Cesare Beccaria
Dei delitti e delle pene
§ XI
DELLA TRANQUILLITA' PUBBLICA
Finalmente, tra i delitti della terza specie sono
particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete de' cittadini,
come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al commercio ed al passeggio
de' cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa
moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e piú dall'oscuro e
misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra
una gran massa d'uomini.
La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie
distribuite ne' differenti quartieri della città, i semplici e morali discorsi della
religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei tempii protetti
dall'autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere gl'interessi privati e pubblici
nelle adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono
tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni.
Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano
della police; ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non
istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i cittadini, si apre una porta alla
tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo
eccezione alcuna a quest'assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o
quando sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in
qualche governo, ciò nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla natura di
governo bene organizzato. L'incertezza della propria sorte ha sacrificate piú vittime
all'oscura tirannia che non la pubblica e solenne crudeltà. Essa rivolta gli animi piú
che non gli avvilisce. Il vero tiranno comincia sempre dal regnare sull'opinione, che
previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o
nel fuoco delle passioni, o nell'ignoranza del pericolo.
Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti?
La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza
e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e
ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di
prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt'i tempi? Qual
influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella
precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido
dubbio non posson resistere. Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato
il primo all'Italia con qualche maggior evidenza ciò che altre nazioni hanno osato
scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti
degli uomini e dell'invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle
angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell'ignoranza, ugualmente
fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei trasporti della gioia mi
consolerebbero dal disprezzo degli uomini.
§ XII
FINE DELLE PENE
Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.
§ XIII
DEI TESTIMONI
Egli è un punto considerabile in ogni buona
legislazione il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e le prove del
reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie idee e
le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, può essere testimonio.
La vera misura della di lui credibilità non è che l'interesse ch'egli ha di dire o non
dire il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile
l'applicazione degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente
la nota d'infamia negl'infami quando non abbiano alcun interesse di mentire. La
credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione dell'odio, o dell'amicizia, o delle
strette relazioni che passano tra lui e il reo. Piú d'un testimonio è necessario,
perché fintanto che uno asserisce e l'altro nega niente v'è di certo e prevale il
diritto che ciascuno ha d'essere creduto innocente. La credibilità di un testimonio
diviene tanto sensibilmente minore quanto piú cresce l'atrocità di un delitto o
l'inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le azioni
gratuitamente crudeli. Egli è piú probabile che piú uomini mentiscano nella prima
accusa, perché è piú facile che si combini in piú uomini o l'illusione dell'ignoranza
o l'odio persecutore di quello che un uomo eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o
ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perché l'uomo non è crudele che
a proporzione del proprio interesse, dell'odio o del timore concepito. Non v'è
propriamente alcun sentimento superfluo nell'uomo; egli è sempre proporzionale al
risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità di un testimonio
può essere alcuna volta sminuita, quand'egli sia membro d'alcuna società privata di cui
gli usi e le massime siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha
non solo le proprie, ma le altrui passioni.
Finalmente è quasi nulla la credibilità del
testimonio quando si faccia delle parole un delitto, poiché il tuono, il gesto, tutto
ciò che precede e ciò che siegue le differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse
parole, alterano e modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile il
ripeterle quali precisamente furon dette. Di piú, le azioni violenti e fuori dell'uso
ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di sé nella moltitudine delle
circostanze e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che nella memoria
per lo piú infedele e spesso sedotta degli ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga piú
facile una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo, poiché di queste, quanto
maggior numero di circostanze si adducono in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano
al reo per giustificarsi.
§ XIV
INDIZI, E FORME DI GIUDIZI
Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza degl'indizi di un reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l'una dall'altra, cioè quando gl'indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori prove si adducono tanto è minore la probabilità del fatto, perché i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta né sminuisce la probabilità del fatto, perché tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono. Quando le prove sono indipendenti l'una dall'altra, cioè quando gli indizi si provano d'altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si adducono, tanto piú cresce la probabilità del fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull'altra. Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è dunque quella che determina ogni uomo nelle operazioni piú importanti della vita. Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette. Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare è possibile che uno non sia reo, per l'unione loro nel medesimo soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere divengono perfette. Ma questa morale certezza di prove è piú facile il sentirla che l'esattamente definirla. Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla scelta, perché in questo caso è piú sicura l'ignoranza che giudica per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le leggi siano chiare e precise l'officio di un giudice non consiste in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicarne dal risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato da' suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai suoi pari, perché, dove si tratta della libertà e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la disuguaglianza; e quella superiorità con cui l'uomo fortunato guarda l'infelice, e quello sdegno con cui l'inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo giudizio. Ma quando il delitto sia un'offesa di un terzo, allora i giudici dovrebbono essere metà pari del reo, metà pari dell'offeso; cosí, essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli è ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli senza contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo si condanni da se stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l'opinione, che è forse il solo cemento delle società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accennerò altri dettagli e cautele che richiedono simili instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto.
§ XV
ACCUSE SEGRETE
Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte
nazioni resi necessari per la debolezza della constituzione, sono le accuse segrete. Un
tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può sospettare di vedere in altrui
un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri
sentimenti, e, coll'uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro
medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed
immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni,
sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente
sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della
tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e là nella trista loro
vita, con fretta e con disordine divorati, gli consolano d'esser vissuti. E di questi
uomini faremo noi gl'intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi
troveremo gl'incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e
sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi tributi l'amore e le
benedizioni di tutti i ceti d'uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle capanne la
pace, la sicurezza e l'industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita
degli stati?
