Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO QUARTO
Dico "erano"; ma forse
sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non
ho piú mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov'essi si fingono d'essere. So di
certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:
«Tu sei Marco di Dio?»
E lui mi risponderebbe:
«Sí. Marco di Dio.»
«E cammini per questa via?
«Sí. Per questa via.»
«E codesta è tua moglie Diamante?»
«Sí. Mia moglie Diamante.»
«E questa via si chiama cosí e cosí?»
«Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse,
tanti lampioni,e via discorrendo.»
Come in una grammatica d'Orlendorf.
Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi,
per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui
potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che
bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.
L'eternità sè sprofondata per me, non tra
questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l'altro. E il mondo in cui vivevo allora
mi pare piú lontano della piú lontana stella del cielo.
Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due
sciagurati, a cui però la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile
ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall'altro poi persuadeva ancora di
non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco ogni giorno che
bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall'oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i
come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati.
Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli
dire cosí. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non
m'era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si
chiama la regolarità delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si
potesse diventare milionari dall'oggi al domani. Ma se questo, chè stato già
dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse
spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità
per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che
realmente si possa da un giorno all'altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata
regolarità delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o
verosimili per chi viva fuori d'ogni regola, come appunto quell'uomo lí.
Si credeva inventore.
E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli
occhi, inventa una cosa, e là: diventa milionario!
Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena
venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d'uno dei
nostri piú reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare
con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello
per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d'arte, divenne famoso sotto il
titolo Satiro e fanciullo.
Aveva potuto l'artista tradurre senza danno nella
creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne
lode.
Il delitto era nella creta.
Non sospettò il maestro che in quel suo scolaro
potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla
creta ov'era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piú
lodevole, mentre, oppresso dall'afa d'un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare
nel marmo quel gruppo.
Il fanciullo vero non volle avere la sorridente
docilità che il finto dava a vedere nella creta; gridò aiuto; accorse gente; e Marco di
Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d'improvviso in quel momento
d'afa.
Ora, siamo giusti: bestia, sí; schifosissima, in
quell'atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piú forse Marco di Dio
anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarò d'aver sempre conosciuto nel suo
sbozzatore?
So che offendo con questa domanda la vostra
moralità. Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio poté sorgere una tale tentazione
è segno evidente chegli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. Potrei
farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piú turpi) sono pur piene
le vite dei santi. I santi le attribuivano alle demonia e con l'aiuto di Dio,
potevano vincerle. Cosí anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono
di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all'improvviso
il ladro o l'assassino. L'oppressione dell'afa d'un pomeriggio estivo non è mai riuscita
a liquefare la crosta della vostra abituale probità né ad accendere in voi
momentaneamente la bestia originaria. Potete condannare.
Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la
cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione?
«Volgarità!» esclamate. «Non era piú, allora,
Giulio Cesare. Lo ammiriamo là dove Giulio Cesare era veramente lui.»
Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui
soltanto là dove voi l'ammirate, quando non era piú là, dov'era? chi era? nessuno, uno
qualunque? e chi?
Bisognerà domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a
Nicomede re di Bitinia.
Batti e batti, alla fine v'è entrato in mente anche
questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sí, un Giulio Cesare qual egli,
in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore
incomparabilmente più grande degli altri; non però quanto a realtà, vi prego di credere
perché non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto
raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di
Nicomede re di Bitinia.
Il guajo è questo, sempre, signori: che dovevano
tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di
sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser
femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come poté, innaturalmente
lo fu, e impudicissima e anche piú volte recidiva.
Il satiro in quel povero Marco di Dio scappò fuori,
a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in
quell'atto d'un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere
considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piú bislacchi
disegni per sollevarsi dall'ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una
donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte.
Diceva da una decina d'anni che sarebbe partito per
l'Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni?
Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per
l'Inghilterra la settimana ventura. E studiava l'inglese. O almeno, da anni teneva sotto
il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché
quelle due pagine dell'apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca
erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite.
Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva
di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la
maturità:
«Is Jane a happy child?»
E la moglie rispondeva pronta e seria:
«Yes, Jane is a happy child.»
Perché anche la moglie la settimana ventura sarebbe
partita per l'Inghilterra con lui.
Era uno sgomento, e insieme una pietà, questo
spettacolo d'una donna, com'egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna
fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall'oggi al domani con
un'invenzione, per esempio, di "cessi inodori per paesi senz'acqua nelle case".
Ridete? La loro serietà era cosí truce per questo; dico, perché tutti ne ridevano. Era
anzi feroce. E tanto piú feroce diventava quanto piú crescevano, attorno ad essa, le
risa.
E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno
per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anziché
compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d'odio.
Perché la derisione degli altri era ormai l'aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta
la derisione, rischiavano di soffocare.
