Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO QUINTO
Mi valse, per fortuna, almeno lí per
lí, la considerazione di Quantorzo, che anche mio padre ai suoi tempi sera dati
"lussi di bontà" come questo mio, commisti d'una certa allegra ferocia; e che,
a lui Quantorzo, non era mai passato per il capo di poter proporre che mio padre fosse da
chiudere in un manicomio o almeno almeno da interdire come ora Firbo sosteneva a spada
tratta si dovesse fare per me, se si voleva salvare il credito della banca, seriamente
compromesso da quel mio atto pazzesco.
Oh mio Dio, ma non sapevano tutti in paese che negli
affari della banca io non m'ero mai immischiato né punto né poco? Come e perché la
minaccia di quel discredito ora? Che aveva da vedere con quel mio atto la banca?
Già. Ma allora cadeva la considerazione di
Quantorzo, intesa a ripararmi dietro le spalle di mio padre. Che se pur di tanto in tanto
aveva avuto di quegli estri, mio padre; poi nella trattazione degli affari aveva saputo
dimostrare cosí bene d'aver la testa a segno, che certo a nessuno poteva venire in mente
di chiuderlo in un manicomio o d'interdirlo; mentre la mia dichiarata insipienza e quel
mio disinteressamento mi scoprivano invece pazzo da legare e nient'altro, buono soltanto a
distruggere scandalosamene ciò che mio padre aveva con nascosta accortezza edificato.
Ah, non c'è che dire, stava tutta dalla parte di
Firbo la logica. Ma non stava meno, se vogliamo, dalla parte di Quantorzo, allorché
questi (non ne ho il minimo dubbio) gli dovette far notare a quattr'occhi che, essendo io
il padrone della banca, quel mio disinteressamento dagli affari e la mia insipienza non
erano da assumere come armi contro di me, perché, grazie ad essi appunto, i veri padroni
là dentro erano divenuti loro due; e che dunque, via, era meglio non toccare questo tasto
e star zitti, almeno fin tanto chio non déssi altro segno di voler commettere nuove
pazzie.
Altro, segretamente, dal canto mio, avrei potuto far
notare a Firbo, se - schiacciato com'ero in quel momento dalla prova or ora fatta - non mi
fosse convenuto di starmi con la coda tra le gambe, mentre tra lui e Quantorzo pendeva
quella lite, o meglio, mentre ancora rimaneva incerto se ai miei danni dovesse prevalere
la brama dell'uno di vendicarsi dell'affronto che gli avevo fatto davanti ai commessi, o
non piuttosto l'interessata indulgenza dell'altro.
M'ero, mogio mogio, rinchioccito tra le
gonnelle di Dida dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perché
apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di
pazzia l'atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a
dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco.
E intanto alle sgridate chella gli dava, a quel
suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora
crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l'aspetto che pur
dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si
voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sí, l'aveva fatta un pò troppo
grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all'improvviso, non piú contenuta,
saffacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in
qualche orribile grido l'atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile.
Ah, inconfessabile, inconfessabile, perché solo del
mio spirito, quell'angoscia, fuori d'ogni forma che potessi fingermi e riconoscere per mia
oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo
Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo piú dire chi fossi io
allora, e di chi e dove, fuori di lui, quellangoscia atroce che mi soffocava.
E tanto ormai, fisso in questo tormento, m'ero
alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché
ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell'uno
che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a
chiuderlo in un manicomio.
«Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, cosí. Guardami bene
negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi?»
Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani
per costringerla a guardare nell'abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva
essere guardata!
Era lí davanti a me; m'acciuffava con una mano i
capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo.
Chi era?
Nessun dubbio in lei chio lo sapessi, chi era.
E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi
guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe
chio fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi
pesava sulle ginocchia, fiducioso nell'abbandono che mi faceva di sé, senza il piú
lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo corpo, e che io,
stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m'apparteneva
totalmente, e non un'estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com'era, perché
era per me qual'io appunto la vedevo e la toccavo questa cosí - con questi capelli
- e questi occhi - e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei
la mia, nel suo fuoco cosí diverso dal mio, incommensurabilmente lontano, se tutto per
lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo
spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata,
tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti cosí - orrore - estranei, non solo l'uno
per l'altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l'altro si stringeva.
