Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO TERZO.
Ma voglio dirvi prima, almeno in
succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che
vivevano nei miei piú vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato
finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse ai miei occhi e per mio conto
in un modo d'essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare,
sintende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a
volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d'essere in questo e in quello
dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m'avevano data:
meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
Però ecco: un certo aspetto, un certo senso, un
certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della
veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai
pensato.
Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu
tutt'uno.
Il nome, sia: brutto fino alla
crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né
uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio
nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma
per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero,
indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno - staccato - che si
chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di
me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.
Parlavo con un amico: niente di strano: mi
rispondeva; lo vedevo gestire; aveva la sua solita voce, riconoscevo i suoi soliti gesti;
e anchegli, standomi a sentire se gli parlavo, riconosceva la mia voce e i miei
gesti. Nulla di strano, sí, ma finché io non pensavo che il tono che aveva per me la
voce del mio amico non era affatto lo stesso di quella chegli si conosceva, perché
forse il tono della sua voce egli non se lo conosceva nemmeno, essendo quella, per lui, la
sua voce; e che il suo aspetto era quale io lo vedevo, cioè quello che gli davo io,
guardandolo da fuori, mentre lui, parlando, non aveva davanti alla mente, certo, nessuna
immagine di se stesso, neppur quella che si dava e si riconosceva guardandosi allo
specchio.
Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo
stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che
parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che
aveva un tono di voce e un aspetto chio non mi conoscevo. Ero per il mio amico
quello che egli era per me: un corpo impenetrabile che gli stava davanti e chegli si
rappresentava con lineamenti a lui ben noti, i quali per me non significavano nulla; tanto
vero che non ci pensavo nemmeno, parlando, né potevo vedermeli né saper come fossero;
mentre per lui erano tutto, in quanto gli rappresentavano me quale ero per lui, uno tra
tanti: Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e
faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda
se lo vedevano mangiare; Moscarda, se lo vedevano fumare; Moscarda, se
andava a spasso; Moscarda, se si soffiava il naso.
Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto,
cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce
chio non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre
c'erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.
Se non che, ormai, per quanto potesse parermi stupido
e odioso essere bollato cosí per sempre e non potermi dare un altro nome, tanti altri a
piacere, che saccordassero a volta a volta col vario atteggiarsi de miei
sentimenti e delle mie azioni; pure ormai, ripeto, abituato com'ero a portar quello fin
dalla nascita, potevo non farne gran caso, e pensare che io infine non ero quel nome; che
quel nome era per gli altri un modo di chiamarmi, non bello ma che avrebbe potuto tuttavia
essere anche piú brutto. Non c'era forse un Sardo a Richieri che si chiamava Porcu? Sí.
«Signor Porcu...»
E non rispondeva mica con un grugnito.
«Eccomi, a servirla...»
Pulito pulito e sorridente rispondeva. Tanto che uno
quasi si vergognava di doverlo chiamare cosí.
Lasciamo dunque il nome, e lasciamo anche le
fattezze, benché pure - ora che davanti allo specchio mi sera duramente chiarita la
necessità di non poter dare a me stesso un'immagine di me diversa da quella con cui mi
rappresentavo - anche queste fattezze sentivo estranee alla mia volontà e contrarie
dispettosamente a qualunque desiderio potesse nascermi d'averne altre, che non fossero
queste, cioè questi capelli cosí, di questo colore, questi occhi cosí, verdastri, e
questo naso e questa bocca; lasciamo, dico, anche le fattezze, perché alla fin fine
dovevo riconoscere che avrebbero potuto essere anche mostruose e avrei dovuto tenermele e
rassegnarmi a esse, volendo vivere; non erano, e dunque via, dopo tutto, potevo anche
accontentarmene.
Ma le condizioni? dico le condizioni mie che non
dipendevano da me? le condizioni che mi determinavano, fuori di me, fuori d'ogni mia
volontà? le condizioni della mia nascita, della mia famiglia? Non me l'ero mai poste
davanti, io, per valutarle come potevano valutarle gli altri, ciascuno a suo modo,
s'intende, con una sua particolar bilancia, a peso d'invidia, a peso d'odio o di sdegno o
che so io.