Mi spiego perciò come per loro il peggior nemico
fosse stato mio padre.
Non si permetteva infatti solamente con me mio padre
quel lusso di bontà di cui ho parlato piú sú. Si compiaceva anche d'agevolare, con
munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide
illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro
infelicità di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la
ricchezza!
«Quanto?» domandava mio padre.
Oh, poco. Perché era sempe poco ciò che bastava a
costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.
«Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco...»
«Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso,
proprio...»
«Quanto?»
«Oh, poco!»
E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto,
basta. E quelli allora, com'è facile intendere, non gli restavano grati del non aver
voluto godere beffardamente fin all'ultimo della loro totale disillusione e del potere
attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E
nessuno con più accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.
Il piú accanito di tutti era stato questo Marco di
Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio
feroce. Non senza ragione, perché anchio, quasi a mia insaputa, seguitavo a
beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietà, di cui né Firbo
né Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi
diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.
Totale, perché bastò muovere in
me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei
centomila in cui vivevo, perché salterassero in centomila modi diversi tutte le
altre mie realtà.
E per forza questo giuoco, se considerate bene,
doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest'orrore: la coscienza della pazzia,
fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d'aprile, e lucida e precisa
come uno specchio.
Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento,
andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi
cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell'ombra di
me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il
cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla
viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé
nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva
anche essere ed era di quell'ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in
centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor
Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro
(scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d'ammiccare cosí,
perché, non potendo sapere come v'appaio in questo momento, tiro anche, con questi
ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e
incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse
cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?
Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d'un
simile atto non poteva esser quella che m'immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a
tutti, dopo:
«Vedete adesso, signori, che non è vero niente che
io sia quell'usurajo che voi volete vedere in me?»
Ma quest'altra, invece: che tutti dovessero
esclamare, sbigottiti:
«O oh! sapete? l'usurajo Moscarda è impazzito!»
Perché l'usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma
non si poteva distruggere cosí d'un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non
era un'ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l'usurajo Moscarda: un signore era da
trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il
fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che
gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore,
insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti
gli altri Moscarda chio ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo
Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo
giocato.
Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come
vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la
vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via
della salute.
Ma non anticipiamo.
Mi recai dapprima nello studio del
notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati
di fatto) a dí... dell'anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e
volontà della nazione re d'Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso,
al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cavalier Elpidio,
danni 52 o 53.
«Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il
notaro Stampa?»
Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare.
Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio,
in uno stato d'animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo,
scusate, se vi pare ancora la cosa piú naturale del mondo entrare nello studio d'un
notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro
Stampa?
Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio
primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sí o no, questo esperimento con
me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica
naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piú consuete e
normali, e sotto la quieta apparenza della cosí detta realtà delle cose? Lo scherzo,
santo Dio, per cui pure v'accade d'arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare
allamico che vi sta accanto:
«Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?»
E quello no, non lo vede, perché vede un'altra cosa
lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come
pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
Questo scherzo, io dico; com'io già lo avevo
penetrato.
Ora entravo io quello studio, carico di tutte le
riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere
dentro, insieme in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere cosí, in una lucida
fissità, in una quasi immobile rigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi
veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino quel signor notaro
Stampa, senza il minimo sospetto chio potessi per me non essere quale mi vedeva lui,
e sicurissimo d'esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell'annodarsi la
cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno.
Capite adesso? Mi veniva d'ammiccare, d'ammiccare
anche di lui, per significargli furbescamente "Bada sotto! Bada sotto!".
Mi veniva anche, Dio mio di cacciar fuori all'improvviso la lingua, di smuovere il naso
con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, cosí per gioco e senza malizia,
quell'immagine di me chegli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sú, serio.
Dovevo far l'esperimento.
«Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei
sta sempre sprofondato in questo silenzio?»
Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:
«Silenzio. Dove?»
Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un
continuo transito di gente e di vetture.
«Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte
queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?
Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese
l'orecchio:
«Che sento?»
«Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le
zampine lí del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine e raspando su lo
zinco della gabbia...»
«Già. Sí. Ma che vuol dire?»
«Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco,
signor notaro?»
«Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l'avverto...»
Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le
gracili zampine d'un canarino, nello studio d'un notaro... Ci scommetto che non canta,
questo canarino.»
«Nossignore, non canta.»
Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor
notaro che stimai prudente lasciar lí il canarino per non compromettere l'esperimento; il
quale, almeno in principio, e segnatamente lí, alla presenza del notaro aveva bisogno che
nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse
d'una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d'un certo tale signor
Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda...
«E non è lei?»
«Già, io sí. Sarei io...»
Era cosí bello peccato! in quello studio di notaro,
tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali polverosi, parlare cosí,
come a una distanza di secoli, d'una certa casa di pertinenza d'un certo tal Moscarda
Vitangelo... Tanto piú che, sí, ero io lí; presente e stipulante, in quello studio di
notaro ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che
odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov'era, nel mondo
del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana e io, io, nel
mondo del signor notaro, chi sa come curioso...