Voi non lo avete mai provato, quest'orrore, lo so;
perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna
vostra, senza il minimo avvertimento chella intanto si stringe in voi il suo, che è
un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest'orrore, che voi pensaste
un momento, che so! a un'inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un
colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare
superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d'opinioni; che gli occhi di
lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le
vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual'è per voi, come voi la
toccate, non sono per lei che vede e tocca un'altra realtà nelle stesse cose e in voi
stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può
figurarsi che possa essere un'altra per voi.
Mi costò molto dissimulare la freddezza d'un rancore
che mi sinduriva nell'animo sempre piú, vedendo che Dida, in fondo, per quanto si
sforzasse di far viso fermo, rideva di quello spasso brutale che il suo Gengè sera
preso, evidentemente senza riflettere che non tutti come lei avrebbero compreso
chegli aveva voluto fare una burla e niente piú.
«Ma guarda un pò, se sono scherzi da fare! Lo
sfratto sotto la pioggia; e assistervi, provocando l'indignazione di tutti, scioccone! A
momenti t'accoppavano!»
Cosí mi diceva, e voltava la faccia per nascondere
il riso che intanto le provocava la vista di quel mio rancore, il quale naturalmente
nell'aspetto del suo Gengè, come se lo vedeva ora davanti e come s'immaginava che dovesse
essere in quel momento dello sfratto tra l'indignazione di tutti, le appariva dispetto,
nient'altro che un buffo dispetto di quel suo "scioccone" a causa della burla
mancata e mal compresa.
«Ma che ti figuravi? Ti figuravi che dovessero
ridere delle furie di quel pazzo mentre tu gli facevi buttare in mezzo alla strada i suoi
cenci sotto la pioggia? E intanto lui - guardàtelo là - si teneva in corpo la sorpresa
della donazione! Oh bada che ha ragione il signor Firbo, sai! Cosa da manicomio, uno
scherzo di cosí cattivo genere, pagarlo a un cosí caro prezzo. Và là, và là!
Pigliati qua Bibí, e pòrtala un pò fuori.»
Mi vedevo mettere in mano il laccetto rosso della
cagnolina; vedevo chella si chinava, con la facilità con cui sulle loro anche si
chinano le donne, per aggiustare al musetto di Bibí la museruola senza farle male, e
restavo lí come un insensato.
«Che fai? Non vai?»
«Vado...»
Chiusa la porta alle mie spalle, m'appoggiavo al muro
del pianerottolo con una voglia di mettermi a sedere sul primo scalino, per non
rialzarmene mai piú.
E mi vedo, rasente ai muri, per via, che
non so piú come né dove guardare, con quella cagnolina dietro, che pare me lo faccia
apposta di dare a vedere che, com'io non vorrei andare, cosí non vorrebbe venire con me
neanche lei, e si fa tirare pontando le zampine, finché stizzito non le do uno strattone,
a rischio di spezzare quel laccetto rosso.
Vado a nascondermi a pochi passi da casa, dentro il
recinto d'un terreno venduto per una casa che vi doveva sorgere, grande e chi sa come
brutta, a giudicare dalle altre vicine. Il terreno è scavato in parte per le fondamenta;
ma i mucchi di terra non sono stati portati via; e qua e là sono sparse tra l'erba
ricresciuta folta, le pietre per la fabbrica, come crollate e vecchie prima d'essere
usate.
Seggo su una di queste pietre; guardo il muro che
para, alto, bianco, stagliato nell'azzurro, della casa accanto. Rimasto scoperto, senza
una finestra, tutto cosí bianco e liscio, quel muro, col sole che ci batte sopra, acceca.
Abbasso gli occhi qua nell'ombra di quest'erba vana, che respira grassa e calda nel
silenzio immobile, tra un brusío d'insetti minuti; c'è un moscone fosco che mi dà
addosso, ronzando, irritato dalla mia presenza; vedo Bibí che mi sè acculata
davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa, come per domandarmi perché siamo venuti
qua, in un luogo che non saspettava, ove tra l'altro... ma sí, di notte, qualcuno,
passando...
