Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO SESTO.
Poco dopo, chiuso in camera come una
bestia in gabbia, sbuffavo per quella violenza su mia moglie (la prima) senza potermela
levare dagli occhi, nel bianco vagellare della lieve persona che pareva si sfaldasse tutta
agli scrolli con cui la respingevo indietro, afferrata per i polsi, e la ributtavo a
sedere sulla poltrona.
Ah come lieve, con tutti quei falbalà intorno
all'abito di neve, all'urto brutale della mia violenza!
Rotta ormai, come una fragile bambola, là ributtata
con tanta furia sulla poltrona, non l'avrei di certo raccapezzata piú. E tutta la mia
vita, qual'era stata finora con lei, il giuoco di quella bambola: spezzato, finito, forse
per sempre.
L'orrore della mia violenza mi fremeva vivo nelle
mani ancora tremanti. Ma avvertivo che non era tanto della violenza quell'orrore, quanto
del cieco insorgere in me d'un sentimento e d'una volontà che alla fine mi avevano dato
corpo: un bestiale corpo che aveva incusso spavento e rese violente le mie mani.
Diventavo "uno".
Io.
Io che ora mi volevo cosí.
Io che ora mi sentivo cosí.
Finalmente.
Non piú usurajo (basta con quella banca): e non piú
Gengè (basta con quella marionetta).
Ma il cuore seguitava a tumultuarmi in petto. Mi
toglieva il respiro. Aprivo e chiudevo le mani, affondandomi le unghie nella carne. E
appena, senza saperlo, mi grattavo con una mano il palmo dell'altra, raggirandomi ancora
per la stanza, gangheggiavo come un cavallo che non soffra il morso. Farneticavo.
«Ma io, uno, chi? chi?»
Se non avevo piú occhi per vedermi da me come uno
anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma
ugualmente senza poter sapere come ora m'avrebbero veduto in questa mia neonata volontà,
se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.
Non piú Gengè.
Un altro.
Avevo proprio voluto questo.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento
che mi scopriva nessuno e centomila?
Questa mia nuova volontà, questo mio nuovo
sentimento potevano insorgere ciechi per la ferita in un punto vivo di me che non sapevo,
ma subito cadevano, cadevano sotto la terribile fissità di quella luce che folgorava
tetra da quanto avevo scoperto.
Volevo tuttavia intravedere, per raccapezzarmi, che
cosa avrei potuto mettere su col po' di sangue di quella ferita, con quel po' di
sentimento, lacerato, macerato, su lo sgangherato scheletro di quel po' di volontà: oh,
un povero omicello sparuto, sempre spaventato dagli occhi degli altri; col sacchetto in
pugno dei danari ricavati dalla liquidazione della banca. E come avrei potuto tenermeli
piú ormai, quei danari?
Li avevo forse guadagnati io col mio lavoro? Averli
ora ritirati dalla banca perché non fruttassero altra usura, bastava forse a mondarli di
quella da cui erano venuti? E allora, che? buttarli via? E come avrei vissuto? Di che
lavoro ero capace? E Dida?
Era anche lei - lo sentivo bene, ora che non la avevo
piú in casa - era anche lei un punto. Io in me. Io l'amavo, non ostante lo strazio che mi
veniva dalla perfetta coscienza di non appartenermi nel mio stesso corpo come oggetto del
suo amore. Ma pur la dolcezza che a questo corpo veniva dal suo amore, la assaporavo io,
cieco nella voluttà dell'abbraccio; anche se talvolta ero quasi tentato di strozzarla
vedendole, tra le umide labbra convulse, come una smania di sorriso o di sospiro, tremare
uno stupido nome: Gengè.
L'immobilità sospesa di tutti gli
oggetti del salotto, in cui rientrai come attratto dal silenzio che vi si era fatto:
quella poltrona dov'ella dianzi stava seduta; quel canapè dove dianzi stava affondato
Quantorzo; quel tavolinetto di lacca chiara filettato d'oro e le altre seggiole e le
tende, mi diedero una cosí orribile impressione di vuoto che mi voltai a guardare i
servi, Diego e Nina, i quali mi avevano annunziato che la padrona era andata via col
signor Quantorzo lasciando l'ordine che tutte le sue robe fossero raccolte, chiuse nei
bauli e mandate a casa del padre; e ora stavano a mirarmi con lo sbalordimento nelle
bocche aperte e negli occhi vani.
