Luigi Pirandello
Uno, nessuno centomila
LIBRO PRIMO.
«Che fai?» mia moglie mi
domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il
naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato
la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso
destra.»
Avevo ventotto anni e sempre hn allora ritenuto il
mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti
della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito
ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo
deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in
quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto
senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli
occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú
sporgente dell'altra; e altri difetti...
«Ancora?»
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle
gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell'altra: verso il ginocchio,
un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti
questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia
che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m'esortò a non
affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell'uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa
concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo
"grazie" e, sicuro di non aver motivo né d'addolorarmi né d'avvilirmi, non
diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto
che tant'anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle
sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender
moglie per aver conto che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte
apposta per scoprire i difetti del marito.»
Ecco, già - le mogli, non nego. Ma anchio, se
permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o
mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano
dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa;
senza che di fuori ne paresse nulla.
«Si vede,» - voi dite, «che avevate molto tempo da
perdere.»
No, ecco. Per l'animo in cui mi trovavo. Ma del resto
sí, anche per l'ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano
Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si
fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai
nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che
almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover'uomo, neppur
questo aveva potuto ottenere da me.
E non già, badiamo, chio opponessi volontà a
prendere la via per cui mio padre m'incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci
camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da
vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli
altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto
aveva assunto le proporzioni d'una montagna insormontabile, anzi d'un mondo in cui avrei
potuto senz'altro domiciliarmi.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie,
con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto
che quelli che m'erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in
sostanza piú di me. M'erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando
come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro;
vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo
nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú li
loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti,
sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque possibile? non conoscevo bene
neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m'appartenevano: il naso le
orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l'esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva
ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo cosí misere e disperate che certo ne
sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio
che doveva guarirmene.
Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta
mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non
notare in me.
«Mi guardi il naso?» domandai tutt'a un tratto quel
giorno stesso a un amico che mi s'era accostato per parlarmi di non so che affare che
forse gli stava a cuore.
«No, perché?» mi disse quello.
E io, sorridendo nervosamente:
«Mi pende verso destra, non vedi?
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione,
come quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno
dell'universo.
L'amico mi guardò in prima un po' stordito; poi,
certo sospettando che avessi cosí all'improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il
discorso del mio naso perché non stimavo degno né d'attenzione, né di risposta l'affare
di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per
un braccio, e:
«No, sai,» gli dissi, «sono disposto a trattare
con te codest'affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi.»
«Pensi al tuo naso?»
«Non m'ero mai accorto che mi pendesse verso desta.
Me n'ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.»
«Ah, davvero?» mi domandò allora l'amico; e gli
occhi gli risero d'una incredulità ch'era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina,
cioè con un misto d'avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo
se n'era accorto? E chi sa quant'altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo,
credevo d'essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr'ero invece per tutti un
Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m'era avvenuto di parlare, senz'alcun
sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Caio e quante volte perciò non avevo fatto
ridere di me e pensare:
«Ma guarda un po' questo pover'uomo che parla dei
difetti del naso altrui!»
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione
che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un
fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei
nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non
potei consolarmi con questa riflessione.
Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli
altri quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.
Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome
quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell'aria d'incredulità derisoria, per
vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d'aver nel mento una fossetta che
glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una piú rilevata di qua, una piú
scempia di là.
«Io? Ma che!» esclamò l'amico. «Ci ho la
fossetta, lo so, ma non come tu dici.»
«Entriamo là da quel barbiere, e vedrai,» gli
proposi subito.
Quando l'amico, entrato dal barbiere, s'accorse con
maraviglia del difetto e riconobbe ch'era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in
fin dei conti, era una piccolezza.
