Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
VII
Nella vasta sala
sonora dell'antica cancelleria nel palazzo vescovile, dal tetro soffitto affrescato e
coperto di polvere, dalle alte pareti dall'intonaco ingiallito, ingombre di vecchi
ritratti di prelati, coperti anchessi di polvere e di muffa, appesi qua e là
senz'ordine sopra armarii e scansíe stinte e tarlate, si levò un brusío d'approvazioni
appena monsignor Montoro, con la sua bella voce dalle inflessioni misurate quasi soffuse
di pura autorità protettrice, finí di leggere al capitolo della cattedrale e a molti
altri canonici e beneficiali, lí apposta radunati, la pastorale ai reverendi parroci
della diocesi su i luttuosi avvenimenti che funestavano la Sicilia e contristavano ogni
cuor cristiano. Da un versetto di San Matteo, Monsignore aveva intitolato quella sua
pastorale: Semper pauperes habetis vobiscum...
Era una giornataccia rigida e
ventosa di gennajo; e piú volte durante la lettura il vescovo e anche gli ascoltatori
avevano rivolto gli occhi ai vetri dei finestroni che pareva volessero cedere alla furia
urlante della libecciata. Tutta la lettura calma di quella mansueta omelía aveva avuto
l'accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che spesso
avevano distratto piú d'uno, diffondendo nella vasta sala vegliata da quei ritratti
antichi impolverati e ammuffiti uno sbigottito rammarico della vanità di quella
interminabile esercitazione oratoria.
Parecchi se n'erano stati a guardare
attraverso uno di quei finestroni il terrazzino d'una vecchia casa dirimpetto, sul quale
un povero matto pareva provasse chi sa che voluttà forse quella del volo, esposto lí al
vento furioso che gli faceva svolazzare attorno al corpo la coperta del letto, di lana
gialla, posta su le spalle: rideva con tutto il viso squallido, e aveva negli occhi acuti,
spiritati, come un lustro di lagrime, mentre gli scappavan via di qua e di là, come
fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossigni. Quel poverino era il giovane fratello del
canonico Batà, il quale si trovava anche lui nella sala, attentissimo in vista alla
lettura del vescovo, ma dentro di sé assorto di certo in pensieri estranei che piú volte
lo avevano fatto gestire comicamente.
Terminata la lettura, quelli tra i
piú vecchi canonici che conoscevano meglio il debole del loro eccellentissimo vescovo
saffrettarono a circondar la tavola, innanzi alla quale egli stava seduto, per farsi
ripetere chi una frase e chi un'altra fra le tante, di cui Monsignore, dal modo con cui le
aveva proferite, era parso loro dovesse essere piú contento e soddisfatto.
"Quella, quella dell'esercito
di Satana, eccellenza, come dice?"
"Allude alla massoneria, non è
vero, vostra eccellenza? come dice?"
E Monsignore, dentro gongolante, ma
fuori con un'aria di stanca condiscendenza, abbassando su i chiari occhi ovati quelle sue
pàlpebre lievi come veli di cipolla, e crollando il capo in segno di affermazione, e
facendo cenno con la mano d'aspettare, cercava nel foglio e ripeteva:
"Malvagia e ria setta...
malvagia e ria setta, che a suo architetto ha scelto il demonio, a gerofante il
giudeo..."
"Ah, ecco! A gerofante il
giudeo!" esclamavano quelli. "Stupenda espressione, eccellenza!
stupenda..."
"Gagliarda...
gagliarda..."
"Ma che ventaccio, buon
Dio!" riprendeva a lamentarsi il vescovo, afflitto, come d'un ingiusto compenso al
merito di quella sua fatica.
I piú giovani canonici, intanto,
che piú di tutti avevano prestato ascolto alla lettura, si scambiavano tra loro occhiate
di disgusto per quei vecchi e sciocchi piaggiatori, o di dolorosa rassegnazione per
l'accoglienza che il popolo avrebbe fatto a quel vaniloquio che saggirava tutto
quanto attorno a una non piú ingenua che crudele domanda che i reverendi parroci
avrebbero dovuto rivolgere ai poveri della diocesi: perché mai la miseria, che sempre era
stata e sempre sarebbe stata, solamente ora perturbasse cosí gli animi e gli ordini e
prorompesse in cosí deplorabili eccessi. Pareva ad alcuni di quei giovani prelati, che
Monsignore avrebbe potuto almeno parafrasare per gli avvenimenti dell'isola l'enciclica
recente di S. S. Leone XIII, De conditione opificum, nella quale era pur detto che
i proprietarii dovessero cessare dall'usura aperta o palliata, e dal tener gli operaj in
conto di schiavi, e dal trafficare sul bisogno dei miseri, invece di mostrarsi cosí
avverso a coloro che "osavano attentare all'antica rigidità del diritto
quiritario". Tanto piú saffliggevano del tono di quella pastorale del loro
vescovo, in quanto che, proprio il giorno avanti, in difesa dei poveri Pompeo Agrò aveva
pubblicato un fiero opuscolo, nel quale, dopo aver paragonato le condizioni della Sicilia
a quelle dell'Irlanda, e messo in rilievo il linguaggio e l'atteggiamento assunti da
illustri prelati cattolici, inglesi e americani, nelle questioni economiche e sociali del
momento, aveva - quasi per sfida - citato l'insolente risposta del reverendo Mac Glynn,
curato cattolico di New York, all'invito del suo vescovo di moderare la propaganda
rivoluzionaria: "Ho sempre insegnato, Monsignore, e sempre insegnerò, fino
all'ultimo respiro, che la terra è di diritto proprietà comune del popolo, e che il
diritto di proprietà individuale sul suolo è opposto alla giustizia naturale, quantunque
sancito dalle leggi civili e religiose!". Era quell'opuscolo dell'Agrò tutto
un'acerba requisitoria contro l'ignoranza e l'accidia del clero siciliano. Ed ecco che, a
un giorno di distanza, quella pastorale del loro vescovo veniva a darne la prova piú
schiacciante. Altri in crocchio si consigliavano, se non fosse prudente mandare piú
tardi, in segreto, qualcuno dei vecchi piú accetti a Monsignore, per fargli notare a
quattr'occhi anche l'inopportunità di quella pastorale, ora che in paese correva la voce
che, per l'imperversare ovunque della bufera, fosse imminente se non di già avvenuta la
proclamazione dello stato d'assedio in tutta la Sicilia. Si faceva anzi il nome d'un
generale dell'esercito, nominato commissario straordinario con pieni poteri; quello stesso
che, da alcuni giorni, era sbarcato a Palermo con un intero corpo d'armata. Si diceva che
per prima cosa costui aveva fatto arrestare i membri del Comitato centrale dei Fasci, i
quali la sera avanti avevano lanciato un proclama rivoluzionario ai lavoratori dell'isola.
