Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
Mi si può opporre:
«Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda,
che a tutti gli altri avveniva come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per
gli altri quale finora t'eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali
tu li vedevi?»
Rispondo:
Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che
sia venuto in mente anche a voi?
Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi
che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in
me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo
di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di
ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell'altrui giudizio non
v'importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata
illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi
vi rappresentate.
Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende
un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola,
via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere
per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben
poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri
vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di
raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete
correre, scrollerete le spalle esclamando: "Oh infine, ho la mia coscienza e mi
basta."
Non è cosí?
Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca
una cosí grossa parola, permettete ch'io vi faccia entrare in mente un magro magro
pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non
val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho
anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la
vostra. Ma sí. Tanto diversa dalla mia.
Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma
è forse la coscienza qualcosa d'assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli,
forse sí. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci
siete voi. Purtroppo.
E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza
e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè
ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?
Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà
codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?
Voi stesso? E come?
Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli
altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti
avrebbero agito come voi, né piú né meno.
Bravo! Ma su che lo affermate?
Eh, so anche questo: su certi principii astratti e
generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e
particolari della vita, si può essere tutti d'accordo (costa poco).
Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi
approvano o anche vi deridono? é chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei
principii generali nel caso particolare che v'è capitato, e se stessi nell'azione che
avete commessa.
O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi
solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V'immaginate tante teste.
Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato
cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sí e no, e no e sí; come
volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri. Andate là che è un giuoco magnifico,
codesto della vostra coscienza che vi basta.
Sapete invece su che poggia tutto?
Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la
realtà, qual'è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.
Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La
vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e
beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell'aria. Senza il
minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore
consistenza di quel fumo.
Dite di no? Guardate. Io abitavo con mia moglie la
casa che mio padre sera fatta costruire dopo la morte immatura di mia madre, per
levarsi da quella dov'era vissuto con lei, piena di cocentissimi ricordi. Ero allora
ragazzo, e soltanto piú tardi potei rendermi conto che proprio all'ultimo quella casa era
stata lasciata da mio padre non finita e quasi aperta a chiunque volesse entrarvi.
Quell'arco di porta senza la porta che supera di
tutta la cèntina da una parte e dall'altra i muri di cinta della vasta corte davanti, non
finiti; con la soglia sotto distrutta e scortecciati agli spigoli i pilastri; mi fa ora
pensare che mio padre lo lasciò cosí quasi in aria e vuoto, forse perché pensò che la
casa, dopo la sua morte, doveva restare a me, vale a dire a tutti e a nessuno; e che le
fosse inutile perciò il riparo d'una porta.
Finché visse mio padre, nessuno sattentò a
entrare in quella corte. Erano rimaste per terra tante pietre intagliate; e chi passava,
vedendole, poté dapprima pensare che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata
presto ripresa. Ma appena l'erba cominciò a crescere tra i ciottoli e lungo i muri,
quelle pietre inutili sembrarono subito come crollate e vecchie. Col tempo, morto mio
padre, divennero i sedili delle comari del vicinato, le quali, titubanti in principio, ora
l'una ora l'altra, sarrischiarono a varcare la soglia, come in cerca d'un posto
riparato dove ci si potesse mettere seduti bene all'ombra e in silenzio; e poi, visto che
nessuno diceva nulla, lasciarono alle loro galline la titubanza ancora per poco, e presero
a considerare quella corte come loro, come loro l'acqua della cisterna che vi sorgeva in
mezzo; e vi lavavano e vi stendevano i panni ad asciugare; e infine, col sole che
abbarbagliava allegro da tutto quel bianco di lenzuoli e di camice svolazzanti dai cordini
tesi, si scioglievano sulle spalle i capelli lustri d'olio per "cercarsi" in
capo, come fanno le scimmie tra loro.
Non diedi mai a vedere né fastidio né piacere di
quella loro invasione, benché m'irritasse specialmente la vista d'una vecchina sempre
pigolante, dagli occhi risecchi e la gobba dietro ben segnata da un giubbino verde
scolorito, e mi désse allo stomaco una lezzona grassa squarciata, con un'orrenda cioccia
sempre fuori del busto e in grembo un bimbo sudicio dalla testa grossa schifosamente piena
di croste di lattime tra la peluria rossiccia. Mia moglie aveva forse il suo tornaconto a
lasciarle lí, perché se ne serviva a un bisogno, dando poi loro in compenso o gli avanzi
di cucina o qualche abito smesso.
