Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO SETTIMO
Fui invitato la
mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa,
l'amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, cosí di passata.
M'aspettavo che qualcuno cercasse di
mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle
mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca,
non direttamente da parte di mia moglie; già che l'unico ostacolo da rimuovere era la mia
intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla.
Bastava chio dicessi ad Anna Rosa d'esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a
Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione
sarebbe avvenuta senz'altro.
Che Anna Rosa si fosse preso
l'incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di
mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile.
Sapevo da Dida che la sua amichetta
aveva rifiutato parecchi matrimonii cosí detti vantaggiosi per disprezzo del danaro,
attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me
(voglio dire il figlio d'un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che
lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio "vantaggioso".
Per questo "vantaggio" da
salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l'avvocato piú adatto.
Era da ammettere piuttosto il
contrario: che Dida avesse ricorso a lei per aiuto, cioè per farmi sapere che il padre,
d'accordo con gli altri soci, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io
non recedevo dall'intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi
parve ammissiblle neppur questo.
Andai pertanto a quell'invito con
una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.
Conoscevo poco
Anna Rosa. L'avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano,
piú per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei
pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi
guardava di sfuggita, mi erano sembrati cosí chiaramente rivolti a quella sciocca
immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente,
che nessun desiderio m'era mai sorto d'intrattenermi a parlare con lei.
Non ero mai stato a casa sua.
Orfana di padre e di madre, abitava
con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badía
Grande: mura d'antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul
tramonto saffacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di
quelle suore, la meno vecchia, era zia anchessa di Anna Rosa, sorella del padre; ed
era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un
monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so
che tutte le suore, cosí le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un
altro, mezze matte.
Non trovai in casa Anna Rosa. La
vecchia serva che m'aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia
della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badía, dalla zia
monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d'essere
introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina.
Tutto questo mistero mi stupí. E
sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d'andare. Per quanto mi
fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza
di quel convegno lassu alla Badía in un parlatorietto di suora.
Ogni nesso tra la mia futile
disavventura coniugale e quell'invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come
per un'imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita.
Come tutti sanno a Richieri, poco
mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere cio che già dissi davanti ai
giudici, perché per sempre sia cancellato dall'animo di tutti il sospetto che allora la
mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d'ogni colpa Anna Rosa. Nessuna
colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie
tormentose considerazioni, se l'improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo
mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischio d'avere una tal fine.
Per una delle
straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della
spazzatura marcita, andai su alla Badía.
Quando si sia fatta l'abitudine di
vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un
sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro
spirito è condannato a restar lontano, è un'angoscia indefinita, perché si pensa che,
se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove,
tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
Quella Badía, già castello feudale
dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in
mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e
quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall'altra e i mattoni rosi del
pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio
del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare,
che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva
non sapesse piú nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima
attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione
per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli
badía.
La suora portinaja aprí uno di
quegli usci nel corridojo e m'introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica
già era stata sonata da basso, forte per chiamare Suor Celestina.
Il parlatorietto era bujo, tanto che
in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca
luce entrata dall'uscio nell'aprirlo. Rimasi in piedi in attesa; e chi sa quanto ci sarei
rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m'avesse invitato ad accomodarmi che
presto Anna Rosa sarebbe venuta su dall'orto.
Non mi proverò a esprimere
l'impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò
in quel bujo il sole che doveva esserci in quell'orto della badia. che non sapevo dove
fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d'improvviso mi silluminò in mezzo a quel
verde la figura d'Anna Rosa come non l'avevo mai veduta tutta un fremito di grazia e di
malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto non il bujo, perché ora potevo
discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata,
il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile.
Non c'era piú nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d'una vecchia.
Anna Rosa, quella voce, quel
parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell'orto: mi prese come una vertigine.
Poco dopo Anna Rosa aprí di furia
l'uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. era tutta accesa in volto, coi
capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia
sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio
d'edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi
a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire,
forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò
invece cadere dall'altra la borsetta, e subito il fragore d'una detonazione seguito da un
altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo.
Feci appena in tempo a sorreggere
Anna Rosa che mi si batteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi
conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno certe vecchie suore pigolanti spaventate,
le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le
braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un'altra costernazione chio in
prima non potei intendere tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per
cui di gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano
"Monsignore"; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi
gridava tra le braccia: "La rivoltella! la rivoltella!", cioè che rivoleva da
me la rivoltella chera dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre.
