Italo Svevo
La coscienza di Zeno
4
La morte di mio padre
Il dottore è partito ed
io davvero non so se la biografia di mio padre occorra. Se descrivessi troppo
minuziosamente mio padre, potrebbe risultare che per avere la mia guarigione sarebbe stato
necessario di analizzare lui dapprima e si arriverebbe cosí ad una rinunzia. Procedo con
coraggio perché so che se mio padre avesse avuto bisogno della stessa cura, ciò sarebbe
stato per tutt'altra malattia della mia. Ad ogni modo, per non perdere tempo, dirò di lui
solo quanto possa giovare a ravvivare il ricordo di me stesso.
«15. 4. 1890 ore 4 1/2. Muore mio padre.
U.S.». Per chi non lo sapesse quelle due ultime lettere non significano United States,
ma ultima sigaretta. È l'annotazione che trovo su un volume di filosofia positiva
dell'Ostwald sul quale pieno di speranza passai varie ore e che mai intesi. Nessuno lo
crederebbe, ma ad onta di quella forma, quell'annotazione registra l'avvenimento piú
importante della mia vita.
Mia madre era morta quand'io non avevo
ancora quindici anni. Feci delle poesie per onorarla ciò che mai equivale a piangere e,
nel dolore, fui sempre accompagnato dal sentimento che da quel momento doveva iniziarsi
per me una vita seria e di lavoro. Il dolore stesso accennava ad una vita piú intensa.
Poi un sentimento religioso tuttavia vivo attenuò e addolcì la grave sciagura. Mia madre
continuava a vivere sebbene distante da me e poteva anche compiacersi dei successi cui
andavo preparandomi. Una bella comodità! Ricordo esattamente il mio stato di allora. Per
la morte di mia madre e la salutare emozione ch'essa m'aveva procurata, tutto da me doveva
migliorarsi.
Invece la morte di mio padre fu una vera,
grande catastrofe. Il paradiso non esisteva piú ed io poi, a trent'anni, ero un uomo
finito. Anch'io! M'accorsi per la prima volta che la parte piú importante e decisiva
della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo
egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt'altro! Io piangevo lui e me, e me
solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da
una facoltà universitaria all'altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità.
Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari
fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c'era piú una dimane ove
collocare il proposito. Tante volte, quando ci penso, resto stupito della stranezza per
cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia prodotta alla morte di mio padre e
non prima. Sono in complesso cose recenti e per ricordare il mio enorme dolore e ogni
particolare della sventura non ho certo bisogno di sognare come vogliono i signori
dell'analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino alla sua morte io non vissi per
mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo
senz'offenderlo, lo evitai. All'Università tutti lo conoscevano col nomignolo ch'io gli
diedi di vecchio Silva manda denari. Ci volle la malattia per legarmi a lui; la
malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il medico lo diede subito
per spacciato. Quand'ero a Trieste ci vedevamo sí e no per un'oretta al giorno, al
massimo. Mai non fummo tanto e sí a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari l'avessi
assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato. Era difficile di trovarsi insieme
anche perché fra me e lui, intellettualmente non c'era nulla di comune. Guardandoci,
avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento, reso in lui piú acido da una viva
paterna ansietà per il mio avvenire; in me, invece, tutto indulgenza, sicuro com'ero che
le sue debolezze oramai erano prive di conseguenze, tant'è vero ch'io le attribuivo in
parte all'età. Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, - a me sembra, - troppo
presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l'appoggio di una convinzione scientifica,
egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva - e qui con
fede scientifica sicura - ad aumentare la mia diffidenza per lui.
Egli godeva però della fama di
commerciante abile, ma io sapevo che i suoi affari da lunghi anni erano diretti
dall'Olivi. Nell'incapacità al commercio v'era una somiglianza fra di noi, ma non ve ne
erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza.
Già quello che ho registrato in questi fascicoli prova che in me c'è e c'è sempre stato
- forse la mia massima sventura - un impetuoso conato al meglio. Tutti i miei sogni di
equilibrio e di forza non possono essere definiti altrimenti. Mio padre non conosceva
nulla di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d'accordo sul modo come l'avevano fatto ed
io devo ritenere ch'egli mai abbia compiuti degli sforzi per migliorarsi. Fumava il giorno
intero e, dopo la morte di mamma, quando non dormiva, anche di notte. Beveva anche
discretamente; da gentleman, di sera, a cena, tanto da essere sicuro di trovare il
sonno pronto non appena posata la testa sul guanciale. Ma, secondo lui, il fumo e l'alcool
erano dei buoni medicinali.
In quanto concerne le donne, dai parenti
appresi che mia madre aveva avuto qualche motivo di gelosia. Anzi pare che la mite donna
abbia dovuto intervenire talvolta violentemente per tenere a freno il marito. Egli si
lasciava guidare da lei che amava e rispettava, ma pare ch'essa non sia mai riuscita ad
avere da lui la confessione di alcun tradimento, per cui morí nella fede di essersi
sbagliata. Eppure i buoni parenti raccontano ch'essa ha trovato il marito quasi in
flagrante dalla propria sarta. Egli si scusò con un accesso di distrazione e con tanta
costanza che fu creduto. Non vi fu altra conseguenza che quella che mia madre non andò
piú da quella sarta e mio padre neppure. Io credo che nei suoi panni io avrei finito col
confessare, ma che poi non avrei saputo abbandonare la sarta, visto ch'io metto le radici
dove mi soffermo.
Mio padre sapeva difendere la sua quiete
da vero pater familias. L'aveva questa quiete nella sua casa e nell'animo suo. Non
leggeva che dei libri insulsi e morali. Non mica per ipocrisia, ma per la piú sincera
convinzione: penso ch'egli sentisse vivamente la verità di quelle prediche morali e che
la sua coscienza fosse quietata dalla sua adesione sincera alla virtù.
Adesso che invecchio e m'avvicino al tipo
del patriarca, anch'io sento che un'immoralità predicata è piú punibile di un'azione
immorale. Si arriva all'assassinio per amore o per odio; alla propaganda dell'assassinio
solo per malvagità.
Avevamo tanto poco di comune fra di noi,
ch'egli mi confessò che una delle persone che piú l'inquietavano a questo mondo ero io.
