Italo Svevo
La coscienza di Zeno
5 (parte I)
La storia del mio matrimonio
Nella mente di un giovine
di famiglia borghese il concetto di vita umana s'associa a quello della carriera e nella
prima gioventú la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di
diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto piú
in basso. La vita piú intensa è raccontata in sintesi dal suono piú rudimentale, quello
dell'onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore!
M'aspettavo perciò anch'io di divenire e disfarmi come Napoleone e l'onda.
La mia vita non sapeva fornire che una
nota sola senz'alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m'invidiano, ma
orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa
stima e credo che neppur io, dacché son giunto all'età della ragione, abbia mutato di
molto il concetto che feci di me stesso.
Può perciò essere che l'idea di sposarmi
mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell'unica nota. Chi non l'ha
ancora sperimentato crede il matrimonio piú importante di quanto non sia. La compagna che
si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre
natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai
figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un
rinnovamento nostro, ciò ch'è un'illusione curiosa non autorizzata da alcun testo.
Infatti si vive poi uno accanto all'altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per
chi è tanto dissimile da noi o per un'invidia per chi a noi è superiore.
Il bello si è che la mia avventura
matrimoniale esordí con la conoscenza del mio futuro suocero e con l'amicizia e
l'ammirazione che gli dedicai prima che avessi saputo ch'egli era il padre di ragazze da
marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso
la mèta ch'io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse
al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche
nel destino.
Il desiderio di novità che c'era nel mio
animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le
persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero
abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia
lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante,
ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io
m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.
Il Malfenti aveva allora circa
cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e
piú. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta
chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di
ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben
povero e m'attaccai a lui per arricchire.
Ero venuto al Tergesteo per consiglio
dell'Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale
frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili
notizie.
M'assisi a quel tavolo al quale
troneggiava il mio futuro suocero e di là non mi mossi piú, sembrandomi di essere
arrivato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.
Egli presto s'accorse della mia
ammirazione e vi corrispose con un'amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse
saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall'esempio
della sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberarmi dall'Olivi e dirigere io
stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito.
Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all'Olivi
ch'egli conosceva.
Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi
annotò di propria mano nel mio libretto tre comandamenti ch'egli riteneva bastassero per
far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare
gli altri perisce. 2. Non c'è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare
il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quando
l'affare è stato liquidato.
Io so questi e tanti altri teoremi a
mente, ma a me non giovarono.
Quando io ammiro qualcuno, tento
immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto
astuto. Una volta anzi sognai d'essere piú furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un
errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo subito per conquistarmi la
sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l'arrestai quando, discutendo di un affare,
stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L'avvertii ch'io trovavo ch'egli
sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, secondo
me, doveva fare in modo di apparire melenso.
Egli mi derise. La fama di furberia era
utilissima. Intanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli portavano delle
notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un'esperienza
raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l'opportunità di aver insieme alle
notizie anche la possibilità di vendere delle merci. Infine - e qui si mise ad urlare
perché gli parve d'aver trovato finalmente l'argomento che doveva convincermi - per
vendere o per comperare vantaggiosamente, tutti si rivolgevano al piú furbo. Dal melenso
non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacrificare ogni suo beneficio, ma la sua
merce era sempre piú cara di quella del furbo, perché egli era stato già truffato al
momento dell'acquisto.
Io ero la persona piú importante per lui
a quel tavolo. Mi confidò suoi segreti commerciali ch'io mai tradii. La sua fiducia era
messa benissimo, tant'è vero che poté ingannarmi due volte, quand'ero già divenuto suo
genero. La prima volta la sua accortezza mi costò bensí del denaro, ma fu l'Olivi ad
esser l'ingannato e perciò io non mi dolsi troppo. L'Olivi m'aveva mandato da lui per
averne accortamente delle notizie e le ebbe. Le ebbe tali che non me la perdonò piú e
quando aprivo la bocca per dargli un'informazione, mi domandava: «Da chi l'avete avuta?
Da vostro suocero?». Per difendermi dovetti difendere Giovanni e finii col sentirmi
piuttosto l'imbroglione che l'imbrogliato.
Un sentimento gradevolissimo.
Ma un'altra volta feci proprio io la parte
dell'imbecille, ma neppure allora seppi nutrire del rancore per mio suocero. Egli
provocava ora la mia invidia ed ora la mia ilarità. Vedevo nella mia disgrazia l'esatta
applicazione dei suoi principii ch'egli giammai m'aveva spiegati tanto bene. Trovò anche
il modo di riderne con me, mai confessando di avermi ingannato e asserendo di dover ridere
dell'aspetto comico della mia disdetta. Una sola volta egli confessò di avermi giocato
quel tiro e ciò fu alle nozze di sua figlia Ada (non con me) dopo di aver bevuto dello
sciampagna che turbò quel grosso corpo abbeverato di solito da acqua pura.
Allora egli raccontò il fatto, urlando
per vincere l'ilarità che gl'impediva la parola:
- Capita dunque quel decreto! Abbattuto
sto facendo il calcolo di quanto mi costi. In quel momento entra mio genero. Mi dichiara
che vuol dedicarsi al commercio. «Ecco una bella occasione», gli dico. Egli si precipita
sul documento per firmare temendo che l'Olivi potesse arrivare in tempo per impedirglielo
e l'affare è fatto. - Poi mi faceva delle grandi lodi: - Conosce i classici a mente. Sa
chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!
Era vero! Se avessi visto quel decreto
apparso in luogo poco vistoso dei cinque giornali ch'io giornalmente leggo, non sarei
caduto in trappola. Avrei dovuto anche subito intendere quel decreto e vederne le
conseguenze ciò che non era tanto facile perché con esso si riduceva il tasso di un
dazio per cui la merce di cui si trattava veniva deprezzata.
Il giorno dopo mio suocero smentí le sue
confessioni. L'affare in bocca sua riacquistava la fisonomia che aveva avuta prima di
quella cena. - Il vino inventa, - diceva egli serenamente e restava acquisito che il
decreto in questione era stato pubblicato due giorni dopo la conclusione di quell'affare.
Mai egli emise la supposizione che se avessi visto quel decreto avrei potuto
fraintenderlo. Io ne fui lusingato, ma non era per gentilezza, ch'egli mi risparmiasse, ma
perché pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i proprii interessi. Invece io,
quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione
di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. È un pensiero tanto importante che non resta
altro posto per ricordare la mia merce.
Una volta però m'avvenne di conquistare
la sua ammirazione e proprio per me, come sono e giaccio, ed anzi proprio per le mie
qualità peggiori. Possedevamo io e lui da vario tempo delle azioni di una fabbrica di
zucchero dalla quale si attendevano miracoli. Invece le azioni ribassavano, tenuemente, ma
ogni giorno, e Giovanni, che non intendeva di nuotare contro corrente, si disfece delle
sue e mi convinse di vendere le mie. Perfettamente d'accordo, mi proposi di dare
quell'ordine di vendita al mio agente e intanto ne presi nota in un libretto che in quel
torno di tempo avevo di nuovo istituito. Ma si sa che la tasca non si vede durante il
giorno e cosí per varie sere ebbi la sorpresa di ritrovare nella mia quell'annotazione al
momento di coricarmi e troppo tardi perché mi servisse.
Una volta gridai dal dispiacere e, per non
dover dare troppe spiegazioni a mia moglie le dissi che m'ero morsa la lingua. Un'altra
volta, stupito di tanta sbadataggine, mi morsi le mani. «Occhio ai piedi, ora!» disse
mia moglie ridendo. Poi non vi furono altri malanni perché vi ero abituato. Guardavo
istupidito quel maledetto libretto troppo sottile per farsi percepire durante il giorno
con la sua pressione e non ci pensavo piú sino alla sera appresso.
Un giorno un improvviso acquazzone mi
costrinse di rifugiarmi al Tergesteo. Colà trovai per caso il mio agente il quale mi
raccontò che negli ultimi otto giorni il prezzo di quelle azioni s'era quasi raddoppiato.