Che in quella borsetta caduta
dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l'aveva ferita a un piede, m'era
apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio
quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi
passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l'avesse portata per me.
Piú che mai stordito, vedendo che
nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la
portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa.
Mi toccò, poco dopo, risalire alla
Badía per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi
servire per me.
La notizia di
quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo
sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito
pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole.
Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura
essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e
fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.
Proprio cosí.
Perché Gengè, signori miei, quello
stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza chio ne sapessi nulla, una
bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l'era messo in testa Dida; Dida che se n'era accorta.
Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua
amichetta, per farle piacere e forsanche per spiegarle che c'era il suo motivo, se
Gengè la schivava, quand'ella veniva in visita; la paura d'innamorarsene.
Non mi riconosco nessun diritto di
smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era
vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m'ero mai
curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell'amichetta di mia moglie.
Mi pare d'aver dimostrato a
sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che
gliel'aveva data.
Se Dida dunque attribuiva quella
segreta simpatia al suo Gengè, importa poco chessa non fosse vera per me: era tanto
vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto
vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita
erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di piú, per cui io non ero quel
carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor
Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato cosí
dalla propria moglie.
Perché, se ci pensate bene, questo
è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno.
Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite
attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile,
ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero
per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla
realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera
della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno piú di me ha potuto
farne esperienza.
Io mi trovai dunque, senza che ne
sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato
nellaccidente di quello sparo nella Badía come non mi sarei mai e poi mai
immaginato.
Assistendo Anna Rosa, dopo averla
trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per
un'infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anchio piú che
possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida;
la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto
nell'intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali,
tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa
dell'accidente.
Come rise di cuore immaginando che
qualcuno potesse supporre chella l'avesse portata per me nel darmi convegno alla
Badía!
La portava sempre con sé, nella
borsetta, quella rivoltella, dacché l'aveva trovata nel taschino d'un panciotto del
padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l'impugnatura di madreperla e
tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto piú carino in quanto nel suo
grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E piú d'una volta, mi confidò,
in qualche non raro momento che il mondo tutt'intorno, per certi strani sgomenti
dell'anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la
prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell'acciaio e della
madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per
volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio -
come si temeva - di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva
d'essersela appropriata tanto, che non dovesse avere piú per sé quel potere. La vedeva cattiva,
adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:
«Cattiva!»
Ma quel convegno su alla Badía, nel
parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi
pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual
Monsignore?
Ebbi la spiegazione anche di questo
mistero.
Ella sapeva che quella mattina
monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore
della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era
come un'anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d'averla guastata da
quell'accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto
venire su alla Badía perché voleva chio parlassi subito, quella mattina stessa,
col vescovo.
«Io, col vescovo? E perché?»
Per ovviare a tempo ciò che si
stava tramando contro di me.
Mi volevano proprio interdire,
denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state
raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa,
per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne
testimonianza finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della
banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d'una casa.
«Ma la perderà,» non potei
tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. «Se sono dichiarato alterato di mente, l'atto
della donazione diventerà nullo!»
Anna Rosa scoppiò a ridermi in
faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava
come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo
coscienza, testimoniarlo.
Guardai sospeso Anna Rosa che
rideva. Ella se n'accorse e si mise a gridare:
«Ma sí, pazzie! tutte pazzie!
tutte pazzie!»
Se non che, lei ne godeva, le
approvava, e piú che piú se con esse volevo arrivare veramente a quella piú grande di
tutte: cioè di buttare all'aria la banca e d'allontanare da me una donna che m'era stata
sempre nemica.
«Dida?»
«Non crede?»
«Nemica, sí, adesso.»
«No, sempre! sempre!»
E m'informò che da tempo cercava di
fare intendere a mia moglie chio non ero quello sciocco che lei simmaginava, in
lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le
cagionava l'ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una
sciocchezza che non c'era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva
vedere.
Strabiliai. D'un tratto, per quelle
confidenze d'Anna Rosa vidi una Dida cosí diversa dalla mia e pur cosí ugualmente vera,
che provai - in quel punto, piú che mai - tutto l'orrore della mia scoperta. Una Dida che
parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato chella ne potesse
parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune,
separati e traditi cosí indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto
il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto,
non m'era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a
denudarmi, spalancata la porta m'avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto
entrare a vedermi cosí nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii
sulle mie piú naturali aitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un'altra
Dida; una Dida veramente nemica.