Il mio desiderio di salute m'aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva
saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore
non pulsava e non v'era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come
il suo organismo viveva. Niente movimento perché l'esperienza diceva che quanto si moveva
finiva coll'arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei
cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a
tale concezione non si conformasse. M'interruppe con disgusto un giorno che gli parlai
degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all'ingiù gli sconvolgeva lo
stomaco.
Egli mi rimproverava due altre cose: la
mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle cose piú serie. In fatto di distrazione
egli differiva da me per un certo suo libretto in cui notava tutto quello ch'egli voleva
ricordare e che rivedeva piú volte al giorno. Credeva cosí di aver vinta la sua malattia
e non ne soffriva piú. Impose quel libretto anche a me, ma io non vi registrai che
qualche ultima sigaretta.
In quanto al mio disprezzo per le cose
serie, io credo ch'egli avesse il difetto di considerare come serie troppe cose di questo
mondo. Eccone un esempio: quando, dopo di essere passato dagli studii di legge a quelli di
chimica, io ritornai col suo permesso ai primi, egli mi disse bonariamente: - Resta però
assodato che tu sei un pazzo.
Io non me ne offesi affatto e gli fui
tanto grato della sua condiscendenza, che volli premiarlo facendolo ridere. Andai dal
dottor Canestrini a farmi esaminare per averne un certificato. La cosa non fu facile
perché dovetti sottomettermi perciò a lunghe e minuziose disamine. Ottenutolo, portai
trionfalmente quel certificato a mio padre, ma egli non seppe riderne. Con accento
accorato e con le lacrime agli occhi esclamò: - Ah! Tu sei veramente pazzo!
E questo fu il premio della mia faticosa e
innocua commediola. Non me la perdonò mai e perciò mai ne rise. Farsi visitare da un
medico per ischerzo? Far redigere per ischerzo un certificato munito di bolli? Cose da
pazzi!
Insomma io, accanto a lui, rappresentavo
la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita
da me come una diminuzione.
Ricordo come la sua debolezza fu provata
allorché quella canaglia dell'Olivi lo indusse a fare testamento. All'Olivi premeva quel
testamento che doveva mettere i miei affari sotto la sua tutela e pare abbia lavorato a
lungo il vecchio per indurlo a quell'opera tanto penosa. Finalmente mio padre vi si
decise, ma la sua larga faccia serena s'oscurò. Pensava costantemente alla morte come se
con quell'atto avesse avuto un contatto con essa.
Una sera mi domandò: - Tu credi che
quando si è morti tutto cessi?
Al mistero della morte io ci penso ogni
giorno, ma non ero ancora in grado di dargli le informazioni ch'egli domandava. Per fargli
piacere inventai la fede piú lieta nel nostro futuro.
- Io credo che sopravviva il piacere,
perché il dolore non è piú necessario. La dissoluzione potrebbe ricordare il piacere
sessuale. Certo sarà accompagnata dal senso della felicità e del riposo visto che la
ricomposizione è tanto faticosa. La dissoluzione dovrebb'essere il premio della vita!
Feci un bel fiasco. Si era ancora a tavola
dopo cena. Egli, senza rispondere, si levò dalla sedia, vuotò ancora il suo bicchiere e
disse:
- Non è questa l'ora di filosofare
specialmente con te!
E uscì. Dispiacente lo seguii e pensai di
restare con lui per distoglierlo dai pensieri tristi. M'allontanò dicendomi che gli
ricordavo la morte e i suoi piaceri.
Non sapeva dimenticare il testamento
finché non me ne aveva data comunicazione. Se ne ricordava ogni qualvolta mi vedeva. Una
sera scoppiò:
- Devo dirti che ho fatto testamento.
Io, per stornarlo dal suo incubo, vinsi
subito la sorpresa che mi produsse la sua comunicazione e gli dissi:
- Io non avrò mai questo disturbo perché
spero che prima di me muoiano tutti i miei eredi!
Egli subito si inquietò del mio riso su
una cosa tanto seria e ritrovò tutto il suo desiderio di punirmi. Cosí gli fu facile di
raccontarmi il bel tiro che m'aveva fatto mettendomi sotto la tutela dell'Olivi.
Devo dirlo: io mi dimostrai un buon
ragazzo; rinunziai a fare un'obiezione qualunque pur di strapparlo a quel pensiero che lo
faceva soffrire. Dichiarai che qualunque fosse stata la sua ultima volontà io mi vi sarei
adattato.
- Forse - aggiunsi - io saprò comportarmi
in modo che tu ti troverai indotto a cambiare le tue ultime volontà.
Ciò gli piacque anche perché vedeva
ch'io gli attribuivo una vita lunga, anzi lunghissima. Tuttavia volle da me addirittura un
giuramento, che se egli non avesse disposto altrimenti, io non avrei mai tentato di
sminuire le facoltà dell'Olivi. Io giurai visto ch'egli non volle contentarsi della mia
parola d'onore. Fui tanto mite allora, che quando sono torturato dal rimorso di non averlo
amato abbastanza prima che morisse, rievoco sempre quella scena. Per essere sincero devo
dire che la rassegnazione alle sue disposizioni mi fu facile perché in quell'epoca l'idea
di essere costretto a non lavorare m'era piuttosto simpatica.
Circa un anno prima della sua morte, io
seppi una volta intervenire abbastanza energicamente a vantaggio della sua salute. M'aveva
confidato di sentirsi male ed io lo costrinsi di andare da un medico dal quale anche lo
accompagnai. Costui prescrisse qualche medicinale e ci disse di ritornare da lui qualche
settimana dopo. Ma mio padre non volle, dichiarando che odiava i medici quanto i becchini
e non prese neppure la medicina prescrittagli perché anch'essa gli ricordava medici e
becchini. Restò per un paio di ore senza fumare e per un solo pasto senza vino. Si sentì
molto bene quando poté congedarsi dalla cura, e io, vedendolo piú lieto, non ci pensai
piú.
Poi lo vidi talvolta triste. Ma mi sarei
meravigliato di vederlo lieto, solo e vecchio com'era.
*****
Una sera della fine di marzo arrivai un
po' piú tardi del solito a casa. Niente di male: ero caduto nelle mani di un dotto amico
che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo. Era la prima
volta che si voleva da me ch'io pensassi a quelle origini, eppure m'adattai alla lunga
lezione per compiacere l'amico. Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e
fosco, compresi i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m'adattai a
quella sofferenza per ben due ore. La mia solita debolezza! Scommetto che oggi ancora sono
tanto incapace di resistenza, che se qualcuno ci si mettesse sul serio potrebbe indurmi a
studiare per qualche tempo l'astronomia.
