TORQUATO  TASSO

DISCORSI DELL'ARTE POETICA

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DISCORSO SECONDO

         Scelta ch'avrà il poeta materia per sé stessa capace d'ogni perfezione, li rimane l'altra assai piú difficile fatica, che è di darle forma e disposizione poetica: intorno al quale offìcio, come intorno a proprio soggetto, quasi tutta la virtù de l'arte si manifesta. Ma però che quello che principalmente constituisce e determina la natura de la poesia, e la fa da l'istoria differente, è il considerar le cose non come sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state, avendo riguardo più tosto al verisimile in universale che a la verità de' particulari; prima d'ogn'altra cosa deve il poeta avvertire se ne la materia, ch'egli prende a trattare, v'è avvenimento alcuno, il quale altrimente essendo successo, o piú del verisimile, o piú del mirabile, o per qual si voglia altra cagione, portasse maggior diletto; e tutti i successi, che sí fatti trovarà, cioè che meglio in un altro modo potessero essere avvenuti, senza rispetto alcuno di vero o di istoria, a sua voglia muti e rimuti, e riduca gli accidenti de le cose a quel modo ch'egli giudica migliore, co 'l vero alterato il tutto finto accompagnando.
        Questo precetto molto bene seppe porre in opra il divino Virgilio: però che cosí ne gli errori d'Enea, come ne le guerre passate fra lui e Latino, andò dietro non a quello che vero credette, ma a quello che migliore e più eccellente giudicò; perché non solo è falso l'amore e la morte di Didone, e quello che di Polifemo si dice, e de la Sibilla, e de lo scendere di Enea a l'inferno; ma le battaglie passate fra lui e i popoli del Lazio descrive altrimente di quello ch'avvennero secondo la verità: e ciò, confrontando la sua Eneida co 'l primo di Livio e con altri istorici, chiaramente si vede. Ma sí come in Didone confuse di tanto spazio l'ordine de' tempi, per aver occasione di mescolare fra la severità de l'altre materie i piacevolissimi ragionamenti d'amore, e per assegnare un'alta ed ereditaria cagione de la inimicizia fra Romani e Cartaginesi; e sí come ricorse a la favola di Polifemo e de la Sibilla, per accoppiare il meraviglioso col verisimile; cosí anco alterò la morte di Turno, tacque quella d'Enea, v'aggiunse la morte d'Amata, mutò gli avvenimeuti e l'ordine de' conflitti, per accrescer la gloria d'Enea, e chiuder con un fine piú perfetto il suo nobilissimo poema. A le quali sue finzioni fu molto favorevole l'antichità dei tempi.
        Ma non deve già la licenza de' poeti stendersi tanto oltre, ch’ardisca di mutare totalmente l'ultimo fine de le imprese ch'egli prende a trattare, o pur alcuni di quelli avvenimenti principali e piú noti, che già ne la notizia del mondo [14] sono ricevuti per veri. Simile audacia mostrarebbe colui che Roma vinta e Cartagine vincitrice ci descrivesse, o Anniballe superato a campo aperto da Fabio Massimo, non con arte tenuto a bada. Simile sarebbe stato l'ardire d'Omero, se vero fosse quel che falsamente da alcuni si dice, se ben moltot a proposito de la loro intenzione,

Che i Greci rotti e che Troia vittrice,
E che Penelopea fu meretrice
.

