Luigi Pirandello

LA COMMEDIA DEI DIAVOLI

E LA TRAGEDIA DI DANTE

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         È Stato detto e ripetuto che il canto XXI.mo dell'Inferno è cosí perspicuo nel senso e nella forma, cosí evidente nella rappresentazione, che, a illustrarlo, piú vale una efficace lettura che un lungo commento.
         Certo, se qui ha luogo qualcuna di quelle difficoltà ermeneutiche che il testo dantesco oppone quasi a ogni passo, essa è già stata chiarita da espertissimi interpreti, studiosi insigni della Commedia; e certo, a considerare il canto in sé e per sé com'esso si dimostra a un lettore attento e capace di scorgerne la ricchezza e novità degli atteggiamenti, il guizzo delle vivacissime immagini, la sapienza della costruzione nel rapido svolgimento delle varie scene, che gli dànno un carattere precipuo di comicità grottesca da tutti ormai riconosciuto, ogni commento in prima può sembrare ozioso e superfluo.
         Ma se vogliamo intendere veramente l'indole e la ragione di questa comicità dantesca, proprio in questo punto, il commento non solo ci apparirà necessario, ma anche non piú cosí facile come in prima ci sembrava; e ci accorgiamo che una lettura, anche efficacissima, non basta piú, perché questa può rispecchiare la sola parte rappresentativa, la parte d'attore che Dante ha nel mondo e in queste scene, cioè quanto appare di fuori e non ciò che, a nostro avviso, sta sotto a questa rappresentazione.
         Forse assai piú spesso che non si creda, Dante sente e pensa cose che noi non possiamo nemmeno supporre, illusi come siamo dalla potenza della sua fantasia creatrice che ha costruito un mondo di cui il poeta stesso agli occhi nostri appare, per prodigio d'arte, non piú il creatore ma l'attore, il viaggiatore che passa per esso mondo e tanto lo vediamo dubitoso, impaurito, andare incontro a sorprese, a meraviglie, a spettacoli, quasi non se li fosse egli stesso apparecchiati
         Vediamo per effetto del suo passaggio in mezzo all'eterno di questo mondo, a mano a mano destarsi una vita momentanea che la potenza dell'arte fissa in atteggiamenti eterni, e non pensiamo piú che questo transitorio nell'eterno, divenuto per potenza d'arte a sua volta eterno, non è certamente per il poeta com'è per noi. Noi vediamo il fatto - cosí eternamente fissato - dov'egli vedeva e sentiva ancor nuova e calda la sua fattura; cioè, noi vediamo il sentimento del poeta - divenuto quasi realtà fuori di lui - consistere nella rappresentazione ch'egli ne ha fatto; ma questa consistenza con un carattere d'eternità che il sentimento oggettivato del poeta ha per noi, non poteva averla per lui che vedeva ancora invece l'atto del crearla a mano a mano che la materia gli consisteva dentro, quand'era ancora caldo quel sentimento momentaneo per cui, ad esempio, Farinata - proprio ora - in quel gesto gli si levava dall'arca «dalla cintola in su», o Francesca e Paolo gli s'appressavano al grido affettuoso per narrargli i loro dolci sospiri.
         Insomma non pensiamo sempre che ciò che per noi è un punto di partenza per ogni nostra indagine - punto stabile, immutabile, eterno - già fuori del poeta, perché espresso e dunque ormai staccato e liberato da lui, per il poeta viceversa è, a volta a volta, un punto d'arrivo, il punto cioè ov'egli a mano a mano è arrivato, nuovo, nella trattazione della materia che gli si muove ancor calda e gli si agita dentro nella sua momentaneità attiva.
         E anche a questo non pensiamo sempre: che un poeta può sí predisporre la sua materia, ma non sa e non può sapere egli stesso quando la predispone, con quale animo arriverà a essa allorché si farà a trattarla; se il sentimento sarà ancora in lui cosí vivace da animar questa materia come forse nella prima disposizione aveva creduto di poterla animare; e quanto del sentimento ch'egli credeva di poterle dedicare per investirla, inopinatamente possa essere stato preso e accolto da elementi nuovi sorti all'improvviso dalla materia precedente, cosicché ben poco o nulla ormai ne avanzerà per essa, che gli rimarrà perciò vuota davanti, inerte, superflua, se un sentimento nuovo e diverso non sorgerà a investirla e invalorarla.

II

         Sappiamo, senz'alcun dubbio, che il poeta predispose punto per punto la materia da trattare cosí come ci dice, o ci fa dire da Virgilio, nell'XI.mo canto; e, per lasciare tutto il resto e venire al nostro punto, sappiamo che:

La frode, ond'ogni coscienza è morsa,
può l'uomo usare in colui che 'n lui fida,
ed in quei che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par che uccida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocrisia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.

