Carlo Milanesi
Vittorio Alfieri in Siena.
Vittorio Alfieri vide
Siena la prima volta, e per un sol giorno, nel dicembre del 1766. Il luogo non gli piacque
molto; ma e si sentì quasi un vivo raggio che gli rischiarò a un tratto la mente,
e una dolcissima lusinga agli orecchi ed al cuore, nell'udire le più infime persone così
soavemente e con tanta eleganza, proprietà e brevità favellare.
Rivide la Toscana dieci anni dopo, e fu
il primo viaggio letterario ch'egli facesse in queste parti. Ve ne fece un secondo nel
seguente anno 1777. Partito da Torino, e presa la via di Sarzana, capitò a Pisa; dove non
si trattenne più di due giorni, perchè il desiderio suo era di andare a Siena, credendo
che per la lingua egli avrebbe assai più profittato in quella città, dove si parla più
puramente e sono meno forestieri.
Passato l'Arno, il 2 di giugno entrò in
Siena con otto cavalli; séguito, in quei tempi, più da mezzo principe che da conte. Ma
egli non aveva altro pensiero che quello di piacere e di presentarsi sotto favorevole
aspetto. Mezza la riputazione sua stimava essere nei cavalli; per uno che glie ne morisse
o s'arnmalasse, e' stimavasi perduto. Da prima volle comparir bello, poi ricco, poi uomo
di spirito, poi autore e uomo d'ingegno.
Benedì sempre quel giorno che vi
capitò, perchè in Siena vennegli fatto di trovare un crocchietto saporito di sei o sette
persone dotate di un senno, di un giudizio, gusto e cultura, da non credersi in così
picciol paese.
Dimorò l'Alfieri in Siena fino
all'ottobre di quell'anno. Quel soggiorno di quasi cinque mesi fu veramente un balsamo al
suo intelletto e insieme al suo cuore. Ideò in quel tempo (nel giugno) la Congiura de'
Pazzi, da Francesco Gori Gandellini suggeritagli come soggetto degno di tragedia; e
leggendo quel fatto nel Machiavelli, tanto fu preso da quel dire originale, serrato e
pieno di nerbo, che di lì a pochi giorni si sentì costretto a lasciare ogn'altro studio,
e, come ispirato e sforzato, a scrivere d'un sol fiato i due libri della Tirannide
(dal 29 di luglio al 1 di settembre). Dal 16 al 25 di luglio stese l'Agamennone e
dal 24 del mese stesso al 31 d'agosto, lOreste; poi, dall'8 al 17 di
settembre, tutta la Virginia , già ideata a Sarzana nel maggio. Nessuna delle tragedie
verseggiò in Siena; l'aria sottile, pura e serena, il ridente e vario aspetto delle
circostanti colline, la natura degli abitatori festosa e cortese, stimolarono più presto
la virtù creatrice del suo ingegno, che le riposate doti dell'intelletto del verseggiare
e del limare. Non tacquero però del suo cuore gli affetti più delicati, e questi versi
inediti per la morte di un bambino di Maria Vaselli (moglie di Giuseppe e madre
dell'illustre anatomico prof. Gio. Batista) parmi ne siano buon testimonio.
" Ch'io ponga al duolo tregua? |
* Variante: Voi di madre.
(**) Questo madrigale sta nel codice n.o xiii degli Autografi Alfieriani alla Laurenziana,
con la postilla: "1777 agosto. Siena. Pel bimbo della Maria Vaselli: il buon Candido
Pistoj n'era molto addolorato.
Oltre questi
componimenti, continuò in Siena e con frutto lo studio ostinato dei classici latini,
massime di Giovenale, che fecegli grande impressione, e lo rilesse d'allora in poi sempre
non meno d' Orazio.
Ma approssimandosi l'inverno, non si
sentì disposto a trattenersi più lungamente in Siena, luogo freddo e battuto da' venti;
e nell'ottobre si recò a Firenze. Voleva, per prova, starvi un mese, e poi vi rimase per
molti anni. A Firenze era caduto in quel laccio amoroso che lo tenne avvinto e stretto per
tutta la vita. Vi passò la rimanente parte del 1777, coi seguenti anni, fino al gennaio
del 1781. Ma quando, sul finir del dicembre di quell'anno, la donna sua lasciò il
convento delle Bianchette di Firenze, sceltosi per ritiro ed asilo dopo la separazione dal
marito, e rifuggì a Roma nell'altro convento delle Orsoline; l'Alfieri, diviso e lontano
dall'amata persona, sentì veramente che senza di lei egli era men che mezz'uomo,
incapace, d'ogni occupazione e d'ogni bellopera, incurante affatto di se medesimo e
fin di quella gloria con tanto ardore da lui desiderata e cercata. Privo così del
conforto dell'amore, cercò lo sfogo dell'amicizia. Il primo di febbraio dell'81, cavalcò
bel bello verso Siena; abbracciò il suo Gori e versò nel seno dell'amico le pene e gli
affanni del suo cuore piagato e dolente. Lasciò Siena dopo tre giorni, impaziente di
giunger colà dove era il tesoro della sua vita. E nel viaggio la mente del poeta era del
continovo rivolta al luogo dove il suo bene respirava; e il pensiero che fra tre giorni
avrebbe riveduta colei a cui niuna era pari nè seconda, gli empiva il petto d'ineffabile
gioia.
Giunse a Roma, rivide per brevi momenti
l'amata donna, a traverso le grate del monastero, e prese la volta per Napoli. Ma saputo
che ella era uscita da quel ritiro, verso il 12 d'aprile tornò a Roma, dove stato fermo
per due anni, tutto immerso nei suoi studj, compì le quattordici tragedie, ne fece
lettura in crocchi letterati, ne recitò alcune in case di patrizi.