        Però che questo è un torre a fatto a la poesia quella autorita che da l'istoria le viene; da la quale ragione mossi concludemmo, dover l'argomento de l'epico sovra qualche istoria esser fondato. Lassi il nostro epico il tine e l'origine de la impresa. ed alcune cose piú illustri ne la lor verità, o nulla o poco alterata: muti poi, se cosí gli pare. i mezzi e le circostanze, confonda i tempi o gli ordini de l'altre cose, e si dimostri in somma più tosto artiticioso poeta che verace istorico. Ma se ne la materia ch'egli s'ha proposta, alcuni avvenimenti si trovaranno, che così siano successi come a punto dovrebbono esser successi, può il poeta, sí fatti come sono, senza alterazione imitarli, né per ciò de la persona di poeta si spoglia, vestendosi quella di istorico: però che può a le volte avvenire, che altri come poeta, altri come istorico tratti le medesime cose; ma saranno da loro considerate con diverso rispetto, però che l'istorico le narra come vere, il poeta le imita come verisimili. E s'io credo Lucano non esser poeta; non mi muove a ciò credere quella ragione ch'induce alcuni altri in sí fatta credenza, cioè che egli non sia poeta perché narra veri avvenimenti. Questo solo non basta: ma poeta non è egli, perché talmente s'obliga a la verità de' particolari, che non ha rispetto al verisimile in universale; e pur che narri [15] le cose come sono state fatte, non si cura d'imitarle come dovriano essere state fatte.
        Or poiché avrà il poeta ridutto il vero ed i particolari de l'istoria al verisimile ed a l'universale, ch'è proprio de l'arte sua; procuri che la favola (Favola chiamo la forma del poema, che definir si può testura o composizione de gli avvenimenti) procuri, dico, che la favola che indi vuol formare, sia intiera, o tutta che vogliam dire, sia di convenevol grandezza, e sia una. E sovra queste tre condizioni, ch’a la favola son necessarie, distintamente, e con quell'ordine che le ho proposte, discorrerò. Tutta o intiera [16] deve essere la favola, perch'in lei la perfezione si ricerca; ma perfetta non può esser quella cosa ch'intiera non sia. Questa integrità si trovarà ne la favola, s’ella avrà il principio, il mezzo e l'ultimo. Principio è quello che necessariamente non è doppo altra cosa, e l'altre cose son doppo lui. Il fine è quello ch'è doppo l'altre cose, né altra cosa ha doppo sé. Il mezzo è posto fra l'uno e l'altro, ed egli è doppo alcune cose, ed alcune n'ha doppo sé. Ma per uscir alquanto da la brevità de le definizioni, dico ch'intiera è quella fa\vla, che in sé stessa ogni cosa contiene, ch'a la sua intelligenza sia necessaria; e le cagioni e l'origine di quella impresa che si prende a trattare, vi sono espresse; e per li debiti mezzi si conduce ad un fine, il quale nessuna cosa lassi o non ben conclusa o non ben risoluta.
Questa condizione de l'integrità si desidera ne l'Orlando Innamorato del Boiardo, né si trova nel Furioso de l'Ariosto: manca a l'Innamorato il fine, al Furioso il principio: ma ne l'uno non fu difetto d'arte, ma colpa di morte; ne l’altro, non ignoranza, ma elezione di voler fornire ciò che dal primo fu cominciato. Che l’Innamorato sia imperfetto, non vi fa mestieri prova alcuna; che non sia intiero il Furioso, è parimente chiaro: però che se noi vorremo che l'azione principale di quel poema sia l’amor di Ruggiero, vi manca il principio; se vorremo che sia la guerra di Carlo e d'Agramante, parimente il principio vi manca: perché quando o come fosse preso Ruggiero da l'amor di Bradamante non vi si legge; né meno quando, o in che modo, gli Africani movessero guerra a' Francesi, se non forse in uno o 'n due versi, accennato: e molte volte i lettori ne la cognizione di queste favole andarebbono al buio, se da l'Innamorato non togliessero ciò che a la lor cognizione è necessario. Ma si deve, come ho detto, considerare l'Orlando Innamorato e 'l Furioso non come due libri distinti, ma come un poema solo, cominciato da l'uno, e con le medesime fila, ben che meglio annodato e meglio colorite, da l'altro poeta condotto al fine; ed in questa maniera risguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per intelligenza de le sue favole.
        Questa condizione de l'integrità mancherebbe parimente ne l'Iliade d'Omero, se vero fosse che la guerra Troiana avesse presa per argomento del suo poema; ma questa opinione di molti antichi, refiutata e confutata da i dotti del nostro secolo, chiaramente per falsa si manifesta, e se Omero stesso è buon testimonio de la propria intenzione, non la guerra di Troia, ma l'ira d'Achille si canta ne l'lliade: 'Dimmi, Musa, l'ira d'Achille figliuol di Peleo, la quale recò infiniti dolori a i Greci, e mandò molte anime d'eroi a l'inferno. E tutto ciò che de la guerra di Troia si dice, propone di dirlo come annesso e dependente da l'ira d'Achille, ed in somma come episodi che la gloria d'Achille e la grandezza de la favola accrescano; de la quale ira pienamente e l'origine e le cagioni si narrano ne la venuta di Crisa sacerdote, e nel ratto di Briseide; e con un perpetuo tenore sino al fine è condotta, cioè sino a la riconciliazione che fra Achille ed Agamennone da la morte di Patroclo ò cagionata. Sí che perfettissima d'ogni parte è quella favola, e nel seno de la sua testura porta intiera e perfetta cognizione di sé stessa; né conviene accettare altronde estrinseche cose, che la sua intelligenza ci facilitino. Il qual difetto si può per aventura riprendere in alcun moderno, ove è necessario ricorrere a quella prosa che dinanzi per sua dechiarazione porta scritta: però che questa tal chiarezza, che si ha da gli argomenti e da altri sì fatti aiuti, non è né artificiosa né propria del poeta, ma estrinseca e mendicata.
        Ma essendosi trattato a bastanza de la prima condizione richiesta a la favola, passiamo a la seconda, cioè a la grandezza: né paia o soverchio o disconvenevole, se essendosi già ragionato de la grandezza in quel luogo, ove de la elezione de la materia si tratta, ora se ne parli ove l'artificio de la forma si deve considerare: perché ivi a quella grandezza si ebbe riguardo, che portava seco nel poema la materia nuda; qui, a quella grandezza s'avrà considerazione, che viene nel poema da l'arte del poeta col mezzo de gli episodi.
        Ricercano le forme naturali una determinata grandezza, e sono circonscritte dentro a certi termini del piú e del meno, dai quali né con l'eccesso, ne co 'l difetto è lor concesso d'uscire. Ricercano similmente le forme artiflciali una quantita determinata; né potrà la forma de la nave introdursi in un grano di miglio, né meno ne la grandezza del monte Olimpo; però che allora si dice esservi introdotta la forma, che l'operazione, ch'è propria e naturale di quella tal forma, vi s'introduce; ma non potrà già trovarsi l'operazione de la nave, ch'è di solcare il mare, e di condurre gli uomini e le merci da l'uno a l'altro lido, in quantità ch'ecceda di tanto, o di tanti manchi. Tale ancora é forse la natura de' poemi; ma non voglio però che si consideri sino a quanta grandezza possa crescer la forma del poema eroico; ma in sino a quanta grandezza sia convenevole che cresca; e senza alcun dubbio, maggior deve essere, che le favole tragiche e le comiche non sono nate ad essere in sua natura. E sí come ne' piccioli corpi può ben essere eleganza e leggiadria, ma beltà e perfezione non mai; cosí anco i piccioli poemi epici vaghi ed eleganti possono essere, ma non belli e perfetti: perché ne la bellezza e perfezione, oltra la proporzione, vi è la grandezza necessaria. Questa grandezza però non deve eccedere il convenevole, di maniera che quel Tizio ci rappresenti

Il qual disteso sette campi ingombra.

        Ma sí come l'occhio è dritto giudice de la dicevole statura del corpo (però che convenevole grandezza sarà in quel corpo, ne la vista del quale l'occhio non si confonda, ma possa tutte le sue membra rimirando, la lor proporzione conoscere); cosí ancor la memoria commune a de gli uomini è dritta estimatrice de la misura conveniente del poema. Grande è convenevolmente quel poema, in cui la memoria non si perde né si smarrisce; ma tutto unitamente comprendendolo, può considerare come l'una cosa con l'altra sia connessa e da l'altra dependa, e come le parti fra loro e co 'l tutto siano proporzionate. Viziosi sono senza dubbio que' poemi, ed in buona parte perduta è l'opera che vi si spende, ne' quali di poco ha il lettore passato il mezzo, che del priucipio si è dimenticato; però che vi si perde quel diletto che dal poeta, come principale perfezione, deve essere con ogni studio ricercato. Questo è, come l'uno avvenimento doppo l'altro necessariamente o verisimilmente succeda; come l'uno con l'altro sia concatenato e da l'altro inseparabile; ed, insomma, come da una artificiosa testura de' nodi nasca una intrinseca e verisimile ed inespettata soluzione. E, per aventura, chi l'Innamorato e 'l Furioso come un solo poema considerasse, gli potria parere la sua lunghezza soverchia anzi che no, e non atta ad esser contenuta in una semplice lezione da una mediocre memoria.
        Doppo la grandezza siegue l'unità, che fa l'ultima condizione che fu da noi a la favola attribuita. Questa è quella parte, signor Scipione, che ha data a i nostri tempi occasione di varie e lunghe eontese a coloro

Che 'l furor litterato in guerra mena.