M'ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo,
cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non
me l'ero fatto io, come non me l'ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da
altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant'altre cose m'erano venute sopra
dentro intorno, da altri; tant'altre cose m'erano state fatte, date da altri, a cui
effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l'immagine strana, nemica, con
cui mi savventavano adesso.
La storia della mia famiglia! La storia della mia
famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero
uno, l'ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in
quante abitudini d'atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri
riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi
credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse cosí alla giornata una
scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo
essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie
determinazioni, chio non m'ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel
mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio
mio, non era neanche mio per gli altri: m'era stato dato da mio padre, dipendeva dalla
ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre...
Ah, che scoperta Mio padre... La vita di mio padre...
M'apparve. Alto, grasso, calvo. E
nei limpidi quasi vitrei occhi azzurrini il solito sorriso gli brillava per me, d'una
strana tenerezza, chera un po' compatimento, un po' derisione anche, ma affettuosa,
come se in fondo gli piacesse chio fossi tale da meritarmela, quella sua derisione,
considerandomi quasi un lusso di bontà che impunemente egli si potesse permettere.
Se non che, questo sorriso, nella barba folta, cosí
rossa e cosí fortemente radicata che gli scoloriva le gote, questo sorriso sotto i grossi
baffi un po' ingialliti nel mezzo, era a tradimento, ora, una specie di ghigno muto e
frigido, lí nascosto; a cui non avevo mai badato. E quella tenerezza per me affiorando e
brillando negli occhi da quel ghigno nascosto m'appariva ora orribilmente maliziosa: tante
cose mi svelava a un tratto che mi fendevano di brividi la schiena. Ed ecco lo sguardo di
quegli occhi vitrei mi teneva, mi teneva affascinato per impedirmi di pensare a queste
cose, di cui pure era fatta la sua tenerezza per me, ma che pure erano orribili.
«Ma se tu eri e sei ancora uno sciocco... sí, un
povero ingenuo sventato, che te ne vai appresso ai tuoi pensieri, senza mai fermarne uno
per fermarti; e mai un proposito non ti sorge, che tu non ti ci metta a girare attorno, e
tanto te lo guardi che infine ti ci addormenti, e il giorno appresso apri gli occhi, te lo
vedi davanti e non sai piú come ti sia potuto sorgere se jeri c'era quest'aria e questo
sole; per forza, vedi, io ti dovevo voler bene cosí. Le mani? che mi guardi? ah, questi
peli rossi qua, anche sul dorso delle dita? gli anelli... troppi? e questa grossa spilla
alla cravatta, e anche la catena dell'orologio... Troppo oro? che mi guardi?
Vedevo stranamente la mia angoscia distrarsi con
sforzo da quegli occhi, da tutto quell'oro e affiggersi in certe venicciuole azzurrognole
che gli trasparivano serpeggianti su su per la pallida fronte con pena, sul lucido cranio
contornato dai capelli rossi, rossi come i miei - cioè, i miei come i suoi - e che miei
dunque, se cosí chiaramente m'erano venuti da lui? E quel lucido cranio a poco a poco,
ecco, mi svaniva davanti come ingoiato nel vano dell'aria.
Mio padre!
Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di
tutte le cose insensate e informi, che stanno nell'inerzia mute e impenetrabili allo
spirito.
Fu un attimo, ma l'eternità. Vi sentii dentro tutto
lo sgomento delle necessità cieche, delle cose che non si possono mutare: la prigione del
tempo; il nascere ora, e non prima e non poi; il nome e il corpo che ci è dato; la catena
delle cause; il seme gettato da quell'uomo: mio padre senza volerlo; il mio venire al
mondo, da quel seme; involontario frutto di quell'uomo; legato a quel ramo; espresso da
quelle radici.
Vidi allora per la prima volta mio
padre come non lo avevo mai veduto: fuori, nella sua vita; ma non com'era per sé come in
sé si sentiva, chio non potevo saperlo; ma come estraneo a me del tutto, nella
realtà che, tal quale egli ora m'appariva, potevo supporre gli dessero gli altri.