La loro vista m'irritò. Gridai:
«E sta bene, eseguite l'ordine.»
Un ordine da eseguire era già, in quel vuoto,
qualche cosa almeno per gli altri. E anche per me, se mi levava dai piedi quei due per il
momento.
Come fui solo, stranamente quasi ilare d'improvviso,
pensai: "Sono libero! Se n'è andata via!". Ma non mi pareva vero. Avevo
l'impressione curiosissima che se ne fosse andata via per farmi la prova della giustezza
della mia scoperta, la quale assumeva per me un'importanza cosí grande e assoluta, che a
confronto ogni altra cosa non poteva averne se non una molto minore e relativa: anche se
mi faceva perdere la moglie; anzi proprio per questo.
«Ecco se è vero!»
Nient'altro che la prova era terribile. Tutto il
resto - ma sí, via - poteva parere anche ridicolo: quell'andarsene cosí su due piedi con
Quantorzo, come quel mio insorgere per quella stupidaggine là, della gente che mi credeva
usurajo.
Ma come, allora? ero già ridotto a questo? di non
poter piú prendere nulla sul serio? E la mia ferita di poc'anzi, per cui avevo avuto
quello scatto violento?
Già. Ma dove la ferita? In me?
A toccarmi, a strizzarmi le mani, sí, dicevo
"io", ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me
stesso, solo. E nell'attimo del brivido, che ora mi faceva fremere alle radici i capelli,
sentivo l'eternità e il gelo di questa infinita solitudine.
A chi dire "io"? Che valeva dire
"io", se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i
miei; e per me, cosí fuori degli altri, l'assumerne uno diventa subito l'orrore di questo
vuoto e di questa solitudine.
Venne a trovarmi, la mattina dopo, mio
suocero.
Dovrei dir prima (ma non dirò) fin dov'ero arrivato
con l'immaginazione, farneticando per gran parte della notte, a furia di trar conseguenze
dalle condizioni in cui m'ero messo di fronte agli altri, non solo, ma anche rispetto a me
stesso.
M'ero sottratto affannato a un breve sonno di piombo,
con la sensazione dell'ostile gravezza di tutte le cose, anche dell'acqua raccolta nel
cavo delle mani, per lavarmi, anche dell'asciugamani di cui dopo m'ero servito; quando,
all'annunzio della visita, improvvisamente mi sentii tutto alleggerire da un pronto
risveglio di quell'estro gaio che per fortuna come un benefico vento m'arieggia ancora a
tratti lo spirito.
Feci volar l'asciugamani e dissi a Nina:
«Bene bene. Fallo accomodare nel salotto, e digli
che vengo subito.»
Mi guardai allo specchio dell'armadio con
irresistibile confidenza fino a strizzare un occhio per significare a quel Moscarda là
che noi due intanto c'intendevamo a maraviglia. E anche lui, per dire la verità, subito
mi strizzò l'occhio, a confermare l'intesa.
(Voi mi direte, lo so, che questo dipendeva perché
quel Moscarda là nello specchio ero io; e ancora una volta dimostrerete di non aver
capito niente. Non ero io, ve lo posso assicurare. Tant'è vero che, un istante dopo,
prima d'uscire, appena voltai un pò la testa per riguardarlo in quello specchio era già
un altro, anche per me, con un sorriso diabolico negli occhi aguzzi e lucidissimi. Voi ve
ne sareste spaventati; io no; perché già lo sapevo; e lo salutai con la mano. Mi salutò
con la mano anche lui, per dire la verità).
Tutto questo, per cominciare. La commedia seguitò
poi nel salotto con mio suocero.
In quattro?
No.
Vedrete in quanti svariati Moscarda, dacché c'ero,
mi spassai a produrmi quella mattina.
Senza dubbio era mio suocero la cagione
dell'insperato risveglio del mio estro, per quella (sí, Dio mio) forse irrispettosa
realtà che io finora gli avevo dato, di stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé.