Però che alcuni necessaria l'hanno giudicata; altri a l'incontra hanno creduto la moltitudine de le azioni al poema eroico piú convenirsi: Et magno iudice se quisque tuetur; facendosi i difensori de la unità scudo de la autorità d'Aristotele [17], de la maestà de gli antichi greci e latini poeti, né mancando loro quelle armi che da la ragione sono somministrate: ma hanno per avversari l'uso de' presenti secoli, il consenso universale de le donne e cavalieri e de le corti; e, sí come pare, l'esperienza ancora, infallibile paragone de la verità; veggendosi che l'Ariosto, partendo da le vestigie de gli antichi scrittori e de le regole d'Aristotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l'età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovanisce sempre ne la sua fama, e vola glorioso per le lingue de' mortali; ove il Trissino, d'altra parte, che i poemi di Omero religiosamente si propose d'imitare, e dentro i precetti d’Aristotele si ristrinse, mentovato da pochi, letto da pochissimi, prezzato quasi da nissuno, muto nel teatro del mondo, è morto a la luce de gli uomini; sepolto a pena ne le librerie e ne lo studio d’alcun letterato se ne rimane. Né mancano in favore di questa parte, oltre l'esperienza, saldi e gagliardi argomenti; però che alcuni uomini dotti ed ingegnosi, o perché cosí veramente credessero, o per mostrare la forza de l'ingegno loro, e farsi graziosi al mondo, adulando a guisa di tiranno (ché tale è veramente) questo consenso universale, sono andati investigando nuove e sottili ragioni, con le quali l'hanno confermato e fortificato. Io per me, come che abbia questi tali in somma riverenza per dottrina e per facondia, e come che giudichi che ‘l divino Ariosto, e per felicità di natura e per l'accurata sua diligenza e per la varia cognizion di cose e per la lunga pratica de gli eccellenti scrittori, da la quale acquistò un esatto gusto del buono e del bello, arrivasse a quel segno nel poetare eroicamente, a cui nissun moderno, e pochi tra gli antichi son pervenuti; giudico nondimeno, che non sia da esser seguito ne la moltitudine de le azioni; la qual moltitudine scusabile nel poema epico può ben essere, rivolgendo la colpa o a l’uso de’ tempi o al comandamento di principe o a preghiera di dama o ad altra cagione; ma lodevole non sarà però mai riputata.
        Né per passionei né per temerità o a caso mi movo a cosí dire, ma per alcune ragioni; le quali, o vere o verisimili che siano, hanno virtú di piegare o di tener fermo in questa credenza l'animo mio. Cbé se la pittura e l'altre arti imitatrici ricercano, che d'uno una sia l'imitazione; se i filosofi, che vogliono sempre l'esatto e ‘l perfetto de le cose, fra le principali condizioni richieste ne' lor libri, vi cercano l'unità del soggetto; la qual sola mancandovi, imperfetto lo stimano; se ne la tragedia e ne la comedia, finalmente, è da tutti giudicata necessaria: perché questa unità, cercata da' filosofi, seguita da' pittori e da gli scultori, ritenuta da i comici e da i tragici suoi compagni, deve essere da l'epico fuggita e disprezzata? Se l'unità porta in natura perfezione, e imperfezione la moltitudine; onde i Pittagorici quella fra i beni e questa fra' mali annoveravano; onde questa a la materia e quella a la forma s'attribuisce: perchè nel poema eroico ancora non portarà maggior perfezione l'unità, che la moltitudine? Oltra di ciò, presupponendo che la ravola sia il fine del poeta, come afferma Aristotele, e nissuno ha sin qui negato; s'una sarà la favola, uno sarà il fine; se piú e diverse saranno le favole, piú e diversi saranno i fini: ma quanto meglio opera chi riguarda ad un sol fine, che chi diversi fini si propone; nascendo da la diversità de' fini distrazione ne l'animo, ed impedimento ne l'operare; tanto meglio operarà l'imitator d'una sola favola, che l'imitatore di molte azioni. Aggiungo, che da la moltitudine de le favole nasce l’indeterminazione; e può questo progresso andare in infinito, senza che le sia da l’arte prefisso o circonscritto termine alcuno. Il poeta ch'una favola tratta, finita quella, è giunto al suo fine: chi piú ne tesse, o quattro o sei o dieci ne potrà tessere; né piú a questo numero che a quello è obligato: non potrà aver, dunque, determinata certezza, qual sia quel segno ove convenga fermarsi. Ultimamente la favola è la forma essenziale del poema, come nissun dubita; or, se piú saranno le favole distinte fra loro, l'una de le quali da l'altra non dependa, piú saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo, che chiamiamo un poema di piú azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o que' poemi saranno perfetti, o imperfetti: se perfetti, bisognarà ch'abbiano la debita grandezza; e avendola, ne risulterà una mole piú grande assai, che non sono i volumi de’ leggisti [18]: se imperfetti, è meglio a far un sol poema perfetto, che molti imperfetti. Tralasso, che se questi poemi son molti, e distinti di natura, come si prova per la mol titudine e distinzion de le favole, ha non solo del confuso, ma del mostruoso ancora il traporre e mescolare le membra de l'uno con quelle de l'altro; simile a quella fera che ci descrive Dante:

Ellera abbarbicata mai non fue
Ad arbor sì, come l'orribil fera
Per l'altrui membra avviticchiò le sue;