Insuperbito del prospero successo, si
risolvette di stampare, come per saggio, e per tentare la terribile prova della
pubblicità, quattro delle sue tragedie; e veduto che a Roma non gli sarebbe stato
possibile, commise al Gori di farne e curarne la stampa in Siena pei torchi del Pazzini
Carli. Nei primi mesi dell'anno 83, il primo volume vide la luce. Ma intanto, il mormorio,
lo schiamazzo a cui dava cagione la dimora del conte Alfieri in Roma e la frequenza sua
nella casa della contessa d'Albany, lo consigliarono, prima che gli fosse imposto, di
abbandonare spontaneo quella città. Separatosi crudelmente, nel primi di maggio, dalla
donna sua, lasciati i suoi libri, la deliziosa villa Strozzi alle Terme Diocleziane, la
pace e se stesso in Roma; in atto di uomo stupido e insensato, s'avviò verso Siena. Là
pianse liberamente in compagnia dell'amico; e là trovò sollievo grandissimo nel
conversare con quell'uomo incomparabile, buono, compassionevole e, " con tanta
altezza e ferocia di sensi, Umanissimo." Credette che, senza di lui, sarebbe
facilmente impazzato; ma il Gori, vedendo nell'amico innamorato un "eroe così
sconciamente avvilito e minor di se stesso; " ancorachè ben intendesse per prova i
nomi e la sostanza di fortezza e virtù, non volle crudelmente e inopportunamente,
contrapporre ai delirj di lui la severa e gelata ragione propria: seppe bensì scemargli,
e, non poco, il dolore, col dividerlo seco. " Oh rara, oh celeste dote davvero
(esclama): chi sappia ragionare ad un tempo e sentire! "
Stette a Siena circa tre settimane de
maggio 1783; ma in in quello spazio di tempo non trattò nè vide altri che l'amico Gori.
Pure, sebben tristo e svogliato, potè occuparsi nel tradurre (25 maggio) in versi sciolti
il sublime cantico di Moisè; e forse fu in questo breve soggiorno che dettò il capitolo
5 del libro I Del Principe e delle Lettere. Sennonchè temendo di rendersi troppo
molesto all'amico; annoiato d'ogni cosa e di se stesso, e agitato dalla solita smania di
mutar luogo, si risolvette di fare un viaggio per la Lombardia. Vide Venezia, Ravenna e
Padova, poi Bologna e Ferrara, e da Bologna andò a Milano. Nell'agosto prese la volta di
Toscana per la via di Modena e Pistoia. Trattenutosi pochi giorni a Firenze, fece ritorno
a Siena nellagosto seguente, accolto qual ospite caro dal Gori in sua casa. Quivi
deliberò, sia per aver cosa che l'occupasse forzatamente, sia per distrarsi da' suoi
dolorosi pensieri, di proseguire, sotto i suoi propri occhi, la stampa delle rimanenti
tragedie In tutto il settembre., ch'è quanto dire in meno di due mesi, uscirono alla
luce, dai medesimi torchi Pazziniani, altre sei tragedie in due volumi, i quali insieme
col primo, che ne contiene quattro, formano il tutto di questa prima edizione. Passò
ancora un po' dell'ottobre a Siena. Nel mentre che egli stava per ultimare la stampa
senese, ricevette dall'abate Calsabigi di Napoli una lunghissima lettera intorno alle
prime quattro tragedie. A quello scritto, il solo delle tante critiche scagliategli
contro, che egli stimasse degno di considerazione, l'Alfieri fece risposta nel settembre
dell'83, stando tuttavia in Siena; ma non volle mandarla in pubblico, serbandola come
proemio a una ristampa delle tragedie.
L'occupazione forzata e faticosa del
rivedere le prove delle altre tragedie, gli procurò un nuovo assalto di gotta; ma
valsegli anche molto a distrarlo dai suoi tristi pensieri. Dettò eziandio qualche
sonetto, e i non meno fieri e mordaci de' suoi epigrammi.'
Ma non potendo rivedere l'amata donna se
non nel veniente inverno; disperatissimo e non trovando mai pace, pensò di fare un lungo
viaggio in Francia e in Inghilterra. Verso la metà dell'ottobre, dunque, lasciò Siena ;
e partendo alla volta di Genova, per Pisa e Lerici, l'amico Gori gli fece compagnia fino a
Genova. Quivi, dopo due o tre giorni, si separarono. Questi tornò in Toscana, l'Alfieri
imbarcò per Antibo. Vide Avignone e la solitudine di. Valchiusa, e il fonte di Sorga ebbe
delle sue lagrime di cuore e caldissime. Visitò la certosa di Grenoble, e sparse nuove
lagrime; stette a Parigi circa un mese, che gli parve un secolo, e affrettò la partenza
per Londra, dove giunse nel dicembre. Questo suo terzo viaggio in Inghilterra fu tutto per
comperar cavalli, e in tutto il marzo del 1784 si trovava averne quattordici. Sfogata
così la sua rabidissima passione cavallina, per sei anni covata dentro, non studiando,
non leggendo, non scrivendo, ozioso e svogliato e tutto immerso nelle inezie dei cavalli,
riprese la volta dell'Italia. Da Calais a Lione, di quivi a Torino pel Moncenisio; e
questo fu il passo più difficoltoso e dove l'Alfieri durò maggior fatica e spiegò la
sua perizia equina, nel condurre per que' luoghi orridi, dirupati, impervii la marcia de'
suoi quattordici cavalli; talchè, per aver superato quel varco felicemente, pareagli
d'esser poco meno d'Annibale. Giunto alla Novalesa, fu presto a Torino. Era la fin di
maggio; si trattenne in patria circa a tre settimane; tre giorni si fermò in Asti per
riabbracciare la veneranda e venerata madre; poi andò avviandosi verso Siena, dove giunse
dopo circa dieci mesi di viaggio, nel giugno, pochi giorni avanti che arrivassero i suoi
cavalli. Trovò nell'amico Gori l'usato conforto alla sua malinconia. Stette fermo in
Siena parte del giugno stesso e del luglio, senza nulla fare, fuorchè qualche rima.