- Ed io ora vendo! - esclamai
trionfalmente.
Corsi da mio suocero il quale già sapeva
dell'aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po' meno
di avermi indotto a vendere le mie.
- Abbi pazienza! - disse ridendo. - È la
prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio.
L'altro affare non era risultato da un suo
consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.
Io mi misi a ridere di gusto.
- Ma io non ho mica seguito quel
consiglio! - Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le
azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un'aria d'importanza, volli
fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che
m'avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.
Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi
in faccia.
- Quando si ha una mente come la tua non
ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si
confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.
Mi spiacque d'irritarlo. Era tanto piú
divertente quand'egli danneggiava me. Gli raccontai sinceramente com'erano andate le cose.
- Come vedi è proprio con una mente come
la mia che bisogna dedicarsi agli affari.
Subito rabbonito, rise con me:
- Non è un utile quello che ricavi da
tale affare; è un indenizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch'è giusto ti
rimborsi di una parte della tua perdita!
Non so perché mi fermai tanto a
raccontare dei dissidi ch'ebbi con lui e che sono tanto pochi. Io gli volli veramente
bene, tant'è vero che ricercai la sua compagnia ad onta che avesse l'abitudine di urlare
per pensare piú chiaramente. Il mio timpano sapeva sopportare le sue urla. Se le avesse
gridate meno, quelle sue teorie immorali sarebbero state piú offensive e, se egli fosse
stato educato meglio, la sua forza sarebbe sembrata meno importante. E ad onta ch'io fossi
tanto differente da lui, credo ch'egli abbia corrisposto al mio con un affetto simile. Lo
saprei con maggiore sicurezza se egli non fosse morto tanto presto. Continuò a darmi
assiduamente delle lezioni dopo il mio matrimonio e le condí spesso di urla ed insolenze
che io accettavo convinto di meritarle.
Sposai sua figlia. Madre natura misteriosa
mi diresse e si vedrà con quale violenza imperativa. Adesso io talvolta scruto le faccie
dei miei figliuoli e indago se accanto al mento sottile mio, indizio di debolezza, accanto
agli occhi di sogno miei, ch'io loro tramandai, non vi sia in loro almeno qualche tratto
della forza brutale del nonno ch'io loro elessi.
E alla tomba di mio suocero io piansi ad
onta che anche l'ultimo addio che mi diede non sia stato troppo affettuoso. Dal suo letto
di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi
liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa
gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio
cosí:
- Se dando a te la mia malattia io potessi
liberarmene, te la darei subito, magari raddoppiata! Non ho mica le ubbie umanitarie che
hai tu!
Non v'era niente di offensivo: egli
avrebbe voluto ripetere quell'altro affare col quale gli era riuscito di caricarmi di una
merce deprezzata. Poi anche qui c'era stata la carezza perché a me non spiaceva di veder
spiegata la mia debolezza con le ubbie umanitarie ch'egli mi attribuiva.
Alla sua tomba come a tutte quelle su cui
piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta.
Quale diminuzione per me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante,
feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza.
Questa è la verità: io sono un timido! Non l'avrei scoperto se non avessi qui studiato
Giovanni. Chissà come mi sarei conosciuto meglio se egli avesse continuato a starmi
accanto!
Presto m'accorsi che al tavolo del
Tergesteo, dove si divertiva a rivelarsi quale era e anche un poco peggiore, Giovanni
s'imponeva una riserva: non parlava mai di casa sua o soltanto quando vi era costretto,
compostamente e con voce un poco piú dolce del solito. Portava un grande rispetto alla
sua casa e forse non tutti coloro che sedevano a quel tavolo gli sembravano degni di
saperne qualche cosa. Colà appresi soltanto che le sue quattro figliuole avevano tutti i
nomi dall'iniziale in a, una cosa praticissima, secondo lui, perché le cose su cui era
impressa quell'iniziale potevano passare dall'una all'altra, senz'aver da subire dei
mutamenti. Si chiamavano (seppi subito a mente quei nomi): Ada, Augusta, Alberta e Anna. A
quel tavolo si disse anche che tutt'e quattro erano belle. Quell'iniziale mi colpí molto
piú di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal
loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L'iniziale diceva anche qualche cosa
d'altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie
lontano dal mio paese.
Fu forse un caso che prima di presentarmi
in casa Malfenti io mi fossi liberato da un legame abbastanza antico con una donna che
forse avrebbe meritato un trattamento migliore. Ma un caso che dà da pensare. La
decisione a tale distacco fu presa per ragione ben lieve. Alla poverina era parso un bel
sistema di legarmi meglio a lei, quello di rendermi geloso. Il sospetto invece bastò per
indurmi ad abbandonarla definitivamente. Essa non poteva sapere che io allora ero invaso
dall'idea del matrimonio e che credevo di non poter contrarlo con lei, solo perché con
lei la novità non mi sarebbe sembrata abbastanza grande. Il sospetto ch'essa aveva fatto
nascere in me ad arte era una dimostrazione della superiorità del matrimonio nel quale
tali sospetti non devono sorgere.
Quando quel sospetto di cui sentii presto
l'inconsistenza dileguò, ricordai anche ch'essa spendeva troppo. Oggidí, dopo
ventiquattr'anni di onesto matrimonio, non sono piú di quel parere.
Per essa fu una vera fortuna perché,
pochi mesi dopo, fu sposata da persona molto abbiente ed ottenne l'ambito mutamento prima
di me. Non appena sposato, me la trovai in casa perché il marito era un amico di mio
suocero. C'incontrammo spesso, ma, per molti anni, finché fummo giovani, fra noi regnò
il massimo riserbo e mai si fece allusione al passato. L'altro giorno ella mi domandò a
bruciapelo, con la sua faccia incorniciata da capelli grigi giovanilmente arrossata:
- Perché mi abbandonaste?
Io fui sincero perché non ebbi il tempo
necessario per confezionare una bugia:
- Non lo so piú, ma ignoro anche tante
altre cose della mia vita.
- A me dispiace, - ella disse e già
m'inchinavo al complimento che cosí mi prometteva. - Nella vecchiaia mi sembrate un uomo
molto divertente. - Mi rizzai con uno sforzo. Non era il caso di ringraziare.
Un giorno appresi che la famiglia Malfenti
era ritornata in città da un viaggio di piacere abbastanza prolungato seguito al
soggiorno estivo in campagna. Non arrivai a fare alcun passo per essere introdotto in
quella casa perché Giovanni mi prevenne.
Mi fece vedere la lettera di un suo amico
intimo che domandava mie nuove: Era stato mio compagno di studii costui e gli avevo voluto
molto bene finché l'avevo creduto destinato a divenire un grande chimico. Ora, invece, di
lui non m'importava proprio niente perché s'era trasformato in un grande commerciante in
concimi ed io come tale non lo conoscevo affatto. Giovanni m'invitò a casa sua proprio
perché ero l'amico di quel suo amico e, - si capisce, - io non protestai affatto.
Quella prima visita io la ricordo come se
l'avessi fatta ieri. Era un pomeriggio fosco e freddo d'autunno; e ricordo persino il
sollievo che mi derivò dal liberarmi del soprabito nel tepore di quella casa. Stavo
proprio per arrivare in porto. Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi
pareva chiaroveggenza. Correvo dietro alla salute, alla legittimità. Sta bene che in
quell'iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state
eliminate subito e in quanto alla quarta anch'essa avrebbe subito un esame severo. Giudice
severissimo sarei stato. Ma intanto non avrei saputo dire le qualità che avrei domandate
da lei e quelle che avrei abbominate.
Nel salotto elegante e vasto fornito di
mobili in due stili differenti, di cui uno Luigi XIV e l'altro veneziano ricco di oro
impresso anche sui cuoi, diviso dai mobili in due parti, come allora si usava, trovai la
sola Augusta che leggeva accanto ad una finestra. Mi diede la mano, sapeva il mio nome e
arrivò a dirmi ch'ero atteso perché il suo babbo aveva preavvisata la mia visita. Poi
corse via a chiamare la madre.
