Cesare Beccaria
Dei delitti e delle pene
§ XXVIII
DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha
mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e
giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono
gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità
e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di
ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle particolari.
Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come
mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra
tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro,
che l'uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo
diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto,
mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un
cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se
dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa
dell'umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria
che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali
relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza
possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di
qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua
libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma
durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della
nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione,
forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero
sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità
alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico
freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può
credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo
supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la società, quando
l'esempio dei cittadini romani, e vent'anni di regno dell'imperatrice Elisabetta di
Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest'illustre esempio, che equivale almeno
a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli
uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello
dell'autorità, basta consultare la natura dell'uomo per sentire la verità della mia
assersione.
Non è l'intensione della pena che fa il maggior effetto
sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú
facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma
passeggiero movimento. L'impero dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente,
e come l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l'idee
morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il
terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato
esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle
sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti.
Quell'efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso
sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è
assai piú possente che non l'idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura
lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua forza
non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all'uomo anche nelle cose piú
essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti
sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle
rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero
e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti. La pena di
morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di
sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l'animo degli spettatori che
non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue
il sentimento dominante è l'ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il
legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando
comincia a prevalere su di ogni altro nell'animo degli spettatori d'un supplicio piú
fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli
gradi d'intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno
che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà
per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l'intensione della pena di
schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere
qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con
viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna
l'uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di
sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene,
sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i
suoi mali, ma gli comincia. L'animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma
passeggieri dolori che al tempo ed all'incessante noia; perché egli può per dir cosí
condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui
elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di
morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù
perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli
uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto
distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo
supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l'impressione che far
dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la
schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io
risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di
piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un
momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede
che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il
secondo è dall'infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali
s'ingrandiscono nell'immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni
non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità
all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un
assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la
ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un'arte che s'apprende colla
educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi
agiscon meno. Quali sono queste leggi ch'io debbo rispettare, che lasciano un cosí
grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col
comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e
potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non
hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le
lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni
pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel
mio stato d'indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del
mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma
sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di
piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi
tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto
posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente
dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi
certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero
d'anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in
faccia a' suoi concittadini, co' quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi
dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll'incertezza dell'esito
de' suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L'esempio
continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una
impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú
che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità
che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a
spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono
aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio
e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica
volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per
allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le
vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare
e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell'interesse privato o si combina con
quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli
negli atti d'indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure
un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben
pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi
soldati al di fuori. Qual è dunque l'origine di questa contradizione? E perché è
indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel
piú secreto dei loro animi, parte che piú d'ogn'altra conserva ancor la forma originale
della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di
alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi
magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno
strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime
angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e
fors'anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri
della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della
forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di
convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio,
all'idolo insaziabile del dispotismo.
L'assassinio, che ci vien predicato come un
terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato.
Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle
descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà
meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali
sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli
uomini disposti a' delitti, ne' quali, come abbiam veduto, l'abuso della religione può
piú che la religione medesima. Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli e di
quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che
egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la
storia degli uomini ci dà l'idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e
confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon
comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per
poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole
che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle
quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli
uomini. Non è ancor giunta l'epoca fortunata, in cui la verità, come finora l'errore,
appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin
ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col
rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti
e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono
sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell'intimo de' loro cuori; e se la verità
potesse, fra gl'infiniti ostacoli che l'allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere
fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co' voti segreti di tutti gli uomini, sappia
che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta
posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei
Traiani.
Felice l'umanità, se per la prima volta le si
dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici,
animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de' loro popoli,
cittadini coronati, l'aumento dell'autorità de' quali forma la felicità de' sudditi
perché toglie quell'intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui
venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere
al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà
infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo
per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento
della loro autorità.
