potea mutar lo passo. Così fui giunto, lasso, e giunto in mala parte! Ma Ovidio per arte mi diede maestria, sì ch'io trovai la via com' io mi trafugai: così l'alpe passai e venni a la pianura. Ma troppo gran paura ed afanno e dolore di persona e di core m'avenne quel vïaggio: ond'io pensato m'aggio, anzi ch'io passi avanti, a Dio ed a li santi tornar divotamente, e molto umilemente confessar li peccati a' preti ed a li frati. E questo mio libretto e ogn'altro mio detto ch'io trovato avesse, s'alcun vizio tenesse, cometto ogni stagione i·llor correzzïone, per far l'opera piana co la fede cristiana. E voi, caro segnore, prego di tutto core che non vi sia gravoso s'i' alquanto mi poso, finché di penitenza per fina conoscenza mi possa consigliare con omo che mi pare ver' me intero amico, a cui sovente dico e mostro mie credenze, e tegno sue sentenze. |
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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998