Ecco che delle quattro fanciulle dalla
stessa iniziale una ne moriva in quanto mi riguardava. Come avevano fatto a dirla bella?
La prima cosa che in lei si osservava era lo strabismo tanto forte che, ripensando a lei
dopo di non averla vista per qualche tempo, la personificava tutta.
Aveva poi dei capelli non molto
abbondanti, biondi, ma di un colore fosco privo di luce e la figura intera non
disgraziata, pure un po' grossa per quell'età. Nei pochi istanti in cui restai solo
pensai: «Se le altre tre somigliano a questa!.. »
Poco dopo il gruppo delle fanciulle si
ridusse a due. Una di esse, ch'entrò con la mamma, non aveva che otto anni. Carina quella
bambina dai capelli inanellati, luminosi, lunghi e sciolti sulle spalle! Per la sua faccia
pienotta e dolce pareva un'angioletta pensierosa (finché stava zitta) di quel pensiero
come se lo figurava Raffaello Sanzio.
Mia suocera... Ecco! Anch'io provo un
certo ritegno a parlarne con troppa libertà! Da molti anni io le voglio bene perché è
mia madre, ma sto raccontando una vecchia storia nella quale essa non figurò quale mia
amica e intendo di non rivolgerle neppure in questo fascicolo, ch'essa mai vedrà, delle
parole meno che rispettose. Del resto il suo intervento fu tanto breve che avrei potuto
anche dimenticarlo: Un colpetto al momento giusto, non piú forte di quanto occorse per
farmi perdere il mio equilibrio labile. Forse l'avrei perduto anche senza il suo
intervento, eppoi chissà se essa volle proprio quello che avvenne? È tanto bene educata
che non può capitarle come al marito di bere troppo per rivelarmi i miei affari. Infatti
mai le accadde nulla di simile e perciò io sto raccontando una storia che non conosco
bene; non so cioè se sia dovuta alla sua furberia o alla mia bestialità ch'io abbia
sposata quella delle sue figliuole ch'io non volevo.
Intanto posso dire che all'epoca di quella
mia prima visita mia suocera era tuttavia una bella donna. Era elegante anche per il suo
modo di vestire di un lusso poco appariscente. Tutto in lei era mite e intonato.
Avevo cosí nei miei stessi suoceri un
esempio d'integrazione fra marito e moglie quale io la sognavo. Erano stati felicissimi
insieme, lui sempre vociando e lei sorridendo di un sorriso che nello stesso tempo voleva
dire consenso e compatimento. Essa amava il suo grosso uomo ed egli deve averla
conquistata e conservata a furia di buoni affari. Non l'interesse, ma una vera ammirazione
la legava a lui, un'ammirazione cui io partecipavo e che perciò facilmente intendevo.
Tanta vivacità messa da lui in un ambito tanto ristretto, una gabbia in cui non v'era
altro che una merce e due nemici (i due contraenti) ove nascevano e si scoprivano sempre
delle nuove combinazioni e relazioni, animava meravigliosamente la vita. Egli le
raccontava tutti i suoi affari e lei era tanto bene educata da non dare mai dei consigli
perché avrebbe temuto di fuorviarlo. Egli sentiva il bisogno di tale muta assistenza e
talvolta correva a casa a monologare nella convinzione di andar a prendere consiglio dalla
moglie.
Non fu una sorpresa per me quando appresi
ch'egli la tradiva, ch'essa lo sapeva e che non gliene serbava rancore. Io ero sposato da
un anno allorché un giorno Giovanni, turbatissimo, mi raccontò che aveva smarrita una
lettera di cui molto gl'importava e volle rivedere delle carte che m'aveva consegnate
sperando di ritrovarla fra quelle.
Invece, pochi giorni appresso, tutto
lieto, mi raccontò che l'aveva ritrovata nel proprio portafogli. «Era di una donna?»
domandai io, e lui accennò di sí con la testa, vantandosi della sua buona fortuna. Poi
io, per difendermi, un giorno in cui m'accusavano di aver perdute delle carte, dissi a mia
moglie e a mia suocera che non potevo avere la fortuna del babbo cui le carte ritornavano
da sole al portafogli. Mia suocera si mise a ridere tanto di gusto ch'io non dubitai che
quella carta non fosse stata rimessa a posto proprio da lei. Evidentemente nella loro
relazione ciò non aveva importanza. Ognuno fa all'amore come sa e il loro, secondo me,
non ne era il modo piú stupido.
La signora m'accolse con grande
gentilezza. Si scusò di dover tenere con sé la piccola Anna che aveva il suo quarto
d'ora in cui non si poteva lasciarla con altri. La bambina mi guardava studiandomi con gli
occhi serii. Quando Augusta ritornò e s'assise su un piccolo sofà posto dirimpetto a
quello su cui eravamo io e la signora Malfenti, la piccina andò a coricarsi in grembo
alla sorella donde m'osservò per tutto il tempo con una perseveranza che mi divertí
finché non seppi quali pensieri si movessero in quella piccola testa.
La conversazione non fu subito molto
divertente. La signora, come tutte le persone bene educate, era abbastanza noiosa ad un
primo incontro. Mi domandava anche troppe notizie dell'amico che si fingeva m'avesse
introdotto in quella casa e di cui io non ricordavo neppure il nome di battesimo.
Entrarono finalmente Ada e Alberta.
Respirai: erano belle ambedue e portavano in quel salotto la luce che fino ad allora vi
aveva mancato. Ambedue brune e alte e slanciate, ma molto differenti l'una dall'altra. Non
era una scelta difficile quella che avevo da fare. Alberta aveva allora non piú di
diciasett'anni. Come la madre essa aveva - benché bruna - la pelle rosea e trasparente,
ciò che aumentava l'infantilità del suo aspetto. Ada, invece, era già una donna con i
suoi occhi serii in una faccia che per essere meglio nivea era un poco azzurra e la sua
capigliatura ricca, ricciuta, ma accomodata con grazia e severità.
È difficile di scoprire le origini miti
di un sentimento divenuto poi tanto violento, ma io sono certo che da me mancò il
cosidetto coup de foudre per Ada. Quel colpo di fulmine, però, fu sostituito dalla
convinzione ch'ebbi immediatamente che quella donna fosse quella di cui abbisognavo e che
doveva addurmi alla salute morale e fisica per la santa monogamia. Quando vi ripenso resto
sorpreso che sia mancato quel colpo di fulmine e che vi sia stata invece quella
convinzione. È noto che noi uomini non cerchiamo nella moglie le qualità che adoriamo e
disprezziamo nell'amante. Sembra dunque ch'io non abbia subito vista tutta la grazia e
tutta la bellezza di Ada e che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch'io le
attribuii di serietà e anche di energia, insomma, un po' mitigate, le qualità ch'io
amavo nel padre suo. Visto che poi credetti (come credo ancora) di non essermi sbagliato e
che tali qualità Ada da fanciulla avesse possedute, posso ritenermi un buon osservatore
ma un buon osservatore alquanto cieco.
Quella prima volta io guardai Ada con un
solo desiderio: quello di innamorarmene perché bisognava passare per di là per sposarla.
Mi vi accinsi con quell'energia ch'io sempre dedico alle mie pratiche igieniche. Non so
dire quando vi riuscii; forse già nel tempo relativamente piccolo di quella prima visita.
Giovanni doveva aver parlato molto di me
alle figliuole sue. Esse sapevano, fra altro, ch'ero passato nei miei studii dalla
facoltà di legge a quella di chimica per ritornare - pur troppo! - alla prima. Cercai di
spiegare: era certo che quando ci si rinchiudeva in una facoltà, la parte maggiore dello
scibile restava coperta dall'ignoranza. E dicevo:
- Se ora su di me non incombesse la
serietà della vita, - e non dissi che tale serietà io la sentivo da poco tempo, dacché
avevo risolto di sposarmi - io sarei passato ancora di facoltà in facoltà.