Compose alcune stanze che mancavano a finire il terzo canto dell'Etruria vendicata
e ne cominciò il quarto ed ultimo. Dettò e ricorresse le cinque odi dell'America libera.
Ma nel mentre, che stava tentando di
riprendere gli studj e i lavori con migliore e più saldo proposito, le lettere che egli
riceveva continovamente dalla donna sua lo riempivano viepiù di speranza, e lo
innammavano del desiderio di rivederla: così che un bel giorno, confidato al Gori dove
egli fosse per andare, e dettogli addio, partì di Siena, il 4 di agosto e s'avviò verso
l'Alsazia. "Giorno, oimè ! (esclarna) di sempre amara ricordanza per me. Che mentre
io baldo e pieno di gioia mi avviava verso la metà di me stesso, non sapeva io che
nell'abbracciare quel caro e vero amico, che per sei settimane sole, mi credea di
lasciarlo, io lo lascerei per l'eternità. Cosa di cui non posso parlare, nè pur
pensarci, senza prorompere in pianto, anche molti anni dopo." In questo viaggio più
abbondante gli si aprì la vena delle rime, e la sua Siena rimembrando, e le cortesie de'
suoi abitatori e il crocchio degli amici, il 7 d'agosto, tra Paùllo e Monte Cenere, in
quel di Modena, compose il seguente sonetto.
Siena, dal colle ove torreggia e siede, Vedea venir pel piano afflitta, errante, Donna di grazioso, alto sembiante, Che muovea di ver Arno ignuda il piede. Chi mai sarà? lun savio all'altro chiede; Ma, sia qual vuolsi, or con veloci piante A incontrarla ciascuno esca festante, Per far di nostra gentilezza fede. Era colei la Cortesia, che in bando Uscia di Flora, e al Tebro irne credea, Forse non meglio l'orme sue drizzando. Ma dei Senesi il bel parlar le fea Forza così, che non più innanzi andando, Tempio e culto fra loro ebbe qual Dea. |
E nello stesso giorno 7 d' agosto, "tra Monte Cenere e San Venanzio," dettò quest'altro sonetto :
Due Gori, un Bianchi e mezzo un arciprete, Una Carlotta bella e cocciutina, Una gentil Teresa e un po' di Nina, Fan sì ch'io trovo in Siena almen quiëte. Fontebranda mi trae meglio la sete, Parmi, che ogn'acqua di città latina Fama mi dà la stamperia Pazzina, Le cui bindolerie già poste ho in Lete, A Camollía mi godo il polverone, E in sulla Lizza il fresco ventolino: Al male il ben così compenso pone. Ma il campo di mie glorie è il Saloncino, Dove si fan le belle recitone, Quasi cantar s'udisse il Perellino. |
Era da circa un mese a
Colmar, beato di trovarsi unito alla donna adorata e tutto intento a' suoi studj; quando
lettere da Siena gli annunziarono, nello spazio di otto giorni, prima la morte di Pietro
fratel minore di Francesco Gori Gandellini, e la grave infermità di Francesco medesimo;
poi altre lettere, la morte anche di lui, in sei soli giorni di male, il 3 di settembre.
"S'io non mi fossi trovato (egli dice) con la mia donna al ricevere questo colpo sì
rapido e inaspettato, gli effetti del mio giusto dolore sarebbero stati assai più fieri e
terribili; ma l'aver con chi piangere menoma il pianto d'assai. La mia donna conosceva
essa pure e moltissimo amava quel mio Francesco Gori; il quale l'anno innanzi (1783), dopo
avermi accompagnato, come dissi, a Genova, tornato poi in Toscana erasi quindi portato a
Roma quasi a posta per conoscerla; e soggiornatovi alcuni mesi, l'aveva trattata ed aveala
giornalmente accompagnata nel visitare tanti prodotti delle belle arti, di cui egli era
caldissimo amatore e sagacissimo conoscitore. Essa perciò nel piangerlo meco, non lo
pianse solamente per me, ma anche per se medesima, conoscendone per recente prova tutto il
valore."
Venuto il giorno terribile, dovè di
nuovo separarsi dalla sua compagna, incerto quando l'avrebbe riveduta, e colla funesta
certezza d'essere rimasto privo dell'amico per sempre. Si pose in viaggio col cuore gonfio
di dolore e la mente ingombra da tetri pensieri. Ai primi di novembre del 1784 si
restituì a Siena. "Alcuni amici dell'amico (continua egli) che mi amavano, di
rimbalzo, ed io così loro, mi accrebbero in quei primi giorni smisuratamente il dolore;
troppo bene servendomi nel mio desiderio di sapere ogni particolarità di quel funesto
accidente: ed io, tremando pur sempre e sfuggendo d'udirle, le andava pur domandando. Non
tornai più ad alloggio (come ben si può credere) in quella casa del pianto, che anzi non
l'ho rivista più."
Ma sebbene il soggiorno di Siena senza il
suo Gori gli si fosse reso insoffribile, pure, diede una corsa là tra il 12 e il 21
d'aprile del seguente anno 1785, e andò ad albergare in casa Marchi.
Non rivide Siena se non ne' primi di
febbraio del 1793, e per un curioso capriccio. Saputo che i convittori del Collegio
Tolomei recitavano in quel carnevale il suo Saul, volle, senza che altri il sapesse,
fuorchè il Padre Rettore e Mario Bianchi, di segreto e all'improvviso capitare a Siena, e
la sera medesima della recitazione presentarsi a far egli stesso la parte di Saul."
Dopo il 93 non abbiamo riscontri ch'egli
vi ritornasse. Sopraggiunta nel 96 la morte del Bianchi, poi nel 1802 quella della Teresa,
e venuti di mano in mano a mancare quei ch'eran rimasti della conversazione Mocenni,
l'Alfieri non ebbe più cosa che lo tirasse a riveder Siena. Serbò ciò nonpertanto
memoria degli amici, ma non andò a vederli, nè scrisse più a nessuno, salvo qualche
breve lettera all'arciprete Luti, che fu il amico più intimo e confidente della Teresa,
dopo la morte del Bianchi.