Acciottolata come la strada, questa corte è tutta in
pendío. Mi rivedo ragazzo, uscito per le vacanze dal collegio, affacciato di sera tardi a
uno dei balconi della casa allora nuova. Che pena infinita mi dava il vasto biancore
illividito di tutti quei ciottoli in pendío con quella grande cisterna in mezzo,
misteriosamente sonora! La ruggine sera quasi mangiata fin d'allora la vernice
rossigna del gambo di ferro che in cima regge la carrucola dove scorre la fune della
secchia; e come mi sembrava triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro
che ne pareva malato! Malato forsanche per la malinconia dei cigolíi della carrucola
quando il vento, di notte, moveva la fune; e su la corte deserta era la chiarità del
cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là
sopra, per sempre.
Dopo la morte di mio padre, Quantorzo, incaricato di
badare ai miei affari, pensò di chiudere con un tramezzo le stanze che mio padre
sera riservate per sua abitazione e di farne un quartjerino da affittare. Mia moglie
non sera opposta. E in quel quartjerino era venuto, poco dopo, ad abitare un vecchio
silenziosissimo pensionato, sempre vestito bene, di pulita semplicità, piccolino ma con
un che di marziale nell'esile personcina impettorita e anche nella faccina energica,
sebbene un po' sciupata, da colonnello a riposo. Di qua e di là, come scritti
calligraficamente, aveva due esemplari occhi di pesce, e tutte segnate le guance d'una
fitta trama di venuzze violette.
Non avevo mai badato a lui, né m'ero curato di
sapere chi fosse, come vivesse. Parecchie volte lo avevo incontrato per le scale, e
sentendomi dire con molto garbo: "Buon giorno" o "Buona sera",
senz'altro m'ero fatta l'idea che quel mio vicino di casa fosse molto garbato.
Nessun sospetto mi aveva destato un suo lamento per
le zanzare che lo molestavano la notte e che, a suo credere, provenivano dai grandi
magazzini a destra della casa ridotti da Quantorzo, sempre dopo la morte di mio padre, a
sudice rimesse d'affitto.
«Ah, già!» avevo esclamato, quella volta, in
risposta al suo lamento.
Ma ricordo perfettamente che in quella mia
esclamazione c'era il dispiacere, non già delle zanzare che molestavano il mio inquilino,
ma di quegli ariosi puliti magazzini che da ragazzo avevo veduto costruire e dove correvo,
stranamente esaltato dalla bianchezza abbarbagliante dell'intonaco e come ubriacato
dall'umido della fabbrica fresca, sul mattonato rintronante, ancora tutto spruzzato di
calce. Al sole chentrava dalle grandi finestre ferrate, bisognava chiudere gli occhi
da come quei muri accecavano.
Tuttavia, quelle rimesse con quei vecchi landò
d'affitto, con l'attacco a tre, per quanto impregnate di tutto il lezzo delle lettiere
marcite e del nero delle risciacquature che stagnava lí davanti, mi facevano anche
pensare all'allegria delle corse in carrozza, da ragazzo, quando si andava in
villeggiatura, per lo stradone, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per
accogliere e diffondere la festività delle sonagliere. E in grazia di quel ricordo mi
pareva si potesse sopportare la vicinanza delle rimesse; tanto piú che, anche senza
questa vicinanza, era noto a tutti che a Richieri si soffriva il fastidio delle zanzare,
da cui comunemente in ogni casa ci si difendeva con l'uso delle zanzariere.
Chi sa che impressione dovette fare al mio vicino di
casa la vista d'un sorriso sulle mie labbra, quando egli con la faccina fiera mi gridò
che non aveva mai potuto sopportare le zanzariere, perché se ne sentiva soffocare. Quel
mio sorriso esprimeva di certo maraviglia e compatimento. Non poter sopportare la
zanzariera, chio avrei seguitato sempre a usare anche se tutte le zanzare fossero
sparite da Richieri, per la delizia che mi dava, tenuta alta di cielo com'io la tenevo e
drizzata tutt'intorno al letto senza una piega. La camera che si vede e non si vede
traverso a quella miriade di forellini del tulle lieve; il letto isolato; l'impressione
d'esser come avvolto in una bianca nuvola.