"Sí, sí, eccolo... l'ho qua
in tasca... è vero! è vero!" disse uno, misteriosamente. "Or ora, fuori, lo
leggeremo..."
Ma a frastornare e ad accrescere la
curiosità ansiosa di quel crocchio, sopraggiunse in quel punto nella sala, piú pallido
del solito e anelante, il giovane segretario del vescovo, che recava evidentemente la
conferma di quelle gravissime notizie. Si affollarono tutti attorno alla tavola.
"Proclamato?"
"Sí, sí, lo stato d'assedio,
proclamato; e ordinato il disarmo della popolazione."
"Anche il disarmo? Oh bene...
bene..."
"E arrestati i membri del
Comitato centrale dei Fasci, in Palermo."
"Tutti?"
"Non tutti; alcuni sono
riusciti a fuggire. Tra questi si dice, anche il figlio del principe di Laurentano."
"Oh Dio, che sento!"
gemette il vescovo. "Già... c'era anche lui!... Fuggito? Fuggito?"
La notizia non era certa: molti
asserivano che anche il Laurentano era stato arrestato. Subito, del resto, tutta la
Sicilia sarebbe occupata militarmente, fin nelle piú piccole borgate, cosicché anche
quei fuggiaschi sarebbero presi e tratti in arresto.
"Oh Dio, che sento! oh Dio, che
sento!" riprese a esclamare Monsignore. "Ma dunque... siamo davvero a questo?
Di nascosto, dalla tasca di quel
giovine prelato venne fuori il proclama del Comitato, diffuso in gran copia su fogli
volanti per tutte le città dell'isola; passò dall'uno all'altro attorno alla tavola; ma
molti non sapevano che fosse, e ognuno, saputolo, si ricusava d'aprirlo e ne faceva
passaggio al piú presto, come se quella carta ripiegata e brancicata bruciasse o
insudiciasse le mani, finché arrivò a quelle del giovine segretario che la spiegò e
cominciò a leggerla forte alla presenza del vescovo, tra lo stupore e lo sgomento
d'alcuni e i vivaci commenti o di derisione o d'indignazione degli altri.
Trattando come da potenza a potenza
col Governo, il Comitato in tono solenne, domandava a nome dei lavoratori della Sicilia: l'abolizione
del dazio delle farine ("Eh, fin qui!"); un'inchiesta su le pubbliche
amministrazioni, col concorso dei Fasci ("Oh bravi! Eh, scaltri... già!"); la
sanzione legale dei patti colonici e minerarii deliberati nei congressi del partito
socialista ("Come come? Sanzione legale? Eh già, legale! Il bollo
governativo!"); la costituzione di collettività agricole e industriali, mediante
i beni incolti dei privati o i beni comunali dello Stato e dell'asse ecclesiastico non
ancora venduti (e qui si scatenò una furia di proteste, una confusione di gridi, tra
cui predominavano: "La spoliazione!... Briganti!... Roba di nessuno!" mentre il
giovane segretario con la mano faceva cenno di tacere, ché c'era dell'altro, di meglio,
di meglio, e ripeteva, leggendo nella carta: "Nonché... nonché..."); nonché
l'espropriazione forzata dei latifondi, con la concessione temporanea agli espropriati di
una lieve rendita annua ("Oh, troppo buoni!" "Troppa grazia!"
"Che generosità!" "Che degnazione!"); leggi sociali per il
miglioramento economico e morale dei proletarii, e infine la bomba: stanziamento
nel bilancio dello Stato della somma di venti milioni di lire per provvedere alle spese
necessarie all'esecuzione di queste domande, per l'acquisto degli strumenti da lavoro
tanto per le collettività agricole quanto per quelle industriali, e per anticipare
alimenti ai socii e porre le collettività in grado d'agire utilmente.
"Ma sono pazzi! ma sono
pazzi!" proruppe, tra il baccano generale, Monsignore, levandosi in piedi. "Oh
Signore Iddio, che tracotanza! Ma è certo, eh? è certo l'arrivo di questo corpo
d'armata? è certo, eh? Qua non si scherza! Oh Dio! oh Dio!"
Il giovine segretario
saffrettò a rassicurarlo, poi terminò la lettura del proclama che, concludendo,
raccomandava la calma, perché coi moti isolati e convulsionarii non si sarebbero
raggiunti benefizii duraturi, e ammoniva che dalle decisioni del governo si sarebbe
tratta la norma della condotta da tenere.
Ma Monsignore, scartando con ambo le
mani come superflue quelle raccomandazioni e quegli ammonimenti, ordinò al segretario
subito di mandare a stampa la sua pastorale che certo sonerebbe gradita a quel Generale
comandante il corpo d'armata; e sciolse la riunione per recarsi in fretta a Colimbètra a
confortare il principe di Laurentano. Con lungo e strepitoso svolazzío di tonache e di
tabarri quella frotta di canonici, investita dal vento, discese dalle alture di San
Gerlando a mescolarsi al subbuglio della città. Il matto, sul terrazzino, gridava,
felice, agitando la coperta gialla, come per rispondere allo svolazzare di tutti quei
tabarri neri.
Correndo a
Colimbètra, monsignor Montoro non supponeva di certo che sentimenti molto simili a quelli
espressi da lui con tanta untuosità letteraria nella sua pastorale agitavano l'animo
d'uno di coloro chegli aveva poc'anzi chiamato pazzi. Al primo contatto diretto con
quei cosí detti compagni, alle ripercussioni piú vicine e piú frequenti degli episodii
sanguinosi di quella sollevazione popolare, Lando Laurentano sera veduto chiamato
dagli amici in Sicilia a rispondere, se non d'un vero delitto, poiché non poteva
diffidare della loro buona fede, certo d'una enorme pazzia. Sempre per quella
infatuazione, dovuta forse in gran parte, quasi un abbagliamento, al calore stesso della
terra che dava tanta teatralità di voce e di gesti alla vita dei suoi compaesani, e di
cui egli - volontariamente rigido - aveva avuto sempre un cosí aspro dispetto! Come
avevano potuto illudersi i suoi amici d'essere riusciti in pochi mesi, con le loro
prediche, a rompere quella dura scorza secolare di stupidità armata di diffidenza e
d'astuzie animalesche, che incrostava la mente dei contadini e dei solfaraj di Sicilia?