Ah, il piacere della storia, signori! Nulla piú
riposante della storia. Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di
certo; e quest'ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come
si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione! Tutto
determinato, tutto stabilito, all'incontro, nella storia: per quanto dolorose le vicende e
tristi i casi, eccoli lí, ordinati, almeno, fissati in trenta, quaranta paginette di
libro: quelli, e lí; che non cangeranno mai piú almeno fino a tanto che un malvagio
spirito critico non avrà la mala contentezza di buttare all'aria quella costruzione
ideale, ove tutti gli elementi si tenevano a vicenda cosí bene congegnati, e voi vi
riposavate ammirando come ogni effetto seguiva obbediente alla sua causa con perfetta
logica e ogni avvenimento si svolgeva preciso e coerente in ogni suo particolare, col
signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale, ecc. ecc.
Per non guastare tutto, dovetti ricondurmi alla
sospesa, temporanea e costernata realtà del signor notaro Stampa.
«Io, già,» m'affrettai a dirgli. «Sarei io,
signor notaro. E la casa, lei non ha difficoltà, è vero? ad ammettere che è mia, come
tutta l'eredità del fu Francesco Antonio Moscarda mio padre. Già! E che è sfitta adesso
questa casa, signor notaro. Oh piccola, sa... Saranno cinque o sei stanze, con due corpi
bassi - si dice cosí? - Belli, i corpi bassi... Sfitta dunque, signor notaro; da poterne
disporre a piacer mio. Ora dunque lei...»
E qui mi chinai e a bassa voce, con molta serietà,
confidai al signor notaro l'atto che intendevo fare e che qui, per ora, non posso
riferire, perché - gli dissi:
«Deve restare tra me e lei, signor notaro, sotto il
segreto professionale, fintanto che parrà a me. Siamo intesi?»
Intesi. Ma il signor notaro mi avvertí che per fare
quell'atto gli bisognavano alcuni dati e documenti per cui mi toccava andare al banco, da
Quantorzo. Mi sentii contrariato; tuttavia m'alzai. Come mi mossi, una maledetta voglia mi
sorse di domandare al signor notaro:
«Come cammino? Scusi: mi sappia dire almeno come mi
vede camminare!»
Mi trattenni a stento. Ma non potei fare a meno di
voltarmi, nell'aprir l'uscio a vetri, e di dirgli con un sorriso di compassione:
«Già, col mio passo, grazie!»
«Come dice?» domandò, stordito, il signor notaro.
«Ah, niente, dico che me ne vado col mio passo,
signor notaro. Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il
cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso a un cavallo per vederlo ridere, e poi
viene a dirmi che non l'ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso!
Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il
cavallo camminando ride con le natiche, sí, alle volte, di certe cose che vede o che gli
passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si
stia bene!»
Capisco che non c'entrava dirgli cosí. Capisco tutto
io. Ma se mi rimetto nelle condizioni d'animo in cui mi trovavo allora, che a vedermi
addosso gli occhi della gente mi pareva di sottostare a un'orribile sopraffazione pensando
che tutti quegli occhi mi davano un'immagine che non era certo quella che io mi conoscevo
ma un'altra che io non potevo né conoscere né impedire; altro che dirle, mi veniva di
farle, di farle, le pazzie, come rotolarmi per le strade o sorvolarle a passo di ballo,
ammiccando di qua, cacciando fuori la lingua e facendo sberleffi di là... E invece andavo
cosí serio, cosí serio, io, per via. E anche voi, che bellezza, andate tutti cosí
serii...
Mi toccò dunque andare al banco
per quelle carte della casa di cui aveva bisogno il signor notaro.
Erano mie quelle carte, senza dubbio, poiché mia era
la casa, e potevo disporne. Ma se ci pensate bene, quelle carte, benché mie, non avrei
potuto averle se non di furto o strappandole di mano con violenza pazzesca a un altro che
agli occhi di tutti n'era il legittimo proprietario: voglio dire al signor usurajo
Vitangelo Moscarda.
Per me, questo, era evidente, perché io lo vedevo
bene fuori, vivo negli altri e non in me, quel signor usurajo Vitangelo Moscarda. Ma per
gli altri che in me non vedevano invece se non quell'usurajo per gli altri io, là al
banco, andavo a rubarle a me stesso quelle carte o a strapparmele di mano pazzescamente.
Potevo dir forse che non ero io? o che io ero un
altro? Né era in nessun modo da ragionare un atto che agli occhi di tutti voleva appunto
apparire contrario a me stesso e incoerente.