         Vediamo, non per tanto, che questa disposizione di colpe che qui ci sembra assai naturale: ipocrisia - lusinghe - e chi affattura - falsità - ladroneccio - e simonia - ruffian - baratti - e simile lordura, tuttavia poi nell'atto non è piú seguita; l'ordine non è serbato, e abbiamo prima la seduzione, poi l'adulazione, poi la simonia, poi chi affattura, poi la baratteria, l'ipocrisia, il ladroneccio e via di seguito.
         Perché? ci domandiamo. A parte adesso tutte le ragioni morali e costruttive che si possono escogitare per spiegare il diverso ordine seguito nella distribuzione dei peccati nelle dieci fosse di Malebolge, e anche ammettendo che in quel passo il poeta abbia voluto soltanto indicare sommariamente le colpe di frode punite nell'ottavo cerchio senza pensare all'ordine col quale le avrebbe poi distribuite nelle dieci bolge, riteniamo che, nel predisporre comunque la materia che doveva esser trattata in questo cerchio, sicuramente, pensando a ciascuna di queste colpe e stabilendone la punizione, insieme con le immagini delle scene e le similitudini da evocare, dovettero sorgere, per ciascuna colpa, anche le immagini dei colpevoli, e già materiata ciascuna immagine, subito, fin dal primo sorgere, dai varii sentimenti e moti dell'animo, dai varii ricordi ch'esse gli suscitavano o da cui, viceversa, erano suscitate; sentimenti, moti dell'animo, ricordi che rendon sempre cosí intime espressive drammatiche le rappresentazioni dantesche. Ipocrisia: le cappe rance coi cappucci bassi, i frati godenti, Catalano dei Catalani, Loderingo degli Andalò, forse non Caifàs in prima. Lusinghe: il fosso immondo, Alessio degli Interminelli, Taide. Chi affattura: lo stravolgimento della persona: gl'indovini antichi, Tiresia, Manto, Euripilo, poi Michele Scotto, Guido Bonatti, Asdente, le triste che lasciaron l'ago. Falsità: la lebbra, la scabbia: Griffolino d'Arezzo, Capocchio da Siena - la furia feroce: Gianni Schicchi, Mirra - l'idropisia: maestro Adamo - la febbre ardente: il greco Sinone, la moglie di Putifarre. Ladroneccio: la stipa dei serpenti, Vanni Fucci, Agnello Brunelleschi, Buoso Abati, Puccio Galigai, Cianfa Donati, Francesco Cavalcanti. Simonia: i capovolti imborsati nei fori col piede fiammeggiante: uno solo, maschera d'un altro già dannato dall'odio piú fiero del poeta: Niccolò III, per Bonifazio VIII.
         Ah, troppo, troppo lungo cammino a seguir la prima disposizione, avrebbe dovuto fare il poeta per arrivare qua, a far la sua vendetta contro Bonifazio VIII! - Pone avanti i seduttori e gli adulatori e se ne sbriga subito, in un canto solo, dopo una sferzata al bolognese Caccianimico e una laida cenciata al lucchese Alessio degli Interminelli; ed eccolo ove piú urge il sentimento, dove piú il bisogno di uno sfogo lo affretta: ben lo dice il tono, l'enfasi lirica con cui ha principio il canto: 0 Simon mago... - E poi? E poi basta per un momento: ha bisogno di riprendersi, s'è sfogato, s'è quasi votato del suo sentimento; ora la materia calda, intima, profonda, l'ha spesa e gli difetta; si trova davanti al XX.mo canto, e piú che alla costruzione del suo mondo infernale, pensa - ecco - alla costruzione del canto, proprio del canto, il suo mondo fantastico lo vede libro, sente la sua fatica; pensa che gli convien far versi di nuova pena per dar materia ad esso canto e lo nomina col suo numero venti; non basta; aggiunge «della prima canzon»; non basta; aggiunge ancora «che è dei sommersi». - Siamo a una stasi naturalissima dell'attività creatrice. Il sentimento ha avuto il suo sfogo e ora tace. Parla Virgilio per tutto il canto, con tono risentito, sí, mostrando con acre compiacenza l'atroce stravolgimento, punizione degna dei maghi; parla della vergine cruda, della fondazione di Mantova, sí, come vuole il D'Ovidio per indignazione della sua fama di mago, di cui Dante vuol purgarlo; ma non è sentimento, questo; è ragionamento o, al massimo, sollecitudine intellettuale. Il poeta cerca invece evidentemente in sé il suo sentimento e non lo trova. Dice:

Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede
che gli altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi della gente che procede
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede.

Euripilo? Eh no, neppure questo nome gli muove dentro nulla. Il poeta forse, nel predisporre la materia per la colpa «di chi affattura» aveva pensato, per dettame d'un sentimento piú vicino, a Michele Scotto, a Guido Bonatti, a Asdente; ma ecco restan nomi anche questi, ora, con appena qualche ironica determinazione.
         E ancora in questa pausa dell'attività creatrice, durante la quale solo la preordinata immagine della pena riesce a rappresentarsi con mirabile efficacia, il poeta arriva al XXI.mo canto, che s'inizia anch'esso con due versi svagati:

Cosí di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedia cantar non cura...

         L'uomo morale s'è sfogato con l'acerba invettiva, l'uomo di passione non si degna piú di far qui la sua vendetta, se non con un breve ironico disprezzo incidentale per Bonturo Dati; e in questa condizione, se un nuovo sentimento non sopravviene, tacendo le passioni, egli può guardar fuori, descrivere, rappresentare una scena, varie scene, può far arte, scherzar con la materia; ravvivarla con elementi esteriori, poiché il calore del primo sentimento non è arrivato a questa materia predisposta, tanto da farne dramma.
         E abbiamo la commedia dei diavoli.