«Sí, Bibí,» le dico. «Questo puzzo... Lo sento.
Ma mi pare il meno, sai? che possa ormai venirmi dagli uomini. E di corpo. Peggio, quello
che esala dai bisogni dell'anima, Bibí. E veramente sei da invidiare, tu che non puoi
averne sentore.
La tiro a me per le due zampine davanti, e seguito a
parlare cosí.
«Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua?
Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare.
Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a
essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche
da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro chesse
appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c'è chi pensa che ci siete
anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li
vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di
tutte le cose negli occhi degli altri, Bibí! Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il
mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi dànno e chio non so né
potrò mai sapere. Cosicché, vedi? io - questo che ora ti parla - questo che ora ti tiene
cosí sollevate da terra queste due zampine - le parole che ti dico, non so, non so
proprio, Bibí, chi te le dica.»
Ebbe a questo punto un soprassalto improvviso, la
povera bestiolina, e volle sguizzarmi dalle mani che le reggevano le due zampine. Senza
indugiarmi a riflettere se quel soprassalto fosse per lo spavento di quel che le avevo
detto, per non spezzargliele, gliele lasciai, e subito allora essa si sfogò abbaiando
contro un gatto bianco intravisto tra l'erba in fondo al recinto: se non che il laccetto
rosso trascinato tra i piedi in corsa a un tratto le simpigliò in uno sterpo e le
diede un tale strappo, che la fece arrovesciare all'indietro e rotolare come un batuffolo.
Friggendo di rabbia si raddrizzò, ma restò puntata su le quattro zampe, non sapendo piú
dove avventare la sua furia interrotta: guardò di qua, di là: il gatto non c'era piú.
Starnutò.
Io potei ridere di quella sua corsa, prima, poi di
quel capitombolo all'indietro, e ora di vederla restar cosí; tentennai il capo e la
richiamai a me. Se ne venne leggera leggera, quasi ballando sulle esili zampine; quando mi
fu davanti, levò da sé le due anteriori per appoggiarsi a un mio ginocchio, quasi
volesse seguitare il discorso rimasto a mezzo, che invece le piaceva. Eh sí, perché,
parlando, io le grattavo la testa dietro le orecchie.
«No no, basta, Bibí» le dissi. «Chiudiamo gli
occhi piuttosto.»
E le presi tra le mani la testina. Ma la bestiola si
scrollò, per liberarsi; e la lasciai.
Poco dopo, sdraiata ai miei piedi, col musino
allungato sulle due zampette davanti, la udii sospirare forte, come se non ne potesse piú
dalla stanchezza e dalla noia, che pesavano tanto anche sulla sua vita di povera cagnetta
bellina e vezzeggiata.
Perché, quand'uno pensa d'uccidersi,
s'immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri?
Tumido e livido, come il cadavere d'un annegato,
rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú
d'un'ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di
farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa
all'invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell'imbecillità che molti
altri m'attribuivano.
E allora, tra le diverse immagini della mia morte
violenta, come potevo supporre balzassero improvvise, tra la costernazione e lo
sbalordimento, in mia moglie, in Quantorzo, in Firbo, in tanti e tanti altri miei
conoscenti; costringendomi a rispondere a quella domanda, mi sentii piú che mai mancare,
perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non c'era veramente una vista per me, da
poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri, per il mio stesso
corpo e per ogni altra cosa come potevo figurarmi che dovessero vederli; e che dunque i
miei occhi, per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbero piú saputo
veramente quello che vedevano.
Mi corse per la schiena il brivido d'un ricordo
lontano: di quand'ero ragazzo, che andando sopra pensiero per la campagna m'ero visto a un
tratto smarrito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e attonita;
lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarirmi. Era questo:
l'orrore di qualche cosa che da un momento allaltro potesse scoprirsi a me solo,
fuori della vista degli altri.
Sempre che ci avvenga di scoprire qualcosa che gli
altri supponiamo non abbiano mai veduta, non corriamo a chiamare qualcuno perché subito
la veda con noi?
«Oh Dio, che è?
Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire
comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che
vedono; la nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa più intima
nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli.
Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia
solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l'orrore, davanti a me stesso,
per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli
altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un'illusione a cui non potevo
piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore
negli occhi della cagnetta che sera levata anche lei di scatto e mi guardava, per
togliermela davanti, quell'orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti
della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando:
«Impazzisco! impazzisco!»
Se non che, non so come, in quel gesto di
disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi
si mutò d'improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí chera
mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anchio per burla, e tutto in preda a una gaia
smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La
bestiolina starnutiva, come per dirmi:
«Rifiuto! rifiuto!»
«Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?
E allora mi misi a starnutire anchio per
rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto:
«Rifiuto! rifiuto!»
Un calcio? io? a quella povera
bestiolina.
Gliel'aveva appioppato in campagna un certo
ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e
di niente: d'un niente che poteva d'improvviso diventare qualche cosa che sarebbe
toccato allora di vedere a lui solo.
Qua in città, ora, per via, non c'era piú questo
pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l'illusione dell'altro, da poter essere sicuri
che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l'altro
lo vedeva.
E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:
«Ma sí! Eh eh! Giochiamo, giochiamo!»
E anche di farne segno a chi stava per caso a
guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sí! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per
buttarsi di sotto.
«Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese,
caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori cosí d'ogni illusione per voi,
poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell'illusione degli altri ancora
vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh!»
Il guajo era che ancora da vivo stavo a vederlo io,
questo giuoco, tra gli altri ancora vivi: benché non lo potessi penetrare E
quest'impossibilità di penetrarlo, pur sapendo chera lí negli occhi di tutti,
esasperava fino alla ferocia quella mia smania gaia.
Il calcio poc'anzi sparato alla povera bestiolina
perché mi guardava, Dio me lo perdoni, mi veniva di spararlo a tutti quanti.
Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo
in seria confabulazione con mia moglie Dida.
Com'erano a posto, sicuri, seduti tutt'e due nel
salottino chiaro in penombra; luno grasso e nero, affondato nel divano verde;
laltra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre
quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me,
perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:
«Oh, eccolo qua!»
E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la
tentazione di voltarmi a cercare l'altro che entrava con me, pur sapendo bene che
il "caro Vitangelo" del mio paterno Quantorzo non solo era anchesso in me
come il Gengè di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero
che il suo caro Vitangelo, proprio come per Dida altri che il suo "Gengè". Due,
dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno;
il che per me, non faceva un piú ma un meno, in quanto voleva dire che ai
loro occhi, io come io, non ero nessuno.
Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la
solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d'ogni consistenza apparente,
concepiva l'orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa
incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.
Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.
«Chi cerchi?»
M'affrettai a risponderle, sorridendo:
«Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!»
Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi
dire con quel "nessuno" cercato accanto a me; e credettero che con
quell'"eccoci" mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lí dentro quel
salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io - per me
stesso - ormai non contavo piú.
Voglio dire:
1. Dida, com'era per sé;
2. Dida, com'era per me;
3. Dida, com'era per Quantorzo;
4. Quantorzo, com'era per sé;
5. Quantorzo, com'era per Dida;
6. Quantorzo, com'era per me;
7. il caro Gengè di Dida;
8. il caro Vitangelo di Quantorzo.
Sapparecchiava in quel salotto, fra quegli otto
che si credevano tre, una bella conversazione.
(Oh Dio mio, e non sentiranno ora
venir meno a un tratto la loro bella sicurezza, vedendosi guardati da questi miei occhi
che non sanno quello che vedono?
Fermarsi per un poco a guardare uno che stia facendo
anche la cosa piú ovvia e consueta della vita; guardarlo in modo da fargli sorgere il
dubbio che a noi non sia chiaro ciò che egli stia facendo e che possa anche non esser
chiaro a lui stesso: basta questo perché quella sicurezza saombri e vacilli. Nulla
turba e sconcerta piú di due occhi vani che dimostrino di non vederci, o di non vedere
ciò che noi vediamo.
«Perché guardi cosí?»
E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre
cosí, ciascuno con gli occhi pieni dell'orrore della propria solitudine senza scampo).
