TORQUATO TASSO

Discorsi dell'arte poetica
ed in particolare sopra il poema eroico

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Al signor Scipion Gonzaga

DISCORSO PRIMO

         A tre cose deve aver riguardo ciascuno che di scriver poema eroico si prepone; a sceglier materia tale, che sia atta a ricevere in sé quella più eccellente forma che l'artificio del poeta cercarà d'introdurvi; a darle questa tal forma; e a vestirla ultimamente con que' più esquisiti ornamenti, ch'a la natura di lei siano convenevoli questi tre capi dunque, cosí distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo Discorso; però che cominciando dal giudicio ch'egli deve mostrare ne l'elezione de la materia, passare a l'arte che se gli richiede serrare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla e ne l'adornarlo.
         La materia nuda (materia nuda è detta quella che non ha ancor ricevuta qualità alcuna da l'artificio de l'oratore e del poeta) cade sotto la considerazion del poeta in quella guisa che 'l ferro o il legno vien sotto la considerazion del fabro; però che sí come colui che fabrica le navi, non solo è obligato a sapere qual debba esser la forma de le navi, ma deve anco conoscere qual maniera di legno è piú atta a ricever in sì questa forma; cosí parimente conviene al poeta, non solo aver arte nel formare la materia, ma giudicio ancora nel conoscerla; e sceglierla dee tale, che sia per sua natura d'ogni perfezione capace.
         La materia nuda viene offerta quasi sempre a l'oratore dal caso o da la necessità; al poeta da l'elezione; e di qui avviene, ch'alcune fiate quel che non è convenevole nel poeta, è lodevole ne l'oratore. E ripreso il poeta, che faccia nascer la commiserazione sovra persona, che abbia volontariamente macchiate le mani nel sangue del padre; ma del medesimo avvenimento trarrebbe la commiserazione con somma sua lode l'oratore; in quello si biasma l'elezione, in questo si scusa la necessità e si loda l'ingegno; perciò che sí come non è alcun dubio, che la virtú de l'arte non possa in un certo modo violentar la natura de la materia, sí che paiano verisimili quelle cose che in sé stesse non son tali, e compassionevoli quelle che per sé stesse non recarebbono compassione, e mirabili quelle che non portarebbono meraviglia; cosí anco non v'è dubio che queste qualità, molto piú facilmente, ed in un grado piú eccellente, non s'introduchino in quelle materie che sono per sé stesse disposte a riceverle. Onde presuponiamo che co 'l medesimo artificio e con la medesima eloquenza, altri voglia trarre la compassione d'Edippo, che per semplice ignoranza uccise il padre; altri da Medea, che molto bene consapevole de la sua sceleraggine, lacerò i figliuoli: molto piú compassionevole riuscirà la favola tessuta sovra gli accidenti d'Edippo, che l'altra composta nel caso di Medea; quella infiammarà gli animi di pieta, questa a pena sarà atta a intepidirli, ancora che l'artificio ne l'una e ne l'altra usato sia non solo simile, ma eguale. Cosí similmente la medesima forma del sigillo molto meglio fa sue operazioni ne la cera che in altra materia piú liquida o piú densa; e piú sarà in pregio una statua di marmo o di oro, ch'una di legno o di pietra men nobile, benché in ambedue parimente s'ammiri l'industria di Fidia o di Prassitele. Questo mi giova aver toccato acciò che si conosca quanto importi nel poema l'eleggere piú tosto una ch'un'altra materia. Resta che veggiamo da qual luogo ella debba esser tolta.
         La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, ed allora par che il poeta abbia parte non solo ne la scelta, ma ne la invenzione ancora; o si toglie da l'istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l'istoria si prenda; perché dovendo l'epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch'una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de' posteri con l'aiuto d'alcuna istoria. I successi grandi non possono esser incogniti; e ove non siano ricevuti in iscrittura, da questo solo argomentano gli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono cosí facilmente d'essere or mossi ad ira, or a terrore, or a pietà; d'esser or allegrati, or contristati, or sospesi, or rapiti; ed in somma, non attendono con quella espettazione e con quel diletto i successi de le cose, come farebbono se que' medesimi successi, o in tutto o in parte, veri stimassero.