III

         Ma è veramente cosí?
         Dobbiamo contentarci di dare al riso di Dante in questo XXI.mo canto una cosiffatta ragione, o non piuttosto supporre che, dopo la breve pausa, un nuovo sentimento sia sorto o l'antico si sia riacceso, donde questo riso scaturisce?
         Io avanzo con ogni riguardo un'ipotesi e una proposta, per cui ho bisogno di rifarmi un po' indietro, per una considerazione fondamentale.
         Non solo il canto XXI.mo, ma tutto Malebolge, come si sa, è stato detto il regno del comico dantesco. «La forma estetica di questo mondo è la commedia» - disse il De Sanctis; benché troppo spesso poi si contradica, vedendo il comico nella materia or sí or no, e non riuscendo a scorgerlo nell'animo del poeta, sicché a un certo punto afferma che qui il poeta è caduto in un mondo non suo. «Le situazioni sono comiche, dice, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico; non ha la sua immagine che è la caricatura, né la sua espressione che è il riso». - Ora, questo, col dovuto rispetto alla memoria del grande critico, a me sembra, e non a me soltanto, un teorizzare a vuoto, senza voler qui vedere l'animo del poeta e il suo mondo qual'egli l'ha voluto e rappresentato. «Manca spesso a Dante la caricatura e i suoi versi piú comici non fanno ridere». - Ma vogliono proprio far ridere quei versi? - Sí, «a fare la caricatura bisogna fermar l'immaginazione nell'oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello». - Ma vuole Dante spassarsi con l'oggetto comico? ed è comico propriamente l'oggetto per Dante? ci si vuol Dante obliare?
         Io confesso che non so vedere tutto questo comico che altri vede in Malebolge. Il comico non è della materia, è dell'animo del poeta, cioè nel modo come questa materia s'atteggia innanzi a lui e nel modo come il poeta a sua volta s'atteggia innanzi alla materia. Ora, che questi due atteggiamenti in genere, per tutto Malebolge siano comici io non mi sento proprio d'affermare.
         Non ci può esser castigo di riso dove son pene atroci per laidissime colpe. Dove non c'è lo strazio, il raccapriccio, l'orrore, la nausea, la paura, ci sarà lo scherno, il disprezzo, il sarcasmo, non il riso che castiga della commedia. Dante non può far che Dio scherzi punendo, né egli s'attenterebbe di scherzar comicamente dove Dio ha punito. Lo stesso De Sanctis, del resto, ha detto che il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso d'artista; che la sua satira è acerba, la sua musa è l'indignazione, la sua forma ordinaria l'invettiva, e che le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. O dunque? Non bisogna confondere il sarcasmo, l'ironia, lo scherno, col comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l'intenzione del poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lí per ottenere un effetto di piú cruda ripugnanza.
         Vediamo un po', in una rapidissima scorsa almeno fino a questa Va bolgia. Dobbiamo dire che se ne trovi nella Ia,dove non c'è altro che disprezzo freddo per il bolognese Caccianimico, fredda ironia nel ricordo delle pungenti salse e freddissima e non cercata ammirazione per Giasone? - Che ce ne sia o ce ne possa essere nel luridume della IIa non mi pare affatto che si possa sostenere. Ci sarà disgusto, nausea; quel nicchiare, quello sbuffar col muso orrido affanno di chi è affogato nello sterco, quel picchiarsi colle palme, quelle ripe grommate di muffa per l'alito di giù che vi s'appasta e che fa zuffa col naso e con gli occhi, via, tutto questo è mirabilmente, cioè orribilmente schifoso e non comico: che qualcuno possa riderne non concepisco. Né tratto piuttosto comico che di scherno, sferzata satirica allungata lí di passata contro l'untuosa ipocrisia adulatoria di tutta la classe sacerdotale mi sembra quel dire del capo del cavalier lucchese Alessio degli Interminelli «che non pareva s'era laico o cherco», a significare il sospetto che la lordura gli avesse nascosto il segno di riconoscimento, il bollo della chierica. Non era chierico di fatti. Paragonare a questo punto il poeta, come qualcuno ha fatto, «a un guerriero di leggenda che al solo slanciarsi col cavallo contro un avversario e nel solo impugnar la spada e rotearla per muovere contro colui, atterra quasi senza accorgersene e quasi senza volerlo tutta una turba che si trova sui suoi passi» dico la verità, mi pare invece un lanciarsi troppo col cavallo della fantasia in cerca del comico e non credo sia [rendere un] buon servizio a Dante farlo apparire un ammazzasette da poema eroicomico. E veniamo alla IIIa bolgia. Commedia qui? qui dove il poeta vuol fare con lo scherno piú fiero, col sarcasmo piú acre e con l'invettiva piú aspra la sua maggior vendetta contro il suo maggiore e peggior nemico? Comico per piú feroce effetto di scherno sarà Niccolò III, capro espiatorio dell'odio del poeta; ma non comico affatto è il fine della rappresentazione. Né l'atteggiamento di Dante al principio dell'episodio è da interpretare, secondo me, come d'una ingenuità maliziosa, ch'egli finga cioè di non capire lo sbaglio di Niccolò III. Finge, certo, di non capire, ma non per ottenere un effetto di comica ingenuità maliziosa. C'è un che di piú, che rende, nell'intento del poeta, men che mai comica la. situazione. Innanzi alla condanna divina, c'è uno scambio di parti.
         Con una trovata tra le piú felici, perché naturalissima, ma naturalissima come può essere una vipera piena di veleno, Niccolò scambia Dante per Bonifazio VIII, perché questi, ladro della chiesa, volle veramente in terra cambiar le carte; far comparire Dante ladro del comune, facendolo accusare dai Neri come reo di baratteria. Ed è qui una suprema irrisione dell'accusa. - Tu m'hai preso per te, tu hai creduto ch'io fossi come te, viene a dire Dante con questa sua finzione. O piuttosto, ecco, diciamo, Niccolò III l'ha creduto; Niccolò III mi ha preso per te. - Ma Niccolò è lí perché non ci può essere ancora Bonifazio: effettivamente per Dante è Bonifazio lí: egli lo ha in sé veramente, nel suo odio. E allora anche per Dante c'è una sostituzione di parti, contro Bonifazio egli inveisce in fondo, quasi dicendo a Niccolò III: - Ah, tu m'hai preso per Bonifazio? Aspetta adesso, ch'io parlo a te come parlerei a lui! - Infatti per Niccolò cosí meschino e degno solo di disgusto, tutto quel magnanimo sdegno sarebbe inadeguato.
         Nessuno credo si sognerà di trovare poi il comico nella IVa bolgia, ove c'è il raccapriccio, la pietà malintesa per la stortura dell'immagine umana; e sarà, se mai, d'un grottesco che non si potrebbe immaginar piú lugubre quel pianto che scende giú per le natiche.
         Il comico, allora, sarebbe qui, nella V a bolgia, nel XXI.mo canto, che è come il prologo d'una commedia, la quale seguiterà a svolgersi nel canto successivo.
         Ebbene, arrivati al nostro punto, torniamo a domandarci se noi siamo veramente di fronte a una buffa beneficiata dei diavoli popolari delle sacre rappresentazioni, gabbatori gabbati, sconci, crudeli, mostruosi, che non avevano ancora avuto una rappresentazione tutta per sé, e qui l'hanno, come a dare un artistico, naturalistico rilievo locale al mondo dell'eterna dannazione; o non piuttosto a una finzione solo esteriormente d'un comico cosí grottesco, ma sotto, nell'intimo e segreto sentimento del poeta, piú che mai drammatica e dolorosa.