Quantorzo, difatti, cominciò
presto a turbarsi, non appena i suoi occhi sinfrontarono coi miei; a smarrirsi,
parlando; tanto che senza volerlo accennava di tratto in tratto di levare una mano, come
per dire: "No, aspetta".
Ma non tardai a scoprire l'inganno.
Si smarriva cosí, non già perché il mio sguardo
gli facesse vacillare la sicurezza di sé, ma perché gli era parso di leggermi negli
occhi che io avessi già compreso la ragione riposta per cui era venuto a farmi quella
visita: che era di legarmi mani e piedi, d'intesa con Firbo, protestando che non avrebbe
potuto piú fare il direttore della banca, se io intendevo d'arrogarmi il diritto di
compiere altri atti improvvisi e arbitrarii, di cui né lui né Firbo avrebbero potuto
assumersi la responsabilità.
Allora, certo di questo, mi proposi di sconcertarlo,
non però subitaneamente come avevo fatto l'altra volta parlando e gestendo come un pazzo
davanti a lui e a Firbo, ma al contrario; per il gusto di vedere come se ne sarebbe andato
via, dopo essere venuto cosí fermo in quel proposito; il gusto, dico, che poteva darmi
quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n'avessi piú
bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei
detta, il tono con cui l'avrei detta, tale da frastornarlo e da fargli cangiar l'animo, e
con l'animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sé se la
sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.
Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva
dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:
«Ancora?»
Difatti si stizzí:
«Ancora? caro mio! Ci hai fatto trovare tutti
gl'incartamenti dello scaffale in tale scompiglio che gli ci vorranno a dir poco due mesi
per rimetterli in ordine.
Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:
«Vedi, cara, tu che credevi una burla?»
Dida mi guardò subito incerta; poi guardò
Quantorzo; poi di nuovo me; e infine domandò, con apprensione:
«Ma insomma, che hai fatto?»
Con la mano le feci segno d'aspettare. Ancora piú
serio mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:
«Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor
Firbo? E perché non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io?»
Ed ecco che Quantorzo s'agitò sul divano e una
ventina di volte batté le pàlpebre come per richiamarsi istintivamente all'attenzione
dallo sbalordimento in cui cadeva, piú che per la domanda, per il tono di sfida con cui
l'avevo proferita.
«Che... che vi hai trovato?» balbettò.
Risposi subito, accompagnando le parole col gesto:
«Un palmo di polvere: cosí!»
Si guardarono negli occhi, storditi; perché quel
tono escludeva che per sciocchezza avessi detto quella cosa in sé sciocca: e nello
stordimento Quantorzo ripeté:
«Un palmo di polvere? che significa?»
«Significa, oh bella, che dormivano tutti quegli
incartamenti. Da anni! Un palmo, dico un palmo di polvere. E difatti, una casa sfitta; e
di quell'altra là, chi sa da quanto tempo non si riscoteva piú la pigione!
Quantorzo - non me l'aspettavo - finse lui questa
volta di trasecolare piú che mai:
«Ah,» fece, «e tu allora le svegli cosí, le case:
regalandole?»
«No, caro mio,» gli gridai subito, riscaldandomi,
un pò, sí, ad arte, ma anche sul serio un pò. «No, caro mio! Per dimostrarvi che
vingannate di molto ma di molto sul conto mio, tu, Firbo, tutti quanti siete! Parlo,
parlo, dico sciocchezze, faccio lo svagato; ma non è vero, sai? perché osservo tutto io,
invece; osservo tutto!»
Quantorzo - questa volta sí, come m'aspettavo -
tentò di reagire ed esclamò:
«Ma che osservi? Ma fa il piacere! La polvere
dello scaffale osservi!»
«E le mie mani,» mi venne d'aggiungere subito, non
so perché, presentandole: con un tal tono di voce che destò all'improvviso in me stesso
un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell'atto di
sollevar le mani per rubare a me stesso l'incartamento, dopo avere immaginato là dentro
quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della
dita.
«Vengo alla banca,» seguitai, stanco tutt'a un
tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell'una e dell'altro, «vengo alla
banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di
venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa.» Guardai di traverso
Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perché forse
il Quantorzo di Dida, no, che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse,
avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com'io del mio avrei potuto giurare.) A
ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d'occhi
sgranò nel domandarmi:
«Che ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi
di noi?»