Entrai nel giardino che circonda la nostra
villa. A questa si accedeva per una breve strada carrozzabile. Maria, la nostra cameriera,
m'aspettava alla finestra e sentendomi avvicinare gridò nell'oscurità:
- È lei, signor Zeno?
Maria era una di quelle fantesche come non
se ne trovano piú. Era da noi da una quindicina d'anni. Metteva mensilmente alla Cassa di
Risparmio una parte della sua paga per i suoi vecchi anni, risparmi che però non le
servirono perché essa morí in casa nostra poco dopo il mio matrimonio sempre lavorando.
Essa mi raccontò che mio padre era
ritornato a casa da qualche ora, ma che aveva voluto attendermi a cena. Allorché essa
aveva insistito perché egli intanto mangiasse, era stata mandata via con modi poco
gentili. Poi egli aveva domandato di me parecchie volte, inquieto e ansioso. Maria mi fece
intendere che pensava che mio padre non si sentisse bene. Gli attribuiva una difficoltà
di parola e il respiro mozzo. Debbo dire ch'essendo sempre sola con lui, essa spesso s'era
fitto in testa il pensiero ch'egli fosse malato. Aveva poche cose da osservare la povera
donna nella casa solitaria e - dopo l'esperienza fatta con mia madre - essa s'aspettava
che tutti avessero da morire prima di lei.
Corsi alla camera da pranzo con una certa
curiosità e non ancora impensierito. Mio padre si levò subito dal sofà su cui giaceva e
m'accolse con una grande gioia che non seppe commovermi perché vi scorsi prima di tutto
l'espressione di un rimprovero. Ma intanto bastò a tranquillarmi perché la gioia mi
parve un segno di salute. Non scorsi in lui traccia di quel balbettamento e respiro mozzo
di cui aveva parlato Maria. Ma, invece di rimproverarmi, egli si scusò d'essere stato
caparbio.
- Che vuoi farci? - mi disse bonariamente.
- Siamo noi due soli a questo mondo e volevo vederti prima di coricarmi.
Magari mi fossi comportato con semplicità
e avessi preso fra le mie braccia il mio caro babbo divenuto per malattia tanto mite e
affettuoso! Invece cominciai a fare freddamente una diagnosi: Il vecchio Silva si era
tanto mitigato? Che fosse malato? Lo guardai sospettosamente e non trovai di meglio che di
fargli un rimprovero:
- Ma perché hai atteso finora per
mangiare? Potevi mangiare, eppoi attendermi!
Egli rise assai giovanilmente:
- Si mangia meglio in due.
Poteva questa lietezza essere anche il
segno di un buon appetito: io mi tranquillai e mi misi a mangiare. Con le sue ciabatte di
casa, con passo malfermo, egli s'accostò al desco e occupò il suo posto solito. Poi
stette a guardarmi come mangiavo, mentre lui, dopo un paio di cucchiaiate scarse, non
prese altro cibo e allontanò anche da sé il piatto che gli ripugnava. Ma il sorriso
persisteva sulla sua vecchia faccia. Soltanto mi ricordo, come se si trattasse di cosa
avvenuta ieri, che un paio di volte ch'io lo guardai negli occhi, egli stornò il suo
sguardo dal mio. Si dice che ciò è un segno di falsità, mentre io ora so ch'è un segno
di malattia. L'animale malato non lascia guardare nei pertugi pei quali si potrebbe
scorgere la malattia, la debolezza.
Egli aspettava sempre di sentire come io
avessi impiegato quelle tante ore in cui egli m'aveva atteso. E vedendo che ci teneva
tanto, cessai per un istante di mangiare e gli dissi secco, secco, ch'io fino a quell'ora
avevo discusse le origini del Cristianesimo.
Mi guardò dubbioso e perplesso:
- Anche tu, ora, pensi alla religione?
Era evidente che gli avrei dato una grande
consolazione se avessi accettato di pensarci con lui. Invece io, che finché mio padre era
vivo mi sentivo combattivo (e poi non piú) risposi con una di quelle solite frasi che si
sentono tutti i giorni nei caffè situati presso le Università:
- Per me la religione non è altro che un
fenomeno qualunque che bisogna studiare.
- Fenomeno? - fece lui sconcertato. Cercò
una pronta risposta e aperse la bocca per darla. Poi esitò e guardò il secondo piatto,
che giusto allora Maria gli offerse e ch'egli non toccò. Quindi per tapparsi meglio la
bocca, vi ficcò un mozzicone di sigaro che accese e che lasciò subito spegnere. S'era
cosí concessa una sosta per riflettere tranquillamente. Per un istante mi guardò
risoluto:
- Tu non vorrai ridere della religione?
Io, da quel perfetto studente scioperato
che sono sempre stato, con la bocca piena, risposi:
- Ma che ridere! Io studio!
Egli tacque e guardò lungamente il
mozzicone di sigaro che aveva deposto su un piatto. Capisco ora perché egli mi avesse
detto ciò. Capisco ora tutto quello che passò per quella mente già torbida, e sono
sorpreso di non averne capito nulla allora. Credo che allora nel mio animo mancasse
l'affetto che fa intendere tante cose. Poi mi fu tanto facile! Egli evitava di affrontare
il mio scetticismo: una lotta troppo difficile per lui in quel momento; ma riteneva di
poter attaccarlo mitemente di fianco come conveniva ad un malato. Ricordo che quando
parlò, il suo respiro mozzava e ritardava la sua parola. È una grande fatica prepararsi
ad un combattimento. Ma pensavo ch'egli non si sarebbe rassegnato di coricarsi senza darmi
il fatto mio e mi preparai a discussioni che poi non vennero.
- Io - disse, sempre guardando il suo
mozzicone di sigaro oramai spento, - sento come la mia esperienza e la scienza mia della
vita sono grandi. Non si vivono inutilmente tanti anni. Io so molte cose e purtroppo non
so insegnartele tutte come vorrei.
Oh, quanto lo vorrei! Vedo dentro nelle
cose, e anche vedo quello ch'è giusto e vero e anche quello che non lo è.