Per questo, dovendo il poeta con la sembianza de la verità ingannare i lettori, e non solo persuader loro che le cose da lui trattate sian vere, ma sottoporle in guisa a i lor sensi, che credano non di leggerle, ma di esser presenti, e di vederle, e di udirle, è necessitato di guadagnarsi ne l'animo loro questa opinion di verità; il che facilmente con l'autorità de l'istoria gli verrà fatto: parlo di quei poeti che imitano le azioni illustri, quali sono e 'l tragico e l'epico; però che al comico, che d'azioni ignobili e popolaresche è imitatore, lecito è sempre che si tinga a sua voglia l'argomento; non repugnando al verisimile, che de l'azioni private alcuna contezza non s'abbia fra gli uomini ancora, che de la medesima città sono abitatori. E se ben leggiamo, ne la Poetica d'Aristotele, che le favole finte sogliono piacere al popolo per la novità loro, qual fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra noi altri le favole eroiche a del Boiardo e de l'Ariosto, e le tragiche d'alcuni piú moderni; non dobbiamo pero lasciarci persuadere, che favola alcuna finta in poema nobile sia degna di molta commendazione, come per la ragione tolta dal verisimile s'è provato, e con molte altre ragioni da altri è stato concluso; oltre le quali tutte si può dire, che la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta e non piú udita; ma consiste ne la novità del nodo e de lo scioglimento de la favola. Fu l'argomento di Tieste, di Medea, di Edippo da vari antichi trattato; ma variamente tessendolo, di commune proprio, e di vecchio novo il facevano; sí che novo sarà quel poema in cui nova sarà la testura dei nodi, nove le soluzioni, novi gli episodi, che per entro vi saranno traposti, ancora che la materia sia notissima, e da altri prima trattata; ed a l'incontra, novo non potrà dirsi quel poema, in cui finte sian le persone e finto l'argomento, quando però il poeta l'avviluppi e distrighi in quel modo, che da altri prima sia stato annodato e disciolto; e tale per aventura s'è alcuna moderna tragedia, in cui la materia ed i nomi son finti, ma 'l groppo à cosí tessuto e cosí snodato, come presso gli antichi Greci si ritrova; si che non vi è né l'autorità che porta seco l'istoria, né la novità che par che rechi la finzione.
         Deve dunque l'argomento del poema epico esser tolto da l'istorie; ma l'istoria, o è di religione tenuta falsa da noi, o di religione che véra crediamo, quale è oggi la cristiana, e vera fu già l'ebrea. Né giudico che l'azioni de' gentili ci porgano comodo soggetto, onde perfetto poema epico se ne formi: perché in que' tali poemi, o vogliamo ricorrer talora a le deità che da' gentili erano adorate, o non vogliamo ricorrervi; se non vi ricorriamo mai, viene a mancarvi il meraviglioso; se vi ricorriamo, resta privo il poema in quella parte del verisimile. Poco dilettevole è veramente quel poema, che non ha seco quelle maraviglie, che tanto muovono non solo l'animo de gl'ignoranti, ma de' giudiziosi ancora: parlo di quelli anelli, di quelli scudi incantati, di que' corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, di quelle larve che fra' combattenti si tramettono, e d'altre cose sí fatte; de le quali, quasi di sapori, deve il giudizioso scrittore condire il suo poema; perché con esse invita ed alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de' piú intendenti. Ma non potendo questi miracoli esser operati da virtú naturale, è necessario ch'a la virtú sopranaturale ci rivolgiamo; e rivolgendoci a le deità de' gentili, subito cessa il verisimile; perché non può esser verisimile a gli uomini nostri quello, ch'è da lor tenuto non solo falso, ma impossìbile; ma impossibil'è che dal potere di quell'idoli vani e senza soggetto, che non sono e non furon mai, procedano cose, che di tanto la natura e l'umanità trapassino. E quanto quel meraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi e gli Apolli e gli altri numi de' Gentili, sia non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo ed insipido, e di nissuna virtù, ciascuno di mediocre giudicio se ne potrà facilmente avvedere, leggendo que' poemi che sono fondati sovra la falsilà de l'antica religione.