Eppure, sono certo certissimo che
col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui,
perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava
un'altra: quell'altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per
Anna Rosa.
Ma di che mi maravigliavo? Non
potevo io lasciarle intero il suo Gengè, cosí com'ella se l'era foggiato, ed essere poi
un altro per conto mio?
Cosí era di me, come di tutti.
Non dovevo rivelare il segreto della
mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere,
cosí improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le
avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la
follia che commise.
Ma dirò prima della mia visita a
Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse
piú altro indugio.
Al tempo che
conducevo a spasso Bibí, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia
disperazione.
Bibí a tutti i costi ci voleva
entrare.
Alle mie sgridate, sacculava, alzava
e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un'orecchia su e l'altra giu
stava a guardarmi, proprio con l'aria di credere che non era possibile, non era possibile
che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci
stava nessuno.
«Nessuno? Ma come nessuno, Bibí?»
le dicevo io. «Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere
queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi?
hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli
dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e
costruiscono loro una casa.»
A me era sempre bastato finora
averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli
altri, avevo sempre impedito a Bibí di entrare in una chiesa; ma non c'entravo nemmeno
io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a
inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.
Quel punto vivo che
sera sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non
volevo piú mi si tenesse in conto d'usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio
che sera sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri
a Richieri mi tenessero in conto d'usurajo.
Ma se fossi andato a dire cosí a
Quantorzo o a Firbo e agli altri soci della banca, avrei dato loro certamente un'altra
prova della mia pazzia.
Bisognava invece che il Dio di
dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto piú
contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere aiuto e protezione al
saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi
servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per
farsi amare e temere.
A questo Dio non c'era pericolo che
Firbo o Quantorzo sattentassero a dare del pazzo.
Andai dunque a
trovare al Vescovado monsignor Partanna.
Dicevano a Richieri che era stato
eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur
essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la
simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.
A Richieri si era avvezzi al fasto,
alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il
defunto Eccellentissimo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il
cuote allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile
lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo
accompagnavano.
Un vescovo a piedi?
Dacché il Vescovado sedeva come una
tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella
carrozza con l'attacco a due, gale rosse e pennacchi.
Ma all'atto stesso della sua
insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d'opera e non d'onore. E
aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la
piú stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le piú ricche
d'Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e
da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti
le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze
d'affitto e anche d'asini o di muli.
Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le
suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badía
Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi
vescovo, cioè che non dovessero piu né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni
dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d'argento, quei buoni
rosolii che sapevano d'anice e di cannella! e non piú ricamare, neanche arredi e
paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero piú avere un
confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità.
Disposizioni anche piú gravi aveva poi dato per i canonici e benehciali di tutte le
chiese, e insomma per la piú rigida osservanza d'ogni dovere da parte di tutti gli
ecclesiastici.
Un vescovo cosí non è comodo per
tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una
casa fuori, tanto piú bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me
il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l'Eccellentissimo Monsignor
Vivaldi, benvisto a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la
maniera d'accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche
Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.
Ora io sentivo che non potevo piú
accomodarmi né con me né con nessuno.
Monsignor
Partanna mi ricevette nella vasta sala dell'antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.
Sento ancora nelle narici l'odore di
quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma cosí coperto di polvere che quasi non vi si
scorgeva piu nulla. Le alte pareti dall'intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi
ritratti di prelati, anchessi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa,
appesi qua e là senz'ordine, sopra armadii e scansíe stinte e tarlate.
In fondo alla sala saprivano
due finestroni, i cui vetri, d'una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato,
erano scossi continuamente dal vento che sera levato d'improvviso, fortissimo: il
terribile vento di Richieri che mette l'angoscia in tutte le case.
Pareva a momenti che quei vetri
dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore
ebbe l'accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che,
distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile
sbigottimento, come non l'avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della
vita.
Ricordo che da uno di quei
finestroni si scorgeva il terrazzino d'una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino
apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di
provare la voluttà del volo.
Esposto lí al vento furioso, si
faceva svolazzare attorno al corpo magro, d'una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta
del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle
spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli
volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli
rossicci.
Quell'apparizione mi stupí tanto,
che a un certo punto non potei piú tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un
discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo sera
lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.
Monsignore si voltò appena a
guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d'un sospiro, disse:
«Ah, sí: è un povero pazzo che
sta lí.»
Con tal tono d'indifferenza lo
disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lí per
lí la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:
«No, sa: non sta lí. Sta qui,
Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io.»