Seguitavo a camminare, come vedete, con perfetta
coscienza su la strada maestra della pazzia, che era la strada appunto della mia realtà,
quale mi s'era ormai lucidissimamente aperta davanti, con tutte le immagini di me, vive,
specchiate e procedenti meco.
Ma io ero pazzo perché ne avevo appunto questa
precisa e specchiante coscienza, voi che pur camminate per questa medesima strada senza
volervene accorgere, voi siete savii, e tanto piú quanto piú forte gridate a chi vi
cammina accanto:
«Io, questo? io, cosí? Tu sei cieco! tu sei
pazzo!»
Il furto, intanto, non era
possibile, almeno lí per lí. Non sapevo dove stessero quelle carte. L'ultimo dei
subalterni di Quantorzo o di Firbo era in quella banca piú padrone di me. Quando vi
entravo, invitato per la firma, gl'impiegati non alzavano nemmeno gli occhi dai loro
registri, e se qualcuno mi guardava, chiarissimamente con lo sguardo dimostrava di non
tenermi in nessun conto.
Eppure lí lavoravano tutti con tanto zelo per me,
per ribadire sempre piú con quel loro assiduo lavoro il tristo concetto che in paese si
aveva di me, chio fossi un usurajo. E a nessuno passava per il capo chio
potessi di quel loro zelo, non che esser grato e disposto a compiacerli della mia lode,
sentirmi offeso.
Ah che rigido e attediato squallore in quella banca!
Tutti quei tramezzi vetrati che correvano lungo i tre stanzoni in fila, tramezzi di vetro
diacciato, con cinque sportellini gialli in ciascuno, come gialla era la cornice e gialla
l'intelaiatura delle ampie lastre; e qua e là macchie d'inchiostro, qua e là qualche
striscia di carta incollata sulla rottura d'una lastra; e il pavimento di vecchi mattoni
di terracotta, strusciato in mezzo, lungo la fila dei tre stanzoni; strusciato davanti a
ogni sportellino: triste corridojo, con quei vetri dei tramezzi di qua e i vetri delle due
ampie finestre di là, per ogni stanzone, impolverati; e quelle filze di cifre nei muri, a
penna, a lapis, sopra i tavolini sporchi d'inchiostro, tra una finestra e l'altra, sotto
le cornici scrostate di certe telacce affumicate qua e là gonfie e polverose, appese lí;
e un tanfo di vecchio da per tutto, misto con quello acre della carta dei registri e con
quellalido esalante da un forno giú a pianterreno. E la malinconia disperata di
quelle poche seggiole d'antica foggia, presso i tavolini, su cui nessuno sedeva, che tutti
scostavano e lasciavano lí, fuori di posto, dove e come per quelle povere seggiole
inutili era certo un'offesa e una pena esser lasciate.
Tante volte, entrando, m'era venuto di far notare:
«Ma perché queste seggiole? Che condanna è la
loro, di stare qua, se nessuno se ne serve?
Me n'ero trattenuto, non già perché avessi
avvertito a tempo che in un luogo come quello la pietà per le seggiole avrebbe fatto
strabiliare tutti e rischiavo forsanche d'apparir cinico: me n'ero trattenuto,
avvertendo invece che avrei fatto ridere di me per quel badare a una cosa che certamente
sarebbe sembrata stravagante a chi sapeva quanto poco badassi agli affari.
Quel giorno, entrando, trovai i commessi affollati
nell'ultimo stanzone, che si squaccheravano di tanto in tanto in risate assistendo a un
diverbio tra Stefano Firbo e un certo Turolla, burlato da tutti anche per il modo con cui
si vestiva.
Una giacca lunga, diceva quel povero Turolla, a lui
cosí corto, lo avrebbe fatto sembrare piú corto. E diceva bene. Ma non saccorgeva
intanto, cosí tracagnotto e serio serio, con quei mustacchioni da brigadiere, come gli
stava ridicola di dietro la giacchettina accorciata, che gli scopriva le natiche sode.
Ora lí lí per piangere, avvilito, congestionato,
frustato dalle risate dei colleghi, alzava un braccino e badava a dire a Firbo:
«Oh Dio, come le piglia lei le parole!»
Firbo gli era sopra e gli gridava in faccia,
scrollandolo furiosamente per quel braccio levato:
«Ma che conosci? che conosci? tu neanche lo conosci;
eppure ti somiglia!»
Come venni a sapere che si trattava di un tale che
aveva chiesto un prestito alla banca, presentato appunto dal Turolla che diceva di
conoscerlo per un brav'uomo, mentre Firbo sosteneva il contrario, mi sentii stravolgere da
un impeto di ribellione.
Ignorando la tortura segreta del mio spirito, nessuno
poté intenderne la ragione, e tutti restarono quasi basiti quand'io, strappando indietro
due o tre di quei commessi:
«E tu?» gridai a Firbo, «che conosci tu? con qual
diritto vuoi importi cosí a un altro?»