Poi, per far ridere, dissi ch'era curioso
ch'io abbandonassi una facoltà proprio al momento di dare gli esami.
- Era un caso - dicevo col sorriso di chi
vuol far credere che stia dicendo una bugia. E invece era vero ch'io avevo cambiato di
studii nelle piú varie stagioni.
Partii cosí alla conquista di Ada e
continuai sempre nello sforzo di farla ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch'io
l'avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po' bizzarro, ma a lei dovetti apparire
veramente squilibrato. Non tutta la colpa è mia e lo si vede dal fatto che Augusta e
Alberta, ch'io non avevo prescelte, mi giudicarono altrimenti. Ma Ada, che proprio allora
era tanto seria da girare intorno i begli occhi alla ricerca dell'uomo ch'essa avrebbe
ammesso nel suo nido, era incapace di amare la persona che la faceva ridere. Rideva,
rideva a lungo, troppo a lungo e il suo riso copriva di un aspetto ridicolo la persona che
l'aveva provocato. La sua era una vera inferiorità e doveva finire col danneggiarla, ma
danneggiò prima me. Se avessi saputo tacere a tempo forse le cose sarebbero andate
altrimenti. Intanto le avrei lasciato il tempo perché parlasse lei, mi si rivelasse e
potessi guardarmene.
Le quattro fanciulle erano sedute sul
piccolo sofà sul quale stavano a stento ad onta che Anna sedesse sulle ginocchia di
Augusta. Erano belle cosí insieme. Lo constatai con un'intima soddisfazione vedendo
ch'ero avviato magnificamente all'ammirazione e all'amore. Veramente belle! Il colore
sbiadito di Augusta serviva a dare rilievo al color bruno delle capigliature delle altre.
Io avevo parlato dell'Università e
Alberta, che stava facendo il penultimo anno del ginnasio, raccontò dei suoi studii. Si
lamentò che il latino le riusciva molto difficile. Dissi di non meravigliarmene perché
era una lingua che non faceva per le donne, tanto ch'io pensavo che già dagli antichi
romani le donne avessero parlato l'italiano. Invece per me - asserii - il latino aveva
rappresentata la materia prediletta. Poco dopo però commisi la leggerezza di fare una
citazione latina che Alberta dovette correggermi. Un vero infortunio! Io non vi diedi
importanza e avvertii Alberta che quando essa avesse avuto dietro di sé una diecina di
semestri d'Università, anche lei avrebbe dovuto guardarsi dal fare citazioni latine.
Ada che recentemente era stata col padre
per qualche mese in Inghilterra, raccontò che in quel paese molte fanciulle sapevano il
latino. Poi sempre con la sua voce seria, aliena da ogni musicalità, un po' piú bassa di
quella che si sarebbe aspettata dalla sua gentile personcina, raccontò che le donne in
Inghilterra erano tutt'altra cosa che da noi. S'associavano per scopi di beneficenza,
religiosi o anche economici. Ada veniva spinta a parlare dalle sorelle che volevano
riudire quelle cose che apparivano meravigliose a fanciulle della nostra città in
quell'epoca. E, per compiacerle, Ada raccontò di quelle donne presidentesse, giornaliste,
segretarie e propagandiste politiche che salivano il pulpito per parlare a centinaia di
persone senz'arrossire e senza confondersi quando venivano interrotte o vedevano confutati
i loro argomenti. Diceva semplicemente, con poco colore, senz'alcuna intenzione di far
meravigliare o ridere.
Io amavo la sua parola semplice, io, che
come aprivo la bocca svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile
di parlare. Senz'essere un oratore, avevo la malattia della parola. La parola doveva
essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva essere imprigionata da nessun
altro avvenimento.
Ma io avevo uno speciale odio per la
perfida Albione e lo manifestai senza temere di offendere Ada che del resto non aveva
manifestato né odio né amore per l'Inghilterra. Io vi avevo trascorso alcuni mesi, ma
non vi avevo conosciuto alcun inglese di buona società visto che avevo smarrite in
viaggio alcune lettere di presentazione ottenute da amici d'affari di mio padre. A Londra
perciò avevo praticato solo alcune famiglie francesi ed italiane e finito col pensare che
tutte le persone dabbene in quella città provenissero dal continente. La mia conoscenza
dell'inglese era molto limitata. Con l'aiuto degli amici potei tuttavia intendere qualche
cosa della vita di quegl'isolani e sopra tutto fui informato della loro antipatia per
tutti i non inglesi.
Descrissi alle fanciulle il sentimento
poco gradevole che mi veniva dal soggiorno in mezzo a nemici. Avrei però resistito e
sopportata l'Inghilterra per quei sei mesi che mio padre e l'Olivi volevano infliggermi
acciocché studiassi il commercio inglese (in cui intanto non m'imbattei mai perché pare
si faccia in luoghi reconditi) se non mi fosse toccata un'avventura sgradevole. Ero andato
da un libraio a cercare un vocabolario. In quel negozio, sul banco, riposava sdraiato un
grosso, magnifico gatto àngora che proprio attirava le carezze sul soffice pelo. Ebbene!
Solo perché dolcemente l'accarezzai, esso proditoriamente m'assaltò e mi graffiò
malamente le mani. Da quel momento non seppi piú sopportare l'Inghilterra e il giorno
appresso mi trovavo a Parigi.
Augusta, Alberta e anche la signora
Malfenti risero di cuore. Ada invece era stupita e credeva di avere frainteso. Era stato
almeno il libraio stesso che m'aveva offeso e graffiato? Dovetti ripetermi, ciò ch'è
noioso perché si ripete male.
Alberta, la dotta, volle aiutarmi:
- Anche gli antichi si lasciavano dirigere
nelle loro decisioni dai movimenti degli animali.
Non accettai l'aiuto. Il gatto inglese non
s'era mica atteggiato ad oracolo; aveva agito da fato!
Ada, coi grandi occhi spalancati, volle
delle altre spiegazioni:
- E il gatto rappresentò per voi l'intero
popolo inglese?
Com'ero sfortunato! Per quanto vera,
quell'avventura a me era parsa istruttiva e interessante come se a scopi precisi fosse
stata inventata. Per intenderla non bastava ricordare che in Italia dove conosco ed amo
tanta gente, l'azione di quel gatto non avrebbe potuto assurgere a tale importanza? Ma io
non dissi questo e dissi invece:
- È certo che nessun gatto italiano
sarebbe capace di una tale azione.
Ada rise a lungo, molto a lungo. Mi parve
persino troppo grande il mio successo perché m'immiserii e immiserii la mia avventura con
ulteriori spiegazioni:
- Lo stesso libraio fu stupito del
contegno del gatto che con tutti gli altri si comportava bene. L'avventura toccò a me
perché ero io o forse perché ero italiano. It was really disgusting e dovetti
fuggire.
Qui avvenne qualche cosa che pur avrebbe
dovuto avvisarmi e salvarmi. La piccola Anna che fino ad allora era rimasta immota ad
osservarmi, a gran voce si diede ad esprimere il sentimento di Ada. Gridò:
- È vero ch'è pazzo, pazzo del tutto?
La signora Malfenti la minacciò:
- Vuoi stare zitta? Non ti vergogni
d'ingerirti nei discorsi dei grandi?
La minaccia fece peggio. Anna gridò:
- È pazzo! Parla coi gatti! Bisognerebbe
procurarsi subito delle corde per legarlo!
Augusta, rossa dal dispiacere, si alzò e
la portò via ammonendola e domandandomi nello stesso tempo scusa. Ma ancora alla porta la
piccola vipera poté fissarmi negli occhi, farmi una brutta smorfia e gridarmi.
- Vedrai che ti legheranno!
Ero stato assaltato tanto impensatamente
che non subito seppi trovare il modo di difendermi. Mi sentii però sollevato
all'accorgermi che anche Ada era dispiacente di veder dare espressione a quel modo al suo
proprio sentimento. L'impertinenza della piccina ci riavvicinava.