Non c'era da discutere. Borbottai poco
convinto e sempre mangiando:
- Sí! Papà!
Non volevo offenderlo.
- Peccato che sei venuto tanto tardi.
Prima ero meno stanco e avrei saputo dirti molte cose.
Pensai che volesse ancora seccarmi perché
ero venuto tardi e gli proposi di lasciare quella discussione per il giorno dopo.
- Non si tratta di una discussione -
rispose egli trasognato - ma di tutt'altra cosa. Una cosa che non si può discutere e che
saprai anche tu non appena te l'avrò detta. Ma il difficile è dirla!
Qui ebbi un dubbio:
- Non ti senti bene?
- Non posso dire di star male, ma sono
molto stanco e vado subito a dormire.
Suonò il campanello e nello stesso tempo
chiamò Maria con la voce. Quand'essa venne, egli domandò se nella sua stanza tutto era
pronto. S'avviò poi subito strascicando le ciabatte al suolo. Giunto accanto a me, chinò
la testa per offrirmi la sua guancia al bacio di ogni sera.
Vedendolo moversi cosí malsicuro, ebbi di
nuovo il dubbio che stesse male e glielo domandai. Ripetemmo ambedue piú volte le stesse
parole ed egli mi confermò ch'era stanco ma non malato. Poi soggiunse:
- Adesso penserò alle parole che ti dirò
domani. Vedrai come ti convinceranno.
- Papà - dichiarai io commosso - ti
sentirò volentieri.
Vedendomi tanto disposto a sottomettermi
alla sua esperienza, egli esitò di lasciarmi: bisognava pur approfittare di un momento
tanto favorevole! Si passò la mano sulla fronte e sedette sulla sedia sulla quale s'era
appoggiato per porgermi la sua guancia al bacio. Ansava leggermente.
- Curioso! - disse. - Non so dirti nulla,
proprio nulla.
Guardò intorno a sé come se avesse
cercato di fuori quello che nel suo interno non arrivava ad afferrare.
- Eppure so tante cose, anzi tutte le cose
io so. Dev'essere l'effetto della mia grande esperienza.
Non soffriva tanto di non saper esprimersi
perché sorrise alla propria forza, alla propria grandezza.
Io non so perché non abbia chiamato
subito il dottore. Invece debbo confessarlo con dolore e rimorso: considerai le parole di
mio padre come dettate da una presunzione ch'io credevo di aver piú volte constatata in
lui. Non poteva però sfuggirmi l'evidenza della sua debolezza e solo perciò non
discussi. Mi piaceva di vederlo felice nella sua illusione di essere tanto forte quand'era
invece debolissimo. Ero poi lusingato dall'affetto che mi dimostrava manifestando il
desiderio di consegnarmi la scienza di cui si credeva possessore, per quanto fossi
convinto di non poter apprendere niente da lui. E per lusingarlo e dargli pace gli
raccontai che non doveva sforzarsi per trovare subito le parole che gli mancavano, perché
in frangenti simili i piú alti scienziati mettevano le cose troppo complicate in deposito
in qualche cantuccio del cervello perché si semplificassero da sé.
Egli rispose:
- Quello ch'io cerco non è complicato
affatto. Si tratta anzi di trovare una parola, una sola e la troverò! Ma non questa notte
perché farò tutto un sonno, senza il piú piccolo pensiero.
Tuttavia non si levò dalla sedia.
Esitante e scrutando per un istante il mio viso, mi disse:
- Ho paura che non saprò dire a te quello
che penso, solo perché tu hai l'abitudine di ridere di tutto.
Mi sorrise come se avesse voluto pregarmi
di non risentirmi per le sue parole, si alzò dalla sedia e mi offerse per la seconda
volta la sua guancia. Io rinunziai a discutere e convincerlo che a questo mondo v'erano
molte cose di cui si poteva e doveva ridere e volli rassicurarlo con un forte abbraccio.
Il mio gesto fu forse troppo forte, perché egli si svincolò da me piú affannato di
prima, ma certo fu da lui inteso il mio affetto, perché mi salutò amichevolmente con la
mano.
- Andiamo a letto! - disse con gioia e
uscí seguito da Maria.
E rimasto solo (strano anche questo!) non
pensai alla salute di mio padre, ma, commosso e - posso dirlo - con ogni rispetto filiale,
deplorai che una mente simile che mirava a mète alte, non avesse trovata la possibilità
di una coltura migliore. Oggi che scrivo, dopo di aver avvicinata l'età raggiunta da mio
padre, so con certezza che un uomo può avere il sentimento di una propria altissima
intelligenza che non dia altro segno di sé fuori di quel suo forte sentimento. Ecco: si
dà un forte respiro e si accetta e si ammira tutta la natura com'è e come, immutabile,
ci è offerta: con ciò si manifesta la stessa intelligenza che volle la Creazione intera.
Da mio padre è certo che nell'ultimo istante lucido della sua vita, il suo sentimento
d'intelligenza fu originato da una sua improvvisa ispirazione religiosa, tant'è vero che
s'indusse a parlarmene perché io gli avevo raccontato di essermi occupato delle origini
del Cristianesimo. Ora però so anche che quel sentimento era il primo sintomo dell'edema
cerebrale.
Maria venne a sparecchiare e a dirmi che
le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Cosí andai a dormire anch'io del
tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come
una ninna nanna che s'allontanò sempre di piú da me, perché mi immersi nel sonno.
Non so per quanto tempo io abbia dormito.
Fui destato da Maria. Pare che piú volte essa fosse venuta nella mia stanza a chiamarmi e
fosse poi corsa via. Nel mio sonno profondo ebbi dapprima un certo turbamento, poi
intravvidi la vecchia che saltava per la camera e infine capii. Mi voleva svegliare, ma
quando vi riuscí, essa non era piú nella mia stanza. Il vento continuava a cantarmi il
sonno ed io, per essere veritiero, debbo confessare che andai alla stanza di mio padre col
dolore di essere stato strappato dal mio sonno. Ricordavo che Maria vedeva sempre mio
padre in pericolo. Guai a lei se egli non fosse stato ammalato questa volta!
La stanza di mio padre, non grande, era
ammobiliata un po' troppo. Alla morte di mia madre, per dimenticare meglio, egli aveva
cambiato stanza, portando con sé nel nuovo ambiente piú piccolo, tutti i suoi mobili. La
stanza illuminata scarsamente da una fiammella a gas posta sul tavolo da notte molto
basso, era tutta in ombra. Maria sosteneva mio padre che giaceva supino, ma con una parte
del busto sporgente dal letto.