«Non diffido, non diffido; non tengo spie,»
m'affrettai a rassicurarlo. «Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi
basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio
padre?»
«Punto per punto!»
«Non ne dubito. Ma siete riparati, voi, dico per la
vostra parte, dall'ufficio che tenete: luno di direttore, laltro di consulente
legale. Mio padre, per disgrazia, non c'è piú. Vorrei sapere chi risponde degli atti
della banca davanti al paese.
«Come, chi risponde?» fece Quantorzo. «Ma noi,
noi! E appunto perché ne rispondiamo noi, vorremmo essere sicuri che tu non abbia ancora
a immischiartene, intervenendo con certi atti; senti, dico inconsulti per non dire
altro!»
Negai prima col dito; poi dissi, placido:
«Non è vero. Voi no; se seguite punto per punto le
norme di mio padre. Davanti a me, tutt'al piú, potreste risponderne voi, se non le
seguiste e io ve ne domandassi conto e ragione. Ora dico davanti al paese: chi ne
risponde? Ne rispondo io che firmo i vostri atti: io! io! E mi devo veder questa: che voi
la mia firma sí, la volete sotto tutti gli atti che fate voi; e mi negate poi la vostra
per quell'uno che faccio io.»
Doveva essersi impaurito ben bene, perché a questo
punto gli vidi dare tre allegri balzi sul divano, esclamando:
«Oh bella! oh bella! oh bella! Ma perché noi, i
nostri, sono quelli normali della banca! Mentre il tuo, scusa, me lo fai dire tu, è stato
proprio da pazzo! da pazzo!»
Scattai in piedi; gli appuntai l'indice d'una mano
contro il petto, come un'arma.
«E tu mi credi pazzo?»
«Ma no!» fece, smorendo subito sotto la minaccia di
quel dito.
«No, eh?» gli gridai tenendolo fermo con gli occhi.
«Resta intanto assodato questo tra noi, bada!»
Quantorzo, allora, rimasto come a mezz'aria,
vagellò; non già perché gli nascesse lí per lí di nuovo il dubbio chio potessi
anche esser pazzo per davvero, no; ma perché, non comprendendo la ragione per cui mi
premeva d'assodare chegli non m'aveva per tale, nell'incertezza, temendo un'insidia
da parte mia, quasi quasi si pentiva d'aver detto di no cosí in prima, e tentò di
disdirsi con un mezzo sorriso.
«No, aspetta... ma devi convenire...»
Che bella cosa! ah che bella cosa! Ora Dida,
seguitando a guardare accigliata un pò me e un pò Quartorzo, dava a vedere chiaramente
che non sapeva piú che pensare cosí di lui come di me. Quel mio scatto, quella mia
domanda a bruciapelo, che per lei sintende - erano stati uno scatto e una
domanda del suo Gengè; e del tutto incomprensibili come di lui, se non a patto che
Quantorzo lí presente e il signor Firbo avessero commesso qualche mancanza cosí enorme
da renderlo ora, Dio mio, proprio irriconoscibile il suo Gengè, di fronte al momentaneo
smarrimento di Quantorzo; quello scatto, dico, e quella domanda avevano avuto l'effetto di
farla dubitare piú che mai della posata assennatezza di quel suo rispettabile Quantorzo.
E cosí palesemente esprimeva con gli occhi questo dubbio, che Quantorzo, appena pensò di
rivolgersi anche a lei, in quel tentativo di disdirsi col suo mezzo sorriso, piú che piú
si smarrí, avvertendo subito che gli mancava accanto una certezza di consenso, su cui
finora aveva creduto di potersi fidare.
Scoppiai a ridere; ma né l'uno né l'altra ne
indovinarono la ragione; fui tentato di gridargliela in faccia, scrollandoli: "Ma
vedete? vedete? E come potete essere allora cosí sicuri se da un minuto all'altro una
minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri?".