Chi può difendersi dalla calunnia quand'ella è armata
dal piú forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai
quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico ed è costretto per il
pubblico riposo di toglierlo a ciascuno?
Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e
le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della forma di
governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la forza, e l'opinione piú
efficace di essa, teme d'ogni cittadino? L'indennità dell'accusatore? Le leggi dunque non
lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi piú forti del sovrano! L'infamia del
delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del
delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano delitti, le
accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cioè
pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità
dell'esempio, cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno
in particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che può credersi
l'estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia inerente al sistema di una
nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato dell'universo,
prima di autorizzare un tale costume, la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità
dinanzi agli occhi.
È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le
pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe
la prima passione de' cittadini, che nella monarchia, dove questo sentimento è
debolissimo per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento il destinare
de' commissari, che in nome pubblico accusino gl'infrattori delle leggi. Ma ogni governo,
e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe
all'accusato.
§ XVI
DELLA TORTURA
Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior
parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per constringerlo
a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei
complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o
finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo prima della
sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando
sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel
diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad
un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il
delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle
leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è
incerto, e' non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i
di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch'egli è un voler confondere
tutt'i rapporti l'esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che
il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei
muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti
scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo
preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari
anch'essi per piú d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e
troppo lodata virtú.
Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli
altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine, che
la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti? Egli è importante che ogni
delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un
delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v'è rimedio, non
può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga
dell'impunità. S'egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o
per virtú, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare
un innocente deve valutarsi tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità che un uomo
a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione
dell'infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua
deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso non dovrebbe esser tollerato nel
decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, purghi l'infamia, che
è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l'infamia è forse un corpo
misto impuro? Non è difficile il rimontare all'origine di questa ridicola legge, perché
gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione
ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest'uso preso dalle
idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le
nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte
dall'umana debolezza e che non hanno meritata l'ira eterna del grand'Essere, debbono da un
fuoco incomprensibile esser purgate; ora l'infamia è una macchia civile, e come il dolore
ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura
non toglieranno la macchia civile che è l'infamia? Io credo che la confessione del reo,
che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non
dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è
parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi piú sicuri della
rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d'ignoranza, cosí ad
essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni e ne fa le piú assurde e lontane
applicazioni. Ma l'infamia è un sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione,
ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la
vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l'infamia dando l'infamia.
Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti
rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il timore della pena,
l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestà del giudice, l'ignoranza, comune a
quasi tutti gli scellerati e agl'innocenti, non debbano probabilmente far cadere in
contradizione e l'innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le
contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella
turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della verità è un monumento
ancora esistente dell'antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi
di Dio le prove del fuoco e dell'acqua bollente e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli
anelli dell'eterna catena, che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento
essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che
passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell'acqua bollente, è che l'esito della
prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente
fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È cosí poco
libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l'impedire
senza frode gli effetti del fuoco e dell'acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà
è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e
la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l'impressione del dolore può crescere a
segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la
strada piú corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del
reo è cosí necessaria come le impressioni del fuoco o dell'acqua. Allora l'innocente
sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni
differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per
ritrovarla. È superfluo di raddoppiare il lume citando gl'innumerabili esempi d'innocenti
che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età
che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo
che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra
verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l'uso, il tiranno delle
menti, lo rispinge e lo spaventa. L'esito dunque della tortura è un affare di
temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e
della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che
un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d'un
innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto.
L'esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma
se questa verità difficilmente scuopresi all'aria, al gesto, alla fisonomia d'un uomo
tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano
tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche
volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime
differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.
Queste verità sono state conosciute dai romani
legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai
quali era tolta ogni personalità; queste dall'Inghilterra, nazione in cui la gloria delle
lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli
esempi di virtú e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La
tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de' piú saggi monarchi dell'Europa,
che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de' suoi sudditi, gli ha resi
uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che
possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non
è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte della
feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene piú d'ogni altro ceto servire.
Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell'uso, che le
pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il piú
umano metodo di giudicare.
Questa verità è finalmente sentita, benché
confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta
durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo
non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non
permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri
dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o
ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido
condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un
tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi
hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non
avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete
confessato.
Una strana conseguenza che necessariamente deriva
dall'uso della tortura è che l'innocente è posto in peggiore condizione che il reo;
perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni
contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed
ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando,
resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una
pena maggiore in una minore. Dunque l'innocente non può che perdere e il colpevole può
guadagnare.
La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini,
resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se
vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto
contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi,
dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa.
Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo è di
altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu
sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent'altri delitti; questo dubbio
mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché
sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo.
Finalmente la tortura è data ad un accusato per
discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella non è un mezzo
opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici, che è
una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l'uomo che accusa se stesso non accusi piú
facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli uomini per l'altrui delitto? Non si
scuopriranno i complici dall'esame dei testimoni, dall'esame del reo, dalle prove e dal
corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare
il delitto nell'accusato? I complici per lo piú fuggono immediatamente dopo la prigionia
del compagno, l'incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all'esilio e libera
la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene
l'unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.
§ XVII
DEL FISCO
Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L'oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l'esattore di queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessità dell'esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero, un agente dell'erario fiscale anzi che il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure criminali d'allora, cosí la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz'essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della stabilita, senz'essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s'impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può. Provata l'esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere quest'ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all'avvenire il piú terribile; non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella infallibilità che l'uomo s'arroga in tutte le cose. Gl'indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l'informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla piú felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell'uomo la possibile verificazione di un tale sistema.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998