A tutti i figli sarà forse avvenuto. Notare
com'alcunché d'osceno che ci mortifica, laddove è il padre per noi che si rispetta.
Notare, dico, che gli altri non dànno e non possono dare a questo padre quella stessa
realtà che noi gli diamo. Scoprire com'egli vive ed è uomo fuori di noi, per sé, nelle
sue relazioni con gli altri, se questi altri, parlando con lui o spingendolo a parlare, a
ridere, a guardare, per un momento si dimentichino che noi siamo presenti, e cosí ci
lascino intravedere l'uomo chessi conoscono in lui, l'uomo chegli è per loro.
Un altro. E come? Non si può sapere. Subito nostro padre ha fatto un cenno, con la mano o
con gli occhi, che ci siamo noi. E quel piccolo cenno furtivo, ecco, ci ha scavato in un
attimo un abisso dentro. Quello che ci stava tanto vicino, eccolo balzato lontano e
intravisto là come un estraneo. E sentiamo la nostra vita come lacerata tutta, meno che
in un punto per cui resta attaccata ancora a quell'uomo. E questo punto è vergognoso. La
nostra nascita staccata, recisa da lui, come un caso comune, forse previsto, ma
involontario nella vita di quell'estraneo, prova d'un gesto, frutto d'un atto, alcunché
insomma che ora, sí, ci fa vergogna, ci suscita sdegno e quasi odio. E se non
propriamente odio, un certo acuto dispetto notiamo anche negli occhi di nostro padre, che
in quell'attimo si sono scontrati nei nostri. Siamo per lui, lí ritti in piedi, e con due
vigili occhi ostili, ciò che egli dallo sfogo d'un suo momentaneo bisogno o piacere, non
si aspettava: quel seme gettato chegli non sapeva, ritto ora in piedi e con due
occhi fuoruscenti di lumaca che guardano a tentoni e giudicano e gl'impediscono d'essere
ancora in tutto a piacer suo, libero, un altro anche rispetto a noi.
Non l'avevo mai finora staccato
cosí da me mio padre. Sempre l'avevo pensato, ricordato come padre, qual era per me; ben
poco veramente, ché morta giovanissima mia madre, fui messo in un collegio lontano da
Richieri, e poi in un altro, e poi in un terzo ove rimasi fino ai diciott'anni, e andai
poi all'università e vi passai per sei anni da un ordine di studii all'altro, senza
cavare un pratico profitto da nessuno; ragion per cui alla fine fui richiamato a Richieri
e subito, non so se in premio o per castigo, ammogliato. Due anni dopo mio padre morí
senza lasciarmi di sé, del suo affetto altro ricordo piú vivo che quel sorriso di
tenerezza, che era - com'ho detto - un pò compatimento, un pò derisione.
Ma ciò che era stato per sé? Moriva ora, mio padre,
del tutto. Ciò che era stato per gli altri... E cosí poco per me! E gli veniva anche
dagli altri, certo, dalla realtà che gli altri gli davano e chegli sospettava, quel
sorriso per me... Ora l'intendevo e ne intendevo il perché, orribilmente.
«Che cosè tuo padre?» mi avevano tante volte
domandato in collegio i miei compagni.
E io:
«Banchiere.»
Perché mio padre, per me, era banchiere.
Se vostro padre fosse boia, come si tradurrebbe nella
vostra famiglia questo titolo per accordarlo con l'amore che voi avete per lui e
chegli ha per voi? oh, egli tanto tanto buono per voi, oh, io lo so, non c'è
bisogno che me lo diciate; me lo immagino perfettamente l'amore d'un tal padre per il suo
figliuolo, la tremante delicatezza delle sue grosse mani nell'abbottonargli la camicina
bianca attorno al collo. E poi, feroci domani, all'alba, quelle sue mani, sul palco.