«Lascia andare!» troncai con un atto di sdegno, per
significargli che la stima che poteva essersi fatta di me, della mia sanità mentale, non
aveva piú, almeno per il momento, alcuna importanza. «Rispondi a me. Ho visto alla banca
bilance e bilancine. Vi servono per pesare i pegni, è vero? Ma tu, dimmi un pò: tu, tu,
sulla tua coscienza, li hai mai pesati, tu, col peso che possono avere per gli altri,
codesti che chiami gli atti normali della banca?
A questa domanda Quantorzo si guardò di nuovo
attorno, quasi che da altri, oltre che da me, si sentisse ancora, proditoriamente, tirare
fuor di strada.
«Come, sulla mia coscienza?»
«Credi che non c'entri?» ribattei subito. «Eh, lo
so! E forse credi che non c'entri neppure la mia, perché ve l'ho lasciata per tanti anni
alla banca, con tutto l'altro patrimonio, ad amministrare secondo le norme di mio padre.
«Ma la banca...»si provò a obiettare Quantorzo.
Scattai di nuovo:
«La banca... la banca... Non sai veder altro che la
banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell'usurajo!»
A questa uscita inattesa Quantorzo balzò in piedi a
sua volta, come se avessi detto la piú fiera delle bestemmie o la piú madornale delle
bestialità; e, fingendo di scapparsene: «Uh, Dio benedetto!» esclamò con le braccia
levate; e, di nuovo: «Uh, Dio benedetto!» ritornando indietro, con la testa tra le mani
e guardando mia moglie, come per dirle: "Ma sente, ma sente che bambinate? E io che
supponevo che avesse da dirmi una cosa seria!". M'afferrò per le braccia, forse per
scuotermi dallo sbalordimento che a mia volta m'aveva cagionato istintivamente quella sua
mimica furiosa e mi gridò:
«Ma ti dai sul serio pensiero di questo? Eh via! eh
via!»
E per prendersi la rivincita m'additò in prova a mia
moglie che rideva, ah rideva, si buttava via dalle risa, certo per quello che avevo detto,
ma forsanche per l'effetto di quelle mie parole su Quantorzo, nonché per lo
sbalordimento che n'era seguito in me e che senza dubbio ridestava in lei finalmente la
piú lampante immagine della nota e cara sciocchezza del suo Gengè.»
Ebbene, da quella risata mi sentii ferire
all'improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento,
nell'animo con cui un pò m'ero messo e un pò lasciato andare a quella discussione:
ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse;
tanto finora m'era apparso chiaro chio alla presenza di quei due, io come io, non ci
fossi, e ci fossero invece il "Gengè" dell'una e il "caro
Vitangelo"dell'altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.
Fuori d'ogni immagine in cui potessi rappresentarmi
vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d'ogni immagine di me quale mi
figuravo potesse essere per gli altri; un "punto vivo" in me s'era sentito
ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.
«Finiscila di ridere!» gridai, ma con tal voce, a
mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d'un tratto
ammutolí, scontraffacendosi tutta.
«E tu stai bene attento a quello che ti dico,»
soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera
stessa.»
«Chiusa? Che dici?»
«Chiusa! chiusa!» ribattei, facendomegli addosso.
«Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sí o no?»
«No, caro! Che padrone!» insorse. «Non sei mica tu
solo il padrone.»
«E chi altri? tu? il signor Firbo?»
«Ma tuo suocero, ma tanti altri!»
«Però la banca porta soltanto il mio nome.»
«No, di tuo padre che la fondò!»
«Ebbene, voglio che sia levato!»
«Ma che levato! Non è possibile!»
«Oh guarda un pò. Non sono padrone del mio nome?
del nome di mio padre?»
«No, perché è negli atti di costituzione della
banca, quel nome; è il nome della banca: creatura di tuo padre, tal quale come te! E ne
porta il nome con lo stesso stessissimo tuo diritto!»
«Ah è cosí.»
«Cosí, cosí!»
«E il danaro? Quello che mio padre ci mise, di
suo?»
«Ha investito nelle operazioni della banca.»
«E se io non voglio piú? Se voglio ritirarlo per
investirlo altrimenti, a piacer mio, non sono padrone?»
«Ma tu cosí butti all'aria la banca!»
«E che vuoi che me n'importi? Non voglio più
saperne, ti dico!»
«Ma importa agli altri, se permetti! Tu rovini gli
interessi degli altri, i tuoi stessi, quelli di tua moglie, di tuo suocero!»