Non mi feci caso di ciò che egli potesse pensare di
me dopo quell'incontro. Seguitai a vederlo per le scale, e sentendomi dire come prima
"Buon giorno" o "Buona sera", rimasi con l'idea chegli fosse
molto garbato.
Vi assicuro invece ch'egli, nello stesso momento che
fuori garbatamente mi diceva per le scale "Buon giorno" o "Buona
sera", dentro di sé mi faceva vivere come un perfetto imbecille perché là nella
corte tolleravo quell'invasione di comari e quel puzzo ardente di lavatoio e le zanzare.
Chiaro che non avrei piú pensato: "Oh Dio
com'è garbato il mio vicino di casa, se avessi potuto vedermi dentro di lui che,
viceversa, mi vedeva com'io non avrei potuto vedermi mai, voglio dire da fuori, per me, ma
dentro la visione che anche lui aveva poi per suo conto delle cose e degli uomini, e nella
quale mi faceva vivere a suo modo: da perfetto imbecille. Non lo sapevo e seguitavo a
pensare: "Oh Dio com'è garbato il mio vicino di casa".
Picchio all'uscio della vostra
stanza.
State, state pure sdraiato comodamente su la vostra
greppina. Io seggo qua. Dite di no?
«Perché?»
Ah, è la poltrona su cui, tant'anni or sono, morí
la vostra povera mamma. Scusate, non avrei dato un soldo per essa, mentre voi non la
vendereste per tutto l'oro del mondo, lo credo bene. Chi la vede, intanto, nella vostra
stanza cosí ben mobigliata, certo, non sapendo, si domanda con maraviglia come la
possiate tenere qua, vecchia scolorita e strappata com'è.
Queste sono le vostre seggiole. E questo è un
tavolino, che piú tavolino di cosí non potrebbe essere. Quella è una finestra che dà
sul giardino. E là fuori, quei pini, quei cipressi.
Lo so. Ore deliziose passate in questa stanza che vi
par tanto bella, con quei cipressi che si vedono là. Ma per essa intanto vi siete
guastato con l'amico che prima veniva a visitarvi quasi ogni giorno e ora non solo non
viene piú ma va dicendo a tutti che siete pazzo, proprio pazzo ad abitare in una casa
come questa.
«Con tutti quei cipressi lí davanti in fila,» va
dicendo. «Signori miei, piú di venti cipressi, che pare un camposanto.»
Non se ne sa dar pace.
Voi socchiudete gli occhi; vi stringete nelle spalle;
sospirate:
«Gusti.»
Perché vi pare che sia propriamente questione di
gusti, o d'opinioni, o d'abitudine; e non dubitate minimamente della realtà delle care
cose, quale con piacere ora la vedete e la toccate.
Andate via da codesta casa; ripassate fra tre o
quattr'anni a rivederla con un altro animo da questo d'oggi; vedrete che ne sarà piú di
codesta cara realtà.
«Uh guarda, questa la stanza? questo il giardino?»
E speriamo per amor di Dio, che non vi sia morto
qualche altro parente prossimo, perché vediate anche voi come un camposanto tutti quei
cari cipressi là.
Ora dite che questo si sa, che l'animo muta e che
ciascuno può sbagliare.
Già storia vecchia, difatti.
Ma io non ho la pretesa di dirvi niente di nuovo.
Solo vi domando:
«E perché allora, santo Dio, fate come se non si
sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d'oggi, e
vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto
faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro?
Lasciatemi dire un'altra cosa, e poi
basta.
Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite.
Non volete che sia messa in dubbio. Me n'ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco
che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva
volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi
volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il
vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il
mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci
credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d'accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo
intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
«Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto
cosí e cosí?»
Cosí e cosí, perfettamente. Ma il guajo è che voi,
caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che
voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le
stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote,
caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle,
inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo
intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non
pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi:
«Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come
se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi
stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella
stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?»