Raccontai ridendo di cuore ch'io a casa
possedevo un certificato regolarmente bollato che attestava in tutte le forme la mia
sanità di mente. Cosí appresero del tiro che avevo giocato al mio vecchio padre. Proposi
di produrre quel certificato alla piccola Annuccia.
Quando accennai di andarmene non me lo
permisero. Volevano che prima dimenticassi i graffi inflittimi da quell'altro gatto. Mi
trattennero con loro, offrendomi una tazza di tè.
È certo ch'io oscuramente sentii subito
che per esser gradito da Ada avrei dovuto essere un po' differente di quanto ero; pensai
che mi sarebbe stato facile di divenire quale essa mi voleva. Si continuò a parlare della
morte di mio padre e a me parve che rivelando il grande dolore che tuttavia mi pesava, la
seria Ada avrebbe potuto sentirlo con me. Ma subito, nello sforzo di somigliarle, perdetti
la mia naturalezza e perciò da lei - come si vide subito - m'allontanai. Dissi che il
dolore per una simile perdita era tale che se io avessi avuto dei figliuoli avrei cercato
di fare in modo che m'amassero meno per risparmiare loro piú tardi di soffrire tanto per
la mia dipartita.
Fui un poco imbarazzato quando mi
domandarono in qual modo mi sarei comportato per raggiungere tale scopo. Maltrattarli e
picchiarli? Alberta, ridendo, disse:
- Il mezzo piú sicuro sarebbe di
ucciderli.
Vedevo che Ada era animata dal desiderio
di non spiacermi. Perciò esitava; ma ogni suo sforzo non poteva condurla oltre
l'esitazione. Poi disse che vedeva ch'era per bontà ch'io pensavo di organizzare cosí la
vita dei miei figliuoli, ma che non le pareva giusto di vivere per prepararsi alla morte.
M'ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla
morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte
le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso
o un riso altrettanto lieto. M'ero lasciato trascinare a dire delle cose ch'erano meno
vere, specie trovandomi con lei, una parte della mia vita già tanto importante. In
verità io credo di averle parlato cosí per il desiderio di farle sapere ch'io ero un
uomo tanto lieto. Spesso la lietezza m'aveva favorito con le donne.
Pensierosa ed esitante, essa mi confessò
che non amava uno stato d'animo simile. Diminuendo il valore della vita, si rendeva questa
anche piú pericolante di quanto madre natura avesse voluto. Veramente ella m'aveva detto
che non facevo per lei, ma ero tuttavia riuscito a renderla esitante e pensierosa e mi
parve un successo. Alberta citò un filosofo antico che doveva somigliarmi
nell'interpretazione della vita e Augusta disse che il riso era una gran bella cosa. Anche
suo padre ne era ricco.
- Perché gli piacciono i buoni affari -
disse la signora Malfenti ridendo.
Interruppi finalmente quella visita
memoranda.
Non v'è niente di piú difficile a questo
mondo che di fare un matrimonio proprio come si vuole. Lo si vede dal caso mio ove la
decisione di sposarmi aveva preceduto di tanto la scelta della fidanzata. Perché non
andai a vedere tante e tante ragazze prima di sceglierne una? No! Pareva proprio mi fosse
spiaciuto di vedere troppe donne e non volli faticare. Scelta la fanciulla, avrei anche
potuto esaminarla un po' meglio e accertarmi almeno ch'essa sarebbe stata disposta di
venirmi incontro a mezza strada come si usa nei romanzi d'amore a conclusione felice. Io,
invece, elessi la fanciulla dalla voce tanto grave e dalla capigliatura un po' ribelle, ma
assettata severamente e pensai che, tanto seria, non avrebbe rifiutato un uomo
intelligente, non brutto, ricco e di buona famiglia come ero io. Già alle prime parole
che scambiammo sentii qualche stonatura, ma la stonatura è la via all'unisono. Devo anzi
confessare che pensai: «Ella deve rimanere quale è, poiché cosí mi piace e sarò io
che mi cambierò se essa lo vorrà». In complesso ero ben modesto perché è certamente
piú facile di mutare sé stesso che non di rieducare altri.
Dopo brevissimo tempo la famiglia Malfenti
divenne il centro della mia vita. Ogni sera la passavo con Giovanni che, dopo che m'aveva
introdotto in casa sua, s'era fatto con me anche piú affabile e intimo. Fu tale
affabilità che mi rese invadente.
Dapprima feci visita alle sue signore una
volta alla settimana, poi piú volte e finii coll'andare in casa sua ogni giorno a
passarci varie ore del pomeriggio. Per insediarmi in quella casa non mancarono pretesti ed
io credo di non sbagliare asserendo che mi fossero anche offerti. Portai talvolta con me
il mio violino e passai qualche poco di musica con Augusta, la sola che in quella casa
sonasse il piano. Era male che Ada non sonasse, poi era male che io sonassi tanto male il
violino e malissimo che Augusta non fosse una grande musicista. Di ogni sonata io ero
obbligato di eliminare qualche periodo perché troppo difficile, col pretesto non vero di
non aver toccato il violino da troppo tempo. Il pianista è quasi sempre superiore al
dilettante violinista e Augusta aveva una tecnica discreta, ma io, che sonavo tanto peggio
di lei, non sapevo dirmene contento e pensavo: «Se sapessi sonare come lei, come sonerei
meglio!» Intanto ch'io giudicavo Augusta, gli altri giudicavano me e, come appresi piú
tardi, non favorevolmente. Poi Augusta avrebbe volentieri ripetute le nostre sonate, ma io
m'accorsi che Ada vi si annoiava e perciò finsi piú volte di aver dimenticato il violino
a casa. Augusta allora non ne parlò piú.
Purtroppo io non vivevo solo con Ada le
ore che passavo in quella casa. Essa ben presto m'accompagnò il giorno intero. Era la
donna da me prescelta, era perciò già mia ed io l'adornai di tutti i sogni perché il
premio della vita m'apparisse piú bello. L'adornai, le prestai tutte le tante qualità di
cui sentivo il bisogno e che a me mancavano, perché essa doveva divenire oltre che la mia
compagna anche la mia seconda madre che m'avrebbe addotto a una vita intera, virile, di
lotta, e di vittoria.
Nei miei sogni anche fisicamente
l'abellíi prima di consegnarla ad altri. In realtà io nella mia vita corsi dietro a
molte donne e molte di esse si lasciarono anche raggiungere. Nel sogno le raggiunsi tutte.
Naturalmente non le abbellisco alterandone i tratti, ma faccio come un mio amico, pittore
delicatissimo, che quando ritratta delle donne belle, pensa intensamente anche a qualche
altra bella cosa per esempio a della porcellana finissima. Un sogno pericoloso perché
può conferire nuovo potere alle donne di cui si sognò e che rivedendo alla luce reale
conservano qualche cosa delle frutta, dei fiori e della porcellana da cui furono vestite.
M'è difficile di raccontare della mia
corte ad Ada. Vi fu poi una lunga epoca della mia vita in cui io mi sforzai di dimenticare
la stupida avventura che proprio mi faceva vergognare di quella vergogna che fa gridare e
protestare. «Non sono io che fui tanto bestia!». E chi allora? Ma la protesta conferisce
pure un po' di sollievo ed io vi insistetti. Meno male se avessi agito a quel modo un
dieci anni prima, a vent'anni! Ma esser stato punito di tanta bestialità solo perché
avevo deciso di sposarmi, mi pare proprio ingiusto. Io che già ero passato per ogni
specie di avventure condotte sempre con uno spirito intraprendente che arrivava alla
sfacciataggine, ecco ch'ero ridivenuto il ragazzetto timido che tenta di toccar la mano
dell'amata magari senza ch'essa se ne avveda, eppoi adora quella parte del proprio corpo
ch'ebbe l'onore di simile contatto.
Questa ch'è stata la piú pura avventura
della mia vita, anche oggi che son vecchio io la ricordo quale la piú turpe. Era fuori di
posto, fuori di tempo quella roba, come se un ragazzo di dieci anni si fosse attaccato al
petto della balia. Che schifo!