Perché anche un banchiere, me lo immagino perfettamente, passa dal dieci al venti
e dal venti al quaranta per cento, man mano che cresce in paese con la disistima altrui la
fama della sua usura, la quale peserà domani come un'onta sul suo figliuolo che ora non
sa e si svaga dietro a strani pensieri, povero lusso di bontà, che davvero se lo
meritava, ve lo dico io, quel sorriso di tenerezza, mezzo compatimento e mezzo derisione.
Con gli occhi pieni dell'orrore di
questa scoperta, ma velato l'orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur mi
atteggiavano le labbra a un sorriso vano, nel sospetto che nessuno potesse crederli e
ammetterli in me davvero, io allora mi presentai davanti a Dida mia moglie.
Se ne stava ricordo - in una stanza luminosa,
vestita di bianco e tutta avvolta entro un fulgore di sole, a disporre nel grande armadio
laccato bianco e dorato a tre luci i suoi nuovi abiti primaverili.
Facendo uno sforzo, acre d'onta segreta, per trovarmi
in gola una voce che non paresse troppo strana, le domandai:
«Tu lo sai, eh Dida, qual è la mia professione?»
Dida, con una gruccia in mano da cui pendeva un abito
di velo color isabella, si voltò a guardarmi dapprima, come se non mi riconoscesse.
Stordita, ripeté:
«La tua professione?»
E dovetti riassaporar l'agro di quell'onta per
riprendere, quasi da un dilaceramento del mio spirito, la domanda che ne pendeva. Ma
questa volta mi si sfece in bocca:
«Già,» dissi «che cosa faccio io?»
Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò
in una gran risata:
«Ma che dici, Gengè?»
Si fracassò d'un tratto allo scoppio di quella
risata il mio orrore, l'incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella
profondità delle sue indagini, sera urtato poc'anzi, rabbrividendo.
Ah, ecco - un usurajo, per gli altri; uno stupido
qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell'animo e davanti agli occhi di mia
moglie; e chi sa quant'altri Gengè, fuori, nell'animo o solamente negli occhi della gente
di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune,
nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m'erano
venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del danaro
e della professione di mio padre.
No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non
riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur
riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata piú
vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri
mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva
neanchesso parermi mio, giacché se l'era appropriato quel Gengè suo,
che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere
la sua professione E che non si sapeva?
«Lusso di bontà...» feci, quasi tra me, staccando
la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perché, ombra davanti a mia moglie,
non sapevo piú donde io - io come io - le parlassi.
«Che dici?» ripeté lei, dalla solidità certa
della sua vita, con quell'abito color isabella sul braccio.
E com'io non risposi, mi venne avanti, mi prese per
le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era piú di
Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non
conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.
Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah Mio padre
almeno lavorava... Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon
figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi
pendeva verso destra: oppure dell'altra faccia della luna; mentre la cosí detta banca di
mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare,
prosperava. C'erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano -
come si dice - cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza chio me
n'impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo,
da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d'affari e
che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest'era tutto. Non tutto,
perché anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d'accompagnarlo a Firbo o a
Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già e io allora gli scoprivo sul mento
una fossetta che glielo divideva in due parti non perfettamente uguali, una piú rilevata
di qua, una piú scempia di là.
Come non m'avevano finora accoppato? Eh, non
m'accoppavano, signori, perché, com'io non m'ero finora staccato da me per vedermi, e
vivevo come un cieco nelle condizioni in cui ero stato messo, senza considerare quali
fossero, perché in esse ero nato e cresciuto e m'erano perciò naturali; cosí anche per
gli altri era naturale chio fossi cosí; mi conoscevano cosí; non potevano pensarmi
altrimenti, e tutti potevano ormai guardarmi quasi senz'odio e anche sorridere a questo buon
figliuolo feroce.
Tutti?
Mi sentii a un tratto confitti nell'anima due paja
d'occhi come quattro pugnali avvelenati: gli occhi di Marco di Dio e di sua moglie
Diamante, che incontravo ogni giorno sulla mia strada, rincasando.
Marco di Dio e sua moglie Diamante
ebbero la ventura d'essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime
designate all'esperimento della distruzione d'un Moscarda.
Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui
aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori,
e naturalmente quali sono per me cioè in una forma nella quale certo essi non si
riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento
io?