«Nient'affatto! Gli altri facciano quello che
vogliono: séguitino a tenerci il loro: io ritiro il mio.»
«Vorresti mettere dunque in liquidazione la banca?»
«So un corno io di queste cose! So che voglio,
"voglio" capisci? voglio ritirare i miei denari, e basta cosí!»
Vedo bene adesso che questi violenti diverbii, cosí
a botta e risposta, sono veri e proprii pugilati tra due avverse volontà che cercano
d'accopparsi a vicenda, colpendo, parando, ribattendo, sicura ciascuna che il colpo
assestato debba atterrare l'altra; fin tanto che all'una e all'altra non venga dalla
resistente durezza d'ogni ribattuta avversaria la prova sempre piú convincente che
inutile è insistere poiché l'altra non cede. E la piú ridicola figura l'hanno fatta
intanto i pugni veri levandosi istintivamente ad accompagnare irosi quelli parlati, o
meglio, urlati, proprio fino all'altezza del grugno avversario ma senza toccarlo, e i
denti che si serrano e i nasi che sarricciano e le ciglia che saggrottano e
tutta la persona che freme.
Con l'ultima scarica di quei tre "voglio",
"voglio", "voglio" dovevo aver bene ammaccata la resistenza di
Quantorzo. Gli vidi congiungere le mani in atto di preghiera:
«Ma si può sapere almeno perché? Cosí da un
momento all'altro?»
Ebbi, vedendolo in quell'atto, come una vertigine.
D'improvviso avvertii che spiegare lí per lí a lui e a mia moglie che pendevano da me,
luno supplichevole e l'altra ansiosa e spaventata, i motivi di quella mia testarda
risoluzione, di tanta gravità per tutti, non mi sarebbe stato possibile. Quei motivi, che
pur sentivo in me aggrovigliati in quel momento e sottili e contorti dai lunghi spasimi
delle mie tante meditazioni, non erano piú chiari del resto neanche a me stesso,
strappato dalla concitazione dell'ira a quella terribile fissità di luce che folgorava
tetra da quanto avevo cosí solitariamente scoperto: tenebra per tutti gli altri che
vivevano ciechi e sicuri nella pienezza abituale dei loro sentimenti. Avvertii subito che,
a svelarne appena appena uno solo, sarei parso irremissibilmente pazzo all'uno e
all'altra: che, per esempio, non mero mai veduto fino a poco tempo addietro
com'essi mi avevano sempre veduto, cioè uno che vivesse tranquillo e svagato sull'usura
di quella banca, pur senza doverla riconoscere apertamente. L'avevo appena appena
riconosciuto in loro presenza, ed ecco che all'uno e all'altra era sembrata un'ingenuità
cosí inverosimile da suscitare nell'uno quella comica furiosa mimica e nell'altra
quell'interminabile risata. E come dunque dir loro che su questa "ingenuità"
appunto, ai loro occhi quasi incredibile, io fondavo tutto il peso di quella risoluzione?
Ma se usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi? Non m'ero visto io
stesso sulla strada maestra della pazzia incamminato a compiere un atto che agli occhi di
tutti doveva apparire appunto contrario a me stesso e incoerente, ponendo fuori di me la
mia volontà, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca? Non avevo io stesso riconosciuto
che il signor usurajo Vitangelo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva in alcun
modo distruggere?
Ebbene, ma questo, proprio questo, era il "punto
vivo" ferito in me, che m'accecava e mi toglieva in quel momento la comprensione di
tutto: che usurajo no, quell'usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo piú
essere neanche per gli altri e non sarei piú stato, anche a costo della rovina di tutte
le condizioni della mia vita. Ed era finalmente in me un sentimento, questo, ben cementato
dalla volontà che mi dava (benché lo avvertissi fin d'allora con una certa apprensione e
diffidenza) la stessa consistente solidità degli altri sorda e chiusa in sé come una
pietra. Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento,
scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di
comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò
questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e
scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:
«Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non
sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come
voglio sarà fatto!»
Mi voltai a Quantorzo.
«Hai capito?»
E uscii, furioso, dal salotto.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000