Firbo si voltò sbalordito a guardarmi e, quasi non
credendo a se stesso nel vedermi cosí addosso, gridò:
«Sei pazzo?»
Mi venne, non so come, di buttargli in faccia una
risposta ingegnosa, che agghiacciò tutti:
«Sí; come tua moglie, che ti conviene tener chiusa
al manicomio!»
Mi si parò davanti pallido e convulso:
«Com'hai detto? Mi conviene?»
Diedi una spallata e seccato dello sgomento che
teneva tutti e, nello stesso tempo, entro di me come improvvisamente assordito dalla
coscienza dell'inopportunità di quella mia intromissione, gli risposi piano, per
troncare:
«Ma sí, lo sai bene.»
E non potei udire, come se dopo queste parole fossi
diventato subito, non so, di pietra, ciò che Firbo mi gridò tra i denti prima di scappar
via sulle furie. So che sorridevo mentre Quantorzo, sopravvenuto all'alterco, mi
trascinava via con sé nella stanzetta della direzione. Sorridevo per dimostrare che di
quella violenza non c'era piú bisogno e che tutto era finito, quantunque sentissi bene in
me, che in quel momento, pur mentre sorridevo, avrei potuto uccidere qualcuno, tanto la
concitata severità di Quantorzo mi irritava. Nella stanzetta della direzione mi misi a
guardare intorno, stupito io stesso che lo strano stordimento in cui ero cosí di colpo
caduto non m'impedisse di percepire lucidamente e precisamente le cose, fin quasi ad avere
la tentazione di riderne, uscendo apposta, tra quella fiera riprensione che Quantorzo mi
dava, in qualche domanda di curiosità infantile su questo o quell'oggetto della stanza. E
intanto, non so, quasi automaticamente pensavo che a Stefano Firbo, da piccolo, avevano
dato i bottoni alla schiena e che sebbene la gobba non gli si vedesse, tutta la cassa del
corpo era però da gobbo: eh sí, su quelle esili e lunghe zampe da uccello: ma elegante;
sí sí: un falso gobbo elegante; ben riuscito.
E, cosí pensando, mi parve chiaro tutt'a un tratto
chegli dovesse valersi della sua non comune intelligenza per vendicarsi contro tutti
coloro che, da piccoli, non avevano avuto come lui i bottoni alla schiena.
Pensavo queste cose, ripeto, come se le pensasse un
altro in me, quello che d'improvviso era diventato cosí stranamente freddo e svagato, non
tanto per opporre a difesa, se occorresse, quella freddezza, quanto per rappresentare una
parte, dietro la quale mi conveniva tenere ancora nascosto ciò che della spaventosa
verità, che già mi sera chiarita, m'avveniva sempre piú di scoprire:
"Ma sí! è qui tutto," pensavo, "in
questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se
fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi
se non come li vede lui."
Mi ritornavano davanti agli occhi le stupide facce di
tutti quei commessi, e seguitavo a pensare:
"Ma sí! Ma sí! Che realtà può essere quella
che la maggioranza degli uomini riesce a costituire in sé? Misera, labile, incerta. E i
sopraffattori, ecco, ne approfittano! O piuttosto, silludono di poterne profittare,
facendo subire o accettare quel senso e quel valore chessi dànno a se stessi, agli
altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo
loro."
Mi levai da sedere; m'avvicinai alla finestra con un
gran refrigerio; poi mi voltai verso Quantorzo che, interrotto nel meglio del suo
discorso, stava a guardarmi con tanto d'occhi; e, seguitando il pensiero che mi torturava,
dissi:
«Ma che! ma che! silludono!»
«Chi sillude?»
«Quelli che vogliono sopraffare il signor Firbo, per
esempio! Silludono perché in verità poi, caro mio, non riescono a imporre altro
che parole. Parole, capisci. parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si
formano pure cosí le cosiddette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi
bollato da una di queste parole che tutti ripetono. Per esempio: usurajo! Per
esempio: pazzo! Ma di un po': come si può star quieti a pensare che c'è uno
che saffanna a persuadere agli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella
stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti
vedano e ti giudichino altrimenti?
Ebbi appena il tempo di notare lo sbalordimento di
Quantorzo, che mi rividi davanti Stefano Firbo. Gli scorsi subito negli occhi che m'era
diventato in pochi istanti nemico. E nemico subito anchio, allora; nemico, perché
non capiva che, se crude erano state le mie parole, il sentimento che poc'anzi aveva fatto
impeto in me, non era contro di lui direttamente; tanto vero che di quelle parole ero
pronto a chiedergli scusa. Già come ubriaco, feci di piú. Com'egli, venendomi a petto,
torbido e minaccioso, mi disse:
«Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto
per mia moglie!»
M'inginocchiai.