Sí, certo; ma con la piccola differenza delle
fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si
vuole, costruendosi cosí o cosí, secondo come si vede e sinceramente crede di essere,
non solo per sé, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la
pena.
Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed
esclamate:
«E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di
fatto?»
«Sí, che ci sono.»
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in
un altro ve l'ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione;
nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell'Africa; e bello o brutto; con la
gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto e potete
anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.
Tempo, spazio, necessità. Sorte, fortuna, casi:
trappole tutte della vita. Volete essere? C'è questo. In astratto non si è. Bisogna che
sintrappoli l'essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là,
cosí o cosí. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena
d'esser cosí e di non poter piú essere altrimenti. Quello sbiobbo là, pare una burla,
uno scherzo compatibile sí e no per un minuto solo e poi basta; poi dritto, su, svelto,
agile, alto.... ma che! sempre cosí, per tutta la vita che è una sola; e bisogna che si
rassegni a passarla tutta tutta cosí.
E come le forme, gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia
piú. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli
atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie,
o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire
e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno,
come un'aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le
conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete piú
liberarvi?
Già. Ma che intendete dire con questo? Che gli atti
come le forme determinano la realtà mia o la vostra? E come? perché? Che siano una
prigione, nessuno può negare. Ma se volete affermar questo soltanto, state in guardia che
non affermate nulla contro di me, perché io dico appunto e sostengo anzi questo che sono
una prigione e la piú ingiusta che si possa immaginare.
Mi pareva, santo Dio, d'avervelo dimostrato! Conosco
Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete
anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io perché
ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se
stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con
me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che
Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto
e via dicendo, pur avendo l'illusione anche lui, anzi lui specialmente, d'esser uno per
tutti. Il guajo è questo; o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo cosí. Compiamo un
atto. Crediamo in buona fede d'esser tutti in quell'atto. Ci accorgiamo purtroppo che non
è cosí, e che l'atto è invece sempre e solamente dell'uno dei tanti che siamo o che
possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all'improvviso vi restiamo come
agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell'atto, e che
dunque un'atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e
sospesi a esso, alla gogna, per un'intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata
in quell'atto solo.
«Ma io sono anche questo, e quest'altro, e poi
quest'altro!» ci mettiamo a gridare.
Tanti, eh già; tanti cherano fuori dell'atto
di quell'uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma
quell'uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel
momento ha compiuto l'atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il
ricordo dell'atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un
altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a
uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo piú
spiegare.
Realtà passate.
Se i fatti non son tanto gravi, queste realtà
passate le chiamiamo inganni. Sí, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno.
Proprio quell'inganno per cui ora dico a voi che n'avete un altro davanti.
«Voi sbagliate!»
Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben
addentro allo scherzo, che è piú profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo:
che l'essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze chesso si crea,
e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l'essere
in quella forma e in quell'atto ci appare.
E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno
sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è cosí. Ma
inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d'un punto, ci accorgiamo che abbiamo
sbagliato anche noi, e che non è questo e non è cosí; sicché alla fine siamo costretti
a riconoscere che non sarà mai né questo né cosí in nessun modo stabile e sicuro; ma
ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti
veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela
noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e
infinitamente mutabile. La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se
da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la
realtà d'oggi é destinata a scoprire l'illusione domani. E la vita non conclude. Non
può concludere. Se domani conclude, è finita.
Vi pare che l'abbia presa troppo
alta? E caliamo un poco. La palla è elastica; ma per rimbalzare bisogna che tocchi terra.
Tocchiamo terra e facciamola rivenire alla mano.
Di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono
nato, anno tale, mese tale, giorno tale nella nobile città di Richieri, nella casa in via
tale, numero tale, dal signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali; battezzato nella
chiesa madre di giorni sei; mandato a scuola a anni sei; ammogliato d'anni ventitré; alto
di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc. ecc.?