Vittorio Alfieri ha lasciato in Siena
memoria di sè affettuosa e grata, che i suoi contemporanei, or tutti mancati, mantennero
viva dopo la morte sua, e viva tramandarono alla giovane generazione senese. In
nessun'altra città d'Italia egli fu noto e accetto al popolo come in Siena; non in Roma,
non nelle stesse Pisa e Firenze. In queste tre città, dove egli fece più lunghe dimore,
la persona dell'Alfieri fu più nota e ossequiata dalla gente patrizia e dai letterati; ma
in Siena egli ebbe la stima e l'amore di tutti ; in somma, il nome e la persona sua vi
furon più popolari. La cortesia, l'ospitalità il cuore senese valse a vincere la
solitaria, cupa e salvatica natura del poeta. Salutato e corteggiato con dimostrazioni
d'altissima riverenza il suo orgoglio di poeta, la sua vanità d'uomo bello, ricco, e di
conte trovò in Siena un pascolo che altrove non ebbe maggiore. E ai Senesi non poteva non
esser simpatico l'Astigiano. La sua virile bellezza, divenuta come proverbiale, la
eccellenza dell'ingegno, la ricchezza sfarzosa di vesti e di cavalli, quel far signorile
non potevano non renderlo spettabile agli occhi di tutti in una città piccola, assuefatta
a veder pochi forestieri (e perciò curiosa), inclinata per propria natura a far loro
cordiali e cortesi accoglienze. E l'Alfieri, come vedemmo, si presentò a Siena con tutto
l'apparecchio di un uomo che voglia piacere all'un sesso ed all'altro. Al poeta tragico,
poi, piacque quella città non solo per la lingua, ma anche per la quieta vita, tanto
necessaria al suo spirito, ora agitato dal desiderio della gloria, or dall'amore.
Piacquegli quella sincera e manierosa affabilità , quella festosa e subita vivacezza, o ,
se vogliam dirlo col Poeta, quella vanità, non però stupida nè maligna, che rende
singolare da ogn'altra la desta natura de' suoi abitatori. E cuore caldo e aperto de'
Senesi, que' bei sangui, quelle facce gioviali, gli avanzi degli spiriti repubblicani, lo
stesso aspetto antico delle vie e delle fabbriche di Siena, al suo genio che tutto viveva
in Atene e in Roma, al suo cuore che tutto ardeva di libertà, doveano piacer grandemente,
e dar buon'esca alla sua fervida immaginazione. Quell'entusiasmo che lo spettacolo del
palio delle contrade, con le gare e le bravure dei fantini, desta nei Senesi e quasi li
porta fuori di sè, e che per arcana forza si comunica a chi, sebbene non senese, vede
quella giostra, invase anche l'Alfieri, e gli dettò versi quando vi si trovò spettatore;
ed egli ne domandava con scherzevole curiosità quando era assente.
Se in Siena trovò qualche critico,
pedante quanto i barbassori di Pisa e di Firenze, non gli ebbe però quanto quelli
invidiosi e maligni. Nell'84 furono recitate le tragedie dell'Oreste dell'Antigone
e del Filippo (e forse a qualcuna di esse fu presente l'autore medesimo), nel così
detto Saloncino. Era questo un piccolo teatro posto nel piano più alto del fabbricato
dove oggi siede l'uffizio dell'Opera secolare del Duomo. Quivi una compagnia di dilettanti
comici senesi dava di quando in quando, e massime nel carnevale, trattenimenti drammatici:
onde nel citato sonetto l'Alfieri chiama il Saloncino il campo delle sue glorie,
"Dove si fan le belle recitone" |
ovvero, secondo la variante dell'autografo:
"Dove si fa di me spettacolone." |
Quivi nell'aprile dell'85 fu recitata la Merope, nel febbraio dell'86 l'Ottavia, e l'Oreste nel dicembre del 92. Ma l'84 fu l'anno nel quale andarono attorno le critiche dei crocchi chiacchieranti. Epigrammi non mancarono, e frizzanti; tra' quali questo:
Tre Cose ha perso il Tragico novello: |
Ma la più fiera
critica fatta in Siena alle sue tragedie fu quella di un artigiano, il quale andato al
Saloncino alla recita di non so qual tragedia dell'Alfieri; finita che fu, s'alzò sur una
panca, e tutto scorruccito sclamò: " Almeno, se l'avevano messo nel cartellone che
parlavano latino, 'un mi sarei 'ncomodato." Le critiche e le difese vennero a
mostrarsi in pubblico eziandio per la stampa.
Ciò nonostante, a Siena diceva d'avere
una quarta parte del suo cuore; per nessuno de tanti luoghi da lui abitati aver
avuto la tenerezza che sentì per Siena; avrebbe detto che i Senesi son migliori de'
Fiorentini, se ciò fosse un elogio; ma, per non offanderli col paragone, taceva. Da Siena
voleva il segretario, il cameriere, il servitore, per avere in casa non altro
che pezzi di vocabolario vivi, che gli tenessero l'orecchio solleticato e la
lingua in continuo esercizio; per avere il maestro di lingua in casa, e averlo
a Parigi per contravveleno agli schiamazzi di que' barbari. Da Siena provvedevasi
la cioccolata di cui egli faceva uso grandissimo e ne ordinava fin cento libbre per volta,
trovandola più gustosa di ogni altra, anche di quella di Torino.
Laver trovato a Siena in Francesco
Gori Gandellini il più grande amico che avesse, e, morto lui, il cavaliere Mario Bianchi,
che tenne Dei cuore dellAlfieri il luogo del perduto amico, gli rese sempre di cara
rimembranza quel giorno in cui vi capitò per la prima volta
Ma soprattutt gli fu di sollievo grandissimo e viepiù lo affezionò a
Siena, il conversare con quel saporito crocchietto senese ch'egli conobbe fino dal 1777, e
l'aver trovato tanta cortesia, tanto cuore e coltura nella geniale e restosa conversazione
di casa Mocenni, della quale parleremo tra poco.