Mi contenni, e non lo dissi. Anzi,
con la stessaria d'indifferenza gli domandai:
«E non c'è pericolo che si butti
giú dal terrazzino?
«No, è cosí, da tant'anni,» mi
rispose Monsignore. «Innocuo, innocuo.»
Spontaneamente, proprio senza
volerlo, mi scappò detto allora:
«Come me.»
E Monsignore non poté fare a meno
di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia cosí placida e sorridente, che d'un
tratto lo rimise a posto. M'affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anchio nel
concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e
insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.
Monsignore, rasserenato, riprese il
discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il piú proprio al mio caso, e
l'unico a ogni modo da far valere con l'autorità e il prestigio del suo potere spirituale
sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.
Potevo fargli intendere che il mio
non era propriamente un caso di coscienza com'egli simmaginava?
Se mi fossi arrischiato a farglielo
intendere, sarei d'un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.
Il Dio che in me voleva riavere il
danaro della banca perché io non fossi piú chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte
le costruzioni.
Il Dio, invece, a cui ero venuto a
ricorrere per aiuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sí,
una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto chesso servisse alla costruzione di
almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la
carità.
Monsignore, al termine del nostro
colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
Dovetti rispondergli che volevo
questo.
E allora egli sonò un vecchio
annerito e insordito campanellino d'argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve
un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don
Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati,
chera in anticamera.
L'uomo che ci voleva per me.
Conoscevo piú di fama che di
persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una
lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel
punto piú alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco
esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso,
dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai
diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è
cosí dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono
dell'organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giú, quelle
preghiere accorano come un lamento di carcerati.
A giudicarne dall'aspetto, non
pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura
energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l'aria e la luce
dell'altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero
reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le
pàlpebre piú esili d'un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani
i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di
biascia.
Appena entrato e informato da
Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me
in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:
«Bene bene, figliuolo! Un gran
dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con
tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da
soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto tanto male! Sia il tuo
cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor
Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!»
Uscii dal Palazzo Vescovile con la
certezza che l'avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e
gl'impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in
un mare d'incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza
piú né stato, né famiglia.
Non mi restava
per il momento che Anna Rosa, la compagnia chella voleva le tenessi durante la sua
infermità.
Se ne stava a letto, col piede
fasciato; e diceva che non se ne sarebbe alzata piú, se, come ancora i medici temevano,
fosse rimasta zoppa.
Il pallore e il languore della lunga
degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce
degli occhi le si era fatta piú intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L'odore
dei suoi capelli densi, neri, un pò ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava
sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani
d'un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se
io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò
sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase cosí un gran pezzo col viso nascosto, in
silenzio.
Sotto le coperte sindovinavano
procaci le formosità del suo corpo di vergine matura. Sapevo da Dida che ella aveva già
venticinque anni. Certo, standosene cosí col viso nascosto pensava chio non avrei
potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi
tentava.
Nella penombra della cameretta rosea
in disordine, il silenzio pareva consapevole dell'attesa vana d'una vita che i desiderii
momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere
in qualche modo.
Avevo indovinato in lei
l'insofferenza assoluta d'ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che
faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano
già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano
smanie rabbiose, scatti d'ira e perfino scomposte escandescenze.
Solo del suo corpo pareva si
compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi
dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o
tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi cosí
intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola
mobilissima, potevano essere capaci. Cosí, come per un gusto d'attrice; non perché
pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco
momentaneo di civetteria o provocazione.
Una mattina le vidi provare e
studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso
e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare
tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi
provocò un moto di ribellione.
Le dissi che non ero il suo
specchio.
Ma non soffese. Mi domandò se
quel sorriso, come ora gliel'avevo visto, era
quello stesso che lei sera
veduto e studiato nello specchio dianzi.
Le risposi, seccato di
quell'insistenza:
«Che vuole che ne sappia io? Non
posso mica sapere come lei se l'è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.
«Ce l'ho,» mi disse. «Una,
grande. Là nel cassetto di sotto dell'armadio. Me la prenda, per favore.»
Quel cassetto era pieno di sue
fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.
«Tutte morte,» le dissi.
Si voltò di scatto a guardarmi.
«Morte?»
«Per quanto vogliano parer vive.»
«Anche questa col sorriso?»
«E codesta, pensierosa; e codesta,
con gli occhi bassi.»
«Ma come morta, se sono qua viva?»