         Diversissime sono, signor Scipione, queste due nature, il meraviglioso e 'l verisimile; ed in guisa diverse, che sono quasi contrarie tra loro; nondimeno l'una e l'altra nel poema è necessaria; ma fa mestieri che arte di eccellente poeta sia quella che insieme le accoppi; il che, se ben'è stato sin'ora fatto da molti, nissuno è (ch'io mi sappia) il quale insegni come si faccia; anzi, alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste due nature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere meravigliosa, né quella ch'è meravigliosa, verisimile; ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, si debba or seguire il verisimile, ora il meraviglioso, di maniera che l'una a l'altra non ceda, ma l'una da l'altra sia temperata. Io, per me, questa opiniorie non approvo, che parte alcuna debba nel poema ritrovarsi, che verisimile non sia: e la ragione che mi muove a cosí credere, è tale. La poesia non è in sua natura altro che imitazione; e questo non si può richiamare in dubbio: e l'imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, però che tanto significa imitare, quanto far simile; non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile; ed in somma, il verisimile non è una di quelle condizioni richieste nè la poesia a maggior sua bellezza e ornamento; ma è propria ed intrinseca de l'essenza sua, ed in ogni sua parte sovra ogn'altra cosa necessaria. Ma bench'io stringa il poeta epico ad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l'altra parte, cioè il meraviglioso; anzi giudico ch'un'azione medesima possa essere e meravigliosa e verisimile; e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità cosí discordanti; e rimettendo gli altri a quella parte ove de la testura de la favola si trattarà, la quale è lor proprio luogo, de l'uno qui ricerca l'occasione che si favelli.
Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter degli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a' demoni, o a coloro a' quali da Dio o da' demoni è concessa questa podestà, quali sono i santi, i maghi e le fate [6]. Queste opere, se per sé stesse saranno considerate, meravigliose parranno; anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo a la virtú ed a la potenza di chi l'ha operate, verisimili saranno giudicate, perché avendo gli uomini nostri bevuta ne le fasce insieme co 'l latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri de la nostra santa fede, cioè che Dio e i suoi ministri, e i demoni ed i maghi, permettendolo lui, possino far cose sovra le forze de la natura meravigliose; e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne novi esempi, non parrà loro fuori del verisimile quello, che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto, e poter di novo molte volte avvenire. Sí come anco a quegli antichi, che vivevano negli errori de la lor vana religione, non deveano parer impossibili que' miracoli, che de' lor dèi favoleggiavano non solo i poeti, ma l'istorie talora: ché se pur gli uomini scienziati, impossibili (com'erano) li giudicavano; basta al poeta in questo, com'in molte altre cose, la opinion de la moltitudine; a la quale molte volte, lassando l'esatta verità de le cose, e suole e deve attenersi. Può essere dunque una medesima azione e meravigliosa e verisimile: meravigliosa, riguardandola in sé stessa, e circonscritta dentro a i termini naturali; verisimile, considerandola divisa da questi termini ne la sua cagione, la quale è una virtú sopranaturale, potente, ed avvezza ad operar simili meraviglie.

 

 

 

 


Ma di questo modo di congiungere il verisimile co'l meraviglioso, privi sono que' poemi, ne' quali le deità de' gentili sono introdotte; si come a l'incontra comodissimamente se ne possono valere que' poeti, che fondano la lor poesia sovra la nostra religione. Questa sola ragione, a mio giudicio, conclude, che l'argumento de l'epico debba esser tratto da istoria non gentile, ma cristiana od ebrea. Aggiungasi, ch'altra grandezza, altra dignità, altra maestà reca seco la nostra religione, cosí ne' concili celesti ed iní`ernali, come ne' pronostichi e ne le cerimonie, che quella de' gentili non portarebbe; ed ultimamente,chi vuol formar l'idea d'un perfetto cavaliero, come parve che fosse intenzione d'alcuni moderni scrittori, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pieta e di religione, ed empio e idolatra ce lo figuri. Ché se a Teseo o s'a Giasone o ad altro simile non si può attribuiré, senza manifesta disconvenevolezza, lo zelo de la vera religione; Teseo e Giasone e gli altri simili si lassino, e in quella vece di Carlo, d'Artù e d'altri somiglianti si faccia elezione. Taccio per ora, che dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento; se non in quanto egli è poeta (che ciò come poeta non ha per fine), almeno in quanto è uomo civile e parte de la republica; molto meglio accenderà l'animo de' nostri uomini con l'esempio de' cavalieri fedeli che d'infedeli, movendo sempre più l'esempio de' simili che dei dissimili, ed i domestici che gli stranieri. Deve dunque l'argomento del poeta epico esser tolto da istoria di religione tenuta vera da noi. Ma queste istorie, o sono in guisa sacre e venerabili, ch'essendo sovr'esse fondato lo stabilimento de la nostra fede, sia empietà l'alterarle; o non sono di maniera sacrosante, ch'articolo di fede sia ció che in esse si contiene, sí che si conceda senza colpa d'audacia, o di poca religione, alcune cose aggiungervi, alcune levarne, e mutarne alcun'altre. Ne l'istorie de la prima qualità non ardisca il nostro epico di stender la mano, ma le lassi a gli uomini pii ne la lor pura e semplice verità, perché in esse il fingere non è lecito; e chi nissuna cosa fingesse, chi in somma s'obligasse a que' particolari ch'ivi son contenuti, poeta non sarebbe, ma istorico. Tolgasi dunque l'argomento de l'epopeia da istorie di vera religione, ma non di tanta autorità, che siano inalterabili.