Nel secolo passato, queste conversazioni
letterate erano comuni così alle grandi come alle piccole città; utile frutto dei
gentili costumi e della coltura italiana; e il patriziato facevasi volentieri ospite e
mecenate degli studiosi e degli studj. A' tempi del Parini, nella sola Milano trovavano
cortese accoglienza i letterati e scienziati nel palazzo di Cristoforo Casati. Carlo
Archinto, contuttochè gentiluomo di camera dell'imperatore e grande di Spagna, con
quindici amici fonda la così detta Società Palatina, che a proprie spese, e contribuendo
ciascuno quattromila scudi, mette alle stampe le immortali fatiche del Muratori e dei
Sigonio. Il conte Giuseppe Imbonati si fa il padre e l'amico di tutti i letterati
milanesi, raccolti in un'accademia da lui presieduta. La cantessa Clelia Borromeo Grillo
fonda un'accademia di filosofia e di belle lettere, alla quale erano ascritti i migliori
ingegni, e dove il Vallisnieri dimostrava le sue esperienze fisiche e naturali. Venendo
più oltre co' tempi, noi troviamo a Venezia la casa della bella contessa Teotochi
Albrizzi) donna di ornato ingegno e coltissima, che per quarant'anni accoglie i più
grandi nomi italiani e forestieri, tali il Cesarotti, il Pindemonte, il Canova, il
Morelli, il Foscolo, Adriano Balbi, l'Akerblad, l'Hamilton, il Denon, il d'Hancarville, il
Capodistria, il Byron , lo Chateaubriand. A Verona, la baronessa Silvia Curtoni Verza è
tutta premurosa di adunare intorno a sè, in grata e istruttiva conversazione, uomini di
lettere. Era una riunione letterata, ma più elegante, e con più somiglianza a' moderni
saloni delle grandi città, quella della marchesa Teresa Pallavicini Lomellino di Genova.
Nella casa della celebre Maria Coccovillo, maritata a Giovanni Pizzelli, a Roma,
raccoglievansi mescolatamente, letterati, scrittori, artisti, prelati e grandi signori.
Quivi un giorno l'Alfieri leggeva la sua Virginia: un giovane che stava intento a
udirlo, a quella voce sonora e piena, a quella forza e calore col quale lAstigiano
legger soleva le sue tragedie, sentì nascere in sè una ignota possanza. Questo giovane
era Vincenzo Monti, il quale infiammato dall'entusiasmo del poeta, scrisse il suo Aristodemo.
sopravvissele, Pier Luigi, dotto nelle matematiche, nella musica eruditissimo. Scaduto da ogni domestica agiatezza, tutto immerso ne' suoi studj, egli sopportava ogni penuria con tanta indifferenza, che non si poteva fargli accettare il menomo soccorso, se non con sforzo e contrasto. Molto vi sarebbe da dire intorno a quest' uomo dottissimo, ma così stratto e capriccioso, che pareva insieme filosofo e fanciullo. - La Maria Pizzelli cessò di vivere, oltre agli anni settanta, sul finire del 1807. Ad onorare la sua memoria il 28 di novembre di quell' anno medesimo fu fatta un' accademia solenne nella sala del palazzo Sabini, e i componimenti in essa recitati furono messi a stampa in Roma nel 1808 , con questo titolo: Accademia poetica in sette lingue, per la morte di Maria Pizzelli, nata Cuccovilla, fra i poeti Lida, insigne letterata romana. Nell'avviso ai leggitori sono notabili questo parole: "Una donna contornata ogni giorno di ammiratori, anche dopo di aver oltrepassati gli anni settanta della sua età, circondata di amici, anche dopo di essere stata costretta dalle indigenze domestiche a trattare la calza e la conocchia, celebrata concordemente da nazionali e da stranieri, più forse ancora nella vecchiaia che nella gioventù, e più dopo la morte che in vita; questa è una donna tale, che non dee certo la sua celebrità che a sè medesima, ai suoi talenti ad a' suoi meriti."][Intorno a questa donna singolare così per le doti dell'ingegno come del cuore, non dispiacerà ch'io riferisca le seguenti notizie, avute dalla cortesia del chiarissimo signor commendatore P. E. Visconti per la gentile mediazione del chiarissimo signor barone Alfredo de Reumont. Dall'avvocato Niccola Coccovillo nacque in Roma la Maria, la quale meritata a Giovanni Pizzelli, divenne celebre sotto questo cognome. Fu tra le più illustri, le più lodate e ammirate donne dei tempo suo; nominata qual miracolo di varia dottrina e amenità d'ingegno. Il p. Jacquier vantavasi d' averla avuta discepola nelle scienze esatte; il Cunich la celebrò sotto il nome poetico di Lida. I contemporanei ricordarono come ella si sapesse di giurisprudenza, di filosofia, di storia, di belle lettere, fosse erudita nel greco e nel latino, ornata delle lingue francese, inglese e spagnola. La sua eccellenza nel suono e nel canto era la delizia di quanti frequentavano le sue conversazioni serali, massime del giovedì, in cui il trattenimento ora diviso fra la musica e la letteratura. L'esservi accolti tanti uomini illustri, nati o dimoranti in Roma, e i più colti stranieri, diè presto a quel consesso un grado di autorità. Il Verri come lAlfieri, il Monti come il Battistini e il Berardi vi leggevano i loro componimenti. Gian Gherardo de Rossi fece udire qui le sue prime commedie. Tra gli ascoltanti erano il Canova, i due Visconti (F. A. e Alessandro, Angelica Kauffmann, l'Andres, Marianna Dionigi, il Renazzi, il Requeno. Era compagna alla madre, Violento Pizzelli, ammirato per il bellissimo canto e per le grazie della persona. Sventuratamente, questa cara giovinetta mancò a diciannov'anni; pianta da Ippolito Pindemonte con una elegia, pianta da quanti la conobbero. Rimasele, unico figliuolo, e
Nella stessa Roma, e
nel palazzo delambasciatore di Spagna, allora il duca Grimaldi, da una scelta
compagnia di signori dilettanti l'Alfieri fece recitare l'Antigone; assegnò alla
bella e maestosa duchessa Rospigliosi di Zagarolo la parte d'Antigone, al fratello di lei,
il duca di Ceri, quella di Emone, alla sua moglie quella d'Argia, e prese per sè la parte
di Creonte.