§ XXIX
DELLA CATTURA
Un errore non meno comune che contrario al fine
sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato
esecutore delle leggi d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico
per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi piú forti di
reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza d'ogn'altra,
precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie
l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi nei quali un uomo è degno di
pena. La legge dunque accennerà gl'indizi di un delitto che meritano la custodia del reo,
che lo assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la
stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minaccie e la costante
inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per
catturare un cittadino; ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i
decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno
proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura
che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la
compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl'inesorabili ed
induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre piú
deboli per catturare. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto non dovrebbe
portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati
poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione
è cosí diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? Perché sembra che nel presente
sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della
prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna gli
accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una custodia del
reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice
del trono e della nazione, quando unite dovrebbon essere. Cosí la prima sarebbe, per
mezzo del comune appoggio delle leggi, combinata colla facoltà giudicativa, ma non
dipendente da quella con immediata podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il
fasto di un corpo militare toglierebbero l'infamia, la quale è piú attaccata al modo che
alla cosa, come tutt'i popolari sentimenti; ed è provato dall'essere le prigionie
militari nella comune opinione non cosí infamanti come le forensi. Durano ancora nel
popolo, ne' costumi e nelle leggi, sempre di piú di un secolo inferiori in bontà ai lumi
attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei
settentrionali cacciatori padri nostri.
Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo commettasi
un delitto, cioè un'azione contraria alle leggi, possa essere punito; quasi che il
carattere di suddito fosse indelebile, cioè sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo;
quasi che uno potesse esser suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui
azioni potessero senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici
sovente contradittori. Alcuni credono parimente che un'azione crudele fatta, per esempio,
a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l'astratta ragione che chi offende
l'umanità merita di avere tutta l'umanità inimica e l'esecrazione universale; quasiché
i giudici vindici fossero della sensibilità degli uomini e non piuttosto dei patti che
gli legano tra di loro. Il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente
e non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l'offesa
pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una società di cui non era
membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della società esiliato ed
escluso, ma non punito colle formalità delle leggi vindici dei patti, non della malizia
intrinseca delle azioni.
Sogliono i rei di delitti piú leggieri esser puniti o
nell'oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio, con una lontana e però quasi
inutile schiavitù, a nazioni che non hanno offeso. Se gli uomini non s'inducono in un
momento a commettere i piú gravi delitti, la pubblica pena di un gran misfatto sarà
considerata dalla maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica
pena di delitti piú leggeri, ed a' quali l'animo è piú vicino, farà un'impressione
che, distogliendolo da questi, l'allontani viepiú da quegli. Le pene non devono solamente
esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo d'infliggerle.
Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto
conforme alla beneficenza ed all'umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un
cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità
dell'esempio, come può condonare il risarcimento dell'offesa. Il diritto di far punire
non è di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare
alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.
§ XXX
PROCESSI E PRESCRIZIONE
Conosciute le prove e calcolata la certezza del
delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma
tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere
uno de' principali freni de' delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario
a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli
dell'innocenza crescono coi difetti della legislazione.
Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo,
sí alla difesa del reo che alle prove de' delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se
egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti
atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano
alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori
ed oscuri devono togliere colla prescrizione l'incertezza della sorte di un cittadino,
perché l'oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l'esempio
della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar
questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data
legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata
l'utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti
scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando cosí
della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una
facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti.
Ma questi tempi non cresceranno nell'esatta proporzione
dell'atrocità de' delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa
della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell'esame e crescere quello della
prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi
pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione,
precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore la mia idea, distinguo due
classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall'omicidio,
e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori.
Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria
vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero
de' motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga
minore al numero de' motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a
violare un diritto, che non trovano ne' loro cuori ma nelle convenzioni della società. La
massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi
principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve sminuirsi il tempo dell'esame
per l'accrescimento della probabilità dell'innocenza del reo, e deve crescere il tempo
della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo
dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll'atrocità del
delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell'innocenza del reo, deve
crescere il tempo dell'esame e, scemandosi il danno dell'impunità, deve diminuirsi il
tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe
ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell'impunità quanto cresce la probabilità
del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l'innocenza né la reità,
benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova
cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi
il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che
sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de' sudditi, essendo troppo
facile che l'una non sia favorita a spese dell'altra, cosicché questi due beni, che
formano l'inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e
custoditi l'uno dall'aperto o mascherato dispotismo, l'altro dalla turbolenta popolare
anarchia.
