Francesco Redi
Arianna inferma
Al replicato invito (1) del bevitor Marito (2) tanto bevve Arianna (3), ch'alla fin s'ammalò; e nulla le giovò la Greca Panacea , l'Egizia Manna ( 4). Per fiera febbre ardente giacea mesta, e dolente, e senza trovar mai sonno, o quiete, in eterno delirio (5) la sconsolata si moria di sete (6). Delirava, e delirante (7), Affannata, ed anelante (8) si doleva, e tra' lamenti garruletta, sdegnosetta (9), proruppe alfine in cosìffatti accenti: damigelle troppo ingrate, a servirmi destinate, perché il bever mi negate (10)? Su portate pel mio bevere tutte quante le gelate acque d'Arno, acque del Tevere; su portate al labbro asciutto ogni flutto (11) che dal Nilo, e che dal Gange mormorando al mar si frange (12). (13) E se temete, che schiamazzi il medico colla solita sua burbera cera, pe' rabbuffi schivar di quel malèdico (14) portatemi dell'acqua di Nocera. (15) Questa è buona alla febbre e al dolor colico (16), guarisce la renella, e il mal di petto, (17) fa diventare allegro il malinconico, l'appigionasi appicca al cataletto, (18) ed in ozio fa star tutt'i becchini, ma non bisogna berla a centellini (19); e quel che importa, il medico l'approva, e in centomila casi stravaganti ha fatto ancor di sue virtù la prova celebrandola più del vin di Chianti. Ci vuol altro alla mia sete, che le frottole e i riboboli (20), su su pronte omai correte alle Najadi di Boboli (21). Bella Najade diletta, se per sete io vengo meno, porgi a me dal fresco seno l'onda pura, e l'onda schietta. Su su d'edere (22), e di salici coronatemi la fronte, voglio ber di quel bel fonte più di mille, e mille calici. Vo' tuffarmi in quell'argento (23); vo' guizzar fin giù nel fondo, perché resti affatto spento del mio sen l'ardor profondo. Non è tanto ardore a Stromboli, quanto in seno io n'ho ristretto (24); parmi proprio che nel petto faccia il cuor de' capitomboli (25). O Sileno vecchierello (26), se non vuoi gire a bisdosso, metti il basto all'asinello, e poi trotta a più non posso. Trotta lassù, dove tant'acqua spande sotto Fiesole antica il buon Vitelli (27), colma un otro (28) d'argento assai ben grande, ben tronfio, pettoruto, e de' più belli. Vecchierello mio cortese, se mi fai questo piacere, ti vo' fare alle mie spese più che mezzo cavaliere (29): va' pur via senza far motto, e ritorna ma di trotto (30). Una sete superba, che regna tra le fauci (31), e nel mezzo del sen, dispettosa, adirosa si sdegna d'ogni indugio, che fatto le vien. Corri Nisa (32), prendi una conca di maiolica invetriata (33), empila, colmala d'acqua cedrata (34), ma non di quella, ch'il volgo si cionca (35): ma se vuoi, Nisa, farti un grande onore, togli di quella, che d'odor sì piena serbasi per la bocca del Signore che le contrade dell'Etruria affrena, questa è l'idolo mio, e il mio tesoro, e questa è il mio ristoro; e mentre ch'io la bevo, e ch'io la ingozzo (36), o per dir più, la mastico, e la ingollo, fatti di conto io ne berrei un pozzo, ma come un pozzo vorrei lungo il collo (37); e se si affronta, che lesta e pronta in dorata cantimplora (38) tu non possa averla or ora, corri, o Nisa, e in un baleno cerca almeno di portar la Manna Iblea (39) della Tosca limonea, e ancor essa tolta sia dalla gran bottiglieria (40) del famoso Re Toscano, ma con larga, e piena mano. Ah! tu Nisa non corri, e neghittosa forse di me ti ridi, e sbadata, melensa, e sonnacchiosa già per dormir t'assidi. Via via dal mio servizio, vattene in precipizio, che non ti voglio più; e per maggior disgrazia lungi dalla mia grazia io priego il Ciel, che tu possi aver per marito un Satiraccio (41) sgherro, vecchio, squarquoio, e giocatore, che sofistico