Come spiegare poi la mia lunga esitazione
di parlare chiaro e dire alla fanciulla: Risolviti! Mi vuoi o non mi vuoi? Io andavo a
quella casa arrivandovi dai miei sogni; contavo gli scalini che mi conducevano a quel
primo piano dicendomi che se erano dispari ciò avrebbe provato ch'essa m'amava ed erano
sempre dispari essendovene quarantatré. Arrivavo a lei accompagnato da tanta sicurezza e
finivo col parlare di tutt'altra cosa. Ada non aveva ancora trovata l'occasione di
significarmi il suo disdegno ed io tacevo! Anch'io al posto di Ada avrei accolto quel
giovinetto di trent'anni a calci nel sedere!
Devo dire che in certo rapporto io non
somigliavo esattamente al ventenne innamorato il quale tace aspettando che l'amata gli si
getti al collo. Non m'aspettavo niente di simile. Io avrei parlato, ma piú tardi. Se non
procedevo, ciò era dovuto ai dubbii su me stesso. Io m'aspettavo di divenire piú nobile,
piú forte, piú degno della mia divina fanciulla. Ciò poteva avvenire da un giorno
all'altro. Perché non aspettare?
Mi vergogno anche di non essermi accorto a
tempo ch'ero avviato ad un fiasco simile. Avevo da fare con una fanciulla delle piú
semplici e fu a forza di sognarne ch'essa m'apparí quale una civetta delle piú
consumate. Ingiusto quell'enorme mio rancore quand'essa riuscí a farmi vedere ch'essa di
me non ne voleva sapere. Ma io avevo mescolato tanto intimamente la realtà ai sogni che
non riuscivo a convincermi ch'essa mai m'avesse baciato.
È proprio un indizio di scarsa virilità
quello di fraintendere le donne. Prima non avevo sbagliato mai e devo credere di essermi
ingannato sul conto di Ada per avere da bel principio falsati i miei rapporti con lei. A
lei m'ero avvicinato non per conquistarla ma per sposarla ciò ch'è una via insolita
dell'amore, una via ben larga, una via ben comoda, ma che conduce non alla mèta per
quanto ben vicino ad essa. All'amore cui cosí si giunge manca la caratteristica
principale: l'assoggettamento della femmina. Cosí il maschio si prepara alla sua parte in
una grande inerzia che può estendersi a tutti i suoi sensi, anche a quelli della vista e
dell'udito.
Io portai giornalmente dei fiori a tutt'e
tre le fanciulle e a tutt'e tre regalai le mie bizzarrie e, sopra tutto, con una
leggerezza incredibile, giornalmente feci loro la mia autobiografia.
A tutti avviene di ricordarsi con piú
fervore del passato quando il presente acquista un'importanza maggiore. Dicesi anzi che i
moribondi, nell'ultima febbre, rivedano tutta la loro vita. Il mio passato m'afferrava ora
con la violenza dell'ultimo addio perché io avevo il sentimento di allontanarmene di
molto. E parlai sempre di questo passato alle tre fanciulle, incoraggiato dall'attenzione
intensa di Augusta e di Alberta che, forse, copriva la disattenzione di Ada di cui non
sono sicuro. Augusta, con la sua indole dolce, facilmente si commoveva e Alberta stava a
sentire le mie descrizioni di scapigliatura studentesca con le guancie arrossate dal
desiderio di poter in avvenire passare anch'essa per avventure simili.
Molto tempo dopo appresi da Augusta che
nessuna delle tre fanciulle aveva creduto che le mie storielle fossero vere. Ad Augusta
apparvero perciò piú preziose perché, inventate da me, le sembrava fossero piú mie che
se il destino me le avesse inflitte. Ad Alberta quella parte in cui non credette fu
tuttavia gradevole perché vi scorse degli ottimi suggerimenti. La sola che si fosse
indignata delle mie bugie fu la seria Ada. Coi miei sforzi a me toccava come a quel
tiratore cui era riuscito di colpire il centro del bersaglio, però di quello posto
accanto al suo.
Eppure in gran parte quelle storielle
erano vere. Non so piú dire in quanta parte perché avendole raccontate a tante altre
donne prima che alle figlie del Malfenti, esse, senza ch'io lo volessi, si alterarono per
divenire piú espressive. Erano vere dal momento che io non avrei piú saputo raccontarle
altrimenti. Oggidí non m'importa di provarne la verità. Non vorrei disingannare Augusta
che ama crederle di mia invenzione. In quanto ad Ada io credo che ormai ella abbia
cambiato di parere e le ritenga vere.
Il mio totale insuccesso con Ada si
manifestò proprio nel momento in cui giudicavo di dover finalmente parlar chiaro. Ne
accolsi l'evidenza con sorpresa e dapprima con incredulità. Non era stata detta da lei
una sola parola che avesse manifestata la sua avversione per me ed io intanto chiusi gli
occhi per non vedere quei piccoli atti che non mi significavano una grande simpatia. Eppoi
io stesso non avevo detta la parola necessaria e potevo persino figurarmi che Ada non
sapesse ch'io ero là pronto per sposarla e potesse credere che io - lo studente bizzarro
e poco virtuoso - volessi tutt'altra cosa.
Il malinteso si prolungava sempre a causa
di quelle mie intenzioni troppo decisamente matrimoniali. Vero è che oramai desideravo
tutta Ada cui avevo continuato a levigare assiduamente le guancie, a impicciolire le mani
e i piedi e ad isveltire e affinare la taglia. La desideravo quale moglie e quale amante.
Ma è decisivo il modo con cui si avvicina per la prima volta una donna.
Ora avvenne che per ben tre volte
consecutive, in quella casa fossi ricevuto dalle altre due fanciulle. L'assenza di Ada fu
scusata la prima volta con una visita doverosa, la seconda con un malessere e la terza non
mi si disse alcuna scusa finché io, allarmato, non lo domandai. Allora Augusta, a cui per
caso m'ero rivolto, non rispose. Rispose per lei Alberta ch'essa aveva guardata come per
invocarne l'assistenza: Ada era andata da una zia.
A me mancò il fiato. Era evidente che Ada
mi evitava. Il giorno prima ancora io avevo sopportata la sua assenza ed avevo anzi
prolungata la mia visita sperando ch'essa pur avrebbe finito coll'apparire. Quel giorno,
invece, restai ancora per qualche istante, incapace di aprir bocca, eppoi protestando un
improvviso male di testa m'alzai per andarmene. Curioso che quella prima volta il piú
forte sentimento che sentissi allo scontrarmi nella resistenza di Ada fosse di collera e
sdegno! Pensai anche di appellarmi a Giovanni per mettere la fanciulla all'ordine. Un uomo
che vuole sposarsi è anche capace di azioni simili, ripetizioni di quelle dei suoi
antenati.
Quella terza assenza di Ada doveva
divenire anche piú significativa. Il caso volle ch'io scoprissi ch'essa si trovava in
casa, ma rinchiusa nella sua stanza.
Devo prima di tutto dire che in quella
casa v'era un'altra persona ch'io non ero riuscito a conquistare: la piccola Anna. Dinanzi
agli altri essa non m'aggrediva piú, perché l'avevano redarguita duramente. Anzi qualche
volta anch'essa s'era accompagnata alle sorelle ed era stata a sentire le mie storielle.
Quando però me ne andavo, essa mi raggiungeva alla soglia, gentilmente mi pregava di
chinarmi a lei, si rizzava sulle punte dei piedini e quando arrivava a far addirittura
aderire la boccuccia al mio orecchio, mi diceva abbassando la voce in modo da non poter
essere udita che da me:
- Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!
Il bello si è che dinanzi agli altri la
sorniona mi dava del lei. Se c'era presente la signora Malfenti, essa subito si rifugiava
nelle sue braccia, e la madre l'accarezzava dicendo:
- Come la mia piccola Anna s'è fatta
gentile! Nevvero?