«Ma sí! Guarda!» gli gridai, «cosí!»
E toccai con la fronte il pavimento.
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio,
chegli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai
ridendo, e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte.
«Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci?
dovresti star cosí! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai cosí detti pazzi, cosí!»
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli
occhi, spaventati. L'uno domandò all'altro:
«Ma che dice?»
«Parole nuove!» gridai. «Volete ascoltarle?
Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete
chiusi perché cosí vi conviene!»
Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo
scrollai, ridendo:
«Capisci, Stefano? Non ce l'ho mica soltanto con te!
Tu ti sei offeso. No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un
ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno
può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati.
Vorrei sapere perché!»
Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a
chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse:
«Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva
crederlo!»
«Ah no, caro!» gli gridai. «Guardami bene negli
occhi!»
«Che intendi dire?»
«Guardami negli occhi!» gli ripetei. «Non dico che
sia vero! Stai tranquillo.»
Si sforzò a guardarmi, smorendo.
«Lo vedi?» gli gridai allora, «lo vedi? tu stesso!
lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!»
«Ma perché mi stai sembrando pazzo!» mi urlò in
faccia, esasperato.
Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza
potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt'e
due.
M'arrestai d'un tratto, spaventato a mia volta dagli
occhi con cui mi guardavano. Quel che avevo fatto, quel che dicevo non aveva certo né
ragione né senso per loro. Per ripigliarmi, dissi bruscamente:
«Alle corte. Ero venuto qua, oggi, per domandarvi
conto d'un certo Marco di Dio. Vorrei sapere com'è che costui da anni non paga piú la
pigione, e ancora non gli si fanno gli atti per cacciarlo via. »
Non m'aspettavo di vederli cascare, a questa domanda,
in un piú grande stupore. Si guardarono come per trovare ciascuno nella vista dell'altro
un sostegno che li aiutasse a sorreggere l'impressione che ricevevano di me, o piuttosto,
d'un essere sconosciuto che insospettatamente scoprivano in me all'improvviso.
«Ma che dici? che discorsi fai?» domandò
Quantorzo.»
«Non vi raccapezzate? Marco di Dio. Paga o non paga
la pigione?»
Seguitarono a guardarsi a bocca aperta. Scoppiai di
nuovo a ridere; poi d'un tratto mi feci serio e dissi come a un altro che mi stésse di
fronte, spuntato lí per lí davanti a loro:
«Quando mai tu ti sei occupato di codeste cose?»
Piú che mai stupiti, quasi atterriti, rivolsero gli
occhi a cercare in me chi aveva proferito le parole chessi avevano pensato e che
stavano per dirmi. Ma come! Le avevo dette io?
«Sí» seguitai, serio. «Tu sai bene che tuo padre
lo lasciò lí per tanti anni senza molestarlo, questo Marco di Dio. Come t'è venuto in
mente, adesso?»
Posai una mano su la spalla di Quantorzo e con
un'altr'aria, non meno seria, ma gravata d'un'angosciosa stanchezza, soggiunsi:
«T'avverto, caro mio, che non sono mio padre.»
Poi mi voltai a Firbo e, posandogli l'altra mano
sulla spalla:
«Voglio che tu gli faccia subito gli atti. Lo
sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io. Voglio poi l'elenco delle mie case
con gli incartamenti di ciascuna. Dove sono?» Parole chiare. Domande precise. Marco di
Dio. Lo sfratto. L'elenco delle case. Gl'incartamenti. Ebbene, non mi capivano. Mi
guardavano come due insensati. E dovetti ripetere piú volte quel che volevo e farmi
condurre allo scaffale dove si trovava l'incartamento di quella casa che bisognava al
notaro Stampa. Quando fui nello stanzino ov'era quello scaffale, presi per le braccia
Firbo e Quantorzo, che mi avevano condotto lí come due automi, e li misi fuori,
richiudendo l'uscio alle loro spalle.
Sono sicuro che dietro quell'uscio rimasero ancora un
pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all'altro:
«Dev'essersi impazzito!»
Quello scaffale, appena fui solo,
mi occupò subito, come un incubo. Proprio come viva per sé ne avvertii la presenza
ingombrante, d'antico inviolato custode di tutti gli incartamenti di cui era gravido,
cosí vecchio, pesante e tarlato.
Lo guardai, e subito mi guardai attorno, con gli
occhi bassi.
La finestra; una vecchia seggiola impagliata; un
tavolino ancora piú vecchio, nudo, nero e coperto di polvere; non c'era altro lí dentro.
E la luce filtrava squallida dai vetri cosí
intonacati di ruggine e polverosi, che lasciavano trasparire appena le sbarre
dell'inferriata e i primi tegoli sanguigni d'un tetto, su cui la finestra guardava i
tegoli di quel tetto, il legno verniciato di quelle imposte di finestra, quei vetri per
quanto sudici: immobile calma delle cose inanimate.