La faccia di mio padre coperta di sudore
rosseggiava causa la luce vicina. La sua testa poggiava sul petto fedele di Maria. Ruggiva
dal dolore e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giú per il mento. Guardava
immoto la parete di faccia e non si volse quand'io entrai.
Maria mi raccontò di aver sentito il suo
lamento e di essere arrivata in tempo per impedirgli di cadere dal letto. Prima - essa
assicurava - egli s'era agitato di piú, mentre ora le pareva relativamente tranquillo, ma
non si sarebbe rischiata di lasciarlo solo. Voleva forse scusarsi di avermi chiamato
mentre io già avevo capito che aveva fatto bene a destarmi. Parlandomi essa piangeva, ma
io ancora non piansi con lei ed anzi l'ammonii di stare zitta e di non aumentare coi suoi
lamenti lo spavento di quell'ora. Non avevo ancora capito tutto. La poverina fece ogni
sforzo per calmare i suoi singulti.
M'avvicinai all'orecchio di mio padre e
gridai:
- Perché ti lamenti, papà? Ti senti
male?
Credo ch'egli sentisse, perché il suo
gemito si fece piú fioco ed egli stornò l'occhio dalla parete di faccia come se avesse
tentato di vedermi; ma non arrivò a rivolgerlo a me. Piú volte gli gridai nell'orecchio
la stessa domanda e sempre con lo stesso esito. Il mio contegno virile sparve subito. Mio
padre, a quell'ora, era piú vicino alla morte che a me, perché il mio grido non lo
raggiungeva piú. Mi prese un grande spavento e ricordai prima di tutto le parole che
avevamo scambiate la sera prima. Poche ore dopo egli s'era mosso per andar a vedere chi di
noi due avesse ragione. Curioso! Il mio dolore veniva accompagnato dal rimorso. Celai il
capo sul guanciale stesso di mio padre e piansi disperatamente emettendo i singulti che
poco prima avevo rimproverati a Maria.
Toccò ora a lei di calmarmi, ma lo fece
in modo strano. Mi esortava alla calma parlando però di mio padre, che tuttavia gemeva
con gli occhi anche troppo aperti, come di un uomo morto.
- Poverino! - diceva. - Morire cosí! Con
questa ricca e bella chioma. - L'accarezzava. Era vero. La testa di mio padre era
incoronata da una ricca, bianca chioma ricciuta, mentre io a trent'anni avevo già i
capelli molto radi.
Non ricordai che a questo mondo c'erano i
medici e che si supponeva che talvolta portassero la salvezza. Io avevo già vista la
morte su quella faccia sconvolta dal dolore e non speravo piú. Fu Maria che per prima
parlò del medico e andò poi a destare il contadino per mandarlo in città.
Restai solo a sostenere mio padre per una
decina di minuti che mi parvero un'eternità. Ricordo che cercai di mettere nelle mie
mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore.
Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l'amavo tanto?
Quando venne il contadino, mi recai nella
mia stanza per scrivere un biglietto e mi fu difficile di mettere insieme quel paio di
parole che dovevano dare al dottore un'idea del caso onde potesse portare subito con sé
anche dei medicinali. Continuamente vedevo dinanzi a me la sicura imminente morte di mio
padre e mi domandavo: «Che cosa farò io ora a questo mondo?».
Poi seguirono delle lunghe ore d'attesa.
Ho un ricordo abbastanza esatto di quelle ore. Dopo la prima non occorse piú sostenere
mio padre che giaceva privo di sensi composto nel letto. Il suo gemito era cessato, ma la
sua insensibilità era assoluta. Aveva una respirazione frettolosa, che io, quasi
inconsciamente, imitavo. Non potevo respirare a lungo su quel metro e m'accordavo delle
soste sperando di trascinare con me al riposo anche l'ammalato. Ma egli correva avanti
instancabile. Tentammo invano di fargli prendere un cucchiaio di tè. La sua incoscienza
diminuiva quando si trattava di difendersi da un nostro intervento. Risoluto, chiudeva i
denti. Anche nell'incoscienza veniva accompagnato da quella sua indomabile ostinazione.
Molto prima dell'alba la sua respirazione mutò di ritmo. Si raggruppò in periodi che
esordivano con alcune respirazioni lente che avrebbero potuto sembrare di uomo sano, alle
quali seguivano altre frettolose che si fermavano in una sosta lunga, spaventosa, che a
Maria e a me sembrava l'annunzio della morte. Ma il periodo riprendeva sempre circa
eguale, un periodo musicale di una tristezza infinita, cosí privo di colore. Quella
respirazione che non fu sempre uguale, ma sempre rumorosa, divenne come una parte di
quella stanza. Da quell'ora vi fu sempre, per lungo e lungo tempo!
Passai alcune ore gettato su un sofà,
mentre Maria stava seduta accanto al letto. Su quel sofà piansi le mie piú cocenti
lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz'obbiezioni, il
destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che
gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati
fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensí essere anche
il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione.
Ed ora invece egli non poteva piú aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile
debolezza. Le mie lacrime erano amarissime.
Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali
dolorosi ricordi, scopro che l'immagine che m'ossessionò al primo mio tentativo di vedere
nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un'erta, io
l'ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno cosí le
locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi
s'accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi
ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle.
Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m'aveva riportato a quella notte, alle ore piú
importanti della mia vita.
Il dottore Coprosich arrivò alla villa
quando ancora non albeggiava, accompagnato da un infermiere che portava una cassetta di
medicinali. Aveva dovuto venir a piedi perché, a causa del violento uragano, non aveva
trovata una vettura.
Lo accolsi piangendo ed egli mi trattò
con grande dolcezza incorandomi anche a sperare. Eppure devo subito dire, che dopo quel
nostro incontro, a questo mondo vi sono pochi uomini che destino in me una cosí viva
antipatia come il dottor Coprosich.
Egli, oggi, vive ancora, decrepito e
circondato dalla stima di tutta la città. Quando lo scorgo cosí indebolito e incerto
camminare per le vie in cerca di un poco d'attività e d'aria, in me, ancora adesso, si
rinnova l'avversione.