e quel che segue. Ma perché io ho detto, che il poema di piú azioni sono molti poemi; ed innanzi dissi ehe l'Innamorato e 'l Furioso erano un sol poema; non si noti contrarietà ne la mia opinione: pero che qui intendo la voce esattamente secondo il suo proprio e vero signiflcato, ed ivi la presi come comunemente s'usa; un sol poema, cioè una sola composizione d'azioni, come si direbbe una sola istoria. Da queste ragioni mosso per aventura Aristotele, o da altre ch'egli vide, ed a me non sovvengono, determinò che la favola del poema una esser dovesse: la qual determinazione fu come buona accettata da Orazio ne la Poetica, là dove egli disse ciò che si tratta sia semplice ed uno. A questa determinazione vari con varie ragioni hanno ripugnato, escludendo da que' poemi eroici, che romanzi si chiamano, l'unità de la favola, non solo come non necessaria, ma come dannósa eziandio. Ma non voglio referir già tutto ciò ch'intorno a questa materia è detto da loro; perché alcune cose si leggono ip alcuni assai leggiere e puerili e indegne totalmente di risposta. Solo addurrò quelle ragioni che con maggior sembianza di verità questa opinione confermano; le quali in somma a quattro si riducono, e sono queste.
        Il romanzo (cosí chiamano il Furioso e gli altri simili) è spezie di poesia diversa da la epopeia, e non conosciuta da Aristotele: per questo non è obbligata a quelle regole che dà Aristotele de la epopeia. E se dice Aristotele, che l'unità de la favola è necessaria ne la epopeia; non dice però che si convenga a questa poesia di romanzi, ch'è di natura non conosciuta da lui. Aggiungono la seconda ragione, ed è tale. Ogni lingua ha da la natura alcune condizioni proprie e naturali di lei, ch'a gli altri idiomi per nissun modo convengono: il che apparirà manifesto a chi andrà minutamente considerando quante cose ne la greca favella hanno grazia ed energia mirabile, che ne la latina poi fredde e insipide se ne restano; e quante ve ne sono, ch'avendo forza e virtú grandissima ne la latina, suonano male ne la toscana. Ma fra l'altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, una n'è questa, cioè la moltitudine de le azioni; e sí come a' Greci e Latini disconvenevole sarebbe la moltitudine de le azioni, così a Toscani l'unità de la favola non si conviene. Oltra di ciò, quelle poesie sono migliori, che da l'uso sono piú approvate, appo il quale è l'arbitrio e la podestà cosí sovra la poesia, come sovra l'altre cose. E ciò testifica Orazio ove dice:

Quem penes arbitrium est jus et norma loquendi.