Come avevano potuto credere possibile una lotta di classe, dove mancava ogni connessione e
saldezza di principii, di sentimenti e di propositi, non solo, ma la piú rudimentale
cultura, ogni coscienza? Tutta, da cima a fondo, la tattica era sbagliata. Non una lotta
di classe, impossibile in quelle condizioni, ma una cooperazione delle classi era da
tentare, poiché in tutti gli ordini sociali in Sicilia era vivo e profondo il malcontento
contro il governo italiano, per l'incuria sprezzante verso l'isola fin dal 1860. Da una
parte il costume feudale, l'uso di trattar come bestie i contadini, e l'avarizia e
l'usura; dall'altra l'odio inveterato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta
nella giustizia, si paravano come ostacoli insormontabili a ogni tentativo per quella
cooperazione. Ma se disperata poteva apparire l'impresa, forse non meno disperata si
scopriva adesso quella che i suoi amici avevano voluto tentare, agevolati sul principio,
inconsciamente e sciaguratamente, dall'inerzia del Governo che incoraggiava tutti a osare?
Sprofondato in quel momento a Roma fino alla gola nel pantano dello scandalo bancario e
fiducioso qua in Sicilia nella sua polizia o inetta o arrogante e soverchiatrice, il
Governo, senza darsi cura dei mali che da tanti anni affliggevano l'isola, senza rispetto
né per la legge né per le pubbliche libertà, con l'inerzia o con le provocazioni aveva
favorito e stimolato il rapido formarsi di quelle associazioni proletarie che, se avessero
subito ottenuto qualche miglioramento anche lieve dei patti colonici e minerarii, e se non
fossero state sanguinosamente aizzate, presto, senz'alcun dubbio, si sarebbero sciolte da
sé, prive com'erano d'ogni sentimento solidale e senz'alcun lievito di coscienza o ombra
d'idealità. Questo, Lando Laurentano aveva compreso ora, troppo tardi, sul luogo; e
l'animo esacerbato con cui era accorso all'invito gli era rimasto oppresso da uno stupore
pieno di tetra ambascia, come se i suoi amici gli avessero empito di stoppa la bocca arsa
di sete.
Scosso dall'urgenza di correre a
qualche riparo sotto la minaccia incombente d'una violenta, schiacciante repressione da
parte del governo, sera opposto con indignazione ai consigli di prudenza dei suoi
amici, smarriti e sbigottiti dalla gravità estrema del momento. Prudenza? Ora che, a
distanza di pochi giorni, nei piccoli paesi dell'interno, a Giardinello, di appena
ottocento abitanti, a Lercara, a Pietraperzía, a Gibellina, a Marinèo, uscivano e si
raccoglievano in piazza mandre di gente senz'alcuna intesa, senz'altra bandiera che i
ritratti del re e della regina, senz'altra arma che una croce imbracciata da qualche donna
lacera e infuriata in capo alla processione, e savviavano cieche incontro ai fucili
d'una ventina di soldati, a cui piú che altro la paura di vedersi sopraffatti consigliava
all'improvviso di far fuoco, senza neppure aspettarne il comando? Sí, nessuno aveva
suggerito loro quelle processioni che finivano in eccidii; ma di esse e di tutti gli atti
inconsulti e del sangue di quei macellati si doveva ora rispondere, appunto perché quelle
mandre cieche seran credute atte e mature ad accogliere la dimostrazione dei loro
diritti. Come tirarsi piú indietro, ora, e consigliar prudenza? No, non c'era piú altro
scampo, ormai, che nell'ultimo prorompimento di quella pazzia: bisognava immolarsi insieme
con quelle vittime. E Lando Laurentano aveva sdegnosamente rifiutato di apporre la firma a
quel manifesto del Comitato centrale ai lavoratori dell'isola, che nella solennità del
tono perentorio gli era sembrato anche ridicolo, non tanto per i patti e le condizioni che
poneva al Governo, ma in quanto mancava ogni realtà di coscienza e di forza in coloro nel
cui nome li poneva. Di reale, non c'era altro che la disperazione di tanti infelici,
condannati dall'ignoranza a una perpetua miseria; e il sangue, il sangue di quelle
vittime.
A viva forza, appena proclamato lo
stato d'assedio, sera fatto trascinare da Lino Apes alla fuga. Era fuggito, non per
le ragioni che l'Apes nella concitazione del momento gli aveva gridate, ma per
l'invincibile repugnanza di far la figura dell'apostolo o dell'eroe o del martire, esposto
nella gabbia d'un tribunale militare alla curiosità e all'ammirazione delle dame
dell'aristocrazia palermitana a lui ben note. A compagni nella fuga, oltre l'Apes, aveva
avuto il Bruno, l'Ingrao e Cataldo Sclàfani, tutti e tre travestiti.
Che riso, misto di sdegno e di
compassione, che avvilimento insieme e che ribrezzo, gli aveva destato la vista
irriconoscibile di quest'ultimo, senza piú quel fascio di pruni che gli copriva le guance
e il mento! Pareva che gli occhi e la voce ancora non lo sapessero, e producevano un
ridicolissimo effetto di smarrimento nelle loro espressioni, di cui già tanta parte era
quella barba che adesso mancava. Ma quel travestimento non tradiva, in verità, alcuna
paura in nessuno dei tre; era come imposto dalla parte che la necessità della fuga
assegnava loro in quel momento; ed entrava in esso anche, e non per poco, il fatuo
puntiglio della scaltrezza isolana, di fuggire alla sopraffazione della forza pubblica.
Serano internati nell'isola,
correndo innanzi alle milizie che da Palermo si disponevano a invadere le altre provincie.
Se fossero riusciti a traversarla tutta, si sarebbero rifugiati a Valsanía, e di là si
sarebbero imbarcati per Malta o per Tunisi. Sarebbe piaciuto a Lando di spatriare a Malta,
luogo d'esilio di suo nonno, non perché ardisse di comparar la sua sorte a quella di lui,
ma perché da un pezzo aveva in animo di recarsi a Búrmula a rintracciarne, se gli fosse
possibile, i resti mortali, con le indicazioni di Mauro Mortara, non ben sicure veramente,
poiché il seppellimento era avvenuto nella confusione della gran moría a Malta nel 1852.