«Ah, lei sí; perché ora non si
vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell'attimo che si rimira, lei non è piú.»
«E perché?»
«Perché bisogna che lei fermi un
attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei
satteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove
di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»
«E allora io, viva, non mi sono mai
veduta?»
«Mai, come posso vederla io. Ma io
vedo un'immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà
forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma
ne avrà certo provato un'ingrata sorpresa. Avrà forsanche stentato a riconoscersi,
lí scomposta, in movimento.»
«È vero.»
«Lei non può conoscersi che
atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire.
Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non
sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.»
«Ma nient'affatto! Non riesco anzi
a tenermi mai ferma un momento, io.»
«Ma vuole vedersi sempre. In ogni
atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, limmagine di sé, in ogni
atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il
suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che
gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede le si gela. Non si può
vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà
mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per
sé? Le può avvenire di non comprendere piú perché lei debba avere quell'immagine che
lo specchio le ridà.
Rimase a lungo con gli occhi fissi a
pensare.
Sono certo che anche a lei, come a
me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio
spirito, saprí davanti in quel momento sconfinata, e tanto piú spaventosa quanto
piú lucida, la visione dell'irrimediabile nostra solitudine. L'apparenza d'ogni oggetto
vi sisolava paurosamente. E forse ella non vide piú la ragione di portare la sua
faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli
altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.
Cadeva ogni orgoglio.
Vedere le cose con occhi che non
potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.
Parlare per non intendersi.
Non valeva piú nulla essere per sé
qualche cosa.
E nulla piú era vero, se nessuna
cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per
riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno,
la sua vita.
Ai piedi del suo letto, con un
aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lí, naufrago nella sua solitudine; e
lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi,
pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.
Sentiva verso tutto ciò chio
le dicevo un'invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio:
glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la piú avida attenzione ascoltava le
mie parole.
Voleva tuttavia che seguitassi a
parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io
parlavo quasi senza pensare, o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un
bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.
«Lei saffaccia a una
finestra, guarda il mondo, crede che sia come le sembra. Vede giú per via passare la
gente, piccola nella sua visione chè grande, cosí dall'alto della finestra a cui
è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora
passa giú per la via e lei lo riconosce, guardato cosí dall'alto, non le sembra piú
grande d'un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: "Mi
dica un pò, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?". Non le viene in
mente, perché non pensa all'immagine che quelli che passano per via hanno intanto della
finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da
sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giú e che vivono per un
momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo,
perché non le sorge nessun sospetto dell'immagine che essi hanno di lei e della sua
finestra, una tra tante, piccola, cosí alta, e di lei piccola piccola là affacciata con
quel braccino che si muove in aria.
Si vedeva nella mia descrizione,
piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.
Erano lampi, guizzi; poi nella
cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un'ombra, la vecchia zia con
cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi.
Stava un pò sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e
pallide sul ventre; pareva un mostro d'acquario, non diceva nulla e se n'andava.
Con quella zia ella non scambiava
che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva,
fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse
fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano
tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e
seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno
scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di
libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, chera stato medico. Diceva che
non avrebbe mai preso marito.
Io non posso sapere che idea si
fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse smarrito come in
quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell'incertezza di tutto.
Quest'incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi
istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva;
quest'incerteza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte,
guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un pò divertente; una cosa
infine un pò anche da ridere, avere lí ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili
condizioni di spirito, cosí tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere
domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe
spogliato e liberato di tutto.
Perché ella era certa che io sarei
ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva
enormemente, con un certo orgoglio, anche, d'avere indovinato, nelle discussioni con mia
moglie, non propriamente questo, ma chio fossi ad ogni modo un uomo non comune,
singolare dall'altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o laltro,
qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie,
la prova chella aveva avuto ragione nel pensare cosí di me, sera affrettata a
chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad
andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo
letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente
avvenire, senza piú cura di nulla né di nessuno.
Eppure fu proprio lei a volermi
uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione chio le davo, e che la faceva un
pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella
che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall'infinita lontananza
d'un tempo che avesse perduto ogni età.
Non so precisamente come avvenne.
Quand'io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che piú non ricordo, parole
in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita chera
in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto
volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che
m'attrasse a sé.
Da quel letto poco dopo rotolai,
cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella chella teneva sotto il
guanciale.
Devono esser vere le ragioni
chella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall'orrore
istintivo, improvviso, dell'atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di
tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000