IV

         È possibile che a Dante, fin da principio, nel predisporre la materia di questo canto dei barattieri, non si sia affacciata la sua condanna, il ricordo dell'indegna accusa? E che sentimento poteva destarsi in lui, se non di disprezzo per essa; un disprezzo che arrivato al punto, dopo il primo sfogo innanzi al papa simoniaco, qui lo avrebbe mosso a far di quell'accusa, col riso, la piú allegra vendetta?
         Vediamo, esaminiamo attentamente piú da vicino il canto, passo passo, e forse alla fine ci si chiarirà l'indole vera e la segreta ragione del riso di Dante.
         Ho detto che il canto si apre con due versi svagati:

Cosí di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedía cantar non cura...

         Ma non basta forse chiamare svagati quei due primi versi. Credo ci sia di piú, che cioè da tutta la terzina si possa argomentare che i due Poeti stavano quasi per passar oltre il ponte della Va bolgia, parlando altro, senza neppur guardare: di ponte in ponte... venimmo; e tenevamo il colmo, quando restammo. Tutto questo è ad arte, certamente.
         Quella legge di necessità che il senso simbolico del poema imporrebbe è sempre ovviata non solo dall'umanità di Dante, ma anche da Virgilio. Non si dovrebbe parlar altro, se il viaggio pei tre regni oltremondani ha il significato allegorico che sappiamo, e se Virgilio è un simbolo. Ma già nel canto IV è detto:

Cosí andammo in fino alla lumiera
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com'era 'l parlar colà dov'era.

E nel VI:

Noi aggirammo a tondo quella strada
parlando piú assai ch'io non ridico,

quantunque qua possa intendersi un piú lungo discorso su lo stesso argomento della vita futura dopo il giudizio universale; piú lungo discorso taciuto per lo fren dell'arte. Sarà fren dell'arte anche qui? Non credo. Il poeta non direbbe che di quest'altro che parlava con Virgilio la sua commedia noncura cantare. Il discorso, alla fine del canto precedente, era su la luna piena benigna a Dante smarrito negli orrori della selva, alcuna volta. Quando? Forse nella piú triste delle sue vicende: nella fuga per l'esilio dopo l'infame accusa. Ecco che forse possiamo intendere di quale argomento parlavano i due Poeti venendo di ponte in ponte e quell'accenno a passar oltre questo ponte della Va bolgia, dei barattieri, forse conferma la supposizione.

Restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e gli altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.

         Oscura non solo per la qualità della colpa, ma anche materialmente per il colore, diciamo cosí, della pena: la pece.
         E quella pece che bolle, la tenace pece, come il poeta la definisce, notando anche qui una qualità che va oltre il senso materiale, e rendendola con mirabile arte imitativa per mezzo della consonanza che attacca e invischia i due suoni palatali, come la colpa ch'essa punisce attacca e invischia chi se ne macchia, nel segreto, per coperte vie: quella pece richiama al Poeta l'immagine dell'arsenale di Venezia da lui visitato nei primi anni dell'esilio, proprio quando esso, già cosí famoso nel medioevo, era stato di molto ampliato, cresciute la potenza e la gloria della fiorente Republica. È parso a qualcuno che il paragone, bellissimo in sé come quadro del movimento, dell'ardore delle opere infaticate in quell'officina delle fortune veneziane, si sovrapponga troppo all'immagine della bolgia infernale, in quanto pare che si connetta ad essa per la sola vista della pece che invischia la ripa d'ogni parte. Ma forse non la pece soltanto è da veder nel paragone, ma anche tutto il daffare che in vita si diedero i barattieti, che qui non possono stare a galla - che navicar non ponno - e in vita con ogni sorta di maneggi e d'intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la rimpalmarono, e turarono i buchi alla lor barca che faceva acqua, ribattendola da prora e da poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo sarte), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l'artimone e il terzeruolo). Basterà pensare quel che dovette essere e quel che dovette fare a Lucca sul principio del secolo XIV Bonturo Dati, capo della parte popolare. Opera tenebrosa, cioè svolta copertamente, di cui fuori non si scorge che il ribollimento, cioè l'armeggío, che a tratti cessa, appena appena sorga il timore che abbia potuto destare un sospetto in chi sta a spiare e non scorge piú nulla. È detto meravigliosamente, con chiaro ricordo virgiliano, nella terzina:

Io vedea lei (la pegola), ma non vedea in essa
ma' che le bolle che 'l bollor levava
e gonfiar tutta e riseder compressa.

         Ma ecco sopravvenire un diavol nero con su l'omero un barattiere. Dante, intento a spiare nella pegola spessa, non se n'avvede. Virgilio lo richiama: - Guarda! guarda! - E Dante allora, impaurito, fuggendo e pure - per un moto spontaneo, colto e fissato con felice immediatezza - affrettandosi nello stesso tempo a vedere quel che gli convien fuggire, si ritrae presso il suo duca. A questa rappresentazione dei due movimenti contemporanei di Dante, del fuggire e del guatare, della paura e della curiosità ansiosa, svegliata dalla stessa paura, segue subito dopo, improvvisa, precipitosa e non meno mirabile quella del diavolo, fiero nell'aspetto, acerbo nell'atto, in due tocchi rapidi che ce lo pongono intero innanzi agli occhi indotti a guardare proprio là dove la paurosa presenza ha maggior rilievo e piú vibra e si agita nella furia del volo rattenuto: l'ali aperte, i piedi su cui poggia leggero, la scapula aguzza sagliente, l'atto del ghermire il nerbo dei piedi del barattiere che ha su la spalla. Il verso:

correndo su per lo scoglio venire

non ha mica in disordine, come a qualcuno è sembrato, accenti e cesura per indicar la furia con cui il diavolo arriva, ché anzi in esso il movimento ritmico segue perfettamente quello del diavolo sú per lo scoglio con quei dattili dopo la cesura, e il contrasto immediato dei due accenti, a far spiccare i due movimenti: il primo proteso avanti, e perciò su la seconda sillaba: corrèndo; l'altro, dopo la cesura, sospeso su la prima: per lo - scòglio ve - nire - a indicare il subito rattenersi, il raffrenarsi delle ali nella furia della corsa, salendo lo scoglio.
         Donde arriva questo diavolo? Pare che arrivi con tanta furia direttamente da Lucca, a cui gli tarda di ritornare con la stessa furia, addetto a un servizio speciale di trasporto da questa città alla Va fossa di Malebolge, per cui abbia appena l'obbligo di presentare i clienti al giudizio di Minosse, quasi fosse già stabilita la condanna della pece e dei raffi a tutti i magistrati di quel Comune.
         Notiamo bene che Lucca è quartiere dei Guelfi Neri. E la prima parte del canto è tutta contro questi di Lucca barattieri; e tutti Neri di Lucca appajono anche i diavoli ministri di questa Va fossa, anche a costo d'una patente contradizione. Mi spiego. Il primo diavolo, quello che arriva con su l'omero l'anziano di Santa Zita è certamente ordinato a promuovere la baratteria, poiché dice che ha ben fornita Lucca di barattieri. È dunque proprio di questa Va fossa del cerchio ottavo. Ma come va che se ne può muovere, tanto che subito dopo buttato giú nello stagno l'anziano se ne rivola a Lucca, con la furia d'un mastino sguinzagliato appresso al ladro, per ghermire altre anime di barattieri, mentre l'alta provvidenza che pose gli altri diavoli ministri della fossa toglie a tutti potere di partirsene? Deve forse intendersi che quel primo non sia tra i ministri della fossa, ma solo un provveditore di essa? Cosí lascerebbe intendere il modo con cui chiama gli altri, appena arrivato col carico: - O Malebranche! - come a dire che, se li chiama cosí, egli non è della compagnia, e può dunque partirsene. Ma resta sempre che quelli che non possono partirsene si dimostrano pratici di Lucca non meno di lui, ché se lui parla di Santa Zita e di Bonturo Dati e del far sí del no per danaro, quelli parlano del Santo Volto e del Serchio e sanno come quello si prega e come in questo si nuota, quasi non si fossero mai mossi da Lucca, da quei diavoli neri ch'essi sono.
         E si può dire che per tutto il canto non ci sono altri che loro. Sono essi la pena stessa che si muove; la materia che s'è animata e che ha in sé il male che deve punire. Ingombrano la scena, irrequieti, rissosi, armati di scherni e di raffi, laidi, triviali, osceni.
         Stan lí sotto l'arco del ponte, appostati, pronti a ghermire chiunque faccia