Allora il dottore avrà avuto poco piú di
quarant'anni. S'era dedicato molto alla medicina legale e, per quanto fosse notoriamente
un buonissimo italiano, gli venivano affidate dalle imperial regie autorità le perizie
piú importanti. Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla
calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un'altra sua debolezza gli dava
dell'importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i
suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il
curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici.
Erano degli occhi spiacevoli allora. Se aveva da dire anche una sola parola rimetteva sul
naso gli occhiali ed ecco che i suoi occhi ridivenivano quelli di un buon borghese
qualunque che esamina accuratamente le cose di cui parla.
Si sedette in anticamera e riposò per
qualche minuto. Mi domandò di raccontargli esattamente quello ch'era avvenuto dal primo
allarme fino al suo arrivo. Si levò gli occhiali e fissò con i suoi occhi strani la
parete dietro di me.
Cercai di essere esatto, ciò che non fu
facile dato lo stato in cui mi trovavo. Ricordavo anche che il dottor Coprosich non
tollerava che le persone che non sapevano di medicina usassero termini medici
atteggiandosi a sapere qualche cosa di quella materia. E quando arrivai a parlare di
quella che a me era apparsa quale una «respirazione cerebrale» egli si mise gli occhiali
per dirmi: «Adagio con le definizioni. Vedremo poi di che si tratti». Avevo parlato
anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di
coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere
costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato.
Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse
intensamente a qualche cosa che s'aggirava nella sua testa e ch'egli non arrivava a
formulare. Il dottore, con tanto d'occhiali sul naso, esclamò trionfalmente:
- So quello che s'aggirava nella sua
testa!
Lo sapevo anch'io, ma non lo dissi per non
far arrabbiare il dottor Coprosich: erano gli edemi.
Andammo al letto dell'ammalato. Con
l'aiuto dell'infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a
me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente
stesso, ma invano.
- Basta! - disse ad un certo punto. Mi si
avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:
- Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.
Andammo alla mia stanza ove egli si lavò
anche la faccia.
Era perciò senza occhiali e quando
l'alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto
fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia
perché non fossimo piú ritornati da lui.
Anzi aveva creduto che lo avessimo
abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre
abbisognava di cure. Quando rimproverava, cosí senz'occhiali, era terribile. Aveva alzata
la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.
Certo egli aveva ragione ed io meritavo
dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio
il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell'avversione di mio padre per medici e
medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi
dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt'al
piú ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.
Però, come continuò a indagare sui
precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere
se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del
suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre
avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L'evidenza
della mia colpa m'atterrò, ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da
me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch'io perciò la deridevo.
Egli stava pulendosi le orecchie,
guardando in alto. - Fra un paio d'ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in
parte, - disse.
- C'è qualche speranza dunque? - esclamai
io.
- Nessunissima! - rispose seccamente. -
Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po' della sua
coscienza, forse per impazzire.
Alzò le spalle e rimise a posto
l'asciugamano. Quell'alzata di spalle significava proprio un disdegno per l'opera propria
e m'incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all'idea che mio padre avesse potuto
rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell'alzata di spalle non avrei
avuto il coraggio di dirlo.
- Dottore! - supplicai. - Non le pare sia
una cattiva azione di farlo ritornare in sé?
Scoppiai in pianto. La voglia di piangere
l'avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere
le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare
sull'opera sua.
Con grande bontà egli mi disse:
- Via, si calmi. La coscienza dell'infermo
non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico.
Basterà non dirgli ch'è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di
peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e
l'infermiere resterà qui.
Piú spaventato che mai, lo supplicai di
non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l'infermiere
gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l'ordine prima di
lasciare la stanza di mio padre. Allora m'arrabbiai. Poteva esserci un'azione piú
malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz'avere la minima speranza di
salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare - con
quell'affanno! - la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie
parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà
inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.
Io odio quell'uomo perché egli allora
s'arrabbiò con me. È ciò ch'io non seppi mai perdonargli. Egli s'agitò tanto che
dimenticò d'inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si
trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io
volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio
cosí, crudamente.
Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e
urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di
salvezza per l'ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti
per i quali c'erano altri posti a questo mondo!
Con grande severità e una calma che la
rendeva quasi minacciosa, egli rispose:
- Io le spiegai quale era lo stato della
scienza in quell'istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz'ora o fino a
domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.
Si mise allora gli occhiali e, col suo
aspetto d'impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano piú,
sull'importanza che poteva avere l'intervento del medico nel destino economico di una
famiglia. Mezz'ora in piú di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.
Piangevo oramai anche perché
compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto
e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!
Il medico è una potenza quando si trova
al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev'essere stato per
tale riguardo ch'io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi
anni. Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo
qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio
cuore, di quei giorni, non v'è altro residuo che l'antipatia per quel medico che tuttavia
si ostina a vivere.
Piú tardi andammo ancora una volta al
letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta
una pezzuola sulla tempia per coprire le ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle
subito provare se la sua coscienza avesse aumentato e gli gridò nelle orecchie.
L'ammalato non reagí in alcun modo.
- Meglio cosí! - dissi io con grande
coraggio, ma sempre piangendo.
- L'effetto atteso non potrà mancare! -
rispose il dottore. - Non vede che la respirazione s'è già modificata?
Infatti, frettolosa e affaticata, la
respirazione non formava piú quei periodi che mi avevano spaventato.
L'infermiere disse qualche cosa al medico
che annuí. Si trattava di provare al malato la camicia di forza. Trassero quell'ordigno
dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo a star seduto sul letto. Allora l'ammalato
aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora,
temendo che subito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell'ammalato
ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe bambole.
Il dottore trionfò:
- È tutt'altra cosa; - mormorò.
Sí: era tutt'altra cosa! Per me
nient'altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio padre sulla fronte e nel
pensiero gli augurai:
- Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al
sonno eterno!
Ed è cosí che augurai a mio padre la
morte, ma il dottore non l'indovinò perché mi disse bonariamente:
- Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo
ritornare in sé!
Quando il dottore partí, l'alba era
spuntata. Un'alba fosca, esitante. Il vento che soffiava ancora a raffiche, mi parve meno
violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.
Accompagnai il dottore in giardino.
Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse il mio livore. La mia faccia
significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una smorfia di disgusto, che mi
sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il viottolo che conduceva
all'uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve, barcollava e si fermava ad ogni
raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella smorfia e sentii il bisogno di
altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel
freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se
tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a
me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio
silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal piú puro affetto filiale, in un vero
delitto che mi pesava orrendamente.
L'ammalato dormiva sempre. Solo disse due
parole che io non intesi, ma nel piú calmo tono di conversazione, stranissimo perché
interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S'avvicinava
alla coscienza e alla disperazione?
Maria era ora seduta accanto al letto
assieme all'infermiere. Costui m'ispirò fiducia e mi dispiacque solo per certa sua
coscienziosità esagerata. Si oppose alla proposta di Maria di far prendere all'ammalato
un cucchiaino di brodo ch'essa credeva un buon farmaco. Ma il medico non aveva parlato di
brodo e l'infermiere volle si attendesse il suo ritorno per decidere un'azione tanto
importante. Parlò imperioso piú di quanto la cosa meritasse. La povera Maria non
insistette ed io neppure. Ebbi però un'altra smorfia di disgusto.
M'indussero a coricarmi perché avrei
dovuto passare la notte con l'infermiere ad assistere l'ammalato presso il quale bastava
fossimo in due; uno poteva riposare sul sofà. Mi coricai e m'addormentai subito, con
completa, gradevole perdita della coscienza e - ne son sicuro - non interrotta da alcun
barlume di sogno.
Invece la notte scorsa, dopo di aver
passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno
vivissimo che mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi
rivedevo col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di
forza, in quella stanza che ora ha tutt'altro aspetto perché è la stanza da letto mia e
di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre lui (non
vecchio e cadente com'è ora, ma vigoroso e nervoso com'era allora) con ira, gli occhiali
in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la pena di fare tante cose.
Diceva proprio cosí: «Le mignatte lo
richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo
il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed anche la
camicia di forza!».
Pare che il mio sogno si sia fatto
rumoroso perché mia moglie l'interruppe destandomi. Ombre lontane! Io credo che per
scorgervi occorra un ausilio ottico e sia questo che vi capovolga.
Il mio sonno tranquillo è l'ultimo
ricordo di quella giornata. Poi seguirono alcuni lunghi giorni di cui ogni ora somigliava
all'altra. Il tempo s'era migliorato; si diceva che s'era migliorato anche lo stato di mio
padre. Egli si moveva liberamente nella stanza e aveva cominciata la sua corsa in cerca
d'aria, dal letto alla poltrona. Traverso alle finestre chiuse guardava per istanti anche
il giardino coperto di neve abbacinante al sole. Ogni qualvolta entravo in quella stanza
ero pronto per discutere ed annebbiare quella coscienza che il Coprosich aspettava. Ma mio
padre ogni giorno dimostrava bensí di sentire e intendere meglio, ma quella coscienza era
sempre lontana.
Purtroppo debbo confessare che al letto di
morte di mio padre io albergai nell'animo un grande rancore che stranamente s'avvinse al
mio dolore e lo falsificò. Questo rancore era dedicato prima di tutto al Coprosich ed era
aumentato dal mio sforzo di celarglielo. Ne avevo poi anche con me stesso che non sapevo
riprendere la discussione col dottore per dirgli chiaramente ch'io non davo un fico secco
per la sua scienza e che auguravo a mio padre la morte pur di risparmiargli il dolore.
Anche con l'ammalato finii coll'averne.
Chi ha provato di restare per giorni e settimane accanto ad un ammalato inquieto, essendo
inadatto a fungere da infermiere, e perciò spettatore passivo di tutto ciò che gli altri
fanno, m'intenderà. Io poi avrei avuto bisogno di un grande riposo per chiarire il mio
animo e anche regolare e forse assaporare il mio dolore per mio padre e per me. Invece
dovevo ora lottare per fargli ingoiare la medicina ed ora per impedirgli di uscire dalla
stanza. La lotta produce sempre del rancore.
Una sera Carlo, l'infermiere, mi chiamò
per farmi constatare in mio padre un nuovo progresso. Corsi col cuore in tumulto all'idea
che il vecchio potesse accorgersi della propria malattia e rimproverarmela.
Mio padre era in mezzo alla stanza in
piedi, vestito della sola biancheria, con in testa il suo berretto da notte di seta rossa.
Benché l'affanno fosse sempre fortissimo, egli diceva di tempo in tempo qualche breve
parola assennata. Quand'io entrai, egli disse a Carlo:
- Apri!
Voleva che si aprisse la finestra. Carlo
rispose che non poteva farlo causa il grande freddo. E mio padre per un certo tempo
dimenticò la propria domanda. Andò a sedersi su una poltrona accanto alla finestra e vi
si stese cercando sollievo. Quando mi vide, sorrise e mi domandò:
- Hai dormito?
Non credo che la mia risposta lo
raggiungesse. Non era quella la coscienza ch'io avevo tanto temuto. Quando si muore si ha
ben altro da fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla
respirazione.
E invece di starmi a sentire egli gridò
di nuovo a Carlo:
- Apri!
Non aveva riposo. Lasciava la poltrona per
mettersi in piedi. Poi con grande fatica e con l'aiuto dell'infermiere si coricava sul
letto adagiandovisi prima per un attimo sul fianco sinistro eppoi subito sul fianco destro
su cui sapeva resistere per qualche minuto. Invocava di nuovo l'aiuto dell'infermiere per
rimettersi in piedi e finiva col ritornare alla poltrona ove restava talvolta piú a
lungo.
Quel giorno, passando dal letto alla
poltrona, si fermò dinanzi allo specchio e, rimirandovisi, mormorò:
- Sembro un Messicano!
Io penso che fosse per togliersi
all'orrenda monotonia di quella corsa dal letto alla poltrona ch'egli quel giorno abbia
tentato di fumare. Arrivò a riempire la bocca di una sola fumata che subito soffiò via
affannato.
Carlo m'aveva chiamato per farmi assistere
ad un istante di chiara coscienza nell'ammalato:
- Sono dunque gravemente ammalato? - aveva
domandato con angoscia. Tanta coscienza non ritornò piú. Invece poco dopo ebbe un
istante di delirio. Si levò dal letto e credette di essersi destato dopo una notte di
sonno in un albergo di Vienna. Deve aver sognato di Vienna per il desiderio della frescura
nella bocca arsa ricordando l'acqua buona e ghiacciata che v'è in quella città. Parlò
subito dell'acqua buona che l'aspettava alla prossima fontana.