Ma le istorie o contengono avvenimenti de' nostri tempi, o de' tempi remotissimi, o cose non molto moderne né molto antiche. L'istoria di secolo lontanissimo porta al poeta gran commodità di fingere; però che, essendo quelle cose in guisa sepolte nel seno de l'antichità, ch'a pena alcuna debole ed oscura memoria ce ne rimane; può il poeta a sua voglia mutarle e rimutarle, e senza rispetto alcuno del vero,com'a lui piace, narrarle. Ma con questo commodo viene un incommodo per aventura non picciolo; però che insieme con l'antichità de' tempi è necessario che s'introduca nel poema l'antichità de' costumi; ma quella maniera di guerreggiare o d'armeggiare usata da gli antichi, e quasi tutte l'usanze loro, non potriano esser lette senza fastidio da la maggior parte de gli uomini di questa età; e l'esperienza si prende da i libri d'Omero, i quali come che divinissimi siano, paiono nondimeno rincrescevoli. E di ciò in buona parte è cagione questa antichità de' costumi, che da coloro c' hanno avezzo il gusto a la gentilezza e al decoro de' moderni secoli, è come cosa vieta e rancida schivata ed avuta a noia: ma chi volesse poi con la vecchiezza de' secoli introdurre la novità de' costumi, potrebbe forse parer simile a poco giudicioso pittore, che l'imagine di Catone o di Cincinnato vestite secondo le foggie de la gioventù milanese o napolitana ci rappresentasse, o togliendo ad Ercole la clava e la pelle di leone, di cimiero e di sopraveste l'adornasse.
Portano le istorie moderne gran commodità in questa parte, ch'a i costumi ed a l'usanze s'appartiene; ma togliono quasi intutto la licenza di fingere, la quale è necessariissima a i poeti e particolarmente a gli epici; però che di troppo sfacciata audacia parrebbe quel poeta, che l'imprese di Carlo Quinto volesse descrivere altrimenti di quello che molti; ch'oggi vivono, l'hanno viste e maneggiate. Non possono soffrire gli uomini d'esser ingannati in quelle cose ch' o per sé medesimi sanno, o per certa relazione de' padri e de gli avi ne sono informati. Ma l'istorie de' tempi, nè molto moderni nè molto remoti non recano seco la spiacevolezza de' costumi, nè de la licenza di fingere ci privano. Tali sono i tempi di Carlo Magno e d' Artú, e quelli ch' o di poco successero o di poco precedettero; e quinci avviene che abbiano pòrto soggetto di poetare ad infiniti romanzatori. La memoria di quelle età non è sí fresca, che dicendosi alcuna menzogna paia impudenza, ed i costumi non sono diversi da' nostri; e se pur sono in qualche parte, l'uso de' nostri poeti ce gli ha fatti domestici e familiari molto. Prendasi dunque il soggetto del poema epico da istoria di religione vera, ma non sí sacra che sia immutabile, e di secolo non molto remoto, né molto prossimo a la memoria di noi ch'ora viviamo.