Ahimè, caro, per quanto facciate, voi mi darete
sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e
sarà, non dico; magari sarà; ma a un "modo mio" che io non so né potrò mai
sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un "modo mio"
per voi, non un "modo mio" per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una
signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali,
immutabili. Non c'è. C'è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una
realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le
stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che
non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la
mia.
Vi gira un po' il capo? Dunque dunque... concludiamo.
Ecco, dunque, volevo venire a questo,
che non dovete dirlo piú, non lo dovete dire che avete la vostra coscienza e che vi
basta.
Quando avete agito cosí? Jeri, oggi, un minuto fa? E
ora? Ah, ora voi stesso siete disposto ad ammettere che forse avreste agito altrimenti. E
perché? Oh Dio, voi impallidite. Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi
eravate un altro.
Ma sí, ma sí, mio caro, pensateci bene: un minuto
fa, prima che vi capitasse questo caso, voi eravate un altro; non solo, ma voi eravate
anche cento altri, centomila altri. E non c'è da farne, credete a me, nessuna maraviglia.
Vedete piuttosto se vi sembra di poter essere cosí sicuro che di qui a domani sarete quel
che assumete di essere oggi.
Caro mio, la verità è questa: che sono tutte
fissazioni. Oggi vi fissate un un modo e domani in un altro.
Vi dirò poi come e perché.
Avete mai veduto costruire una casa? Io,
tante, qua a Richieri. E ho pensato:
"Ma guarda un po' l'uomo, che è capace di fare!
Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è
che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa."
«Io» dice la montagna «sono montagna e non mi
muovo.»
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da
buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di
startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle
case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani.
E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati
bene? Chi li riconoscerebbe piú in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Tu montagna. sei tanto piú grande dell'uomo; anche
tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l'uomo è una bestiolina piccola, sí, che ha però in
sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due
zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e
si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata piú
fina. Vide allora l'albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere
piú comodamente. E poi sentí che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottí;
scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestí il legno di cuoio e tra il cuoio e
il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato:
«Ah, come si sta bene cosí!»
Il cardellino canta nella gabbietta sospesa tra le
tende al palchetto della finestra. Sente forse la primavera che sapprossima? Ahimè,
forse la sente anchesso l'antico ramo del noce da cui fu tratta la mia seggiola, che
al canto del cardellino ora scrícchiola.
Forse sintendono, con quel canto e con questo
scricchiolío, l'uccello imprigionato e il noce ridotto seggiola.
Pare a voi che non c'entri questo
discorso della casa, perché adesso la vedete come è, la vostra casa, tra le altre che
formano la città. Vi vedete attorno i vostri mobili che sono quali voi secondo il vostro
gusto e i vostri mezzi li avete voluti per i comodi vostri. Ed essi vi spirano attorno il
dolce conforto familiare, animati come sono da tutti i vostri ricordi; non piú cose, ma
quasi intime parti di voi stessi, nelle quali potete toccarla e sentirla quella che vi
sembra la realtà sicura della vostra esistenza.
Siano di faggio o di noce o d'abete, i vostri mobili
sono, come i ricordi della vostra intimità domestica, insaporati di quel particolare
alito che cova in ogni casa e che dà alla nostra vita quasi un odore che piú
savverte quando ci vien meno, appena cioè, entrando in un'altra casa, vi avvertiamo
un alito diverso. E vi secca, lo vedo, chio v'abbia richiamato ai faggi, ai noci,
agli abeti della montagna.
Come se già cominciaste a compenetrarvi un poco
della mia pazzia, subito, d'ogni cosa che vi dico, vi adombrate; domandate:
«Perché? Che c'entra questo?»
No, via, non abbiate paura che vi guasti
i mobili, la pace, l'amore della casa.
Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città. Non
dico che possiate fidarvi molto di me; ma, via, non temete. Fin dove la strada con quelle
case sbocca nella campagna potete seguirmi.
Sí, strada, questa. Temete sul serio che possa dirvi
di no? Strada strada. Strada brecciata; e attenti alle scaglie. E quelli sono fanali.
Venite avanti sicuri.