sovra la pegola soverchio,

e han quasi l'aria di consigliare a fin di bene di star sotto, quasi non fosse il loro piacere allungar la carezza di quei loro raffi. È bellissimo quel

Però, se tu non vuoi di nostri graffi

dopo l'irrisorio e crudele ricordo a quell'anziano di Lucca delle fresche acque del Serchio. Però - sí - però l'arraffano lo stesso, soggiungendo che gli conviene ballar coverto,

sí che, se puoi, nascosamente accaffi.

         Lo scherno piú aspro è qui, in questo «se puoi».
         Parlano come si vede questi diavoli, e confabulano anche tra loro, come non dovrebbero, a stare almeno a quel passo del De Vulgari Eloquentia dove è detto che per fare scambievolmente manifesta la propria perfidia, non han d'uopo di conoscere che qualche cosa l'un dell'altro, perché è, e quanto è: ciò che sicuramente ben sanno; perché l'uno conobbe l'altro innanzi della lor ruina. Un segno di questo è forse nell'intendere a volo l'inganno di Malacoda circa il ponte che «via face» e nel significare d'avere inteso con quell'ammiccare e cacciar fuori la lingua; ma il capodiavolo ha già parlato di quel ponte, e non soltanto i diavoli, ma chiunque avrebbe sottinteso la perfidia, sapendo, com'essi sapevano, che anche quel ponte era ruinato.
         Di barattieri qui non se ne vede che uno, e un altro, che non può esserci ancora, ne è nominato con un'esclusione ironica, di cui avremo altri esempii piú là ove si parla della vanità dei Senesi. Un terzo, che ne nominerà altri due, verrà fuori nel canto seguente, ma quasi a castigo e scherno dei diavoli neri, due dei quali s'impeceranno della stessa pece in cui vogliono attuffati i peccatori.
         Quest'anziano di Santa Zita si vede e non si vede: è quasi un peso morto, forse perché stordito dalla furiosa violenza della corsa su quell'ispido omero diabolico. Il suo silenzio è lugubre. S'attuffa e galla quasi per effetto del tuffo stesso e dell'immediata scottatura che lo convolge, lo rigira su se stesso, come spiega il Parodi, e appar chiaro dal dileggio dei diavoli che son commento al modo con cui l'anziano attuffato è subito tornato su.
         Chi è questo magistrato popolare di Lucca? Non è uno; è uno dei tanti. Quel diavolo non dice: ecco un anziano di Santa Zita; dice:

ecco un degli anzian,

perché gli altri son barattieri lo stesso; questo è qua perché è morto, ma tutti son barattieri là, tranne Bonturo, beninteso. Quello no, mi raccomando! E perciò, ecco, lo nomina a titolo d'onore; mentre non sente il bisogno di nominare quel primo, che è uno dei tanti. Ma spesso avviene che, dove Dante non nomina, gli antichi commentatori s'incaricano loro di nominare e fanno forse, senza parere, alle spalle di Dante le lor vendette. È venuto fuori cosí il nome di Martiri Bottai, di cui non parlano le storie lucchesi. E forse è detto di Santa Zita quasi a ricordare per sommo scherno che come l'umile ancella da Monsagrati, dolce santa di Lucca, era - secondo la leggenda - ajutata nelle faccende domestiche da angeli, egli sarà assistito qui dai diavoli, che lo cucineranno bene, lesso dolente. Perché

Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaja
la carne con gli uncin, perché non galli.

         Cosí si chiude il primo episodio del canto, a cui Dante, che s'è tratto da parte, (e lo vediamo quasi nascosto dietro a Virgilio) ha assistito, sgomento. E adesso vien la volta di lui.