Invano Lino Apes, pigliando pretesto dagli incidenti e dai disagi della fuga precipitosa,
ora a piedi, ora su carretti senza molle, ora su vetturette sgangherate, sú per monti,
giú per vallate, in cerca di cibo e di ricovero, aveva tentato di dimostrare agli amici
che, dopo tutto, quello che facevano non era cosa tanto seria, di cui, volendo, non si
potesse anche ridere. Era, per esempio, lo strappo alle loro illusioni una ragione
sufficiente perché non si désse alcuna importanza a quello che egli sera fatto ai
calzoni, scendendo da un carretto? Piú vecchie di Tiberio Gracco, quelle illusioni; e i
suoi calzoni erano nuovi! Dove aveva lasciato Cataldo Sclàfani il pacco della Sua
magnifica barba? Niente meglio che un pelo di quella barba - pensando filosoficamente -
avrebbe potuto rammendare i suoi calzoni! Lo squallido aspetto dei luoghi, nella
desolazione invernale, la costernazione per il cammino incerto e faticoso, l'ansia di
apprendere notizie qua e là di quanto era accaduto dal momento della loro fuga, avevano
lasciato senz'eco di riso le arguzie di Lino Apes.
Dalle impressioni a mano a mano
raccolte, internandosi sempre piú, su quelle misure eccezionali adottate all'improvviso
dal governo, era sorto nell'animo di Lando piú fermo il convincimento dello sbaglio
commesso dai suoi amici. L'antico, profondo malcontento dei Siciliani era d'un tratto
diventato ovunque fierissima indignazione: per quanto i piú alti ordini sociali fossero
spaventati dalle agitazioni popolari, ora, di fronte a quella sopraffazione militare, a
quell'aria di nemico invasore della milizia che aboliva per tutti ogni legge e sopprimeva
ogni garanzia costituzionale, si sentivano inclinati se non ad affratellarsi con gli
infimi, se non a scusarli, almeno a riconoscere che infine questi, finora, nei conflitti,
avevano avuto sempre la peggio, né mai serano sollevati a mano armata, e che, se a
qualche eccesso erano trascesi, vi erano stati crudelmente e balordamente aizzati dagli
eccidii. La nativa fierezza, comune a tutti gli isolani, si ribellava a questa nuova onta
che il governo italiano infliggeva alla Sicilia, invece di un tardo riparo ai vecchi mali;
e per tutto era un fremito di odio alle notizie che giungevano, di paesi circondati da
reggimenti di fanteria, da squadroni di cavalleria, per trarre in arresto a centinaja,
senz'alcun discernimento e con furia selvaggia, ricchi e poveri, studenti e operaj, e qua
consiglieri e là maestri e segretarii comunali, e donne e vecchi e finanche fanciulli:
soppressa la stampa; sottoposta a censura anche la corrispondenza privata; tutta l'isola
tagliata fuori dal consorzio civile e resa legata e disarmata all'arbitrio d'una dittatura
militare.
Come un cavallo riottoso, cacciato
contro sua voglia lontano dagli ostacoli che avrebbe dovuto superare, a un tratto,
investito da una raffica turbinosa, aombra e simpenna e recalcitra, fremendo in
tutti i muscoli, Lando Laurentano, investito dalla veemenza di quell'indignazione
generale, a un certo punto sera impuntato, sentendosi soffocare dall'avvilimento
della sua fuga. Era proprio il momento di fuggire, quello? di lasciare il campo? Il
terreno scottava sotto i piedi; l'aria era tutta una fiamma. Possibile che l'isola, da un
capo all'altro fremente, si lasciasse schiacciare, pestare cosí, senza insorgere con
l'esasperazione dell'odio sí lungamente represso e ora sí brutalmente provocato? Forse
bastava un grido! Forse bastava che uno si facesse avanti! Giunti a Imera, alla notizia
che in un paese lí presso, a Santa Caterina Villarmosa, il popolo era insorto, Lando non
poté piú stare alle mosse, e, non ostante che gli amici facessero di tutto per
trattenerlo, gridandogli che non c'era piú nulla da tentare, da sperare e che andrebbe a
cacciarsi da sé balordamente tra le grinfie della forza pubblica, volle andare. Solo Lino
Apes lo seguí, ma con la speranza di raffreddarlo e d'arrestarlo a mezza via, assumendo
per l'occasione, come meglio poté, la parte di Sancio, perché l'amico, che sapeva
sensibile al ridicolo, si scoprisse accanto a lui Don Chisciotte. E difatti, presto, i
giganti che Lando nell'esaltazione sera figurato di vedere in quei popolani di Santa
Caterina Villarmosa, insorgenti a sfida della proclamazione dello stato d'assedio, gli si
scoprirono molini a vento. Nei pressi del paese, seppero che colà non si sapeva ancor
nulla di quella proclamazione: un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo
ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un
crocefisso in capo alla processione, gridando "Viva il re! abbasso le tasse!"
sera messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando
una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro
carabinieri appostati. L'ufficiale che li comandava (non per niente si chiamava Colleoni)
aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lí calcata
e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse piú muovere; e lí non una, ma
piú volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra
cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero. Solo, qua e là, il
grido dei parenti che piangevano gli uccisi, e i gemiti dei feriti.
"Ti basta?" domandò Lino
Apes a Lando.
Questi si volse al vecchio contadino
che aveva dato quei ragguagli e che, paragonando il paese a un cimitero, aveva indicato
una collina lí presso su cui sorgevano alcuni cipressi, e gli domandò:
"Sono lí?"
Il vecchio contadino, con gli occhi
aguzzi d'odio e intensi di pietà, crollò piú volte il capo; poi tese le dita delle due
mani deformi e terrose, per significare prima dieci e poi uno; e con lo sguardo e col
silenzio, che seguí a quel muto parlare, espresse chiaramente chegli li aveva
veduti. Lando si mosse verso la collina.
"Ho capito!" sospirò Lino
Apes. "Ora divento Orazio... Seconda rappresentazione: Amleto al cimitero."
Nel piccolo, squallido camposanto su
la collina, tranne il custode freddoloso, con un leggero scialle di lana appeso alle
spalle, non c'era nessuno. Seduto su uno sgabelletto, a sinistra dell'entrata, quegli
stava a guardare apaticamente, nel silenzio desolato, le casse schierate per terra innanzi
a sé, come un pastore la sua mandra. Aspettava la visita e le disposizioni dell'autorità
giudiziaria, per il seppellimento. Vedendo entrare quei due, si voltò, poi subito
salzò e si tolse il berretto, credendo che fossero il giudice e il commissario di
polizia. Lino Apes gli si diede a conoscere per giornalista, insieme col compagno, e Lando
lo pregò di fargli vedere qualcuno di quei cadaveri.
Il custode allora si chinò su una
delle casse, piú grande delle altre, tinta di grigio, con due fasce nere in croce, e
tolse una grossa pietra che stava sul coperchio
Due cadaveri in quella cassa, uno su
l'altro: uno con la faccia sotto i piedi dell'altro.