Ah, quei monti azzurri lontani! Dico azzurri ; anche
voi dite azzurri, non è vero? D'accordo. E questo qua vicino, col bosco di castagni:
castagni, no? vedete, vedete come c'intendiamo? della famiglia delle cupulifere, d'alto
fusto. Castagno marrone. Che vasta pianura davanti ("verde" eh? per voi e per me
"verde": diciamo cosí, che c'intendiamo a maraviglia); e in quei prati là,
guardate guardate che bruciare di rossi papaveri al sole! - Ah, come? cappottini rossi di
bimbi? - Già, che cieco! Cappottini di lana rossa, avete ragione. M'eran sembrati
papaveri. E codesta vostra cravatta pure rossa... Che gioja in questa vana frescura,
azzurra e verde, d'aria chiara di sole! Vi levate il cappellaccio grigio di feltro? Siete
già sudato? Eh, bello grasso, voi, Dio vi benedica! Se vedeste i quadratini bianchi e
neri dei calzoni sul vostro deretano... Giú, giú la giacca! Pare troppo.
La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite
sciogliere. Sí ma se mi sapeste dire dov'è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi
sembra propriamente che ci sia pace qua? Intendiamoci, per carità! Non rompiamo il nostro
perfetto accordo. Io qua vedo soltanto, con licenza vostra, ciò che avverto in me in
questo momento, un'immensa stupidità, che rende la vostra faccia, e certo anche la mia,
di beati idioti, ma che noi pure attribuiamo alla terra e alle piante, le quali ci sembra
che vivano per vivere, cosí soltanto come in questa stupidità possono vivere.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace.
Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora
dalla città; cioè, sí, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per
questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per
vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c'è e
che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un
valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l'affliggente
vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia.
Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno
d'abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.
Ah, non aver piú coscienza d'essere,
come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati
qua sull'erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche
nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i
castagni del bosco, come un fragor di mare.
Nuvole e vento.
Che avete detto? Ahimè, ahimè. Nuvole? Vento? E non
vi sembra già tutto, avvertire e riconoscere che quelle che veleggiano luminose per la
sterminata azzurra vacuità sono nuvole? Sa forse d'essere la nuvola? Né sanno di lei
l'albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli.
Avvertendo e riconoscendo la nuvola, voi potete, cari
miei, pensare anche alla vicenda dell'acqua (e perché no) che divien nuvola per divenir
poi acqua di nuovo. Bella cosa, sí. E basta a spiegarvi questa vicenda un povero
professoruccio di fisica. Ma a spiegarvi il perché del perché?
Sentite, sentite: su nel bosco dei
castagni, picchi d'accetta. Giú nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la montagna, atterrare alberi per costruire
case. Là, nella vecchia città, altre case. Stenti, affanni, fatiche d'ogni sorta;
perché? Ma per arrivare a un comignolo, signori miei; e per fare uscir poi da questo
comignolo un po' di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.
E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli
uomini.
Siamo in campagna qua; il languore ci ha sciolto le
membra; è naturale che illusioni e disinganni, dolori e gioie, speranze e desiderii ci
appaiano vani e transitorii, di fronte al sentimento che spira dalle cose che restano e
sopravanzano ad essi, impassibili. Basta guardare là quelle alte montagne oltre valle,
lontane lontane, sfumanti all'orizzonte, lievi nel tramonto, entro rosei vapori.
Ecco: sdraiato, voi buttate all'aria il cappellaccio
di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:
«Oh ambizioni degli uomini!»
Già. Per esempio, che grida di vittoria perché
l'uomo, come quel vostro cappellaccio, sè messo a volare, a far l'uccellino! Ecco
intanto qua un vero uccellino come vola. L'avete visto? La facilità piú schietta e
lieve, che saccompagna spontanea a un trillo di gioja. Pensare adesso al goffo
apparecchio rombante e allo sgomento, all'ansia, all'angoscia mortale dell'uomo che vuol
fare l'uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la
morte davanti. Il motore si guasta; il motore s'arresta; addio uccellino!
«Uomo,» dite voi, sdrajati qua sull'erba, «lascia
di volare! Perché vuoi volare? E quando hai volato?»