E pensai all'improvviso che le mani di mio padre
serano levate cariche d'anelli lí dentro a prendere gl'incartamenti dai palchetti
di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i
peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e
maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.
Allora, con raccapriccio, a cancellare lo spettro di
quelle mani, emerse ai miei occhi e si impose lí, solido, il volume del mio corpo vestito
di nero; sentii il respiro affrettato di questo corpo entrato lí per rubare; e la vista
delle mie mani che aprivano gli sportelli di quello scaffale mi diede un brivido alla
schiena. Serrai i denti; mi scrollai; pensai con rabbia:
«Dove sarà, tra tanti incartamenti, quello che mi
serve?»
E tanto per far subito qualche cosa, cominciai a
tirar giú a bracciate i fascicoli e a buttarli sul tavolino. A un certo punto le braccia
mi sindolenzirono, e non seppi se dovessi piangerne o riderne. Non era uno scherzo
quel rubare a me stesso?
Tornai a guardarmi intorno, perché improvvisamente
non mi sentii piú, là dentro, sicuro di me. Stavo per compiere un atto. Ma ero io? Mi
risalí l'idea che fossero entrati lí tutti gli estranei inseparabili da me, e che
stéssi a commettere quel furto con mani non mie.
Me le guardai.
Sí: erano quelle che io mi conoscevo. Ma
appartenevano forse soltanto a me?
Me le nascosi subito dietro la schiena; e poi, come
se non bastasse, serrai gli occhi.
Mi sentii in quel bujo una volontà che si smarriva
fuori d'ogni precisa consistenza; e n'ebbi un tale orrore, che fui per venir meno anche
col corpo; protesi istintivamente una mano per sorreggermi al tavolino; sbarrai gli occhi:
«Ma sí! ma sí!» dissi. «Senza nessuna logica!
senza nessuna logica! cosí!»
E mi diedi a cercare tra quelle carte.
Quanto cercai? Non so. So che quella rabbia di nuovo
cedette a un certo punto, e che una piú disperata stanchezza mi vinse, ritrovandomi
seduto sulla seggiola davanti a quel tavolino, tutto ormai ingombro di carte
ammonticchiate, e con un'altra pila di carte io stesso qua sulle ginocchia, che mi
schiacciava. Vi abbandonai la testa e desiderai desderai proprio di morire, se questa
disperazione era entrata in me da non poter piú lasciare di condurre a fine quell'impresa
inaudita.
E ricordo che lí, con la testa appoggiata sulle
carte, tenendo gli occhi chiusi forse a frenar le lagrime, udivo come da una infinita
lontananza, nel vento che doveva essersi levato fuori, il lamentoso chioccolare d'una
gallina che aveva fatto l'uovo e che quel chioccolío mi richiamò a una mia campagna,
dove non ero piú stato fin dall'infanzia; se non che, vicino, di tratto in tratto,
m'irritava lo scricchiolío dell'imposta della finestra urtata dal vento. Finché due
picchi all'uscio inattesi non mi fecero sobbalzare. Gridai con furore:
«Non mi seccate!»
E subito mi ridiedi a cercare accanitamente.
Quando alla fine trovai il fascicolo con tutti
gl'incartamenti di quella casa, mi sentii come liberato; balzai in piedi esultante, ma
subito dopo mi voltai a guardar l'uscio. Fu cosí rapido questo cangiamento dall'esultanza
al sospetto, che mi vidi - e n'ebbi un brivido. Ladro! Rubavo. Rubavo veramente.
Andavo a mettermi con le spalle contro quell'uscio; mi sbottonavo il panciotto; mi
sbottonavo il petto della camicia e vi cacciavo dentro quel fascicolo chera
abbastanza voluminoso.
Uno scarafaggio non ben sicuro sulle zampe sbucò in
quel punto di sotto lo scaffale, diretto verso la finestra. Vi fui subito sopra col piede
e lo schiacciai.
Col volto strizzato dallo schifo, rimisi alla rinfusa
tutti gli altri incartamenti dentro lo scaffale, e uscii dallo stanzino.
Per fortuna Quantorzo, Firbo e tutti i commessi erano
già andati via; c'era solo il vecchio custode, che non poteva sospettare di nulla.
Provai nondimeno il bisogno di dirgli qualche cosa:
«Pulite per terra là dentro: ho schiacciato uno
scarafaggio.»
E corsi in Via del Crocefisso allo studio del notaro
Stampa.