Non protestavo e la gentile Anna mi diede
ancora spesso allo stesso modo del pazzo. Io accoglievo la sua dichiarazione con un
sorriso vile che avrebbe potuto sembrare di ringraziamento. Speravo che la bambina non
avesse il coraggio di raccontare delle sue aggressioni agli adulti e mi dispiaceva di far
sapere ad Ada quale giudizio facesse di me la sua sorellina. Quella bambina finí
realmente coll'imbarazzarmi. Se, quando parlavo con gli altri, il mio occhio s'incontrava
nel suo, subito dovevo trovare il modo di guardare altrove ed era difficile di farlo con
naturalezza. Certo arrossivo. Mi pareva che quell'innocente col suo giudizio potesse
danneggiarmi. Le portai dei doni, ma non valsero ad ammansarla. Essa dovette accorgersi
del suo potere e della mia debolezza e, in presenza degli altri, mi guardava indagatrice,
insolente. Credo che tutti abbiamo nella nostra coscienza come nel nostro corpo dei punti
delicati e coperti cui non volentieri si pensa. Non si sa neppure che cosa sieno, ma si sa
che vi sono. Io stornavo il mio occhio da quello infantile che voleva frugarmi.
Ma quel giorno in cui solo e abbattuto
uscivo da quella casa e ch'essa mi raggiunse per farmi chinare a sentire il solito
complimento, mi piegai a lei con tale faccia stravolta di vero pazzo e tesi verso di lei
con tanta minaccia le mani contratte ad artigli, ch'essa corse via piangendo ed urlando.
Cosí arrivai a vedere Ada anche quel
giorno perché fu lei che accorse a quei gridi. La piccina raccontò singhiozzando ch'io
l'avevo minacciata duramente perché essa m'aveva dato del pazzo:
- Perché egli è un pazzo ed io voglio
dirglielo. Cosa c'è di male?
Non stetti a sentire la bambina, stupito
di vedere che Ada si trovava in casa. Le sue sorelle avevano dunque mentito, anzi la sola
Alberta cui Augusta ne aveva passato l'incarico esimendosene essa stessa! Per un istante
fui esattamente nel giusto indovinando tutto. Dissi ad Ada:
- Ho piacere di vederla. Credevo si
trovasse da tre giorni da sua zia.
Ella non mi rispose perché dapprima si
piegò sulla bambina piangente.
Quell'indugio di ottenere le spiegazioni
cui credevo di aver diritto mi fece salire veemente il sangue alla testa. Non trovavo
parole. Feci un altro passo per avvicinarmi alla porta d'uscita e se Ada non avesse
parlato, io me ne sarei andato e non sarei ritornato mai piú. Nell'ira mi pareva cosa
facilissima quella rinunzia ad un sogno che aveva oramai durato tanto a lungo.
Ma intanto essa, rossa, si volse a me e
disse ch'era rientrata da pochi istanti non avendo trovata la zia in casa.
Bastò per calmarmi. Com'era cara, cosí
maternamente piegata sulla bambina che continuava ad urlare! Il suo corpo era tanto
flessibile che pareva divenuto piú piccolo per accostarsi meglio alla piccina. Mi
indugiai ad ammirarla considerandola di nuovo mia.
Mi sentii tanto sereno che volli far
dimenticare il risentimento che poco prima avevo manifestato e fui gentilissimo con Ada ed
anche con Anna. Dissi ridendo di cuore:
- Mi dà tanto spesso del pazzo che volli
farle vedere la vera faccia e l'atteggiamento del pazzo. Voglia scusarmi! Anche tu, povera
Annuccia, non aver paura perché io sono un pazzo buono.
Anche Ada fu molto, ma molto gentile.
Redarguí la piccina che continuava a singhiozzare e mi domandò scusa per essa. Se avessi
avuta la fortuna che Anna nell'ira fosse corsa via, io avrei parlato. Avrei detta una
frase che forse si trova anche in qualche grammatica di lingue straniere, bell'e fatta per
facilitare la vita a chi non conosca la lingua del paese ove soggiorna: «Posso domandare
la sua mano a suo padre?». Era la prima volta ch'io volevo sposarmi e mi trovavo perciò
in un paese del tutto sconosciuto. Fino ad allora avevo trattato altrimenti con le donne
con cui avevo avuto a fare. Le avevo assaltate mettendo loro prima di tutto addosso le
mani.
Ma non arrivai a dire neppure quelle poche
parole. Dovevano pur stendersi su un certo spazio di tempo! Dovevano esser accompagnate da
un'espressione supplice della faccia, difficile a foggiarsi immediatamente dopo la mia
lotta con Anna ed anche con Ada, e dal fondo del corridoio s'avanzava già la signora
Malfenti richiamata dalle strida della bambina.
Stesi la mano ad Ada, che mi porse subito
cordialmente la sua e le dissi:
- Arrivederci domani. Mi scusi con la
signora.
Esitai però di lasciar andare quella mano
che riposava fiduciosa nella mia. Sentivo che, andandomene allora, rinunziavo ad
un'occasione unica con quella fanciulla tutt'intenta ad usarmi delle cortesie per
indennizzarmi delle villanie della sorella. Seguii l'ispirazione del momento, mi chinai
sulla sua mano e la sfiorai con le mie labbra. Indi apersi la porta e uscii lesto lesto
dopo di aver visto che Ada, che fino ad allora m'aveva abbandonata la destra mentre con la
sinistra sosteneva Anna che s'aggrappava alla sua gonna, stupita si guardava la manina che
aveva subito il contatto delle mie labbra, quasi avesse voluto vedere se ci fosse stato
scritto qualche cosa. Non credo che la signora Malfenti avesse scorto il mio atto.
Mi arrestai per un istante sulle scale,
stupito io stesso del mio atto assolutamente non premeditato.
V'era ancora la possibilità di ritornare
a quella porta che avevo chiusa dietro di me, suonare il campanello e domandar di poter
dire ad Ada quelle parole ch'essa sulla propria mano aveva cercato invano? Non mi parve!
Avrei mancato di dignità dimostrando troppa impazienza. Eppoi avendola prevenuta che
sarei ritornato le avevo preannunziate le mie spiegazioni. Non dipendeva ora che da lei di
averle, procurandomi l'opportunità di dargliele. Ecco che avevo finalmente cessato di
raccontare delle storie a tre fanciulle e avevo invece baciata la mano ad una sola di
esse.
Ma il resto della giornata fu piuttosto
sgradevole. Ero inquieto e ansioso. Io andavo dicendomi che la mia inquietudine provenisse
solo dall'impazienza di veder chiarita quell'avventura. Mi figuravo che se Ada m'avesse
rifiutato, io avrei potuto con tutta calma correre in cerca di altre donne. Tutto il mio
attaccamento per lei proveniva da una mia libera risoluzione che ora avrebbe potuto essere
annullata da un'altra che la cancellasse! Non compresi allora che per il momento a questo
mondo non v'erano altre donne per me e che abbisognavo proprio di Ada.
Anche la notte che seguí mi sembrò
lunghissima; la passai quasi del tutto insonne. Dopo la morte di mio padre, io avevo
abbandonate le mie abitudini di nottambulo e ora, dacché avevo risolto di sposarmi,
sarebbe stato strano di ritornarvi. M'ero perciò coricato di buon'ora col desiderio del
sonno che fa passare tanto presto il tempo.
Di giorno io avevo accolte con la piú
cieca fiducia le spiegazioni di Ada su quelle sue tre assenze dal suo salotto nelle ore in
cui io vi era, fiducia dovuta alla mia salda convinzione che la donna seria ch'io avevo
scelta non sapesse mentire. Ma nella notte tale fiducia diminuí. Dubitavo che non fossi
stato io ad informarla che Alberta - quando Augusta aveva rifiutato di parlare - aveva
addotta a sua scusa quella visita alla zia. Non ricordavo bene le parole che le avevo
dirette con la testa in fiamme, ma credevo di esser certo di averle riferita quella scusa.
Peccato! Se non l'avessi fatto, forse lei, per scusarsi, avrebbe inventato qualche cosa di
diverso e io, avendola còlta in bugia, avrei già avuto il chiarimento che anelavo.