Bravi. Lo dite qua, per ora, questo; perché siete in
campagna, sdrajati sull'erba. Alzatevi, rientrate in città e, appena rientrati, lo
intenderete subito perché l'uomo voglia volare. Qua, cari miei, avete veduto l'uccellino
vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo
meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e
costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo
d'artificio, di stortura, d'adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e
valore soltanto per l'uomo che ne è l'artefice.
Via, via, aspettate che vi dia una mano per tirarvi
sú. Siete grasso, voi. Aspettate: su la schiena vè rimasto qualche filo d'erba... Ecco
andiamo via.
Guardatemi ora questi
alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di
Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie,
probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare,
chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo
alla città Pare che chiedano, nel vedersi cosí specchiati in queste vetrine di botteghe,
che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío
della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli.
Orecchi, non mostrano d'averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno
di silenzio.
Siete mai stati nella piazzetta dell'Olivella, fuori
le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che aria di sogno e d'abbandono,
quella piazzetta, e che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel
convento vecchio, saffaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!
Ebbene, ogni anno la terra, lí, nella sua stupida
materna ingenuità, cerca d'approfittare di quel silenzio. Forse crede che lí non sia
piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela,
allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d'erba. Nulla è piú
fresco e tenero di quegli esili timidi fili d'erba di cui verzica in breve tutta la
piazzetta. Ma ahimè non durano piú d'un mese. È città lí; e non è permesso ai fli
d'erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; saccosciano in
terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.
Io vidi l'altr'anno, lí, due uccellini che, udendo
lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla
siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e
guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli
uomini là.
«E non lo vedete, uccellini?» io dissi loro. «Non
lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.»
Scapparono via inorriditi quei due uccellini.
Beati loro che hanno le ali e possono scappare!
Quant'altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e
anche nelle carpagne; e com'è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli
uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l'aratro.
Ma forse anchesse le bestie, le piante e tutte
le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l'uomo non può intendere, chiuso
com'è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle altre, e che la natura spesso,
dal canto suo mostra di non riconoscere e d'ignorare.
Ci vorrebbe un po' piú d'intesa tra l'uomo e la
natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all'aria tutte le nostre ingegnose
costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l'uomo non si dà per vinto. Ricostruisce,
ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché
ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire,
trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando
vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria,
non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri
adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L'uomo piglia a materia anche se
stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite in
qualche modo? E chio possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se
non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar
forma. Ma che conoscenza può essere? E forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per
me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco
nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è
uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia
di continuo.
Eppure, non c'è altra realtà fuori di questa, se
non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose.
La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non
per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me
e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a
darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case?
Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione
dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento
della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della
volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si
alterino d'un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito
che non era altro che una nostra illusione.
Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei
sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non
andare incontro a queste ingrate soprese.
Ma che belle costruzioni vengono fuori!
«No no, bello mio, statti zitto!
Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti,
io, e come tu la pensi.»
Quante volte non m'aveva detto cosí Dida mia moglie?
E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
Ma sfido chella conosceva quel suo Gengè piú
che non lo conoscessi io! Se l'era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il
fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?
Ma che!
Per sopraffare uno, bisogna che questo uno esista: e
per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si possa prendere per le spalle e
strappare indietro per mettere un altro al suo posto.
Dida mia moglie non m'aveva né sopraffatto né
sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una sostituzione se io
ribellandomi e armando comunque una volontà d'essere a mio modo mi fossi tolto dai piedi
quel Suo Gengè.
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei
non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che
ella s'era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non
avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro
che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né
comprendere né amare.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma
alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio, proprio e particolare, per
non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di
affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a
pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc'anzi pensava e sentiva, cioè a
scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni di derivazione
mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad
abbandonarsi alla discrezione altrui non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e
anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Ed ecco intanto, che me n'era venuto! Non mi
conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di
illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo
modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che
non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.
Gengè, sí, viveva, per mia moglie Dida. Ma non
potevo in nessun modo consolarmene perché v'assicuro che difficilmente potrebbe
immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.
E il bello, intanto, era questo: che non era mica
senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui
non le piacevano, perché non se l'era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto
e il suo capriccio: no.
Ma a modo di chi allora?
Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non
riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che ella
attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché,
secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo suo, c'è
poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto
la mia.