§ XXXI
DELITTI DI PROVA DIFFICILE
In vista di questi principii strano parrà, a chi
non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice delle nazioni, che i
delitti o piú atroci o piú oscuri e chimerici, cioè quelli de' quali l'improbabilità
è maggiore, sieno provati dalle conghietture e dalle prove piú deboli ed equivoche;
quasiché le leggi e il giudice abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare
il delitto; quasiché di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior pericolo
quanto la probabilità dell'innocenza supera la probabilità del reato. Manca nella
maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per
le grandi virtú, per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in
quelle nazioni che piú si sostengono per l'attività del governo e delle passioni
cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la costante bontà delle leggi. In
queste le passioni indebolite sembran piú atte a mantenere che a migliorare la forma di
governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i
grandi delitti provano il suo deperimento.
Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo
frequenti nella società e difficili a provarsi, e in questi la difficoltà della prova
tien luogo della probabilità dell'innocenza, ed il danno dell'impunità essendo tanto
meno valutabile quanto la frequenza di questi delitti dipende da principii diversi dal
pericolo dell'impunità, il tempo dell'esame e il tempo della prescrizione devono
diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono delitti di
difficile prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti ammettono le tiranniche
presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove (quasi che un uomo potesse
essere semi-innocente o semi-reo, cioè semi-punibile e semi-assolvibile),
dove la tortura esercita il crudele suo impero nella persona dell'accusato, nei testimoni,
e persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua freddezza insegnano alcuni
dottori che si danno ai giudici per norma e per legge.
L'adulterio è un delitto che, considerato
politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due cagioni: le leggi variabili degli
uomini e quella fortissima attrazione che spinge l'un sesso verso l'altro; simile in molti
casi alla gravità motrice dell'universo, perché come essa diminuisce colle distanze, e
se l'una modifica tutt'i movimenti de' corpi, cosí l'altra quasi tutti quelli dell'animo,
finché dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in
equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo piú prende forza e vigore col crescere degli
ostacoli medesimi.
Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce
della religione direi che vi è ancora un'altra differenza considerabile fra questo e gli
altri delitti. Egli nasce dall'abuso di un bisogno costante ed universale a tutta
l'umanità, bisogno anteriore, anzi fondatore della società medesima, laddove gli altri
delitti distruttori di essa hanno un'origine piú determinata da passioni momentanee che
da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e l'uomo, sempre
uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se ciò fosse vero, inutili, anzi
perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi che cercassero diminuirne la somma
totale, perché il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui
bisogni, ma sagge per lo contrario sarebbero quelle che, per dir cosí, seguendo la facile
inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole
porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l'aridità e l'allagamento. La
fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero ed alla libertà de' matrimoni. Dove
gli ereditari pregiudizi gli reggono, dove la domestica potestà gli combina e gli
scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i legami ad onta della morale volgare,
il di cui officio è di declamare contro gli effetti, perdonando alle cagioni. Ma non vi
è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha piú sublimi
motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L'azione di un tal delitto è
cosí instantanea e misteriosa, cosí coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno
posto, velo necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece di
scemarlo, le occasioni cosí facili, le conseguenze cosí equivoche, che è piú in mano
del legislatore il prevenirlo che correggerlo. Regola generale: in ogni delitto che, per
sua natura, dev'essere il piú delle volte impunito, la pena diviene un incentivo. Ella è
proprietà della nostra immaginazione che le difficoltà, se non sono insormontabili o
troppo difficili rispetto alla pigrizia d'animo di ciascun uomo, eccitano piú vivamente
l'immaginazione ed ingrandiscono l'oggetto, perché elleno sono quasi altrettanti ripari
che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di sortire dall'oggetto, e
costringendola a scorrere tutt'i rapporti, piú strettamente si attacca alla parte
piacevole, a cui piú naturalmente l'animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e
funesta, da cui fugge e si allontana.