Ho ancora negli orecchi lo
scroscio dell'acqua che cade da una grondaia presso il fanale non ancora acceso, davanti
alla catapecchia di Marco di Dio, nel vicolo già bujo prima del tramonto; e vedo lí
ferma lungo i muri, per ripararsi dalla pioggia, la gente che assiste allo sfratto e altra
gente che, sotto gli ombrelli, sarresta per curiosità vedendo quella ressa e il
mucchio delle misere suppellettili sgomberate a forza ed esposte alla pioggia lí davanti
alla porta tra le strida della signora Diamante che, di tratto in tratto, scarmigliata,
viene anche alla finestra a scagliare certe sue strane imprecazioni accolte con fischi e
altri rumori sguaiati dai monellacci scalzi i quali senza curarsi della pioggia, ballano
attorno a quel mucchio di miseria, facendo schizzar l'acqua delle pozze addosso ai piú
curiosi, che ne bestemmiano. E i commenti:
«Piú schifoso del padre!»
«Sotto la pioggia, signori miei! Non ha voluto
aspettare neanche domani!»
«Accanirsi cosí contro un povero pazzo!»
«Usurajo! usurajo!»
Perché io sono lí, presente, apposta, allo sfratto,
protetto da un delegato e da due guardie.
«Usurajo! usurajo!»
E ne sorrido. Forse, sí, un pò pallido. Ma pure con
una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l'ugola e mi fa inghiottire.
Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d'attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e
guardo quasi con indolenza smemorata l'architrave della porta di quella catapecchia, per
isolarmi un po' in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe
venire in mente d'alzar gli occhi per il piacere d'accertarsi che quello è un malinconico
architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco
scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno
d'arrossire quasi per un'offesa al pudore per conto d'un vecchio orinale sgomberato con
gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lí alla vista di tutti, su un comodino in
mezzo alla strada.
Ma per poco non mi costò caro questo piacere di
alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla
catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non poté tenersi,
e mentre stavo a fissar quell'architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di
sbozzatore. M'avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a
sé. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto
quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e
stava per rivoltarsi contro me, allorché un nero omiciattolo, malandato ma d'aspetto
feroce, giovine di studio del notaro Stampa, montato su di un tavolino là tra il mucchio
delle suppellettili sgomberate in mezzo al vicolo, quasi saltando e con furiosi
gesticolamenti, si mise a urlare:
«Fermi! Fermi! State a sentire! Vengo a nome del
notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov'è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro
Stampa ad avvertirlo che c'è una donazione per lui! Quest'usurajo Moscarda...»
Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa
del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all'altro, agli occhi di tutti. Ma
all'improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere
come scaraventato e disperso di qua e di là a un'esplosione di fischi acutissimi, misti a
urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che
la donazione l'avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
«Morte! Abbasso!» urlava la folla. «Usurajo!
usurajo!»
Istintivamente, avevo alzato le braccia per far segno
d'aspettare - ma mi vidi come in un atto d'implorazione e le riabbassai subito, mentre
quel giovine di studio sul tavolino, sbracciandosi per imporre silenzio, seguitava a
gridare:
«No! No! State a sentire! L'ha fatta lui, L'ha fatta
lui, presso il notaro Stampa, la donazione! La donazione d'una casa a Marco di Dio!
Tutta la folla, allora, trasecolò. Ma io ero quasi
lontano, disilluso, avvilito. Quel silenzio della folla, nondimeno, m'attrasse, come
quando sappicca il fuoco a un mucchio di legna, che per un momento non si vede e non
si ode nulla, e poi qua un tútolo, là una stipa scattano, schizzano, e infine tutta la
fascina crèpita lingueggiando di fiamme tra il fumo:
«Lui?» «Una casa?» «Come?» «Che casa?»
«Silenzio!» «Che dice?» Queste e altrettali domande cominciarono a scattar dalla
folla, propagando rapidamente un vocío sempre piú fitto e confuso, mentre quel giovane
di studio confermava:
«Sí, sí, una casa! la sua casa in Via dei Santi
15. E non basta! Anche la donazione di diecimila lire per l'impianto e gli attrezzi d'un
laboratorio!
Non potei vedere quel che seguí; mi tolsi di
goderne, perché mi premeva in quel momento di correre altrove. Ma seppi di lí a poco
qual godimento avrei avuto, se fossi rimasto.
M'ero nascosto nell'àndito di quella casa in Via dei
Santi, in attesa che Marco di Dio venisse a pigliarne possesso. Arrivava appena, in
quell'àndito, il lume della scala. Quando, seguíto ancora da tutta la folla, egli aprí
la porta di strada con la chiave consegnatagli dal notaro, e mi scorse lí addossato al
muro come uno spettro, per un attimo si scontraffece, arretrando; mi lanciò con gli occhi
atroci uno sguardo, che non dimenticherò mai piú; poi, con un arrangolío da bestia, che
pareva fatto insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso frenetico, e prese a
gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Era lo stesso grido dl tutta la folla lí davanti la
porta:
«Pazzo! Pazzo! Pazzo!»
Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche
per gli altri non essere quello che mi si credeva.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000