Qui avrei pur potuto accorgermi
dell'importanza che Ada aveva oramai per me, perché per quietarmi io andavo dicendomi che
se essa non m'avesse voluto, avrei rinunziato per sempre al matrimonio. Il suo rifiuto
avrebbe dunque mutata la mia vita. E continuavo a sognare confortandomi nel pensiero che
forse quel rifiuto sarebbe stato una fortuna per me. Ricordavo quel filosofo greco che
prevedeva il pentimento tanto per chi si sposava quanto per chi restava celibe. Insomma
non avevo ancora perduta la capacità di ridere della mia avventura; la sola capacità che
mi mancasse era quella di dormire.
Presi sonno che già albeggiava. Quando mi
destai era tanto tardi che poche ore ancora mi dividevano da quella in cui la visita in
casa Malfenti m'era permessa. Perciò non vi sarebbe stato piú bisogno di fantasticare e
raccogliere degli altri indizii che mi chiarissero l'animo di Ada. Ma è difficile di
trattenere il proprio pensiero dall'occuparsi di un argomento che troppo c'importa.
L'uomo sarebbe un animale piú fortunato
se sapesse farlo. In mezzo alle cure della mia persona che quel giorno esagerai, io non
pensai ad altro: Avevo fatto bene baciando la mano di Ada o avevo fatto male di non
baciarla anche sulle labbra?
Proprio quella mattina ebbi un'idea che
credo m'abbia fortemente danneggiato privandomi di quel poco d'iniziativa virile che quel
mio curioso stato d'adolescenza m'avrebbe concesso. Un dubbio doloroso: e se Ada m'avesse
sposato solo perché indottavi dai genitori, senz'amarmi ed anzi avendo una vera
avversione per me? Perché certamente tutti in quella famiglia, cioè Giovanni, la signora
Malfenti, Augusta e Alberta mi volevano bene; potevo dubitare della sola Ada.
Sull'orizzonte si delineava proprio il solito romanzo popolare della giovinetta costretta
dalla famiglia ad un matrimonio odioso. Ma io non l'avrei permesso. Ecco la nuova ragione
per cui dovevo parlare con Ada, anzi con la sola Ada. Non sarebbe bastato di dirigerle la
frase fatta che avevo preparata. Guardandola negli occhi le avrei domandato: «Mi ami
tu?» E se essa m'avesse detto di sí, io l'avrei serrata fra le mie braccia per sentirne
vibrare la sincerità.
Cosí mi parve d'essermi preparato a
tutto. Invece dovetti accorgermi d'esser arrivato a quella specie d'esame dimenticando di
rivedere proprio quelle pagine di testo di cui mi sarebbe stato imposto di parlare.
Fui ricevuto dalla sola signora Malfenti
che mi fece accomodare in un angolo del grande salotto e si mise subito a chiacchierare
vivacemente impedendomi persino di domandare delle notizie delle fanciulle. Ero perciò
alquanto distratto e mi ripetevo la lezione per non dimenticarla al momento buono. Tutt'ad
un tratto fui richiamato all'attenzione come da uno squillo di tromba. La signora stava
elaborando un preambolo. M'assicurava dell'amicizia sua e del marito e dell'affetto di
tutta la famiglia loro, compresavi la piccola Anna. Ci conoscevamo da tanto tempo. Ci
eravamo visti giornalmente da quattro mesi.
- Cinque! - corressi io che ne avevo fatto
il calcolo nella notte, ricordando che la mia prima visita era stata fatta d'autunno e che
ora ci trovavamo in piena primavera.
- Sí! Cinque! - disse la signora
pensandoci su come se avesse voluto rivedere il mio calcolo. Poi, con aria di rimprovero:
- A me sembra che voi compromettiate Augusta.
- Augusta? - domandai io credendo di aver
sentito male.
- Sí! - confermò la signora. - Voi la
lusingate e la compromettete.
Ingenuamente rivelai il mio sentimento.
- Ma io l'Augusta non la vedo mai.
Essa ebbe un gesto di sorpresa e (o mi
parve?) di sorpresa dolorosa.
Io intanto tentavo di pensare intensamente
per arrivare presto a spiegare quello che mi sembrava un equivoco di cui però subito
intesi l'importanza. Mi rivedevo in pensiero, visita per visita, durante quei cinque mesi,
intento a spiare Ada. Avevo suonato con Augusta e, infatti, talvolta avevo parlato piú
con lei, che mi stava a sentire, che non con Ada, ma solo perché essa spiegasse ad Ada le
mie storie accompagnate dalla sua approvazione. Dovevo parlare chiaramente con la signora
e dirle delle mie mire su Ada? Ma poco prima io avevo risolto di parlare con la sola Ada e
d'indagarne l'animo.
Forse se avessi parlato chiaramente con la
signora Malfenti, le cose sarebbero andate altrimenti e cioè non potendo sposare Ada non
avrei sposata neppure Augusta. Lasciandomi dirigere dalla risoluzione presa prima ch'io
avessi veduta la signora Malfenti e, sentite le cose sorprendenti ch'essa m'aveva dette,
tacqui.
Pensavo intensamente, ma perciò con un
po' di confusione. Volevo intendere, volevo indovinare e presto. Si vedono meno bene le
cose quando si spalancano troppo gli occhi. Intravvidi la possibilità che volessero
buttarmi fuori di casa. Mi parve di poter escluderla. Io ero innocente, visto che non
facevo la corte ad Augusta ch'essi volevano proteggere. Ma forse m'attribuivano delle
intenzioni su Augusta per non compromettere Ada. E perché proteggere a quel modo Ada, che
non era piú una fanciullina? Io ero certo di non averla afferrata per le chiome che in
sogno. In realtà non avevo che sfiorata la sua mano con le mie labbra. Non volevo mi si
interdicesse l'accesso a quella casa, perché prima di abbandonarla volevo parlare con
Ada. Perciò con voce tremante domandai:
- Mi dica Lei, signora, quello che debbo
fare per non spiacere a nessuno.
Essa esitò. Io avrei preferito di aver da
fare con Giovanni che pensava urlando. Poi, risoluta, ma con uno sforzo di apparire
cortese che si manifestava evidente nel suono della voce, disse:
- Dovrebbe per qualche tempo venir meno
frequentemente da noi; dunque non ogni giorno, ma due o tre volte alla settimana.
È certo che se mi avesse detto rudemente
di andarmene e di non ritornare piú, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei
supplicato che mi si tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per
chiarire i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, piú miti di quanto avessi temuto,
mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:
- Ma se lei lo desidera, io in questa casa
non riporrò piú piede!
Venne quello che avevo sperato. Essa
protestò, riparlò della stima di tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con
lei. Ed io mi dimostrai magnanimo, le promisi tutto quello ch'essa volle e cioè di
astenermi dal venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con
una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non tenerle
rancore.
Fatte tali promesse, volli dar segno di
tenerle e mi levai per allontanarmi. La signora protestò ridendo:
- Con me non c'è poi compromissione di
sorta e può rimanere.
E poiché io pregavo di lasciarmi andare
per un impegno di cui solo allora m'ero ricordato, mentre era vero che non vedevo l'ora di
essere solo per riflettere meglio alla straordinaria avventura che mi toccava, la signora
mi pregò addirittura di rimanere dicendo che cosí le avrei data la prova di non essere
adirato con lei. Perciò rimasi, sottoposto continuamente alla tortura di ascoltare il
vuoto cicaleccio cui la signora ora s'abbandonava sulle mode femminili ch'essa non voleva
seguire, sul teatro e anche sul tempo tanto secco con cui la primavera s'annunziava.
Poco dopo fui contento d'essere rimasto
perché m'avvidi che avevo bisogno di un ulteriore chiarimento.
Senz'alcun riguardo interruppi la signora,
di cui non sentivo piú le parole, per domandarle:
- E tutti in famiglia sapranno che lei
m'ha invitato a tenermi lontano da questa casa?
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi -
bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998