        Ma questa maniera di poesia, che romanza si chiama è piú approvata da l'uso, migliore, dunque, deve essere giudicata. Ultimamente cosí concludono: quello è piú perfetto poema che meglio asseguisce il fine de la poesia; ma molto meglio e piú facilmente è asseguito dal romanzo che da la epopeia, cioè da la moltitudine che da la unità de le azioni; si deve dunque il romanzo a l'epopeia preporre: ma che 'l romanzo meglio conseguisca il fine è cosí noto, che non vi fa quasi mestiero prova alcuna; però che essendo il flne de la poesia il dilettare, maggior diletto ci recano i poemi di piú favole che d'una sola, come l'esperienza ci dimostra.
        Questi sono i fondamenti, sovra i quali si sostiene l`opinione ai coloro, che la moltitudine de le azioni hanno giudicata ne' romanzi convenevole: saldi e certi veramente, ma non però tanto che da le macchine de la ragione non possano esser espugnati; se pur la ragione sta da la parte contraria, come a me giova di credere: contra i quali la debolezza del mio ingegno. in questa ragione confldato, non restarò d'adoperare.
        Ma vegnamo al primo fondamento, ove si dice: è il romanzo spezie distiuta da l'epopeia, non conosciuta da Aristotele; per questo non deve cadere sotto quelle regole, a le quali egli obliga l'epopeia. Se il romanzo è spezie distinta da l'epopeia, chiara cosa è che per qualche differenza essenziale è distinto; perché le differenze accidentali non possono fare diversità di spezie: ma non trovandosi fra il romanzo e l'epopeia differenza alcuna specifica, ne segne chiaramente, che distinzione alcuna di spezie fra loro non si trovi. Che non si trovi tra loro differenza alcuna essenziale, a ciascuno agevolmente può esser manifesto. Tre solamente sono le differenze essenziali ne la poesia; da le quali, quasi da vari fonti, vari e distinti poemi derivano; e sono, come nel precedente Discorso dicemmo, la diversità de le cose imitate, la diversità de la maniera d'imitare, e la diversità de gli istromenti co' quali s'imita. Per queste sole gli epici, i comici, i tragici e' citaristi sono differenti: da queste nascerebbe la diversità de la spezie fra 'l romanzo e la epopeia, s'alcuna ve ne fosse. Imita il romanzo e l'epopeia le medesime azioni; imita co 'l medesimo modo; imita con gli stessi istrumenti: sono dunque : de la medesima spezie. Imita ii romanzo e l'epopeia le medesime azioni, cioè l'illustri; né solo è fra loro quella convenienza d'imitar l'illustre in genere, ch'è fra l'epico e 'l tragico, ma ancora una piú particolare e piú stretta affinità d'imitare il medesimo illustre; quello dico, che non è fondato sovra la grandezza de' fatti orribili e compassionevoli, ma sovra le generose e magnanime azioni de gli eroi; quello illustre, dico, che si determina non con le persone di mezzo tra 'l vizio e la virtú ma le valorose in supremo grado di eccellenza: la qual convenienza d'iminitare il medesimo illustre chiaramente si vede fra' nostri romanzi e gli epici de' Latini e de' Greci. Imita il romanzo e l'epopeia con l'istessa maniera; ne l'uno e ne l'altro poema vi appare la persona del poeta; vi si narrano le cose, non si rappresentano; né ha per fine la scena e l'azioni de gli istrioni, come la tragedia e la comedia. Imitano co' medesimi istrumenti; l'uno e l'altro usa il verso nudo, non servendosi mai né del ritmo né de l'armonia, che sono del tragico e del comico.
        Da la convenienza dunque de le azioni imitate e degli istrumenti, e del modo d'imitare, si conclude essere la medesima spezie di poesia quella ch'epica vien detta e quella che romanzo si chiama. Onde poi questo nome di romanzo [19] sia derivato, varie sono l'opinioni, ch'ora non fa mestieri di raccontare; ma non è inconveniente che sotto la medesima spezie alcuni poemi si trovino diversi per diversità accidentali, i quali con diverso nome siano chiamati: sí come fra le comedie [20] altre sono state dette statarie, altre.... ; altre dal sago, altre da la toga prendevano il nome; ma tutte però convenivano ne' precetti e ne le regole essenziali de la comedia; come questo de l'unità. Se dunque il romanzo e l'epopeia sono d'una medesima spezie, a gli oblighi de le stesse regole devono essere ristretti; massi- mamente di quelle regole parlando, che non solo in ogni poema eroico, ma in ogni poema assolutamente sono necessarie. Tale è l'unità de la favola, la quale Aristotele in ogni spezie di poema ricerca, non piú ne l'eroico che nel tragico o nel comico: onde, quando anco fosse vero ciò che si dice, che 'l romanzo non fosse poema epico, non però ne seguirebbe che l'unità de la favola non fosse in lui, secondo il parer d'Aristotele, necessaria. Ma che ciò non sia vero, a bastanza mi pare dimostrato; ché se pur volevano affermare, che 'l romanzo è spezie distinta da l'epopeia, conveniva lor dimostrare che Aristotele à manco e difettoso ne l'assegnate le differenze; e chi ben considera quelle diffe- renze da le quali par che proceda diversità di spezie fra 'l romanzo e l'epopeia, sono in guisa accidentali, che piú accidentale non è ne l'uomo l'essere esercitato nel corso e ne la palestra, o saper l'arte de lo schermo. Tale è quella, che l'argomento del romanzo sia finto, e quello de l'epopeia tolto da la istoria: ché se questa fosse differenza specifica, necessariamente sarebbono diversi di spezie tutti que' poemi, fra' quali questa differenza si ritrovasse. Diversi, dunque, di spezie sarebbono il Fior d'Agatone e l'Edippo di Sofocle, ed in somma quelle tragedie il cui argomento fosse finto, da quelle che l'avessero da l'istoria: e, secondo la ragione usata da loro, la tragedia d'argomento finto non avrebbe l'obligo di quelle medesime regole, che ha la tragedia d'argomento vero. Onde né l'unità de la favola sarebbe in lei necessaria, né 'l movere il terrore e la compassione sarebbe il suo fine. Ma questo, senza alcun dubbio, è inconveniente: inconveniente dunque sarebbe ancora, che la finzione o verità de l'argomento fosse differenza specifica.
        Del medesimo valore sono l'altre differenze ch'assegnano; e co' fandamenti de l'istessa ragione si possono confutare. E perché molti hanno creduto, che lI romanzo sia specio di poesia non conosciuta da Aristotele, non voglio tacer questo, che spezie di poesia non è oggi in uso, né fu in uso ne gli antichi tempi, né per un lungo volger di secoli di nuovo sorgerà, no la cui cognizione non si debba credore che penetrasse Aristotele con quella medesima acutezza d'ingegno, con la quale tutte le cose, ch'in questa gran macchina Dio e la natura rinchiuse, sotto dieci capi dispose, e con la quale, tanti e sí vari sillogismi ad alcune poche forme riducendo, breve e perfetta arte ne compose; sí che quella arte incognita a gli antichi filosofi, se non quanto naturalmente ciascun ne participa, da lui solo e 'l primo principio e l'ultima perfezione riconosce. Vide Aristotele che la natura de la poesia non era altro che imitare; vide conseguentemente, che la diversità de le sue spezie non poteva in lei altrande derivare, che da qualche diversità di questa imitazione; e che questa varietà solo in tre guise potea nascere, o da le cose, o dal modo, o da gli istromenti. Vide dunque quante potevano essere le differenze essenziali de la poesia; ed avende viste le differenze, vide in conseguenza quante potevano essere le sue spezie; perché essendo determinate le differenze che costituiscono le spezie, determinate conviene che siano le spezie, e tante solamente, quanti sono i modi, ne' quali possano congiunersi (o combinare, come si dice) le differenze.
        Era la seconda ragione, ch'ogni lingua ha alcune particolari proprietà, e che la moltitudine de le azioni è propria de' poemi toscani, come è l'unità de' latini e de' greci. Non nego io che ciascuno idioma non abbia alcune cose proprie di lui; però che alcune elocuzioni veggiamo cosí proprie d'una lingua, che 'n altra favella dicevolmente non possono esser trasportate. È la lingua greca molto atta a la espressione d'ogni minuta cosa: a questa istessa espressione inetta è la latina, ma molto piú capace di grandezza e di maestà: e la nostra lingua toscana, se bene con egnal suono ne la descrizione de le guerre non ci riempie gli orecchi, con maggior dolcezza nondimeno nel trattare le passioni amorose ce le lusinga. Quello dunque ch'è proprio d'una lingua, o è frasi ed elocuzione, e ciò nulla importa al nostro propósito, parlando noi d'azioni e non di parole: o pur diremo proprio d'una lingua quelle materie, le quali meglio da lei che da altra sono trattate, come è la guerra da la latina, e l'amore da la toscana. Ma chiara cosa è, che se la toscana favella sarà atta ad esprimere molti accidenti amorosi, sarà parimente atta ad esprimerne uno; e se la lingua latina sarà disposta a trattare un successo di guerra, sarà parimenti disposta a trattarne molti; sí ch'io per me non posso conoscere la cagione, che l'unità de l'azioni sia propria de' latini poemi, e la moltitudine de' volgari. Né, per aventura, cagione alcuna se ne può rendere: che se essi a me diranno, per qual cagione le materie de la guerra sono stimate piú proprie de la latina e l'amorose de la toscana; risponderei, che ciò si dice avvenire per le molte consonanti de la latina, e per la lunghezza del suo esametro, piú atte a lo strepito de le armi ed a la guerra; e per le vocali de la toscana, e per l'armonia de le rime, piú convenevole a la piacevolezza de gli affetti amorosi: ma non però queste materie sono in guisa proprie di questi idiomi, che l'armi ne la toscana e gli amori ne la latina non possano convenevolmente esserci espressi da eccellente poeta. Concludendo dunque dico, che se ben'è vero ch'ogni lingua abbia le sue proprieta, è detto nondimeno senza ragione alcuna, che la moltitudine de le azioni sia propria de' vulgari poemi, e l'unità de' latini e de' greci. Né piú malagevole è il rispondere a la ragione, la quale era, che quelle poesie sono più eccellenti, che piú sono da l'uso approvate; onde più eccellente è il romanzo de l'epopeia, essendo piú da l'uso approvato. A questa ragione volendo io contradire, conviene che, per maggior intelligenza e chiarezza de la verità, derivi da piú alto principio il mio ragionamento.
        Ci ha alcune cose, che 'n sua natura non sono né buone né ree, ma dependendo da l'uso, buone e ree sono, secondo che l'uso le determina. Tale è il vestire, che tanto è lodevole, quanto da la consuetudine viene accettato: tale é il parlare; e perciò fu convenevolmente risposto a colui: Vivi come vissero gli uomini antichi, e parla come oggidí si ragiona. Di qui avviene che molte parole, che già scelte e pellegrine furono, or trite da le bocche de gli uomini comuni, vili e popolaresche sono divenute: molte a l'incontra, che prima come barbare e orride erano schivate, or come vaghe e cittadine si ricevono: molte ne invecchiano, molte ne muoiono e ne nascono, e ne nasceranno molte altre, come piace a l'uso, che con pieno e libero arbitrio le governa. E questa mutazion de le voci fu con la comparazione de le foglie mirabilmente espressa da Orazio:

Ut sylvae foliis pronos mutantur in annos,
Prima cadunt; ita verboram vetus interit aetas,
Et iuvenum ritu ftorent modo nata vigentque
.