in tutto, e senza amore con le pugna ti spolveri il mostaccio, e per tuo vitto a ruminar ti dia tozzi di pan muffato, e gelosia: e a consolarti in casa sua vi stia una suocera furba al par d'un diavolo, che sol per frenesia cerchi mandarti a ingrassare il cavolo (42). Via via dal mio servizio, vattene in precipizio brutta, segrennucciaccia, salamistra, dottoressa indiscreta, e spigolistra (43) via via dal mio servizio, vattene snamorata in precipizio. Fanciulletto (44) vezzosetto, su gli ardori del mio petto almen tu fa che vi cada la rugiada congelata di sorbetto (45): oh come scricchiola tra i denti, e sgretola; quindi dall'ugola, giù per l'esofago, freschetta sdrucciola fin nello stomaco. (46) E l'arse viscere con giusta tempera (47) tutte contempera quella,che qual nevischia (48) congelata su gli orli delle tazze alzasi in monti, e costante in se stessa, e ben guardata del Sol più caldo sa schermir gli affronti; quella, che vaga, amorosetta, e bella con nome gentilissimo espressivo, fresca pappina (49) il bottigliere appella. Oh se i medici in oggi un po' più esperti desser di queste pappe a i lor malati, quegli spedali, che stan sempre aperti, si potrebbon tener sempre serrati; e quel povero vecchio di Caronte (50) potria dormir talora un sonnellino nella sua barca in riva all'Acheronte (51). Ma i medici che mai non furon cuccioli (52), e fanno con giudizio il lor mestiere, non v'è pericol, che nel dar da bere di queste pappe alcun di lor mai sdruccioli: Anzi esclamando van, che entro lo stomaco sconcertano la buona concozione (53); e di questa sì dotta opinione citan per grande Autore il vecchio Andromaco ( 54), e mill'altri moderni, e pellegrini, celebri Dottoroni, e sopraffini, che si vantan di far di belle cose con le ricette lor misteriose. Che per li tanti ingredienti, e tanti, sì gentili, sì nuovi, e sì galanti, son veramente gravi, e maestose (55), e quegli che le ingollano, lo sanno, e insino agli speziali, che le fanno, riescono a suo tempo arcigustose. E quel che importa più, riescon utili, perché se fosser veramente inutili, agli speziali ancor sarieno odiose, per quei nomacci strepitosi, e strani, nomi da fare spiritare i cani, quai sono, se però gli saprò dire, il Lattovaro Litontripticone, e 'l diatriontonpipereone (56). Ma tu vago fanciulletto, tu non porgi del sorbetto la gelata alma pappina per la sete mia meschina, e i' non trovo alcun sollievo mentre chiacchiero, e non bevo. Ma l'ardente mia sete è troppo sconcia, troppo arida, rabbiosa, ed insaziabile. Ed or che ha vota affatto ogni bigoncia (57), rendesi totalmente insopportabile. Oh Lieo, Dioneo (58), sposo amato Dionigi, per ristoro di mia bocca, versa in chiocca (59) Sidro, e birra del Tamigi. Ma se la birra, e 'l sidro non s'appaia colla neve, e col giel dell'Appennino, fia col cembalo gire in colombaia (60). (61) Cantinette, e cantimplore stieno in pronto a tutte l'ore con forbite bombolette (62), chiuse, e strette tra le brine delle nevi cristalline. Son le nevi il quinto elemento (63), che compongono il vero bevere: ben è folle chi spera ricevere senza nevi nel bere un contento (64). Ma per la sete intanto dubito di non dar la volta al canto (65), e pur di ber mi vanto d'aloscia, e di candiero (66) un colmo lago intero. Ah che s'io fossi Giove, quando a Firenze piove, farei, che fosse aloscia d'Arno la bionda stroscia (67), e che lassù da' Fiesolani monti con novella ed incognita delizia mandasser quelle fonti in gran dovizia (68) ad irrigare il Fiorentin Paese Nebbia di Scozia e Sillabub (69) Inglese. Non mi sieno contese (70), Bacco gentil consorte, brame sì giuste ed al mio mal dovute, se vuoi la mia salute, e