L'attica venere cosí severamente punita dalle leggi e
cosí facilmente sottoposta ai tormenti vincitori dell'innocenza, ha meno il suo
fondamento su i bisogni dell'uomo isolato e libero che sulle passioni dell'uomo sociabile
e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla sazietà dei piaceri, quanto da quella
educazione che comincia per render gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad
altri, in quelle case dove si condensa l'ardente gioventù, dove essendovi un argine
insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si
consuma inutilmente per l'umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia.
L'infanticidio è parimente l'effetto di una inevitabile
contradizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto.
Chi trovasi tra l'infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non
preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l'infelice
frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi
efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi
col manto della virtú.
Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano
questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una
conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire
necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo
possibile nelle date circostanze d'una nazione per prevenirlo.
§ XXXII
SUICIDIO
Il suicidio è un delitto che sembra non poter
ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può cadere che o su gl'innocenti,
o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non farà alcuna impressione su i
viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua, quella è ingiusta e tirannica,
perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno
meramente personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda li
conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza, dolcissimo
inganno de' mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di
contento, gli alletta troppo perché temer si debba che la necessaria impunità di un tal
delitto abbia qualche influenza sugli uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma
la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il motivo che
tratterrà la mano disperata del suicida?
Chiunque si uccide fa un minor male alla società che
colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi lascia tutta la sua sostanza,
ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere. Anzi se la forza della società
consiste nel numero de' cittadini, col sottrarre se stesso e darsi ad una vicina nazione
fa un doppio danno di quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla
società. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso alla nazione il
lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun membro di essa.
Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle
circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi regna
l'opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del legislatore, che resiste
alle dirette e violente, cosí le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il
loro avvilimento alle leggi anche piú salutari, che sono risguardate piú come un
ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i nostri
sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle
leggi tanto meno ne resterà alle leggi medesime. Da questo principio il saggio
dispensatore della pubblica felicità può trarre alcune utili conseguenze, che,
esponendole, mi allontanerebbono troppo dal mio soggetto, che è di provare l'inutilità
di fare dello stato una prigione. Una tal legge è inutile perché, a meno che scogli
inaccessibili o mare innavigabile non dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere
tutti i punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi? Chi tutto trasporta
non può, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto subito che è commesso non
può piú punirsi, e il punirlo prima è punire la volontà degli uomini e non le azioni;
egli è un comandare all'intenzione, parte liberissima dell'uomo dall'impero delle umane
leggi. Il punire l'assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed inevitabile
collusione, che senza tiranneggiare i contratti non può esser tolta, arrenerebbe ogni
commercio da nazione a nazione. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l'impedire
che si ripari il male fatto alla società col rendere tutte le assenze perpetue. La
proibizione stessa di sortire da un paese ne aumenta il desiderio ai nazionali di
sortirne, ed è un avvertimento ai forestieri di non introdurvisi.
Che dovremo pensare di un governo che non ha altro mezzo
per trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime impressioni dell'infanzia
alla loro patria, fuori che il timore? La piú sicura maniera di fissare i cittadini nella
patria è di aumentare il ben essere relativo di ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo
perché la bilancia del commercio sia in nostro favore, cosí è il massimo interesse del
sovrano e della nazione che la somma della felicità, paragonata con quella delle nazioni
circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i principali elementi
di questa felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla disuguaglianza, che
cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si addenserebbono in una
sola mano. Dove i confini di un paese si aumentano in maggior ragione che non la
popolazione di esso, ivi il lusso favorisce il dispotismo, sí perché quanto gli uomini
sono piú rari tanto è minore l'industria; e quanto è minore l'industria, è tanto piú
grande la dipendenza della povertà dal fasto, ed è tanto piú difficile e men temuta la
riunione degli oppressi contro gli oppressori, sí perché le adorazioni, gli uffici, le
distinzioni, la sommissione, che rendono piú sensibile la distanza tra il forte e il
debole, si ottengono piú facilmente dai pochi che dai molti, essendo gli uomini tanto
piú indipendenti quanto meno osservati, e tanto meno osservati quanto maggiore ne è il
numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior proporzione che non i confini, il lusso
si oppone al dispotismo, perché anima l'industria e l'attività degli uomini, e il
bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perché quegli d'ostentazione, che
aumentano l'opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi può osservarsi che
negli stati vasti e deboli e spopolati, se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso
d'ostentazione prevale a quello di comodo; ma negli stati popolati piú che vasti il lusso
di comodo fa sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei
piaceri del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo di molti,
pure comincia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior
numero, talché non impedisce il sentimento della miseria, piú cagionato dal paragone che
dalla realità. Ma la sicurezza e la libertà limitata dalle sole leggi sono quelle che
formano la base principale di questa felicità, colle quali i piaceri del lusso
favoriscono la popolazione, e senza di quelle divengono lo stromento della tirannia.