E soggiunge:

Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque
Quae nunc sunt in honore vocabula; si volet usus,
Quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

        Da questa stessa ragione concluduno i Peripatetici contra quello che alcuni fllosofi credettero, che le parole non siano opere da la natura composte, né piú in lor natura una cosa ch'un'altra significhino; ché se tali fossero, da l'uso non dependerebbono: ma che siano fattura de gli uomini, nulla per sé stesse dinotanti; onde, come a lor piace, può or questo or quel concetto esser da esse significato: e non avendo bruttezza o bellezza alcuna, che sia lor propria e naturale, belle e brutte paiono secondo l'uso le giudica, il quale mutabilissimo essendo, necessario è che mutabili siano tutte le cose che da lui dependono.
        Tali in somma sono non solo il vestire e 'l parlare, ma tutte quelle che, con un nome comune, usanze si chiamano. Queste, come il lor nome dimostra, da la consuetudine al biasimo ed a la lode sono determinate. E sotto questa considerazione caggiono molte di quelle opposizioni che si fanno ad Omero intorno al decoro de le persone, come alcuni dicono, mal conosciuto da lui. Alcune altre cose si ritrovano poi, che tali determinatamente sono in sua natura; cioè, o buone o ree sono per sé stesse, e non ha l'uso sovra loro imperio o autorità nessuna. Di questa sorte è il vizio e la virtú: per sé stesso è malvagio il vizio, per sé stessa è onesta la virtù; e l'opere virtuose e viziose sono per sé stesse e lodevoli e degne di biasimo. E quel che per sé stesso è tale, perché il mondo e i costumi si variino, sempre nondimeno sarà tale; né s'una volta meritò lode colui che rifiutò l'oro de' Sanniti, o colui, che

Legò sé vivo, e 'l padre morto sciolse [21],

di queste azioni lor sarà mai, per volger di secoli, biasimo attribuito. Di questa sorte sono parimente l'opere de la natura, di maniera che quel ch'una volta fu eccellente, malgrado de la instabilità de l'uso, sarà sempre eccellente. È la natura stabilissima ne le sue operazioni, e procede sempre con un tenore certo e perpetuo, se non quanto per difetto e incostanza de la materia si vede talor variare; perché guidata da un lume e da una scorta infallibile, riguarda sempre il buono e 'l perfetto; ed essendo il buono e 'l perfetto sempre il medesimo, conviene che 'l suo modo di operare sia sempre il medesimo. Opera de la natura è la bellezza, la qual consistendo in certa proporzion di membra, con grandezza convenevole e con vaga soavità di colori, queste condizioni che belle per se stesse una volta furono, belli sempre saranno, né potrebbe l'uso fare ch'altrimente paressero: sí come, a l'incontra, non può far l'uso sí, che belli paiano i capi aguzzi, o i gozzi, fra quelle nazioni, ove sí fatte qualità ne la maggior parte de gli uomini si veggiono. Ma tali in sé stesse essendo l'opere de la natura, tali in sé stesse conviené che siano l'opere di quell'arte che, senza alcun mezzo de la natora è imitatrice.
        E per fermarsi su l'esempio dato, se la proporzione de le membra per se stessa è bella, questa medesima imitata dal pittore e da lo scultore per sé stessa sarà bella; e se lodevole è il naturale, lodevole sarà sempre l'artiffcioso, che dal naturale depende. Di qui avviene che quelle statue di Prassitele o di Fidia, che salve da la malignità de' tempi ci sono restate, cosí belle paiono a i nostri uomini, come belle a gli antichi soleano parere; né il corso di tanti secoli, o l'alterazione di tante usanze, cosa alcuna ha potuto scemare de la loro degnità. Avendo io in questo modo distinto, facilmente a quella ragione si può rispon- dere, ne la quale si dice che piú eccellenti sono quelle poesie che piú approva l'uso, perché ogni poesia è composta di parole e di cose. In quanto a le parole, concedasi (poi che nulla rileva al nostro proposito) cha quelle migliori siano, che piú da l'uso sono commendate; però che in sé stesse né belle sono né brutte, me quali paiono, tali la consuetudine le fa parere: onde le voci che appo il re Enzo [22], ed appo gli altri antichi dicitori rono in prezzo, suonano a l'orecchie nostre un non so che di spia- cevole. Le cose poi che da l'usanza dependono, come la maniera de l'armeggiare, i modi de l'aventure, il rito de' sacriflci e de' conviti, le cerimonie, il decoro e la maestà de le persone; queste, dico, come piace a l'usanza, che oggi vive e che domina il mondo, si devono accomodare. Però disconvenevole sarebbe ne la maestà de' nostri tenipi ch'una flgliuola di re insieme con le vergini sue compagne andasse a lavare i panni al fiume; e questo in Nausicaa, introdotta da Omero, non era in quei tempi disconvenevole: parimente, che in cambio de la giostra s'usasse il combatter su i carri, e molte altre cose simili, che per brevità trapasso. Però poco giudicioso in questa parte si mostrò il Trissino ch'imitò in Omero quelle cose ancora, che la mutazione de' costumi avea rendute men lodevoli. Ma quelle che immediatamente sovra la natura sono fondate, e che per sé stesse sono buone e lodevoli, non hanno riguardo alcuno a la consuetudine; né la tirannide de l'uso sovra loro in parte alcuna si estende. Tale è l'unità de la favola, che porta in sua natura bontà e perfezione nel poema, sí come in ogni secolo passato e futuro ha recato e recarà. Tali sono i costumi; non quelli che con nome d'usanze sono chiamati, ma quelli che ne la natura hanno fisse le loro radici, de' quali parla Orazio in quei versi:

Reddere qui voces jam scit puer, et pede certo
Signat humum, gestit paribus colludere, et iram
Colligit, et ponit temere, et mutatur in horas.