V

         Vediamo un po' come si svolge questa nuova commedia, e se tutto sia in quel che appare, cioè nelle scene che in essa si svolgono, negli atti che i due Poeti e i diavoli compiono, in ciò che dicono in relazione con queste scene e con questi atti; o se tutta questa commedia non sia invece una finzione che nasconde, sotto l'apparenza grottesca, il dramma piú doloroso.
         Virgilio consiglia a Dante di nascondersi:

                                             giú t'acquatta
dopo uno scheggio, che alcun schermo t'àja;

tra le sporgenze cioè dello scoglio. Ma perché? - Perché non paja che tu ci sii. - Che tu sii qua, dove spadroneggiano questi diavoli neri, che ti prenderanno per un barattiere e ti vorranno uncinare. Aspetta: andrò io prima a provare di far loro intendere la ragione, e se la ragione in me sarà offesa, tu non temere. Il tuo viaggio è voluto: tu devi soffrire anche questa esperienza, in cui io ti sono scorta: io che ho le cose conte.
         Illusi dalla evidenza meravigliosa di questa scena, in cui la finzione acquista la stessa consistenza della realtà viva, con tutti i suoi movimenti piú spontanei e naturali, ora piú che mai non dobbiamo dimenticare quel che Dante stesso non vuole che sia mai dimenticato, perché canone della sua poetica, che cioè la finzione deve sussistere innanzi a noi anche con l'altro suo valore ideale, allegorico. Non dimentichiamo ciò che rappresenta Virgilio; tanto piú che non è detto che sia sempre da temere l'agguato dell'allegoria, il sospetto che la figura non significhi se stessa, o non significhi solo se stessa, ma stia li simbolo di qualche cosa che in prima non si scorge e che bisogni escogitare, ed escogitata, spesso, si trova che non fa lume all'arte e illumina un concetto guastando la rappresentazione. Questo avviene quando il poeta sente egli stesso il peso della sua allegoria, come di un incarico sovrapposto, e vuol nasconderlo e non sempre ci riesce; quand'egli insomma compone col solo intelletto, e non è il sentimento che spontaneamente si fa immagine, ma l'immagine è pensata e voluta come veste del concetto. Qui la felicità stessa della rappresentazione, cosí mobile, agile e precisa, ci dimostra che vivissimo è il sentimento; e che non un concetto dunque si vuol nascondere sotto il simbolo pensato e voluto; ma se il simbolo sussiste, è lui, il sentimento qui nascosto, che spontaneamente lo anima e avvalora. Nessuna violenza è da fare insomma qui alla rappresentazione. Virgilio è la ragione che consiglia a Dante di nascondersi per non esser ghermito da quei diavoli neri, è la ragione che deve aspettarsi d'essere offesa andando incontro alla brutale violenza di quei diavoli, che se son li ministri di giustizia, in fatto, è pur gente dispetta che alza le ciglia contro al Fattore. In verità son tanti cani questi nemici che gli si lanceranno addosso come al poverello che cosí di subito assalito non sa piú dove ripararsi. E notiamo il diverso modo con cui Virgilio parla prima alla frotta e poi all'uno eletto a rappresentarla: fermo e fiero, con sicura fronte, in tono imperativo, alla frotta che gli volge contro tutti i roncigli:

                 Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avanti l'un di voi che m'oda,
e poi d'arroncigliarmi si consigli.

         È ancora la ragione che contro la violenza brutale cerca di farsi valere, con l'opporre una forza che non cimenti, una forza diversa che però riconosce possa trovarsi anche in qualcuno degli avversarii che gli stia a fronte armato di essa sola, senza che per questo, intanto, le altre armi, quelle della violenza, non debbano restare ancora pronte, in attesa.
         E al capo, subito designato, Malacoda che s'avanza con quella domanda rivolta ai suoi: - «Che gli approda?» come a dire: - Che cosa crede costui che possa valere per voi ciò che mi vuol dire?, Virgilio - Virgilio cosí sicuro e sdegnoso con Cerbero, con Plutone, con Flegias - si rivolge a quel Malacoda con un tono insolito, interrogativo, che ammette di non poter essere sicuro dell'opposizione e delle offese di tutti gli scherni di quei diavoli senza il divino volere e un destino favorevole.

Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto...
sicuro già da tutti vostri schermi
sanza voler divino e fato destro?
Lascian' andar, ché nel cielo è voluto
ch'io mostri altrui questo cammin silvestro.

         Altrui? I diavoli finora non si sono visti davanti che il solo Virgilio. La violenza è stata contro la ragione. Lui, Dante, è nascosto. Ora verrà fuori, per partirsi dal nascondiglio, salvato dal divino volere e da un favorevole destino; ma non senza l'avvilimento della paura d'essere da un momento all'altro ghermito, arroncigliato, coi nemici attorno, addosso, e che vogliono appunto provar le armi e s'aizzano a farlo, sotto le orribili minacce imminenti, incombenti, esasperato dall'onta di non potersi neanche fidare della ragione, che crede ormai di poter andar sicura e s'avvia senza il sospetto che se l'arma è cascata di mano a Malacoda, non per questo il malanimo dei nemici è caduto e c'è da temer l'inganno e l'insidia.
         E tocca ora a Dante, ora che le sorti son mutate, sperimentare in sé ciò che dovettero patire i fanti

che uscivan patteggiati di Caprona.