La vedevo piangere qualche volta per certe amarezze
chegli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:
«Ma perché, cara?»
Mi rispondeva:
«Ah, me lo domandi? Ah, non ti basta quello che
m'hai detto or ora?»
«Io?»
«Tu, tu, sí!»
«Ma quando mai? Che cosa?»
Trasecolavo.
Era manifesto che il senso che io davo alle mie
parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali parole di
Gengè, era tutt'altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato
dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in bocca di Gengè assumevano chi
sa quale altro valore; e la facevano piangere, sissignori.
Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo
Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto.
E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose
chio le dicevo e che ella mi ripeteva.
«Ma come?» le domandavo. «Io ho detto cosí?»
«Sí, Gengè mio, proprio cosí!»
Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze; ma non
erano sciocchezze: tutt'altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.
E io, ah come lo avrei schiaffeggiato, bastonato,
sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perché, nonostante i dispiaceri che le cagionava, le
sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia moglie Dida; rispondeva per lei,
cosí com'era, all'ideale del buon marito, a cui qualche lieve difetto si perdona in
grazia di tant'altre buone qualità.
Se io non volevo che Dida mia moglie andasse a
cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.
In principio pensavo che forse i miei sentimenti
erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e
che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le
mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non cosí ridotti e rimpiccoliti,
nel cervellino e nel coricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la
sua semplicità.
Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li
rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Cosí travisati, cosí
rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava
sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva cosí? Ma
la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l'era foggiato, non poteva avere
se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah sí,
tanto carino per lei! Lo amava cosí: carino sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest'una: la
prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che
piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata, cangiò
pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura
non mi piaceva affatto. Quand'ecco, una mattina, m'apparve all'improvviso, in accappatoio,
col pettine ancora in mano, acconciata al modo antico e tutt'accesa in volto.
«Gengè!» mi gridò, spalancando l'uscio,
mostrandosi e rompendo in una risata.
Io restai ammirato, quasi abbagliato.
«Oh,»esclamai, «finalmente!»
Ma subito ella si cacciò le mani nei capelli, ne
trasse le forcinelle e disfece in un attimo la pettinatura.
«Va là!» mi disse. «Ho voluto farti uno
scherzo. So bene, signorino, che non ti piaccio pettinata cosí!»
Protestai, di scatto:
«Ma chi te l'ha detto, Dida mia? Io ti giuro, anzi,
che...»
Mi tappò la bocca con la mano.
«Va là!» ripeté. «Tu me lo dici per farmi
piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come piaccio meglio
al mio Gengè?»
E scappò via.
Capite? Era certa, certissima che al suo Gengè
piaceva meglio pettinata in quell'altro modo, e si pettinava in quell'altro modo che non
piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si sacrificava. Vi par poco?
Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una donna?
Tanto lo amava!
E io - ora che tutto alla fine mi s'era chiarito -
cominciai a divenire terribilmente geloso - non di me stesso, vi prego di credere: voi
avete voglia di ridere! - non di me stesso, signori, ma di uno che non ero io, di un
imbecille che s'era cacciato tra me e mia moglie; non come un'ombra vana, no, - vi prego
di credere - perché egli anzi rendeva me ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo
per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia moglie, su le
mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In quanto erano mie,
propriamente mie le labbra ch'ella baciava? Aveva ella forse tra le braccia il mio
corpo? Ma in quanto realmente poteva esser mio, quel corpo, in quanto realmente
appartenere a me, se non ero io colui chella abbracciava e amava?
Considerate bene. Non vi sentireste traditi da vostra
moglie con la piú raffinata delle perfidie, se poteste conoscere che ella, stringendovi
tra le braccia, assapora e si gode per mezzo del vostro corpo lamplesso d'un altro
che lei ha in mente e nel cuore?
Ebbene, in che era diverso dal mio questo caso?
Il mio caso era anche peggiore! Perché, in quello,
vostra moglie - scusate - nel vostro amplesso si finge soltanto l'amplesso d'un altro;
mentre, nel mio caso, mia moglie si stringeva tra le braccia la realtà di uno che non ero
io!
Ed era tanto realtà quest'uno, che quando io alla
fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia
moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito,
inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi
piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000