Quello di sopra era d'un ragazzo.
Divaricate, le gambe, la testa, affondata tra i piedi del compagno. A guardarlo cosí
capovolto, pareva dicesse, in quell'atteggiamento: "No! No!"con tutto il
visino smunto, dagli occhi appena socchiusi, contratti ancora dall'angoscia dell'agonia.
No, quella morte; no, quell'orrore; no, quella cassa per due, attufata da quel lezzo crudo
e acre di carneficina. Ma piú raccapricciante era la vista dell'altro, di tra le scarpe
logore del ragazzo, coi grandi occhi neri ancora sbarrati e un po' di barba fulva sotto il
mento. Era d'un contadino nel pieno vigore delle forze. Con quei terribili occhi sbarrati
al cielo, dal corpo supino chiedeva vendetta di quell'ultima atrocità, del peso di
quell'altra vittima sopra di sé.
"Vedete, Signore," pareva
dicesse, "vedete che hanno fatto!"
Non una parola poté uscire dalle
labbra di Lando e dell'Apes; e il custode richiuse il coperchio e di nuovo vi impose la
grossa pietra.
Dopo altre e altre casse di nudo
abete, misere, una ve n'era, foderata di chiara stoffa celeste, piccola, cosí piccola,
che a Lando sorse, nel dubbio, la speranza che almeno quella non fosse della strage.
Guardò il custode che vi si era affisato, e dal modo con cui la mirava comprese che, sí,
anche quella... anche quella... Glielo domandò e il custode, dopo avere un po' tentennato
il capo, rispose:
"Una 'nnuccenti... (Una
fanciullina)."
"Si può vederla?"
Lino Apes, rivoltato e su le spine,
si ribellò:
"No, lascia, via, Lando! Non
vedi? La cassa è inchiodata..."
"Oh, per questo..." fece
il custode, togliendo di tasca un ferruzzo. "Devo schiodarla per il giudice
istruttore. Ci vuol poco...
E si chinò a schiodare il lieve
coperchio, con cura per la gentilezza di quella stoffa celeste. I chiodi si staccavano
docili dal legno molle, a ogni spinta. Scoperchiata la piccola bara, vi apparve dentro la
fanciullina non ancora irrigidita dalla morte, ancora rosea in viso, con la testina
ricciuta, un po' volta da un lato, e le braccia distese lungo i fianchi. Ma la boccuccia
rossa era coperta di bava e dal nasino le colava una schiuma sanguigna, gorgogliante
ancora, a intervalli che pareva avessero la regolarità del respiro.
"Ma è viva!" esclamò
Lando, con raccapriccio.
Il custode sorrise amaramente:
"Viva?" e ripose il
coperchio.
La avrebbe fatta andar via ancora
viva quella mamma che cosí l'aveva pettinata e acconciata, che con tanto amore aveva
adornato di quella chiara stoffa celeste la piccola bara?
"Questo
hanno fatto..." mormorò Lando.
E Lino Apes e il custode credettero
chegli alludesse ai soldati, che avevano ucciso quella povera bimba. Lando
Laurentano, invece, alludeva ai suoi compagni, e aveva innanzi alla mente non piú
l'immagine di quella piccina, la quale almeno aveva avuto le cure della gentile pietà
materna, ma l'immagine atroce di quell'altra vittima grande, con su la faccia le scarpe
dell'altro cadavere, e gli occhi sbarrati, pieni di smisurata angoscia, rivolti al cielo.
Nell'antico
palazzo dei De Vincentis, fuori annerito dal tempo e tutto screpolato come una rovina, dai
balconi e dalla vasta terrazza vellutati di muschio, con le ringhiere a gabbia
arrugginite, ma dentro, negli ampii cameroni, pieno di luce e di pace, con quei santi e
fori di cera nelle campane di cristallo che pareva diffondessero per tutto un odor di
badía, il silenzio stampato sui mattoni coi rettangoli di sole delle invetriate che
sallungavano lentissimamente sempre piú, seguiti dal fervor lento e lieve del
pulviscolo, era rotto da un cupo romore cadenzato di passi. Da una settimana Vincente De
Vincentis, dimentico dei codici arabi della biblioteca di Itria, se ne stava in una
camera, avvolto in un vecchio pastrano stinto, col bavero alzato, a passeggiare dalla
mattina alla sera, con le mani adunche, afferrate dietro il dorso, il capo ciondoloni e
gli occhi tra i peli, quasi ciechi, poiché in casa non portava mai gli occhiali.
Nella stanza accanto, presso la
vetrata del balcone, stava seduta a far la calza, con uno scialle grigio di lana addosso e
un fazzoletto nero in capo di lana, anchesso annodato sotto il mento, boffice e
placida come una balla, donna Fana, la vecchia casiera. Per metà dentro al rettangolo di
sole, quasi vaporava nella luce, e la calugine dello scialle di lana, accesa, brillava con
gli atomi volteggianti del pulviscolo.
Donna Fana aveva composto con le sue
mani nelle bare prima il padrone, morto giovane, poi la padrona, di cui, piú che la
serva, era stata l'amica e la consigliera, e aveva veduto nascere e crescere tra le sue
braccia i due padroncini, ora affidati del tutto alle sue cure. Da giovane, era stata
conversa nel monastero di San Vincenzo, ed era rimasta "senza mondo" com'ella
diceva, cioè vergine e quasi monaca di casa. Traeva a quando a quando, come nel
monastero, certi sospiri ardenti, seguiti dall'immancabile esclamazione:
"Se fossi là!"
Ma non c'era piú nessuno che le
domandasse, come usava tra le monache: "Dove, sorella mia?" perché ella potesse
rispondere in un altro sospiro:
"Con gli angeletti!"
Ma nella pace degli angeli,
veramente, era stata sempre, in quella casa. La padrona: una vera santa, ingenua fino a
grande come una bambina, incapace di pensare il male, e tutta dedita alla religione e alle
opere di misericordia; quei due figliuoli: anchessi uno piú buono dell'altro,
costumati e timorati di Dio.
Ora, poteva mai il Signore
abbandonare quella casa e lasciarla andare in rovina?