Tutte queste condizioni, signor Scipione, credo io che si richieggiano ne la materia nuda; ma non però sí, cne mancandogliene una, ella inabile divenga a ricever la forma del poema eroico. Ciascuna per sé sola fa qualche effetto, chi piú e chi meno; ma tutte insieme tanto rilevano, che senza esse non è la materia capace di perfezione. Ma oltre tutte queste condizioni richieste nel poema, una n'addurrò semplicemente necessaria; questa è, che l'azioni, che devono venire sotto l'artificio de l'epico, siano nobili e illustri. Questa condizione è quella che costituisce la natura de l'epopeia; e in questo la poesia eroica e la tragica confacendosi, sono differenti da la commedia, che de l'azioni umili è imitatrice. Ma però che par che communemente si creda, che la tragedia e l'epopeia non siano differenti fra loro ne le cose imitate, imitando l'una e l'altra parimente le azioni grandi e illustri; ma che la differenza di spezie, ch'è tra loro, nasca da la diversità del modo; sarà bene che ciò piú minutamente si consideri.
Pone Aristotele [7] ne la sua Poetica tre differenze essenziali e specifche (per cosí chiamarle); per le quali differenze, l'un poema da l'altro si separa e si distingue. Queste sono le diversità de le cose imitate, del modo d'imitare, de gli strumenti co' quali s'imita. Le cose sono le azioni. Il modo è il narrare, ed il rappresentare: narrare è ove appar la persona del poeta; rappresentare, ove occulta è quella del poeta, ed appare quella de gl'istrioni. Gl'istrumenti sono il parlare, l'armonia e 'l ritmo [8]. Ritmo intendo la misura de' movimenti e de' gesti, che ne gli istrioni si vede. Poi che Aristotele [9] ha constituite queste tre differenze essenziali, va ricercando come da loro proceda la distinzione de le spezie de la poesia: e dice [10], che la tragedia concorda con la comedia nel modo de l'imitare, e ne gl'istrumenti; però che l'una e l'altra rappresenta, e l'una e l'altra usa, oltre il vierso, il ritmo e l'armonia; ma quel che le fa differenti di natura, è la diversità de l'azioni imitate; le nobili imita la tragedia, le ignobili la comedia. L'epopeia [11] poi è conforme con la tragedia ne le cose imitate, imitando l'una e l'altra l'illustri: ma le fa differenti il modo: narra l'epico, rappresenta il tragico; e gr istrumenti: usa il verso solamente l'epico, ed il tragico, oltre il verso, il ritmo e l'armonia.
Per queste cose, cosí dette da Aristotele con quella oscura brevità che è propria di lui, è stato creduto il tragico e l'epico in tutto conformarsi ne le cose imitate: la quale opinione, benché commune ed universale, vera da me non è giudicata; e la ragione che m'induce in cosí fatta credenza, è tale. Se le azioni epiche e tragiche fossero de la istessa natura, produrrebbono gl'istessi effetti; però che da le medesime cagioni derivano gli effetti medesimi; ma non producendo i medesimi effetti, ne seguita che diversa sia la natura loro. Che gl'istessi effetti non procedano da loro, chiaramente si manifesta. Lo azioni tragiche [12] movono l'orrore e la compassione; ed ove lor manchi questo orribilé e questo compassionevole, tragiche piú non sono: ma l'epiche non son nate a mover né pietà né terrore; né questa condizione in loro si richiede come necessaria; e se talora ne' poemi eroici si vede qualche caso orribile o miserabile, non si cerca però l'orrore e la misericordia in tutto il contesto de la favola; anzi è quel tal caso in lei accidentale, e per semplice ornamento: onde se si dice parimente illustre l'azione del tragico e quella de l'epico, questo illustre è in loro di diversa natura. L'illustre del tragico consiste ne l'inaspettata e súbita mutazion di fortuna e ne la grandezza de gli avvenimenti, che portino seco orrore e misericordia; ma l'illustre de l'eroico è fondato sovra l'imprese d'una eccelsa virtú bellica, sovra i fatti di cortesia, di generosità, di pietà, di religione; le quali azioni, proprie de l'epopeia, per niuna guisa convengono a la tragedia; di qui avviene che le persone che ne l'uno e ne l'altro poema s'introducono, se bene ne l'uno e ne l'altro sono di stato e di dignità regale e soprema, non sono però de la medesima natura. Richiede la tragedia 3 persone né buone né cattive, ma d'una condizion di mezzo; tale è Oreste, Elettra, Iocasta.. La qual mediocrità, perché da Aristotele più in Edippo che in alcun altro è ritrovata, però anco giudico la persona di lui piu di nessun'altra a le favole tragiche accomodata; l'epico, a l'incontro, vuole ne le persone il sommo de le virtú; le quali eroiche da la virtú eroica sono nominate. Si ritrova in Enea l'eccellenza de la pietà; de la fortezza militare in Achille; de la prudenza in Ulisse; e per venire a i nostri, de la lealtà in Amadigi; de la constanza in Bradamante: anzi pure in alcuni di questi il cumulo di tutte queste virtú. E se pur talora dal tragico e da l'epico si prende per soggetto de' lor poemi la persona medesima, è da loro diversamente e con vari rispetti considerata. Considera l'epico in Ercole ed in Teseo il valore e l'eccellenza de l'armi: li riguarda il tragico come rei di qualche colpa, e per ciò caduti in infelicità. Ricevono ancora gli epici, non solo il colmo de la virtú, ma l'eccesso del vizio, con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio, e Marganorre, ed Archeloro, e può essere e Busiri, e Procuste, e Diomede, e gli altri simili.