Del resto era un malato inquieto, ma mite.
Io lo paventavo perché temevo sempre di vederlo inasprirsi quando avesse compresa la sua
situazione e perciò la sua mitezza non arrivava ad attenuare la mia grande fatica, ma
egli accettava obbediente qualunque proposta gli fosse fatta perché da tutte si aspettava
di poter venir salvato dal suo affanno. L'infermiere si offerse di andargli a prendere un
bicchiere di latte ed egli accettò con vera gioia. Con la stessa ansietà con cui poi
attese di ottenere quel latte, volle esserne liberato dopo di averne ingoiato un sorso
scarso e poiché non subito fu compiaciuto, lasciò cadere quel bicchiere a terra.
Il dottore non si mostrava mai deluso
dello stato in cui trovava il malato. Ogni giorno constatava un miglioramento, ma vedeva
imminente la catastrofe. Un giorno venne in vettura ed ebbe fretta di andarsene. Mi
raccomandò d'indurre l'ammalato di restar coricato piú a lungo che fosse possibile
perché la posizione orizzontale era la migliore per la circolazione. Ne fece
raccomandazione anche a mio padre stesso il quale intese e, con aspetto intelligentissimo,
promise, restando però in piedi in mezzo alla stanza e ritornando subito alla sua
distrazione o meglio a quello ch'io dicevo la meditazione sul suo affanno.
Durante la notte che seguí, ebbi per
l'ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch'io tanto temevo. Egli
s'era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte
chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava
ch'egli ne soffrisse assorto com'era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione,
pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso.
Pensai con spavento: «Ecco ch'egli si
dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo
ch'egli fissava.
Egli guardava, sempre eretto sul busto,
con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse
le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sí a lungo tanto lontano.
Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto:
- Guarda! Guarda! - mi disse con un
aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a
me:
- Hai visto? Hai visto?
Tentò di ritornare alle stelle, ma non
poté: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e quando io gli domandai che
cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m'intese né ricordò di aver visto e di aver
voluto ch'io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era
sfuggita per sempre.
La notte fu lunga ma, debbo confessarlo,
non specialmente affaticante per me e per l'infermiere. Lasciavamo fare all'ammalato
quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole
del tutto di attendere la morte. Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto
freddo. Io glielo impedii ed egli m'obbedí subito. Un'altra volta, invece, l'infermiere
che aveva sentita la raccomandazione del medico, volle impedirgli di levarsi dal letto, ma
allora mio padre si ribellò. Uscí dal suo stupore, si levò piangendo e bestemmiando ed
io ottenni gli fosse lasciata la libertà di moversi com'egli voleva. Egli si quietò
subito e ritornò alla sua vita silenziosa e alla sua corsa vana in cerca di sollievo.
Quando il medico ritornò, egli si lasciò
esaminare tentando persino di respirare piú profondamente come gli si domandava. Poi si
rivolse a me:
- Che cosa dice?
Mi abbandonò per un istante, ma ritornò
subito a me:
- Quando potrò uscire?
Il dottore incoraggiato da tanta mitezza
mi esortò a dirgli che si forzasse di restare piú a lungo nel letto. Mio padre ascoltava
solo le voci a cui era piú abituato, la mia e quelle di Maria e dell'infermiere. Non
credevo all'efficacia di quelle raccomandazioni, ma tuttavia le feci mettendo nella mia
voce anche un tono di minaccia.
- Sí, sí, - promise mio padre e in
quello stesso istante si levò e andò alla poltrona.
Il medico lo guardò e, rassegnato,
mormorò:
- Si vede che un mutamento di posizione
gli dà un po' di sollievo.
Poco dopo ero a letto, ma non seppi
chiuder occhio. Guardavo nell'avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei
potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso
che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera.
Quando mi levai, Maria andò a coricarsi
ed io restai accanto a mio padre insieme all'infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre
piú irrequieto che mai.
Fu allora che avvenne la scena terribile
che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio
coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d'uopo che ogni mio sentimento
fosse affievolito dagli anni.
L'infermiere mi disse:
- Come sarebbe bene se riuscissimo di
tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto
adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante piú che mai,
l'ammalato s'era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per
mezz'ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi
verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa
poggiata sulla sua spalla, gliel'impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di
non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedí. Poi esclamò:
- Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito
spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere
sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata
al trovarsi - sebbene per un momento solo - impedito nei movimenti e gli parve certo ch'io
gli togliessi anche l'aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in
piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la
mano alto alto, come se avesse saputo ch'egli non poteva comunicarle altra forza che
quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là
sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il
cuore dal dolore della punizione ch'egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l'aiuto di
Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli
gridai nell'orecchio:
- Non è colpa mia! Fu quel maledetto
dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!
Era una bugia. Poi, ancora come un
bambino, aggiunsi la promessa di non farlo piú:
- Ti lascerò movere come vorrai.
L'infermiere disse:
- È morto.
Dovettero allontanarmi a viva forza da
quella stanza. Egli era morto ed io non potevo piú provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi.
Ragionavo: era escluso che mio padre, ch'era sempre fuori di sensi, avesse potuto
risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la
certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich.
Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire
di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di
facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar
a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m'aveva già accusato
di aver mancato di affetto per mio padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando
sentii che Carlo, l'infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: - Il padre alzò
alto alto la mano e con l'ultimo suo atto picchiò il figliuolo. - Egli lo sapeva e
perciò Coprosich l'avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria,
trovai che avevano vestito il cadavere. L'infermiere doveva anche avergli ravviata la
bella, bianca chioma.
La morte aveva già irrigidito quel corpo
che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide,
ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli,
non seppi piú rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio
padre debole e buono come l'avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che
quello schiaffo che m'era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto.
Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s'accompagnò a me, divenendo sempre piú
dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d'accordo, io divenuto il
piú debole e lui il piú forte.
Ritornai e per molto tempo rimasi nella
religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la
colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai
intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono
dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di
ogni pratica religiosa, mentre è vero - e qui voglio confessarlo - che io a qualcuno
giornalmente e ferventemente raccomandai l'anima di mio padre. È proprio la religione
vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche
volta - raramente - non si può fare a meno.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998