non vuoi la mia morte. Già parmi sulle porte (71), esser del mio morire, e s'io non ho chi da bever mi porte, certo che morirò. Vengan via, vengan in chiocca per aita (72) della vita, per ristoro della bocca, fragolette moscadelle, e ciliege visciolette (73), che fann'acque rosse, e belle collo zucchero perfette; e di quest'acque con mia gran ventura or n'arrovescio giù per l'arsa strozza (74) una piena tinozza (75), che del morir sommerge ogni paura; ma la sete non giugne a sommergerla (76); anzi la sete più fiera suol crescere, quanto più m'affatico a dispergerla col non far altro ad ogni ora che mescere; e mescer acque smaccate (77) dolcissime, per centomila Giulebbi (78) ricchissime. Questi tanti dolciumi per ora io gli rifiuto; e darne il ben venuto piacemi a' freschi odorosetti agrumi misti all'acqua schiettissima (79) di fonte limpidissima. Il vin puro, ed il vin pretto sia bandito, ed interdetto (80); nomi orribili d'inferno sieno il Chianti, ed il Falerno. Maledetti sien gli zipoli (81) di quel vin di pian di Ripoli (82). Si fracassi il caratello (83) del Trebbian, del Moscatello. si rimiri ad ognor con occhio bieco di Polisippo il Greco (84); (85) e quel di Somma (86), ch'è vieppiù tremendo, vada a scorrere i lidi del nero acheronteo (87) baratro orrendo; e seco vada quella rea Vernaccia, che in mille mali i nostri corpi allaccia(88). Oh se aver or potess'io all'ardente mio desio l'onda fresca, e l'onda altera della tanto celebrata Portughese Pimentera! (89) Mi parrebbe esser beata; ma se posso ora bramarla, io non debbo già sperarla: voglio sì, vo' che mi spanda per le fauci sitibonde tutte omai le sue bell'onde la Sanese Fontebranda (90). Per Fontebranda io donerei quant'ave mosto ne' tini suoi Valdarno, e Chianti, e quanti serra altresì vini, e quanti il Riccardi (91) gentil con aurea chiave. Così da me si spera di cacciar via l'infesta febbre, e con essa il gran dolor di testa, e quella sì molesta oppilazion (92), che non per mio difetto, ma per influsso d'un crudel pianeta steril mi rende al mio consorte in letto; onde il fervido affetto, ch'oggi per me lo preme, e lo rincalza, intiepidirsi in lui forse potrebbe; ed ei forse infedele un dì vorrebbe lasciarmi in qualche solitaria balza Teseo (93) novello, abbandonata, e sola. Il mio pensier sen vola per tutto quanto il die in queste frenesie, perché purtroppo a mio dispetto avvezza mi trovo alla stranezza della infedel d'Amore aspra fortuna, che tanti inganni aduna contra le semplicette povere donzellette, qual mi son io meschina in questa piaggia alpina. Ma zitta, oimè, che Bacco, oimè non senta ridir questa faccenda, al dolente mio cuor tanto tremenda, e per mia fiera doglia (94) gne ne venga la voglia. Oimè, oimè che il giusto mio timore verificato io provo. E dove, oimè, e dove, oimè, mi trovo in questa spiaggia setardente (95), ed orrida, sotto la zona torrida? Dove guardo mortal non v'è che allumi (96) fonti, laghi, paludi, o rivi, o fiumi, ma sol fetido zolfo, e pigro asfalto (97) qui vomitan l'arene, per dar l'ultimo assalto alla sete, che viene: se la mia non ottiene più proprio assalto, e presto, ritorno a dire, che il cuore è lesto pel suo morire. Che morire, o non morire? Non mi sento d'aderire a' pensieri del mio cuore. Scappo via da questo ardore, e con nuova meraviglia ne ritorno in gozzoviglia tra le fonti a Pratolino (98), e ne ringrazio il fresco mio destino. Oh qui sì, che l'acqua croscia, e ti fa più d'una stroscia (99), più di venti, e più di cento, che mi fanno il cuor contento |
5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 320 25 330 335 340 345 |
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998