Donna Fana pareva fosse a parte di
tutti i voleri di Dio; e parlava del Paradiso, come se già vi fosse e seguitasse a farvi
la calza sotto gli occhi del Padre Eterno, di cui sapeva dire dove e come stava seduto,
insieme con Gesú Nostro Salvatore e la Bella Madre. Da tempo aveva preparato i capi di
biancheria e la veste e le pianelle di panno e il fazzoletto di seta per comparire al
Giudizio Universale, sicurissima che il Giudice Supremo l'avrebbe chiamata tra gli eletti,
cosí tutta bella pulita e rassettata; e ogni sera faceva una speciale orazione a Santa
Brigida, che doveva annunziarle in sogno, tre giorni prima, l'ora precisa della morte,
perché fosse pronta e in regola coi sagramenti. Non si angustiava dunque di nulla; e per
lei tutta quella costernazione di Vincente (chella chiamava don Tinuzzo) era una
fanciullaggine. La raffermava in questa opinione, non solo la fiducia in Dio, ma anche la
fede incrollabile che la ricchezza di quel casato non potesse aver mai fine. E seguitava a
governare con l'antica abbondanza, per modo che tutte le poverelle del vicinato venissero
a fin di tavola a spartirsi il superfluo e i resti del desinare, come al solito per tanti
anni; e a tener provvista la dispensa d'ogni ben di Dio, e a preparare con le sue mani ai
padroncini i rosolii e i dolci tradizionali, imparati alla badía, il cúscuso di
riso e pistacchi, i pesci dolci di pasta di mandorla, le pignoccate, e tutte le conserve e
le cotognate e i frutti in giulebbe.
Forse, sí, qualche cosa raspava,
sotto sotto, don Jaco Pàcia, l'amministratore.
"Ma che?" domandava a
Niní, dopo qualche sfuriata del fratello maggiore. "Mollichelle, figlio mio,
mollichelle!"
Uomo di chiesa anche lui, don Jaco
Pàcia, era mai possibile che rubasse come e quanto diceva don Tinuzzo? Ma se a lei don
Jaco seguitava a dare per l'andamento di casa quello stesso che aveva dato sempre, senza
far mai la piú piccola osservazione? Tutto il maneggio dei denari lo aveva lui; via!
bisognava chiudere un occhio, se qualcosina gli restava attaccata alle dita. Donna Fana lo
difendeva, in coscienza, perché della onestà dei pensieri e delle azioni del Pàcia
credeva d'avere una prova nel fatto che, l'anno che don Jaco era andato a Roma, le aveva
portato di là una corona benedetta e una tabacchiera col ritratto del Santo Padre. Se
avesse saputo che, quel giorno stesso, don Jaco, per far denari, oltre la cessione delle
terre di Milione a don Flaminio Salvo, sarebbe venuto a proporre un'ipoteca su quel
palazzo, ov'ella stava cosí tranquillamente a far la calza! Quest'ultima bomba,
veramente, non se l'aspettava neanche Vincente. Oltre quella delle terre da cedere egli
aveva, sí, un'altra grave preoccupazione, che non gli dava requie da due giorni, ma
d'indole affatto diversa. Aveva scoperto nell'angolo d'uno stanzone ov'era affastellata la
roba fuori d'uso, un fucilaccio antico, di quelli a pietra focaja, tutto incrostato di
ruggine e di polvere. Proclamato lo stato d'assedio e il disarmo in tutta la Sicilia, non
era egli in obbligo di consegnare quell'arnese là? Niní e donna Fana dicevano di no;
Niní anzi sosteneva che sarebbe sembrata, piú che una impertinenza, uno scherno
oltraggioso all'autorità la consegna d'un'arma come quella. Ma che ne sapevano essi? Come
lo dicevano? Cosí, di testa loro! L'ordine di consegnare tutte quante le armi, senza
eccezioni, era positivo e perentorio. Era un'arma, quella, sí o no? Poteva essere antica,
anzi era antica e mangiata dalla ruggine, ma sempre arma era! E forsanche carica e
pronta a sparare... Si vedeva la pietra focaja; e l'acciarino, eccolo lí, pendeva da una
catenella...
"Ebbene, prendila e va' a
consegnarla!" gli aveva gridato, Niní, scrollandosi, il giorno avanti. Aveva ben
altro da pensare, lui, in quei momenti, nelle rare comparse che faceva in casa, tutto
stravolto e impaziente di ritornare al suo supplizio, presso Dianella.
Vincente avrebbe preteso che Niní
perdesse una mezza giornata, nelle condizioni d'animo in cui si trovava, per chiedere
informazioni su quell'arma. Una parola, prenderla! E se scoppiava? Consegnarla poi a chi,
dove? Alla prefettura? al municipio? al commissariato di polizia? Egli non ne sapeva
niente; e ad andare a domandarlo cosí, fingendo d'averne curiosità, dopo due giorni,
c'era il rischio di far nascere qualche sospetto e d'attirarsi una perquisizione n casa.
Lo stato d'assedio aveva messo e
teneva Vincente De Vincentis in tale orgasmo, da fargli vedere ovunque minacce e pericoli
terribili. Sera proposto di non uscir piú di casa, fintanto che fosse durato. Ma
se, per il maledetto vizio di donna Fana di chiamare a parte tutto il vicinato d'ogni
minimo incidente in famiglia, la polizia fosse venuta a sapere di quell'arma?
All'improvviso, la vecchia casiera
lo vide uscire, frenetico, dalla camera in cui stava chiuso, con le braccia in aria e
gridando:
"Scoppii! m'ammazzi! non me
n'importa niente! Vado a prenderlo, vado a prenderlo io!"
"Per carità, lasci, don
Tinuzzo!" esclamò donna Fana, correndogli dietro. "Non sia mai, Dio, con questa
furia... Vede come trema tutto? Lasci fare! Chiamerò qualcuno dal balcone..."
"Chi chiamate? Non
v'arrischiate..." sera messo a urlare, paonazzo in volto, Vincente, quando
dalla porta, sempre aperta di giorno, comparve don Jaco Pàcia con la sua solita aria di
santo, caduto dal cielo in un mondo di guaj e d'imbrogli. Era lungo e secco, come di
legno, con la faccia squallida, segnata con trista durezza dalle sopracciglia nere ad
accento circonflesso, in contrasto col largo sorriso scemo, beato, sotto glispidi
baffi bianchi. Gli occhi, dalle pàlpebre stirate come quelle dei giapponesi, non
scoprivano il bianco e restavano opachi e come estranei alla durezza di quegli accenti
circonflessi e alla scema beatitudine dell'eterno sorriso. Con le braccia raccolte sempre
sul petto e le grosse mani slavate e nocchierute prendeva atteggiamenti di umiltà
rassegnata.