Eh sí, senza dubbio, una piccolezza; vidi però,
seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una
seconda volta, piú là, davanti a un'altra; e piú là ancora e piú a lungo, una terza
volta, allo specchio d'uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena
rincasato, sarà corso all'armadio per far con piú agio a quell'altro specchio la nuova
conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua
volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese,
dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo
difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di
questo suo amico, il quale, a sua volta... - ma sí! ma sí! - potrei giurare che per
parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta
mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una
vetrina di bottega all'altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi
uno zigomo e chi la coda d'un occhio, chi un lobo d'orecchio e chi una pinna di naso. E
ancora dopo una settimana un certo tale mi saccostò con aria smarrita per
domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva
inavvertitamente la pàlpebra dell'occhio sinistro.
«Sí, caro,» gli dissi a precipizio. «E io, vedi?
il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c'è bisogno che me lo dica tu; e le
sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una piú sporgente
dell'altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le
gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest'altra? no, eh? Ma lo so da me e non
c'è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.»
Lo piantai lí, e via. Fatti pochi passi, mi sentii
richiamare.
«Ps!»
Placido placido, col dito, colui m'attirava a sé per
domandarmi:
«Scusa, dopo di te, tua madre non partorí altri
figliuoli?
«No: né prima né dopo,» gli risposi. «Figlio
unico. Perché?»
«Perché,» mi disse, «se tua madre avesse
partorito un'altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.»
«Ah sí? Come lo sai?»
«Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un
nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costí, sarà
maschio il nato appresso.»
Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto
frigido gli domandai:
«Ah, ci ho un... com'hai detto?»
E lui:
«Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.»
«Oh, ma quest'è niente!» esclamai. «Me lo posso
ritagliare.
Negò prima col dito, poi disse:
«Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai
radere.»
E questa volta mi piantò lui.
Desiderai da quel giorno ardentissimamente d'esser
solo, almeno per un'ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto
urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla
rabbia.
«Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina?
Quantorzo ha da parlarti d'urgenza.»
«Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste mi
paiono le gambe.»
«S'è fermata la pèndola, Gengè.»
«Gengè, e la cagnolina non la porti piú fuori? Poi
ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non
pretenderai che... Non esce da iersera.»
«Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata?
Non si fa piú vedere da tre giorni, e l'ultima volta le faceva male la gola.»
«È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che
ritornerà piú tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che noioso!»
Oppure la sentivo cantare:
E se mi dici di no,
caro il mio bene, domàn non verrò;
domàn non verrò ...
domàn non verrò....
Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con
due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser
solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittoio, ma anche
lí senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie
ch'era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l'uscio all'improvviso,
m'avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittoio
non c'erano specchi. Io avevo bisogno d'uno specchio. D'altra parte, il solo pensiero che
mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non
volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun
estraneo attorno.
Ah sí, v'assicuro chè un bel modo, codesto,
d'esser soli. Vi sapre nella memoria una cara finestretta, da cui saffaccia
sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora
all'uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio
insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di
raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma
seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario
particolare, il quale jeri... no, quando fu? l'altro jeri che pioveva e pareva un lago la
piazza con tutto quel brillío di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio
che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo
scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste
in una sala di bigliardo, dove c'era lui, il segretario del presidente della Congregazione
di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni pelosi per la vostra disdetta
allorché vi siete messo a giocare con l'amico Carlino detto Qintadecima. E poi?
Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via
umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di
Napoli, che tant'anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i
castagni, ov'eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimí, che poi
sposò il vecchio commendator Della Venera, e morí un anno dopo. Oh, cara Mimí! Eccola,
eccola a un'altra finestra che vi sapre nella memoria...
Sí, sí, cari miei, v'assicuro che è un bel modo
d'esser soli, codesto!
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito,
nuovo. Tutt'al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con
un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi
prego di credere che l'unico modo d'esser soli veramente è questo che vi dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di
voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto
vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro
sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni
affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine
è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque
l'estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire
senza quel me chio già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo
estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch'ero io
stesso: estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest'uno, o il
bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e
conversare un po' con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto
d'essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio
naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all'angustia o
all'ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi,
quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle
mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
"E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di
me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il
mio naso. E hanno un pajo d'occhi, i miei occhi, chio non vedo e chessi
vedono. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso
col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere
dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio
naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la
sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere."