Siccome le fiere piú generose e i liberissimi uccelli si allontanano nelle solitudini e
nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e ridenti campagne all'uomo
insidiatore, cosí gli uomini fuggono i piaceri medesimi quando la tirannia gli
distribuisce.
Egli è dunque dimostrato che la legge che imprigiona i
sudditi nel loro paese è inutile ed ingiusta. Dunque lo sarà parimente la pena del
suicidio; e perciò, quantunque sia una colpa che Dio punisce, perché solo può punire
anche dopo la morte, non è un delitto avanti gli uomini, perché la pena, in vece di
cadere sul reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse che una tal
pena può nondimeno ritrarre un uomo determinato dall'uccidersi, io rispondo: che chi
tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l'esistenza quaggiù, talché vi
preferisce un'infelice eternità, deve essere niente mosso dalla meno efficace e piú
lontana considerazione dei figli o dei parenti.
§ XXXIII
CONTRABBANDI
Il contrabbando è un vero delitto che offende il
sovrano e la nazione, ma la di lui pena non dev'essere infamante, perché commesso non
produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà pene infamanti a' delitti che non
sono reputati tali dagli uomini, scema il sentimento d'infamia per quelli che lo sono.
Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano
ed a chi assassina un uomo o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza
tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti
secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell'animo umano, per far
nascere i quali fu creduto necessario l'aiuto dei piú sublimi motivi e un tanto apparato
di gravi formalità.
Questo delitto nasce dalla legge medesima poiché,
crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione di fare il
contrabbando e la facilità di commetterlo cresce colla circonferenza da custodirsi e
colla diminuzione del volume della merce medesima. La pena di perdere e la merce bandita e
la roba che l'accompagna è giustissima, ma sarà tanto piú efficace quanto piú piccola
sarà la gabella, perché gli uomini non rischiano che a proporzione del vantaggio che
l'esito felice dell'impresa produrrebbe.
Ma perché mai questo delitto non cagiona infamia al di
lui autore, essendo un furto fatto al principe, e per conseguenza alla nazione medesima?
Rispondo che le offese che gli uomini credono non poter essere loro fatte, non
l'interessano tanto che basti a produrre la pubblica indegnazione contro di chi le
commette. Tale è il contrabbando. Gli uomini su i quali le conseguenze rimote fanno
debolissime impressioni, non veggono il danno che può loro accadere per il contrabbando,
anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno fatto al
principe; non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando,
quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il carattere, ed
altri mali che posson loro accadere. Principio evidente che ogni essere sensibile non
s'interessa che per i mali che conosce.
Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi
non ha roba da perdere? No: vi sono dei contrabbandi che interessano talmente la natura
del tributo, parte cosí essenziale e cosí difficile in una buona legislazione, che un
tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione medesima, fino alla servitù;
ma prigione e servitù conforme alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia
del contrabbandiere di tabacco non dev'essere comune con quella del sicario o del ladro, e
i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha voluto
defraudare, saranno i piú conformi alla natura delle pene.