Ora anche a Siena, sebben piccola città,
non mancarono le conversazioni letterate. Poco innanzi la venuta dell'Alfieri, v'era la
Maria Fortuna poi Mengacci, figliuola del capitano de' famigli. Donna bruttina anzichè
no, ma di vivace ingegno, assai colta e ragionevole poetessa; pastorella dell'Arcadia fin
dall'agosto del 1766 col nome di Isidea Egirena, e poi accademica Intronata col
soprannome di Armonica. Nella casa di lei, fino all'anno 1772 che stette in Siena,
raccoglievansi a conversazione i letterati Senesi o che in Siena si trovavano, come
monsignore Domenico Stratico, professore dell'Università, il cav. Antommaria Borgognini,
il cav. Mario Bianchi, l'ab. Giuseppe Ciaccheri, primo bibliotecario dell'Università, il
dottor Pietro Giacomo Belli, il Targi, il padre Soldini, il prof. Tabarrani, l'arciprete
Ansano Luti, il prof. Candido Pistoi, l'ab. Giangirolamo Carli, Lodovico Coltellini, il
padre Guglielmo Della Valle, e qualcun'altro. Ma l'ab. Ciaccheri fu il più intimo e
confidente della Fortuna, l'amico affezionato e costante, lestimatore dell'ingegno
di lei; piú caldo e sincero.
Obbligata con suo grandissimo dispiacere
a seguire il padre, mandato in ufficio a Arezzo nel- 1772, tenne carteggio frequentissimo
collab. Ciaccheri, al quale confidava tutti i suoi pensieri, diceva i suoi studj e
lavori, e chiedeva consigli e pareri.
Da Arezzo insieme co' genitori passò a
Liorno, nel 1773; e in quello spazio di tempo che appunto l'Alfieri eri a Siena, essa
risponde, il 4 di luglio, con queste entusiastiche parole a una lettera del suo Ciaccheri,
che aveale parlato del poeta: "Voi mi avete innamorato di questo vostro conte
Alfieri; bello come Apollo, scrive sullo stile di Sofocle? questo è un portento. Di
grazia, giacchè non posso avere il contento di conoscerlo personalmente, fatemi avere una
copia della sua bellissima Tragedia: io smanio per desiderio di ammirarla. Fatemi questo
piacere che siate benedetto! chiedetela al degno autore per parte mia, e aggiungetevi le
vostre preghiere. Egli dirà allora, e mi pare di sentirlo: " a' tanto intercessor
nulla si neghi"; ed io sarò contenta. Via, da bravo!"
Un altro luogo dove si ritrovavano la
sera i letterati e gli scienziati, era la spezieria, posta dalle Logge del Papa, di
Giovanni Olmi, uomo nella professione sua per quei tempi riputatissimo, autore del
Ricettario Senese, stampato in Siena nel 1777 e poi nel 95, e dilettantesi dell'intagliare
all'acquaforte. Erano di quella conversazione, oltre que' medesimi di casa Fortuna,
Giovanni Gori Gandellini, padre di Francesco, l'ab. Francesco Corsetti, rettore del
seminario arcivescovile, il consigliere Lodovico Bianconi, ministro di Sassonia alla corte
di Roma, che, quando poteva, veniva e stava volentierissimo in Siena.
Anche la stamperia di Giuseppe Pazzini
serviva di ritrovo a' letterati e a' professori dell'Università.
Scioltosi il crocchio di casa Fortuna ,
per aver ella dovuto, come s'è detto, seguire i genitori e i fratelli; quella
conversazione non si disperse, ma portò e pose le sue tende in un'altra casa, e attorno a
un'altra donna gentile, di ingegno vivace e colto, la quale fecegli onorevole, e ospitale
accoglienza. La casa Mocenni ereditò il diritto e il piacere d'essere il ricetto di tutti
quei letterati; ed essi se ne chiamavano molto contenti e onorati. In Siena, come altrove,
l'aristocrazia lasciava volentieri i suoi ampi e splendidi palazzi, per il ridotto
decente, ma senza lusso di un mercatante e l'essere serali le conversazioni, riusciva
molto comodo a quella società mista di uomini di lettere e di commercio, di preti, di
professori e di patrizi; perchè nelle ore diurne consentiva a ciascuno di attendere a'
propri studj e negozj. La padrona di casa aveva nome Teresa, figliuola, di un Agostino
Regoli, data in moglie, di ventun anno (1778) ad Ansano Mocenni, che ne aveva trentasette
ricco mercatante, ma uomo crudo, fastidioso e brontolone. Donna piacente, di un sentir
nobile e delicato, amica e cultrice delle lettere e delle arti belle, per quanto la
condizione e l'educazione e le faccende domestiche gliel concedevano, la Teresa univa a
queste "ottime qualità un naturale buon senso, un giudizio sano e un gusto squisito:
se mai, mancavale, quantunque fosse molto spregiudicata, maggior pratica del mondo e degli
uomini.