Da le cose dette può esser manifesto, che la differenza ch'è fra la tragedia e l'epopeia, non nasce solamente da la diversità de gl'istrumenti e del modo de lo imitare, ma molto piú e molto prima da la diversità de le cose imitate; la qual differenza è molto piú propria, e piú intrinseca,e piú essenzial de l'altre: e se Aristotele non ne fa menzione, è perché basta a lui in quel luogo di mostrare, che la tragedia e l'epopeia siano differenti: e ciò a bastanza si mostra per quell'altre due differenze, le quali a prima vista sono assai piú note, che questa non è. Ma perché guesto illustre, che abbiamo sottoposto a l'eroico puù esser piú o meno illustre; quando la materia conterrà in sé avvenimenti piú nobili e piú grandi, piú sarà disposta a l'eccellentissima forma de l'epopeia: che, bench'io non nieghi che poema eroico non si potesse formare di accidenti meno magnifici, quali sono gli amori di Florio, e quelli di Teageno e di Cariclea; in guesta idea, nondimeno, che ora andiamo cercando del perfettissimo poema, fa mestieri che la materia sia in in sé stessa nel primo grado di nobiltà e di eccellenza. In questo grado è la venuta d'Enea in Italia; ch'oltra che l'argomento è per sé stesso grande e illustre, grandissimo e illustrissimo è poi, avendo riguardo a l'imperio de' Romani, che da quella venuta obbe origine; a la qual cosa il divino epico ebbe particolar considerazione come nel principio de l'Eneida ei accenna:

Tantae molis erat Romanam condere gentem

Tale è parimente la liberazione d'ltalia da la servitú de' Goti, che porse materia al poema del Trissino: tali sono quelle imprese, che o per la dignità de l'imperio, o per esaltazione de la fede di Cristo furo felicemente e gloriosamente operate; le quali per sé medesime si conciliano gli animi de' lettori, e destano aspettazione e diletto incredibile; ed aggiuntovi l'artiflcio di eecellente poeta, nulla è che non possino ne la mente de gli uomini.
Eccovi, signor Scipione, le condizioni che giudizioso poeta deve ne la materia nuda ricercare; le quali (repilogando in breve giro di parole quanto s'è detto) sono queste: l'autorità de l'istoria, la verità de la religione, la licenza del fingere, la qualità de' tempi accomodati, e la grandezza e nobiltà de gli avvenimenti. Ma questa, che prima che sia caduta sotto l'artificio de l'epico materia si chiama, doppo ch'è stata dal poeta disposta e trattata, e che favola è divenuta, non è piú materia, ma è forma ed anima del poema; e tale è da Aristotele giudicata; e se non forma semplice, almeno un composto di materia e di forma il giudicaremo. Ma avendo nel principio di questo Discorso assomigliata questa materia, che nuda vien detta da noi, a quella che chiamano i naturali materia prima; giudico che sí come ne la materia prima, benché priva d'ogni forma, nondimeno vi si considera da' filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, e inanzi il nascimento de la forma vi si ritrova e doppo la sua corruzione vi rimane; cosí anco il poeta debba in questa nostra materia, inanzi ad ogni altra cosa, la quantità considerare: però che è necessario che togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d'alcuna quantità sendo questa condizione da lei inseparabile. Avvertisca dunque, che la quantità ch'egli prende non sia tanta, che volend'egli poi, nel formare la testura de la favola, interserirvi molti episodi, e adornare ed illustrar le cose che semplici sono in sua natura, ne venga il poema a crescer in tanta grandezza, che disconvenevol paia e dismisurato; però che non deve il poema eccedere una certa determinata grandezza, come nel suo luogo si trattarà; che s'egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso, sarà necessitato lassare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessari al poema, e quasi ne' puri e semplici termini de l'istoria rimanersene. Il che a Lucano ed a Silio Italico si vede esser avvenuto: I'uno e l'altro de' quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò; perchè quegli non solo il conflitto di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerra civile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare.