Udito di che si trattava, prese
sopra di sé l'affare di quel fucile, e disse che aveva, non una, ma cento ragioni don
Tinuzzo di costernarsi cosí. Sicuro, era un'arma! E, Dio liberi, in un momento come
quello... Momento terribile per tutta la Sicilia! Ma c'era lui, c'era lui, lí, per quei
due bravi giovanotti e, con l'ajuto di Dio, niente paura, da questa parte! I guaj, guaj
grossi, erano invece da un'altra. E cominciò a rappresentare tutte le sue fatiche per
rintracciare glincartamenti delle terre di Milione, prima all'archivio
notarile, poi nella cancelleria del tribunale e in quella del Vescovado per tutti i
piccoli e grossi censi che gravavano su quelle terre.
Ora glincartamenti erano
pronti e in ordine dal notajo; ma don Flaminio Salvo non voleva pagar le spese dell'atto
di vendita, e forse dal suo canto aveva ragione, perché, dopo tutto, faceva un gran
favore... lui banchiere..."
"Ah sí, un gran favore? un
gran favore?" scattò furibondo Vincente, "come per Primosole, è vero?
un gran favore!"
Don Jaco lo lasciò sfogare, in uno
dei soliti atteggiamenti di santo martire; poi disse:
"Ma abbiate pazienza, don
Tinuzzo mio! Che forse don Flaminio ha altri figliuoli, oltre quella già fidanzata a
vostro fratello don Niní? Non vedete che è tutta una finta, santo Dio? Domani si fa lo
sposalizio e, gira e volta, alla fine tutto ritornerà qui!"
"Tutto, eh? Bello .. facile...
liscio come l'olio..." prese a dire Vincente, con furiosi inchini. "Lo
sposalizio dei matti! Ma se è cosí, perché don Flaminio si ricusa di pagar le spese
dell'atto? Segno che non ci crede! Chi vi dice che questo matrimonio si farà? chi vi dice
che..."
"Don
Tinuzzo!" lo interruppe quello. "Vostro fratello don Niní è entrato, sí o no,
in casa del Salvo? o me l'invento io? Santo nome di Dio benedetto! Sono ormai parecchi
giorni? Dunque, che vuol dire? Vuol dire che la ragazza ci sta! Ora volete che la paglia
accanto al fuoco... Del resto, oh! ecco qua don Niní in persona... Nessuno meglio di lui
ve lo potrà confermare."
Vincente corse innanzi al fratello
che entrava; gli saccostò a petto, fremente; gli afferrò con le mani adunche le
braccia, e alzò da un lato la faccia congestionata per sbirciarlo bene in volto, da
vicino, con gli occhi miopi.
"Sí! guardatelo!" poi
sghignò, allontanandosi e mostrandolo. "Vedete che faccia ha! Pare un morto, lo
sposo!"
Niní, cosí soprappreso, restò in
mezzo alla stanza a guardare il fratello e don Jaco e donna Fana, come insensato.
Aveva veramente dipinta una torbida
angoscia nel volto che di solito esprimeva la bontà mite e gentile dell'animo; e i begli
occhi neri, vellutati, erano intensi di tetro cordoglio, eppur quasi smemorati. Come seppe
che cosa si voleva da lui e per qual fine, sadontò fieramente, agitando le braccia,
col volto atteggiato di schifo. Don Jaco da una parte, donna Fana dall'altra, cercarono di
calmarlo, d'interrogarlo con garbo; ma invano: si storceva, scotendo il capo, con un grido
soffocato in gola.
"Ma dite almeno se c'è qualche
speranza, per tranquillare vostro fratello!" gli gridò alla fine don Jaco a mani
giunte.
Niní lo guatò con un lampo strano
negli occhi. Ma se non ci fosse piú alcuna speranza di richiamare Dianella alla ragione,
che sarebbe piú importato a lui della rovina della casa, della miseria, di tutto? Era mai
possibile che qualcuno potesse sperar la salvezza di Dianella soltanto per questo, per
salvar dalla rovina la casa? che tutto il suo impegno, il suo supplizio dovessero per
quella gente servire a questo scopo? Ecco, lo costringevano a gettare la sua speranza come
un'offa per placar la paura di quella miseria! Ebbene, sí, c'era una speranza, c'era,
c'era...
E Niní, coprendosi il volto, ruppe
in uno stridulo pianto convulso.
Flaminio Salvo
aveva stentato molto a decifrare la lettera della sorella Adelaide, la cui scrittura, non
soltanto per gli spropositi d'ortografia quasi sempre illeggibile, pareva quella volta
piú che mai una furiosa raspatura di gallina. Tutta un grido d'ajuto e di minaccia,
quella lettera, tra imprecazioni ed esclamazioni disperate. Le aveva risposto brevemente e
pacatamente, che presto sarebbe venuto a visitarla a Colimbètra e che intanto stésse
tranquilla, come si conveniva a una donna della sua età e della sua condizione. Un
sorriso frigido gli era venuto alle labbra, sogguardando dopo la lettura quel foglietto di
carta che avrebbe voluto recargli ancora un dispiacere. Pian piano lo aveva ripiegato e
sera messo a lacerarlo lentamente, per lungo e per largo, in pezzetti sempre piú
piccoli, senza piú badare a quello che faceva, caduto in un attonimento grave, d'uggia
aggrondata; alla fine, aveva guardato sul piano della scrivania l'opera delle sue dita:
tutto quel mucchietto di minuzzoli di carta. Chi sa se non aveva fatto soffrire anche quel
foglietto, a lacerarlo e ridurlo cosí, in tutti quei minuzzoli! Gli era rimasto un
bruciorino ai polpastrelli dell'indice e del pollice, che serano accaniti in
quell'opera di distruzione, senza chegli la volesse; da sé, per il gusto di
distruggere. Ah, poter ridurre in minuzzoli cosí, senza pensarci, la vita, tutta quanta:
ripiegarla in quattro, come un foglio sporco di spropositi, e strapparla per lungo e per
largo, dieci, venti, trenta volte, pezzo per pezzo, lentamente!