Erano di quel crocchio Francesco Gori
Gandellini, il dottor Pietro Giacomo Belli, l'arciprete Ansano Luti, lab. Candido
Pistoi, l'ab. Giuseppe Ciaccheri, il cav. Antommaria Borgognini, l'ab. Gio. Maria
Mugnaini, e il cav. Mario Bianchi, che era il più giovane di tutti. Primeggiava di gran
lunga tra questi Francesco Gori Gandellini, che divenne il migliore, il solo verace e
caldo amico che mai avesse l'Alfieri. Una certa somiglianza di natura tra loro, lo stesso
pensare e sentire (tanto più raro e pregevole nel Gori che nel conte, di condizione così
diversa), ed un reciproco bisogno di sfogare il cuore ridondante delle passioni medesime,
unì prestamente quelle due anime con i più saldi vincoli d'amicizia, che non si
sciolsero neppur per la morte dell'amico, vivendogli continuo nella memoria. Forse fu il
Gori che lo presentò alla conversazione Mocenni; e lAlfieri tutte le volte che
andava e si tratteneva a Siena, non mancava, a quel ritrovo, dove è naturale che questo
maggior astro col lume suo facesse minori le altre minori stelle.
In quella conversazione si disputava
pacificamente di scienze e di lettere, di morale e di politica; si raccontavano volentieri
gli scandaluzzi e i pettegolezzi della città mascolini e femminini, le novelle correnti,
condite di satire e di epigrammi, tramezzate con un po' di mormorazione del prossimo; si
facevano versi e prose d'ogni maniera, e, bisognando, anche all'amore, chi platonicamente
e chi per davvero. Quelli della conversazione erano gente di buono e colto ingegno,
allegra, cortese, servizievole molto; ma spensierati e gaudenti i più , spiriti filosofi
alcuni e un tantino volteriani, e seguaci degli studj come di un balocco, a mo' di dire,
per ammazzare il tempo, senza voler fare nulla di serio e di grave, come taluni avrebbero
potuto e saputo. La Teresa era abilissima a tener in pace e concordia cervelli così
diversi, e uomini di così varia natura. Consolava gli afflitti o spasimanti, animava i
timidi, frenava gli arditi, placava gli sdegnati e i permalosi, con un detto, un sorriso,
uno sguardo, un consiglio. Al suo trono e tribunale si portavano le querele e i piati
letterari e d'altro genere, e facevasene arbitro il suo naturale e fino buon senso. La
regina di quel consesso, insomma, era la Teresa. Ma non mancava il suo re; e questo era il
cavaliere Mario Bianchi, l'amico di casa il più assiduo, e della padrona il più intimo,
il suo cavalier servente, vale a dire, uno di quei corteggiatori delle dame che i costumi
d'allora stimavano leciti e non offensivi dei diritti maritali.
Sventuratamente, nell' 84 venne a mancare
il suo Gori: allora il soggiorno di Siena, senza lamico, si rese all'Alfieri d'un
subito e per non breve tempo insoffribile. Pure, quietato alquanto, dopo due anni di vivo
dolore cagionatogli da quella perdita, scrive al Bianchi di non aver deposto il pensiero
di passare lunghi anni a Siena; e ciò per più ragioni: la lingua, la semplicità del
vivere, tanti altri piaceri quieti dell'animo, gli amici, la memoria, in fine,
dell'incomparabile Gori. "Siena m'è vita; perchè, se mi sono occupato tutto il
giorno, ho tre o quattro persone amate e che mi soffrono, fra cui posso passare
piacevolmente la serata, e ripigliar forza per il giorno dopo." - " Ho sempre
Siena nel core e davanti agli occhi". Sospirava grandemente Siena pel gentile,
ospitale, semplice, amoroso e naturale trattare; e di questi cinque epiteti non ne avrebbe
voluto togliere un solo e spesso si lusingava anco di chiuder là i suoi giorni.
Accadde nel 96 la morte del secondo amico
intimo che fossegli rimasto in Siena: Mario Bianchi veniva a mancare nell'ancor fresca
età di appena quarantun anno. D'allora in poi l'Alfieri non ebbe più stimolo di riveder
Siena. Sopraggiunsero i tempi della barbarica invasione in Italia (com'egli soleva
chiamarla), la quale lo tenne in apprensioni e in angustie d'animo gravi per il pericolo
dei suoi interessi, e sentì abbuiarsi l'intelletto al pensiero della miseria e della
servitù che temeva inevitabile alla sua patria. Poi, l'essersi messo a corpo perduto e
ostinatamente nello studio del greco, che lo toglieva quasi affatto ad ogn'altra cosa e
pensiero, gli anni cresciuti, e la salute fattaglisi cagionevole, tutto valse ad
acquietare la mania d'andare attorno; e non lasciò più Firenze. Scrivendo alla Teresa,
pochi giorni dopo la morte dell'amico di lei, quelle lettere, che qui stampiamo,
bellissime di affetto doloroso, abbondanti, di consolazione, di esortazioni e di sani
consigli, l'Alfieri sente pur troppo che Siena non ha più allettamento per lui; e si
rallegra di non essersi domiciliato là, siccome nel giungere in Toscana ebbe in pensiero.
Sei anni dopo la, morte di Mario Bianchi,
cessava di vivere anco la Teresa Mocenni; non vecchia, ma affranta dai duri trattamenti
d'un marito, avaro, e bestiale. La perdita di questa donna, che l'Alfieri, dopo la sua,
era quella che amava e stimava più, gli tolse affatto la voglia di tornare a Siena. E che
egli n'avesse dolore grandissimo, si argomenta dai sentimenti di rammarico, d'affezione e
di stima dalla contessa d'Albany espressi in talune lettere all'arciprete Luti e al cav.
Alessandro Cerretani, ch'è da credere fosser comuni al poeta medesimo. Essa non poteva
assuefarsi all'idea d'aver perduta unamica qual'era la Teresa; e dopo la morte
dell'Alfieri, esclama contro la fortuna d'averle tolto colei che amava teneramente, che le
sarebbe stata di grande consolazione, e avrebbe diviso con lei le sue lacrime e il suo
dolore.