        Intorno a la convenevolezza de' quali si spende quasi tutto il secondo de la Retorica d'Aristotele. A questi costumi del fanciullo, del vecchio, del ricco, del potente, del povero e de l'ignobile, quel che in un secolo è convenevole, in ogni secolo è convenevole: ché se ciò non fosse, non n'avrebbe parlato Aristotele, però ch'egli di sole quelle cose fa profession di parlare, che sotto l'arte possono cadere; e l'arte essendo certa e determinata, non può comprendere sotto le sue regole ciò che, dependendo da la instabilità de l'uso, è incerto e mutabile. Sí come anco non avrebbe ragionato de l'unità de la favola, s'egli non avesse giudicata questa condizione essere in ogni secolo necessaria. Ma mentre vogliono alcuni nova arte sovra novo uso fondare, la natura de l'arte distruggono, e quella de l'uso mostrano di non conoseere.
        Questa è, signor Scipione, la distinzione, senza la quale non si può rispondere a coloro che dimandassero quali poemi debbono esser piú tosto imitati; o quelli de gli antichi epici, o quelli de' moderni romanzatori; perché in alcune cose a gli antichi, in alcune a' moderni debbiamo assomigliarci. Questa distinzione, mal conosciuta dal vulgo, che suol piú rimirare gli accidenti che le sostanza de le cose, è cagione ch'egli veggendo poca convenevolezza di costumi e poca leggiadria d'invenzioni in que' poemi, ne' quali la favola è una, crede che l'unità de la favola sia parimente biasimevole. Questa medesima distinzione mal conosciuta da alcuni dotti, gli indusse a lassar la piacevolezza de le aventure e de le cavallerie de' romanzi, e il decoro de' costumi moderni, ed a prender da gli antichi, insieme con l'unità de la favola l'altre parti ancora, che men care ci sono. Questa, ben conosciuta e ben usata, fia cagione che con diletto non meno da gli uomini vulgari che da gli intelligenti i precetti de l'arte siano osservati; prendendosi da l'un lato, con quella vaghezza d'invenzioni, che ci rendono sí grati i romanzi, il decoro de' costumi; da l'altro, con l'unità de la favola, la saldezza e 'l verisimile, che ne' poemi d'Omero e di Virgilio si vede.
        Resta l'ultima ragione, la qual' era, che essendo il fine de la poesia il diletto, quelle poesie sono piu eccellenti, che meglio questo fine conseguiscono; ma meglio il conseguisce il romanzo che l'epopeia, come l'esperienza dimostra. Concedo io quel che vero stimo, e che molti negarebbono; cioè, che 'l diletto sia il fine de la poesia. Concedo parimente quel che l'esperienza ci dimostra; cioè che maggior diletto rechi a' nostri uomini il Furioso, che l'Italia liberata, o pur l'Iliade o l'Odissea. Ma nego però quel ch'è principale, e che importa tutto nel nostro proposito; cioè, che la moltitudine de le azioni sia piú atta a dilettare, che l'unità; perché se bene piú diletta il Furioso, il qual molte favole contiene, che la Italia liberata, o pur i poemi d'Omero, ch'una ne contengono; non avviene per rispetto de la unità o de la moltitudine, ma per due cagioni, le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L'una, perché nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture ed incanti, e in somma invenzioni piú vaghe e piú accomodate a le nostre orecchie, che quelle del Trissino non sono; le quali invenzioni non sono piú determinate a la moltitudine che a la unità: ma in questa ed in quella si possono egualmente ritrovare. L'altra è perché ne la oonvenevolezza de le usanze, e nel decoro attribuito a le persone, molto piú eccellente si dimostra il Furioso, Queste cagioni sí come sono accidentali a la moltitudine e a l'unità de la favola, e non in guisa proprie di quella, che a questa non siano convenevoli; così anco non debbono concludere, che piú diletti la moltitudine che l'unità. Perciò che essendo la nostra umanità composta di nature assai fra loro diverse, è necessario che d’una istessa cosa sempre non si compiaccia, ma con la diversità procuri or a l'una, or a l'altra de le sue parti sodisfare. Una ragione sola, oltre le dette, si può immaginare molto più propria de le altre: questa è la varietà; la quale essendo in sua natura dilettevolissima, assai maggiore diranno che si trovi ne la moltitudine, che ne la unità de la favola. Né già io niego che la varietà non rechi piacere; oltre che il negar ciò sarebbe un contradire a la esperienza de' sentimenti, veggendo noi che quelle cose ancora, che per sé stesse sono spiacevoli, per la varietà nondimeno care ci divengono; e che la vista de' deserti, e l'orrore e la rigidezza de le alpi ci piace doppo l’amenità de' laghi e de' giardini; dico bene, che la varietà è lodevole sino a quel termine, che non passi in confusione; e che sino a questo termine è tanto quasi capace di varietà l'unità, quanto la moltitudine de le favole: la qual varietà se tale non si vede in poema d'una azione, si deve gredere che sia più tosto imperizia de l'artefice, che difetto de l'arte; i quali per iscusare forse la loro insofficienza, questa lor propria colpa a l'arte attribuiscono. Non era per aventura cosí necessaria questa varieta a' tempi di Virgilio e d'Omero, essendo gli uomini di quel secolo di gusto non cosí isvogliato: però non tanto v'attesero, benché maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrovi. Necessariissima era a' nostri tempi; e perciò dovea il Trissino co' sapori di questa varietà condire il suo poema; se voleva che da questi gusti sí delicati non fosse schivato: e se non tentò d'introdurlavi, o non conobbe il bisogno, o il disperò come impossibile. Io, per me, e necessaria nel poema eroico la stimo, e possibile a conseguire. Però che, sí come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e 'l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle; e discendendo poi giuso di mano in mano, l’aria e il mare pieni d'uccelli e di pesci; e la terra albergatrice di tanti animali cosí feroci come mansueti, ne la quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano; e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudini ed orrori; con tutto ciò, uno è il mondo che tante e sí diverse cose nel suo grembo rinchiode, una la forma e l'essenza sua, uno il modo, dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario: cosí parimente giudico, che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto, se non perché al supremo artefice no le sue operazioni assomigliandosi, de la sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa, nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino concili celesti ed infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità; là avvenimenti d'amore, or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema, che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una a l'altra corrisponda, l'una da l'altra o necessariamente o verisimilmente dependa; sí che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.