Molto curato, non pur nei panni, anche
nell'acconciatura dei capelli e dei baffi fino all'ultimo pelo; biondo biondo, e
d'aspetto, non dirò volgare ma comune a ogni modo; tutte quelle cure avrebbe potuto
risparmiarsele, perché gli abiti addosso a lui, di fattura inappuntabile, restavano come
non suoi, del sarto che glieli aveva cuciti; e anche quella sua testa cosí ben ravviata e
quelle sue mani cosí tornite e levigate, anziché attaccate vive e di carne al suo solino
e alle sue maniche, potevano figurare senza alcuno scàpito esposte mozze e di cera nelle
vetrine d'un parrucchiere e d'un guantaio. Sentirlo parlare, vedergli socchiudere gli
occhi cilestri smaltati nella beatitudine d'un perenne sorriso per tutto ciò che gli
usciva dalle labbra coralline; vedergli poi riaprire quegli occhi e la pàlpebra del
destro restargli un pò tirata e appiccicata, quasi non riuscisse a distaccarsi cosí
presto dal prelibato sapore di un'intima soddisfazione che nessuno avrebbe mai supposto in
lui; non poteva non fare una stranissima impressione, tanto pareva finto, ripeto:
fantoccio da sarto e testa da vetrina di barbiere.
Ora, mentre me l'aspettavo cosí, la sorpresa di
trovarmelo davanti tutto scomposto e agitato serví soltanto a stuzzicare in me
d'improvviso il desiderio di provare quel rischio squisito con cui uno muove inerme e
sorridente contro un nemico che lo minacci armato, dopo avergli intimato di non muoversi
d'un passo.
L'estro riacceso in me m'imponeva difatti sulle
labbra un sorriso di sfida e sulla fronte un'aria di smemorataggine per il giuoco che
voleva seguitare, pericolosissimo, mentre erano in ballo cosí gravi interessi e per
quell'uomo là e per tanti altri: le sorti della banca; le sorti della mia famiglia: avere
altre prove di quella terribile cosa che già sapevo: cioè, che sarei inevitabilmente
sembrato pazzo, ancora e piú di prima, coi discorsi che mi disponevo a fare, giú a rotta
di collo per la china di quell'incredibile e inverosimile ingenuità che aveva
fatto strabiliare Quantorzo e buttar via dalle risa mia moglie.
Difatti, anche per me ormai, se consideravo bene a
fondo le cose non poteva esser valida scusa la coscienza a cui volevo appigliarmi. Potevo
sentirmi rimordere sul serio di quell'usura che non m'ero mai inteso di esercitare? Avevo
sí firmato per formalità gli atti di quella banca; ero vissuto fino a quel momento dei
guadagni di essa senza mai pensarci; ma ora che finalmente me ne rendevo conto, avrei
ritirato i danari dalla banca, e presto, per mettermi del tutto a posto, me ne sarei
liberato come che fosse, istituendo un'opera di carità o qualcosa di simile.
«Come! E ti par niente tutto questo? Ma Dio mio, ma
dunque è vero?»
«Vero, che cosa?»
«Che ti sei impazzito! E di mia figlia che vorresti
farne? Come vorresti vivere? di che?»
«Ecco, questo sí: questo mi pare importante. Da
studiare.»
«Rovinare per sempre la tua posizione? Ciascuno ha
sempre fatto i suoi affari da che mondo è mondo.»
«Benissimo. E dunque, d'ora in poi, anchio i
miei.»
«Ma come, i tuoi, se butti via i danari guadagnati
da tuo padre in tanti anni di lavoro?»
«Ho sei anni d'Università.»
«Ah! Vorresti tornare all'Università?»
«Potrei.»
Accennò d'alzarsi. Lo trattenni, domandandogli:
«Scusi: prima di venire alla liquidazione della
banca, ci sarà tempo, non è vero?»
Salzò furente, con le braccia per aria.
«Ma che liquidazione! che liquidazione! che
liquidazione!»
«Se non vuol lasciarmi dire...»
Si voltò di scatto.