Sono i miei connotati. Dati di fatto, dite voi. E
vorreste desumerne la mia realtà? Ma questi stessi dati che per sé non dicono nulla,
credete che importino una valutazione uguale per tutti quand'anche mi rappresentassero
intero e preciso, dove mi rappresenterebbero? in quale realtà?
Nella vostra, che non è quella d'un altro: e poi
d'un altro; e poi d'un altro. C'è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo
visto che non ce n'è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra
cangia di continuo! E allora?
Ecco qua, terra terra. Siete in cinque? Venite con
me.
Questa è la casa in cui sono nato, anno tale, mese
tale, giorno tale. Ebbene, dal fatto che topograficamente e per l'altezza e la lunghezza e
il numero delle finestre poste qua sul davanti questa casa è la stessa per tutti; dal
fatto che io per tutti voi cinque vi sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, rosso
di pelo e alto ora un metro e sessantotto, segue forse che voi tutti e cinque diate la
stessa realtà a questa casa e a me? A voi che abitate una catapecchia, questa casa sembra
un bel palazzo; a voi che avete un certo gusto artistico, sembra una volgarissima casa;
voi che passate malvolentieri per la via dov'essa sorge perché vi ricorda un triste
episodio della vostra vita, la guardate in cagnesco, voi, invece, con occhio affettuoso
perché, lo so, qua dirimpetto abitava la vostra povera mamma che fu buona amica della
mia.
E io che vi sono nato? Oh Dio! Quand'anche per tutt'e
cinque voialtri in questa casa, che è una e cinque, fosse nato l'anno tale, il mese tale,
il giorno tale un imbecille, credete che sia lo stesso imbecille per tutti? Sarò per
l'uno imbecille perché lascio Quantorzo direttore della banca e Firbo consulente legale,
cioè proprio per la ragione per cui mi stima avvedutissimo l'altro, che crede invece di
veder lampante la mia imbecillità nel fatto che conduco a spasso ogni giorno la cagnolina
di mia moglie, e cosí via.
Cinque imbecilli. Uno in ciascuno. Cinque imbecilli
che vi stanno davanti, come li vedete da fuori, in me che sono uno e cinque come la casa,
tutti con questo nome di Moscarda niente per sé, neanche uno, se serve a disegnar cinque
differenti imbecilli che, sí, tut'e cinque si volteranno se chiamate: «Moscarda!»
ma ciascuno con quell'aspetto che voi gli date; cinque aspetti; se rido, cinque sorrisi, e
via dicendo.
E non sarà per voi, ogni atto chio compia,
l'atto d'uno di questi cinque? E potrà essere lo stesso, quest'atto, se i cinque sono
differenti? Ciascuno di voi lo interpreterà, gli darà senso e valore a seconda della
realtà che m'ha data.
Uno dirà:
«Moscarda ha fatto questo.»
L'altro dirà:
«Ma che, questo! Ha fatto ben altro!»
E il terzo:
«Per me ha fatto benissimo. Doveva fare cosí!»
Il quarto:
«Ma che cosí e cosí! Ha fatto malissimo. Doveva
fare invece...»
E il quinto:
«Che doveva fare? Ma se non ha fatto niente!»
E sarete capaci d'azzuffarvi per ciò che Moscarda ha
fatto o non ha fatto, per ciò che doveva o non doveva fare, senza voler capire che il
Moscarda dell'uno non è il Moscarda dellaltro; credendo di parlare d'un Moscarda
solo, che è proprio uno, sí, quello che vi sta davanti cosí e cosí, come voi lo
vedete, come voi lo toccate; mentre parlate di cinque Moascarda; perché anche gli altri
quattro ne hanno uno davanti. Uno per ciascuno, che è quello solo, cosí e cosí, come
ciascuno lo vede e lo tocca. Cinque; e sei, se il povero Moscarda si vede e si tocca uno
anche per sé; uno e nessuno, ahimè, come egli si vede e si tocca, se gli altri cinque lo
vedono e lo toccano altrimenti.
Tuttavia mi sforzerò di darvi, non
dubitate, quella realtà che voi credete d'avere; cioè a dire, di volervi in me come voi
vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia
di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre "un modo vostro" soltanto per me,
non "un modo vostro" per voi e per gli altri.