Cosí, seguitando, sprofondai in quest'altra
ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita;
vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come
quello d'un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in
me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.
Potei averne la prova nell'impressione dalla quale
fui per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio
amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all'improvviso in uno specchio per via, di
cui non m'ero prima accorto. Non poté durare piú d'un attimo quell'impressione, ché
subito seguí quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo studio. Non
riconobbi in prima me stesso. Ebbi l'impressione d'un estraneo che passasse per via
conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò:
«Che hai?»
«Niente,» dissi. E tra me, invaso da uno strano
sgomento ch'era insieme ribrezzo, pensavo:
"Era proprio la mia quell'immagine intravista in
un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando vivendo - non mi penso? Dunque
per gli altri sono quell'estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi
conosco: quell'uno lí che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono
quell'estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato. Un
estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no."
E mi fissai d'allora in poi in questo proposito
disperato: d'andare inseguendo quell'estraneo chera in me e che mi sfuggiva; che non
potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo;
quell'uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano
vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anchio cosí come gli altri lo vedevano
e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo
estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d'esser io per me. Ma presto l'atroce
mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch'io ero non solo per gli
altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà,
tutti dentro questo mio povero corpo chera uno anch'esso, uno e nessuno ahimè, se
me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi,
abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono
le mie incredibili pazzie.
Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a
fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli
specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie,
nell'attesa smaniosa ch'ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo
finalmente per un buon pezzo.
Non volevo già come un commediante studiar le mie
mosse, compormi la faccia all'espressione dei varii sentimenti e moti dell'animo; al
contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee
alterazioni del volto per ogni moto dell'animo; per un'improvvisa maraviglia, ad esempio
(e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino allattaccatura dei capelli e
spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo
tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia
moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia
feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m'avesse schiaffeggiato, e arricciavo
il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel
cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non
avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch'io le vedevo; in
secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e
imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le
condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E
infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato
cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle
espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri.
L'espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che
l'avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e
cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto
questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle
proposito la conseguenza naturale di rinunciare all'impresa disperata e starmi contento a
vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.
L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero
io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con
occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre
estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che
non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo
penetrare, quest'idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest'estraneo? quest'estraneo
che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre
condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
«Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri
quattro giorni. Non c'è piú dubbio: Anna Rosa dev'esser malata. Andrò io a vederla.»
«Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo
tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un
malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.»
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa
vostra moglie?
Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo.
Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.
Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio
sorriso.
«Ah, ridi?»
«Cara, mi vedo obbedito cosí...»
E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse
tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:
«Un quarto d'ora, non piú. Te ne scongiuro.»
M'assicurai cosí che fino a sera non sarebbe
rincasata.
Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno,
stropicciandomi le mani.
«Finalmente!»
Prima volli ricompormi, aspettare che mi
scomparisse dal volto ogni traccia d'ansia e di gioja e che, dentro, mi sarrestasse
ogni moto di sentimento e di pensiero, cosí che potessi condurre davanti allo specchio il
mio corpo come estraneo a me e, come tale, pormelo davanti.
«Su,» dissi, «andiamo!»
Andai, con gli occhi chiusi, le mani avanti, a
tentoni. Quando toccai la lastra dell'armadio, ristetti ad aspettare, ancora con gli occhi
chiusi, la piú assoluta calma interiore, la piú assoluta indifferenza.
Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là
anche lui, l'estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli
occhi chiusi.
C'era, e io non lo vedevo.
Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me,
gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto,
non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e non
vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto cosí come un altro?
Qui era il punto.
M'era accaduto tante volte d'infrontar gli occhi per
caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello
specchio non mi vedevo ed ero veduto; cosí l'altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso
e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anchio nello specchio,
avrei forse potuto esser visto ancora dall'altro, ma io no, non avrei piú potuto vederlo.
Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso
specchio.
Stando a pensare cosí, sempre con gli occhi chiusi,
mi domandai:
«È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché
tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che,
aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È
possibile? Subito com'io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante!
Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio
sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d'essere veduto da
me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell'altro che tutti vedono
e io no. Su, dunque, calma, arresto d'ogni vita e attenzione!
Aprii gli occhi. Che vidi?
Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato,
carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.
M'assalí una fierissima stizza e mi sorse la
tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di
smorzare l'acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine
smoriva e quasi sallontanava da me; ma smorivo anchio di qua e quasi cascavo; e
sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d'impedire
che mi sentissi anchio tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli
occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me
li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su
me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè,
era proprio cosí: io potevo vedermeli, non già vederli.
Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva
a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno
squallido sorriso.
«Sta' serio, imbecille!» gli gridai allora. «Non
c'è niente da ridere!»
Fu cosí istantaneo, per la spontaneità della
stizza, il cangiamento dell'espressione nella mia immagine, e cosí subito seguí a questo
cambiamento un'attonita apatia in essa, chio riuscii a vedere staccato dal mio
spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.
Ah, finalmente! Eccolo là!
Chi era?
Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in
attesa che qualcuno se lo prendesse.
«Moscarda...» mormorai, dopo un lungo
silenzio.
Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.
Poteva anche chiamarsi altrimenti.
Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza
nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva
nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore,
e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le palpebre, e non se n'accorgeva.
Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile,
dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi
forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel
naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che
nascondevano la bocca; il mento solido, un po' rilevato:
Ecco: era cosí: lo avevano fatto cosí, di quel
pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un'altra statura, poteva sí
alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio, ma adesso era cosí;
col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura
avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso
era cosí.
Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro!
Chiunque poteva essere, quello lí. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle
sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto
per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, cosí?
Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna
immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lí come in un'immagine di me
necessaria?
Mi stava lí davanti, quasi inesistente, come
un'apparizione di sogno, quell'immagine. E io potevo benissimo non conoscermi cosí. Se
non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato
ad avere dentro quella testa lí sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sí, e tant'altri.
Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero
potuto non esserci piú o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lí
verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe
potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per
quel corpo lí; e la sentivo.
Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli
rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lí che per me era niente;
eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lí, per farsene quel Moscarda
che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli
umori. E anch'io... Ma sí! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento
in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo cosí come mi vedevo, colui
era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche
altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non
era piú qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io
oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e cosí via. E in quella testa lí,
immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le piú svariate
visioni: ecco: d'un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle;
di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all'alba;
d'una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di
riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli
specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa
restava lí di nuovo immobile e dura nell'apatico attonimento.
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome,
in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma, all'improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal
cosa che mi riempí di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà,
lapatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente,
arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e
provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi
crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di sternuti.
Sera commosso da sé, per conto suo, a un filo
d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori
della mia volontà.
«Salute!» gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.
Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall'innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.
Riflessioni:
1a - che io non ero per gli altri quel che
finora avevo creduto di essere per me;
2a - che non potevo vedermi vivere;
3a - che non potendo vedermi vivere, restavo
estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo
modo; e io no;
4a - che era impossibile pormi davanti questo
estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
5a - che il mio corpo, se io considerato da fuori,
era per me come unapparizione di sogno, una cosa che non sapeva di vivere e che
restava lí, in attesa che qualcuno se la prendesse;
6a - che, come me lo prendevo io, questo mio
corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva
prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;
7a - che infine quel corpo per se stesso era tanto
niente e tanto nessuno, che un filo d'aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani
portarselo via.
Conclusioni:
Queste due per il momento:
1a - che cominciai finalmente a capire perché
Dida mia moglie mi chiamava Gengè;
2a - che mi proposi di scoprire chi ero io almeno
per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre
dispettosamente quell'io che ero per loro.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 22 agosto, 2000