        Questa varietà sí fatta tanto sarà piú lodevole, quanto recarà seco piú di difficultà: però che è assai agevol cosa, e di nissuna industria, il far che in molte e separate azioni nasca gran varietà d'accidenti, ma che la stessa varietà in una sola azione si trovi, hoc opus, hic labor est. In quella che da la moltitudine de le favole per sé stessa nasce, arte o ingegno alcuno del poeta non si conosce, e può essere a' dotti e a gli indotti comune; questa totalmente da l'artificio del poeta depende, e come intrinseca a lui, da lui solo si riconosce, né può da mediocre ingegno essere asseguita. Quella, in somma, tanto meno dilettarà, quanto sarà piú confusa, e meno intelligibile; questa, per l'ordine e per la legatura de le sue parti, non solo sarà piú chiara e piú distinta, ma molto piú portarà di novità e di meraviglia. Una dunque deve esser la favola e la forma, come in ogni altro poema, così in quelli che trattano l'armi e gli amori de gli eroi e de' cavallieri erranti, e che con nome comune poemi eroici si chiamano. Ma una si dice la forma in piú maniere. Una si dice la forma de gli elementi, la quale è semplicissima, e di semplice virtù e di semplice operazione: una si dice parimente la forma de le piante e de gli animali; questa, mista e composta risulta da le forme de gli elementi insieme raccolte e rintuzzate ed alterate, de la virtú e de la qualità di ciascuna di loro partecipando. Cosí ancora ne la poesia, alcune forme semplici, alcune composte si trovano. Semplici sono le favole di quelle tragedie, ne le quali non è né agnizione, né mutamento di fortuna felice in misera o al contrario: composte, quelle ne le quali le agnizioni e i mutamenti di fortuna si ritrovano. Composta è la favola de l'epico non solo in questa guisa, ma in un altro modo ancora, che porta seco maggior mistione.
        Ma acciò che questi termini siano meglio intesi, e la materia piú si faciliti, piú copiosamente questa parte tratterò. E la favola (s'ad Aristotile crediamo) la serie e la composizione de le cose imitate; questa, sí come è la principalissima parte qualitativa del poema, cosí ha alcune parti che di lei sono qualitative, le quali tre sono. La peripezia, che mutazion di fortuna si può chiamare, l'agnizione che riconoscimento si può dire, e la perturbazione, che può fra' Toscani ancora questo nome ritenere. È la mutazion di fortuna ne la favola, quando in essa si vede ch'alcun di felicità caggia in miseria, come d'Edippo avviene, o di miseria passi in felicità, come di Elettra. Riconoscimento è, come suona il suo nome stesso, un trapasso da l'ignoranza a la conoscenza, o sia semplice, qual è quello d'Ulisse, o reciproco, qual fu tra Ifigenia ed Oreste, il qual trapasso, di loro felicità od infelicità sia cagione. Perturbazione è una azione dolorosa e piena d'affanno, come sono le morti, i tormenti, le ferite e l'altre cose di simil maniera, le quali commovano i gridi e i lamenti de le persone introdotte. Di questa ci porgerà esempio l'ultimo libro de l'Iliade, ove da Priamo, da Ecuba e da Andromache, con lunghissima e flebilissima querela, è pianta e lamentata la morte di Ettore. Stante il tatto di questa maniera, semplici saranno quelle favole, che de lo scambiamento di fortuna e del riconoscimento sono prive, e co 'l medesimo tenore procedendo, senza alterazione alcuna son condotte a lor fine. Doppie son quelle, le quali hanno la mutazione di fortuna e il riconoscimento, o almeno la prima di queste parti; sí come anco patetiche o affettuose quelle si dicono, ne le quali è la perturbazione, chs fu posta per la terza parte de la favola; e quelle a l'incontro, le quali mancando di questa perturbazione versano intorno a l'espression del costume, dilettando piú tosto con l'insegnare che col movere, morali o morate vengono dette. Sí che quattro sono i generi o le maniere, che vogliamo dirle, di favole: il semplice, il composto; l'affettuoso, e 'l morato. Semplice ed affettuosa è l'Iliade, composta e morata l'Odissea. In tutte queste maniere però l'unità si richiede: ma l'unità de la favola semplice, è semplice unità; I'unità de la favola composta, è composta unità. Ma in un altro modo ancor s'intende la favola del poema esser composta. Composta si dice, ancora che non abbia riconoscimento o mutazion di fortuna, quando ella contegna in sé cose di diversa natura, cioè guerre, amori, incanti e venture, avvenimenti or felici ed or infelici, che or portano seco terrore e misericordia, or vaghezza e giocondità; e da questa diversità di nature ella mista ne risulta; ma questa mistione è molto diversa da la prima, e si può trovare in quelle favole ancora che sono semplici, cioè che non hanno né mutazione, né riconoscimento.
        Di questa seconda maniera intese Aristotele quando disputando qual dovesse esser preposto di degnita o 'l poema tragico o l'epico, disse molto piú semplici esser le favole de la tragedia, che quelle de l'epopeia; e che di ciò è segno, che d'una sola epopeia si possono trarre gli argomenti di molte tragedie. Questa maniera di composizione cosí è biasimevole ne la tragedia, come in lei è lodevole quell'altra, che nasce da la peripezia e da la agnizione; però che se ben la tragedia ama molto la subita ed inopinata mutazion de le cose, le desidera nondimeno semplici e uniformi, e schiva la varietà de gli episodi. Quella medesima, ch'è biasimevole ne la tragedia, è a mio giudicio lodevolissima ne l'epico, e molto piú necessaria che quell'altra che deriva dal riconoscimento o da la mutazion di fortuna E per questo anco la moltitudine e la diversità de gli episodi è seguita da l'epico: e se Aristotele biasima le favole episodiche, o le biasima ne le tragedie solamente, o per favole episodiche non intende quelle, ne le quali siano molti e vari episodi, ma quelle ne le quali questi episodi sono interseriti fuor del verisimile, e male congiunti con la favola e tra loro medesimi; ed in somma, vani e oziosi, e nulla operanti al fine principal de la favola: perché la varietà de gli episodi in tanto è lodevole, in quanto non corrompe l'unità de la tavola, né genera in lei confusione. Io parlo di quell'unità ch'è mista, non di quella ch'è simplice ed uniforme, e nel poema eroico poco convenevole.
        Ma l'ordine è forse, e la materia ricerca, che nel seguente Discorso si tratti con qual arte il poeta introduca ne l'unità de la favola questa varietà cosí piacevole, e cosí desiderata da coloro, che gli orecchi a le venture de' nostri romanzatori hanno assuefatti.

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Ultimo aggiornamento: 15 May 1999