Le quali materie sendo in sè stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto questo spazio ch'è concesso a la grandezza de l'epopeia, non lasciando luogo alcuno a l'invenzione ed a l'ingegno del poeta: e molte volte paragonando le medesime cose trattate da Silio poeta e da Livio istorico, molto piú asciuttamente, e con minor ornamento mi par di vederle nel poeta, che ne l'istorico; al contrario a punto di quello che la natura delle cose richiederebbe. E questo medesimo si può notare nel Trissino, il qual volle che fosse soggetto del suo poema tutta la spedizione di Belisario contra a i Goti: o perciò è molte fìate piú digiuno ed arido, ch'a poeta non si converrebbe; ché, s'una parte solamente, e la piú nobil di quella impresa, avesse tolta a descrivere, per aventura piú ornato e piú vago di belle invenzioni sarebbe riuscito. Ciascuno in somma, che materia troppo ampia si propone, è costretto d'allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forse ne l'Innamoiato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d'autore, quasi un solo poema considerasse, come in effetto sono); o almeno è sforzato di lassare gli episodi e gli altri ornamenti, i quali sono al poeta necessariissimi. Meraviglioso fu in questa parte il giudizio d'Omero: il quale avendo propostasi materia assai breve, quella accresciuta d'episodi, e ricca d'ogni altra maniera d'ornamento, a lodevole e conveniente grandezza ridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poema raccoglie, quanto in due poemi d'Omero si contiene; ma non però di tanta ampiezza la scelse, che 'n alcuno di que' duo vizi sia costretto di cadere. Con tutto cio se ne va a le volte cosí ristretto, e cosi parco ne gli ornamenti, che se ben quella purità e quella brevità sua è maravigliosa ed inimitabile, non ha per aventura tanto del poetico, quanto ha la fiorita e faconda copia d'Omero. E mi ricordo [13] in questo proposito aver udito dire a lo Sperone (la cui privata camera, mentre io in Padova studiavo, era solito di frequentare non meno spesso e volontieri che le publicbe scole; parendomi che mi rappresentasse le sembianza di quella Academia e di quel Liceo, in cui i Socrati e i Platoni avevano in uso di disputare); mi ricordo, dico, d'aver udito da lui, che 'l nostro poeta latino o piú simile al greco oratore che al greco poeta, e'l nostro latino oratore ha maggior conformità col poeta greco che con l'orator greco; ma che l'oratore e 'l poeta greco avevano ciascuno per sè asseguita quella virtú, ch'era propria de l'arte sua; ove l'uno e l'altro latino aveva piuttosto usurpata quell'eccellenza, ch'a l'arte altrui era convenevole. E in vero, chi vorrà sottilmente esaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà cne quella copiosa eloquenza di Cicerone è molto conforme con la larga facondia d'Omero; sí come ne l'acume, e ne la pienezza, e nel nerbo d'una illustre brevità, sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.
Raccogliendo dunque quanto s'è detto, deve la quantità de la materia nuda esser tanta, e non più, che possa da l'artiticio del poeta ricever molto accrescimento, senza passare i termini de la convenevole grandezza. Ma poiché s'è ragionato del giudicio che deve mostrare il poeta intorno a la scelta de lo argomento, l'ordine richiede che nel seguente Discorso si tratti de l'arte, con la quale deve essere disposto e forrnato.