[Il corpo della Teresa Regoli Mocenni fu portato processionalmente a seppellire alla cappella del Martirio di Sant'Ansano, presso Montaperto, passato appena il fiume Arbia. Dai più vecchi di quel luogo si è potuto raccogliere che quell' antica signora di Montaperto doveva essere sepolta dentro la cappella; ma non essendosi potuto rompere il calcistruzzo del pavimento, fu pensato di deporle nel ripiano esterno attiguo alla porta, ponendovi sopra una tettoia per riparare dalle piogge la cassa funeraria. Si racconta eziandio che vi fu messa una lapide con un epitaffio; la quale dovette sparire quando, per esser avvallato il terreno e rovinata la tettoia, fu rifatto di nuovo l'ammattonato; e probabilmente la iscrizione andò sotto terra. - Debbo saper grado di questo notizie alla cortesia del reverendo sig. C. Boldrini parroco a Presciano.]
Mancata la Teresa, la conversazione di casa Mocenni rimasta priva del suo più grazioso ornamento e vincolo, si sciolse. Avrebbe potuto succedere degnamente a lei la figliuola sua Quirina; quella Quirina Mocenni, bello e ornato ingegno, bell'anima delicatissima, che fu la donna gentile cara a Ugo Foscolo, e consolatrice dei dolori del suo esiglio. Ma ella lasciò la patria a venti anni per andare a Firenze moglie di un imbecille, Ferdinando Magiotti di Montevarchi! Era dunque fatale che, al par della madre, la Quirina non dovesse avere dal suo matrimonio altro che disgusti, travagli e dolori! In Siena non fu poi, ch'io sappia, un'altra casa, la quale raccogliendo gli avanzi di quel crocchio, e chiamando a sè la generazione letterata che veniva su educandosi, si facesse centro di coltura e di gentilezza, e rinnovasse il bel costume antico di que' geniali e istruttivi ritrovi.
[Vero è che un po' di conversazione letterata si teneva in casa del cav. Antonio Rinieri De Rocchi, dalla moglie sua, Anna di Vincenzo Martini governatore di Siena, donna assai colta e ragionevole poetessa lodata dall'Alfieri. (V. la lettera, al Bianchi de' 18 di gennaio 1793). Il più assiduo a quella conversazione era il commendatore Daniello Berlinghieri, che fu ministro per Toscana e Parigi uomo di grave contegno, e fornito di molti e seri studj. La Rinieri da brava donna, curò da sè la educazione della prole; e il commendatore Berlinghieri, oltre a esserle largo di consigli, dettò per la istituzione dei figliuoli di lei un corso di storia universale ch'io ho veduto manoscritto.]
Morto il Bianchi, l'Alfieri non cessò di scrivere qualche rara volta alla Teresa Mocenni e all'arciprete Luti. Ma più vivo e animato fu il carteggio con lei della contessa d'Albany, il quale divenne più frequente dopo la morte del poeta. Mancata la Teresa, la Contessa entrò in corrispondenza diretta con Vittorio Mocenni, quello tra' figliuoli della perduta amica a lei più simpatico, quello che ella soleva chiamare le fils chéri de ma chère Thérèse, e pareva ritraesse nella nobiltà dell'animo e nella natura malinconica il padrino suo, l'Alfieri. Dalla cortesia del mio amico Giuseppe Porri mi è stato concesso di poter vedere e leggere a mio bell' agio le tante lettere che egli possiede della Contessa alla Teresa. Si vede da questo carteggio quanto stesse a cuore alla d'Albany la educazione e la buona riuscita di questo bennato e ben promettente giovanetto. Premevale eziandio che la Quirina avesse buon recapito; e non si stanca di dare alla madre consigli intorno alla educazione e buon avviamento della figliuola. Ma alla madre e a Vittorio principalmente sono più assidui i suoi pensieri: addita i libri da leggere, raccomandando sovr'ogni altro il Plutarco, e si fa come la direttrice degli studj del giovinetto Mocenni, cercando insieme d'inculcargli massime di morale e di civile condotta, a suo credere, sane, e atte a formargli il cuore e la mente e a reggerlo nel cammin della vita. - La pubblicazione di queste lettere dall'amico consentitami, mostrerà quanto intima, calda, affettuosa fosse l'amicizia della Contessa per la Teresa , la quale a lei diceva le suo pene e i suoi affanni, e chiedeva consigli e conforti. Nè questo carteggio è di qualche importanza solamente per rispetto alla società senese, ma anche per altri capi. La Contessa parla di tutto: delle sue letture continue e svariatissime (chè leggitrice formidabile era, e avidissima de' libri nuovi), con libero e proprio giudizio; delle occorrenze politiche di quei tempi, con animo fieramente avverso e beffardo; degli scandali e avvenimenti galanti di Firenze e di Siena, con cinica libertà e compiacenza, con curiosità di donna più che volgare; del Poeta, con riverenza ed ammirazione. Scritte come sono queste lettere, senza velo, senza artifizio, ritraggono con mirabile verità il cuore e la mente di cotal donna; la quale non sapeva, o sapeva pur troppo, ma non importavale, che l'ambizione di legare il suo nome a quello di Vittorio Alfieri, avrebbe destato una curiosità pericolosa, e che il volerlo salvato dall' oblivione, sarebbele costato caro, e avrebbe dato ai posteri, toltone ogni prestigio, il diritto e loccasione di scrutare nudamente ogni sua parola, ogni suo pensiero ed affetto, e farne severo giudizio.
CARLO MILANESI.
Tratto da: Lettere inedite
di Vittorio Alfieri alla madre, A Mario Bianchi e a Teresa Mocenni, con con appendice di
diverse altre lettere e di documenti illustrativi, per cura
di I. Bernardi e C. Milanesi, Felice Le Monnier, Firenze 1864
Il libro porta la dedica:
ALLA CITTÀ DI ASTI
DI SPLENDIDI INGEGNI
E
DI GENEROSE VIRTÙ CITTADINE
MAGNANIMA ALTRICE
OVE NACQUE
IL SOMMO TRAGICO ITALIANO
QUESTA NUOVA PAGINA DELLA SUA VITA
RACCOLTA NELLE LETTERE ALLA MADRE
L'ABATE IACOPO BERNARDI
CON RIVERENTE AFFETTO
CONSACRAVA.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 15 ottobre, 1999