Ma scusate: se per voi io non ho altra realtà fuori
di quella che voi mi date, e sono pronto a riconoscere e ad ammettere chessa non è
meno vera di quella che potrei darmi io; che essa anzi per voi è la sola vera (e Dio sa
che cosè codesta realtà che voi mi date!); vorreste lamentarvi adesso di quella
che vi darò io, con tutta la buona volontà di rappresentarvi quanto piú mi sarà
possibile a modo vostro?
Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho
affermato già che non siete neppure quell'uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti
a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d'essere, e i casi, le relazioni e le
circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo chio
non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è
vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una
possibilità d'essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi
possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla
voi, ma nulla neppure io stesso.
E sono contento che or ora, mentre
stavate a leggere questo mio libretto col sorriso un po' canzonatorio che fin da principio
ha accompagnato la vostra lettura, due visite, una dentro l'altra, siano venute
improvvisamente a dimostrarvi quant'era sciocco quel vostro sorriso.
Siete ancora sconcertato - vi vedo - irritato,
mortificato della pessima figura che avete fatto col vostro vecchio amico, mandato via
poco dopo sopravvenuto il nuovo, con una scusa meschina, perché non resistevate piú a
vedervelo davanti, a sentirlo parlare e ridere in presenza di quell'altro. Ma come?
mandarlo via cosí, se poco prima che quest'altro arrivasse, vi compiacevate tanto a
parlare e ridere con lui?
Mandato via. Chi? Il vostro amico? Credete sul serio
d'aver mandato via lui?
Rifletteteci un poco.
Il vostro vecchio amico, in sé e per sé, non aveva
nessuna ragione d'esser mandato via, sopravvenendo il nuovo. I due, tra loro, non si
conoscevano affatto, li avete presentati voi l'uno all'altro; e potevano insieme
trattenersi una mezz'oretta nel vostro salotto a chiacchierare del piú e del meno. Nessun
imbarazzo né per l'uno né per l'altro.
L'imbarazzo l'avete provato voi, e tanto piú vivo e
intollerabile, quanto piú, anzi, vedevate quei due a poco a poco acconciarsi tra loro a
fare accordo insieme. L'avete subito rotto quell'accordo. Perché? Ma perché voi (non
volete ancora capirlo?) voi, all'improvviso, cioè all'arrivo del vostro nuovo amico, vi
siete scoperto due, uno cosí dall'altro diverso, che per forza a un certo punto, non
resistendo piú, avete dovuto mandarne via uno. Non il vostro vecchio amico, no, avete
mandato via voi stesso, quell'uno che siete per il vostro vecchio amico, perché lo avete
sentito tutt'altro da quello che siete, o volete essere, per il nuovo.
Incompatibili non erano tra loro quei due, estranei
l'uno all'altro, garbatissimi entrambi e fatti forsanche per intendersi a
maraviglia; ma i due voi che all'improvviso avete scoperto in voi stesso. Non avete potuto
tollerare che le cose delluno fossero mescolate con quelle dell'altro, non avendo
esse propriamente nulla di comune tra loro. Nulla, nulla, giacché voi per il vostro
vecchio amico avete una realtà e un'altra per il nuovo, cosí diverse in tutto da
avvertire voi stesso che rivolgendovi all'uno, l'altro sarebbe rimasto a guardarvi
sbalordito; non vi avrebbe piú riconosciuto; avrebbe esclamato tra sé:
«Ma come? è questo? è cosí?»
E nell'imbarazzo insostenibile di trovarvi, cosí,
due, contemporaneamente, avete cercato una scusa meschina per liberarvi, non d'uno di
loro, ma d'uno dei due che quei due vi costringevano a essere a un tempo.
Su su, tornate a leggere questo mio libretto, senza
piú sorridere come avete fatto finora.
Credete pure che, se qualche dispiacere ha potuto
recarvi l'esperienza or ora fatta, quest'è niente, mio caro, perché voi non siete due
soltanto, ma chi sa quanti, senza saperlo, e credendovi sempre uno.
Andiamo avanti.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000