§ XXXIV
DEI DEBITORI
La buona fede dei contratti, la sicurezza del
commercio costringono il legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei debitori
falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito innocente; il
primo dovrebbe esser punito coll'istessa pena che è assegnata ai falsificatori delle
monete, poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle
obbligazioni de' cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni
stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a'
suoi giudici che o l'altrui malizia, o l'altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla
prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per qual barbaro motivo dovrà
essere gettato in una prigione, privo dell'unico e tristo bene che gli avanza di una nuda
libertà, a provare le angosce dei colpevoli, e colla disperazione della probità oppressa
a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la tutela di
quelle leggi che non era in sua balìa di non offendere, leggi dettate dai potenti per
avidità, e dai deboli sofferte per quella speranza che per lo piú scintilla nell'animo
umano, la quale ci fa credere gli avvenimenti sfavorevoli esser per gli altri e gli
avantaggiosi per noi? Gli uomini abbandonati ai loro sentimenti i piú obvii amano le
leggi crudeli, quantunque, soggetti alle medesime, sarebbe dell'interesse di ciascuno che
fossero moderate, perché è piú grande il timore di essere offesi che la voglia di
offendere. Ritornando all'innocente fallito, dico che se inestinguibile dovrà essere la
di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso di sottrarvisi senza
il consenso delle parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui industria, la
quale dovrebb'esser costretta sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di
soddisfare proporzionalmente ai progressi, qual sarà il pretesto legittimo, come la
sicurezza del commercio, come la sacra proprietà dei beni, che giustifichi una privazione
di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti
di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame!
Credo massima legislatoria che il valore degl'inconvenienti politici sia in ragione
composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di
verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e
questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di
falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all'ultima
la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo,
lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla
cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le
fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella matematica, tanto
nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. proprietà dei beni,
che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali
della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella
supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore
degl'inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e
della inversa della improbabilità di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla
colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al
primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di
libertà, riserbando all'ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla
terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di
leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria
prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come
nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze.
Con quale facilità il provido legislatore potrebbe
impedire una gran parte dei fallimenti colpevoli, e rimediare alle disgrazie
dell'innocente industrioso! La pubblica e manifesta registrazione di tutt'i contratti, e
la libertà a tutt'i cittadini di consultarne i documenti bene ordinati, un banco pubblico
formato dai saggiamente ripartiti tributi sulla felice mercatura e destinato a soccorrere
colle somme opportune l'infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente
avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le semplici, le grandi
leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno della nazione
la dovizia e la robustezza, leggi che d'inni immortali di riconoscenza di generazione in
generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute. Uno spirito
inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle
novità s'impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli
mortali.
§ XXXV
ASILI
Mi restano ancora due questioni da esaminare: l'una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di rendersi fralle nazioni reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non dev'esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve ogni cittadino, come l'ombra segue il corpo. L'impunità e l'asilo non differiscono che di piú e meno, e come l'impressione della pena consiste piú nella sicurezza d'incontrarla che nella forza di essa, gli asili invitano piú ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili è il formare tante piccole sovranità, perché dove non sono leggi che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società. Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fralle nazioni, io non ardirei decidere questa questione finché le leggi piú conformi ai bisogni dell'umanità, le pene piú dolci, ed estinta la dipendenza dall'arbitrio e dall'opinione, non rendano sicura l'innocenza oppressa e la detestata virtú; finché la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre piú unisce gl'interessi del trono e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure dell'Asia, quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli.
§ XXXVI
DELLA TAGLIA
L'altra questione è se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando il braccio di ciascun cittadino farne un carnefice. O il reo è fuori de' confini, o al di dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplicio, facendo cosí un'ingiuria ed una usurpazione d'autorità negli altrui dominii, ed autorizza in questa maniera le altre nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di piú, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtú, che ad ogni minimo vento svaniscono nell'animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di parentela, di amicizia, e coll'altra premia chi gli rompe e chi gli spezza; sempre contradittorio a se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutt'i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre piú tendono a confondersi colla vera politica. Gli artificii, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo piú prevedute, e la sensibilità di tutti rintuzza la sensibilità di ciascuno in particolare. I secoli d'ignoranza medesimi, nei quali la morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono d'instruzione e di sperienza ai secoli illuminati. Ma le leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa cosí necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicità, le nazioni la pace, e l'universo qualche piú lungo intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998