«Ma che vuoi dire. Tu farnetichi!»
«Sono calmissimo,» gli feci notare. «Le volevo
dire che ho tante materie di studio già a buon punto e lasciate lí.»
Mi guardò stordito.
«Materie di studio? Che significa?»
«Che potrei, anche presto, prendere una laurea di
medico, per esempio, o di dottore in lettere e filosofia.»
«Tu?»
«Non crede? Sí. M'ero messo anche per medico. Tre
anni. E mi piaceva. Domandi, domandi a Dida come vedrebbe meglio il suo Gengè. Se medico
o professore. Ho la parola facile: potrei anche, volendo, far l'avvocato.»
Si scrollò violentemente.
«Ma se non hai voluto fare mai niente!»
«Già. Ma non per leggerezza, veda. Anzi, al
contrario! Mi ci affondavo troppo. E non si riesce a nulla, creda, affondandosi troppo in
qualsiasi cosa. Si vengono a fare certe scoperte! Leggermente però, le assicuro che il
medico, l'avvocato o, se Dida preferisce, il professore, potrei farlo benissimo. Basta che
mi ci metta.»
Paonazzo dalla violenza che faceva su se stesso per
starmi a sentire, a questo punto scappò via. O schiattava. Gli corsi dietro, gridando:
«Ma no, ma senta, ma dando via i danari di mio padre
ma sa che popolarità! Mi potrebbero anche eleggere deputato: ci pensi! Se a Dida
piacesse, e anche a lei: il genero deputato... Non mi ci vede? non mi ci vede?»
Se n'era già scappato via, urlando a ogni mia
parola:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Il tono era di scherzo, non nego, per
via di quel maledetto estro. E poteva anche parere chio parlassi con molta fatuità:
lo riconosco. Ma le proposte di un Gengè medico o avvocato o professore e perfino
deputato, se potevano far ridere me, avrebbero potuto imporre a lui, io dico, almeno
quella considerazione e quel rispetto che di solito si hanno in provincia per queste
nobili professioni cosí comunemente esercitate anche da tanti mediocri coi quali, poi
poi, non mi sarebbe stato difficile competere.
La ragione era un'altra, lo so bene. Non mi ci
vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.
Non poteva ammettere, lui, chio gli levassi il
genero (quel suo Gengè chegli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se
n'era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e
la figlia dall'altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato.
Dovevo lasciarlo cosí com'era, quel buon figliuolo
feroce di Gengè, a vivere senza pensarci dell'usura di quella banca non amministrata da
lui.
E io vi giuro che l'avrei lasciato lí, per non
turbare quella mia povera bambola, il cui amore mi era pur cosí caro, e per non cagionare
un cosí grave scompiglio a tanta brava gente che mi voleva bene, se, lasciandolo lí per
gli altri, io poi per mio conto me ne fossi potuto andare altrove con un altro corpo e un
altro nome.
Sapevo altresí che a mettermi in
nuove condizioni di vita, a rappresentarmi agli altri domani da medico, poniamo, o da
avvocato o da professore, non mi sarei ugualmente ritrovato né uno per tutti né io
stesso mai nella veste e negli atti di nessuna di quelle professioni.
Troppo ero già compreso dall'orrore di chiudermi
nella prigione d'una forma qualunque.
Pur non di meno quelle stesse proposte, fatte per
ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo
il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. Avevo insomma
pensato che una di quelle professioni, o un'altra qual si fosse, avrei dovuto prenderla e
accettarla come una necessità se Dida, ritornando a me com'io volevo, me n'avesse fatto
l'obbligo per provvedere del mio meglio alla sua nuova vita con un nuovo Gengè.
Ma dalla furia con cui mio suocero se n'era scappato
potevo argomentare che, anche per Dida, nessun nuovo Gengè poteva nascere dal vecchio.
Tanto questo vecchio le dava a vedere d'essersi impazzito senza rimedio, se cosí per
niente voleva togliersi da un momento all'altro dalle condizioni di vita in cui era
vissuto finora felicemente.
E davvero pazzo volevo esser io a pretendere che una
bambola come quella impazzisse insieme con me, cosí per niente.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000