         Non è senza rimorso, né senza ragione qui, questo ricordo. Egli che nell'estate del 1289, combattendo con le milizie guelfe dei Fiorentini e dei Lucchesi contro le milizie pisane assediate nel castello di Caprona, forse godette dopo i patti della resa nel vedere uscire quei fanti tra gli scherni e le minacce dei nemici, ora uscendo lui a sua volta da un nascondiglio, tra gli stessi scherni e le stesse minacce, ma di nemici assai piú fieri e ignobili, ora deve lui aver paura e scontare quel godimento ingeneroso. Ora egli sa ciò che vuol dire trovarsi alla mercé d'implacabili nemici, capaci d'ogni inganno e d'ogni frode.
         Sentiamo come parla Malacoda, che non ha potuto impedire il passo, che non ha potuto avere il gusto di fare scempio e strazio delle carni vive del poeta:

Piú oltre andar per questo
scoglio non si potrà, perocché giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E se l'andar avanti pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.

         Ecco la frode: tutti i ponti sono spezzati. E verso l'inganno d'un ponte che faccia via, però senz'alcuna fiducia, s'incammina il poeta. E notiamo lo scherno che si nasconde sotto quel «se pur vi piace» di Malacoda, che dà intanto, come a favorire il passaggio, la perfida scorta, la compagnia malvagia. Ah questa, no; Dante non la vorrebbe. Grida a Virgilio:

O me! maestro, che è quel ch' i' veggio?
... Deh! sanza scorta andiamci soli,
se tu sa' ir, ch'i' per me non la chieggio.
Se tu se' si accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti,
e con le ciglia ne minaccian duoli?

         Notiamo quel se tu, se tu, ripetuto, che dimostra appunto la fiducia che manca, e la certezza ch'egli ha dei nuovi duoli, a fidarsi di quella compagnia. Ma Virgilio gl'impone di non aver paura. E allora, incamminandosi, quei nemici neri si fanno il segno, e scoppia l'oscena fanfara.
         Ebbene, non dobbiamo credere d'aver qui una grottesca rappresentazione della condanna del poeta e del suo bando? Non sono qui rappresentati, senza parete, tutti i varii sentimenti che dovettero sorgere e agitarsi nell'animo di lui allora; e soprattutto il disprezzo per l'infame accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato il riso, il quale è perciò cosí grottesco e laido e sconcio: grottesco, laido e sconcio, come l'accusa, la condanna, il bando. La suprema irrisione dell'accusa, l'abbiamo avuta là, nel canto XX.mo, nello scambio delle parti che comicamente fa Niccolò III; qua ne abbiamo la grottesca rappresentazione.
         Se non la ragione intima, data dal sentimento del poeta, non piú caldo soltanto, ma cocente. rovente, stridente a questo punto ov'egli è arrivato, cioè alla bolgia ove l'accusa infame avrebbe voluto assegnarlo, tanti e tanti accenni lo fan pensare; l'atteggiamento del poeta, gli atti che vi compie, quel suo nascondersi perché non paja che ci sia consigliato dalla ragione, perché non lo ghermiscano davvero come barattiere quei diavoli che son neri; il ricordo di Caprona, e quel suo partirsi senza fiducia verso l'inganno d'un ponte che faccia via, con quella scorta, che fa riscontro a ciò che dice il Villani che i banditi con Dante «si partirono dalla città accompagnati dai loro avversarii»; il gesto dei diavoli, quel cacciar fuori la lingua, come a dire sguajatamente «gliel'abbiamo fatta» e il bando sonato da Barbariccia. Come non pensare che questo non sia la grottesca parodia dello squillo di tromba del banditore che andò a citarlo a nome del podestà? - Dio vuol questo, ch'egli passi tra i barattieri, corra il rischio d'essere uncinato come un barattiere anche lui. È da ridere ch'egli debba aver paura. Ed ecco il senso del comico, è dato da questa paura, e l'indole e la ragione del riso è tanto piú triste in fondo, quanto piú sguajato, piú plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandí; Dante per forza, a far piú grottesca questa rappresentazione, deve aver paura. Non si può aver piú coscienza di sé, ove ogni coscienza morale è negata, ove la brutalità appare cosí nella feroce espressione d'ogni istinto malvagio a negare ogni coscienza con la necessità stessa del suo essere li innanzi a noi repugnanti e atterriti. È abolita dentro, la coscienza, ma vive e spasima, per cosí dire, fuori vigilante, al limitare dei sensi, nel ribrezzo d'un possibile contatto, negli occhi che colgono l'immagine con una precisione crudele. E nell'orrore cosí sveglio, quel che dentro tace, fuori si palesa cosí crudo e aderente a quell'immagine, che non è possibile attenuazione alcuna, alcun velo. La crudezza appunto di questa rappresentazione che non s'arresta innanzi ai particolari piú sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c'è affatto la compartecipazione di Dante alla commedia. e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza, ma in relazione col poeta che solo non ne ride né può riderne; e non rideremo piú neanche noi, allora, perché avremo inteso che qui c'è un sarcasmo; il sarcasmo, che non è mai commedia, ma è sempre un dramma che non può rappresentarsi tragicamente come dovrebbe, poiché troppo buffi, indegni e solo meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond'è determinato.

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Ultimo aggiornamento: 30 agosto, 2000