Con uno sbuffo aveva sparpagliato su
la scrivania e per terra tutti quei minuzzoli, e sera alzato. Guardando dai vetri
del balcone la distesa ben nota, sempre uguale, delle campagne, le due scogliere lontane
di Porto Empedocle, protese nel mare laggiú a occidente, come due braccia; le macchie
scure dei piroscafi ancorati, e immaginando il traffico di tanta gente lí a' suoi
servizii per l'imbarco dello zolfo delle sue miniere accatastato su la spiaggia,
sera sentito soffocare da tutte le noje, da tutti i pensieri che da anni e anni gli
venivano da quel traffico per lui ormai superfluo, necessario a tanti che ne traevano i
mezzi per provvedere ai meschini bisogni quotidiani e affrontar le miserie, i dolori, di
cui è intessuta la loro vita e quella di tutti. E sera messo a pensare che, lui
sazio e stanco, con la nausea della sazietà e l'abbandono della stanchezza, restava lí
come disteso a farsi mangiare da tanti irrequieti affamati di cui non glimportava
nulla. Ma avrebbe potuto forse impedirlo? L'opera sua, di tutta la sua vita, aveva preso
corpo fuori di lui, e stava lí per gli altri. Poteva forse quella distesa di campagne
impedire che tanti uomini vi affondassero le zappe e gli aratri, vi piantassero gli alberi
e ne raccogliessero i frutti? Cosí era ormai di lui. E, come la terra, egli non sentiva
alcuna gioja del lavoro che gli altri facevano sopra di lui per raccogliere il frutto; né
questi altri, quantunque gli camminassero sopra, potevano dargli compagnia, penetrare,
rompere la sua solitudine che aveva ormai l'insensibilità della pietra. Sentiva solamente
un enorme fastidio di tutto, che gli schiacciava la volontà di liberarsene, e solo gli
moveva ancora inconsciamente le dita, come dianzi, a far del male a un foglietto di carta.
Ma tutte le cose ormai per lui avevano il valore di quel foglietto di carta; e bisognava
pur lasciare che le dita, almeno le dita, facessero qualche cosa, da sé, poiché il
fastidio le moveva. Se si fossero rivoltate e accanite anche contro di lui, le avrebbe
lasciate fare, allo stesso modo.
Davvero? O non fingeva l'incoscienza
delle sue dita nel lacerar la lettera della sorella, per poter dire a se stesso che anche allo
stesso modo, aveva lacerato, dopo il suo ritorno a Girgenti, certe altre lettere
appena intraviste nei cassetti della scrivania o nel palchetto a casellario che gli stava
davanti? Certe lettere con la firma di Nicoletta Capolino?
Veramente, no: le immagini di
Aurelio Costa e di Nicoletta Capolino non erano mai venute a piantarglisi di fronte,
cosicché egli potesse respingerle con un logico sorriso, dando le sue ragioni e facendo
loro notare che a essi mancavano per perseguitarlo coi rimorsi. La persecuzione loro era
piú d'ogni altra irritante, perché non appariva. Non appariva, per questa ragione
certissima e solida e pesante come una pietra di sepoltura: che erano stati
anchessi, l'uno per il suo proprio accecamento, l'altra per un suo motivo
particolarissimo, a volere quella loro morte.
Eppure... Eppure, sotto questa
ragione che li seppelliva e glieli rendeva invisibili, essi, in un modo chegli non
avrebbe saputo definire, gli erano... non presenti, no, mai; anzi costantemente assenti:
ma con questa loro assenza intanto lo perseguitavano. Erano tutti e due di là, con
Dianella, nell'assenza della sua ragione. Eli non li vedeva, ma pur li sentiva nelle
parole vuote di senso, negli sguardi e nei sorrisi vani della figliuola. E allora, anche a
lui irresistibilmente come dal fondo delle viscere contratte dall'esasperazione, venivano
alle labbra parole vuote di senso, del tutto impensate; strane, vaghe parole che gli
atteggiavano il viso a seconda delle diverse espressioni che contenevano in sé, per conto
loro, fuori assolutamente della sua coscienza e senz'alcuna relazione col suo stato
presente. Ed ecco che, quel giorno, per seguitar la finzione della sua incoscienza, dopo
aver lacerato la lettera della sorella, si era anche messo a dire, allo stesso modo,
parole impensate:
"Quello che serve... quello che
serve..."
Se non che, alla fine, aveva mutato
in ragionamento la finzione, apparsa a lui stesso troppo evidente:
"Quello che serve... sí. Devo
accendere un sigaro? Mi serve un fiammifero. Ecco il sigaro... ecco il fiammifero: per
sé, due cose; ma fatte per il mio bisogno di fumare. Prima l'uno, poi l'altro, li accendo
e li distruggo... Quanti fiammiferi ho accesi! Troppi... E tutta l'opera mia è andata in
fumo!
Male, perché non sono riuscito allo
scopo... ma io volevo maritar bene la mia figliuola, perché avessero almeno una bella
corona... già! una corona principesca... tutte le mie fatiche e le mie lotte. Una corona
principesca!... Fumo? Vanità? Eh, ma almeno questo compenso alla morte del mio bambino!
Vanità, per forza, se la sorte volle togliermi ogni ragione di attendere a cose piú
serie, e mi lasciò una povera figliuola con l'ombra intorno della pazzia materna. E
ormai... ormai... se servo io, per il bisogno che qualcuno abbia di fumare..."
Ma sí, ecco: non aveva lasciato
entrare in casa quello stupido buon figliuolo del De Vincentis? E gli aveva messo davanti
la figliuola: là! per l'esperimento! E se l'avesse guarita, con quei suoi begli occhi a
mandorla vellutati, con quelle sue dolci manierine di dama, ecco che don Jaco Pàcia,
seduto lí davanti a quella scrivania, maestro e donno, in pochi anni si sarebbe fumati a
uno a uno tutti i suoi biglietti di banca e le sue cartelle di rendita e le zolfare e le
campagne e le case e gli opificii.
"Quello che serve... quello che
serve..."
Questa seccatura della sorella
Adelaide, intanto, no, era proprio di piú. Che voleva da lui? Non stava comoda al suo
posto? C'erano spine? Oh cara! E voleva le rose da lui? Con tutti quei
"militari" che le facevano scorta; con quei ritratti dei Re Borboni che la
proteggevano, via, poteva esser lieta e contenta... Fosse stato lui al posto di lei!
Fallito ogni scopo, il solo pensiero
di rivedere don Ippolito e di parlargli, era per lui ora un'oppressione intollerabile.
Come resistere, con l'arida nudità del suo animo desolato, senza piú uno straccio
d'illusione, alla vista di quell'uomo tutto quanto composto e addobbato e parato di nobile
decoro? Gli pareva ora incredibile che avesse potuto prendere sul serio quella via per
arrivare al suo scopo... Povera Adelaide! C'era andata di mezzo lei... Ma, dopo tutto,
via! la villa era sontuosa e il posto ameno; con un po' di pazienza e di buona volontà,
poteva sopportar la noja di quell'uomo non fatto propriamente per lei.
In tale disposizione d'animo, scese
due giorni dopo, in vettura, a Colimbètra. Il sorriso, venutogli alle labbra, su
l'entrare, al saluto degli uomini di guardia parati, sí, ancora militarmente, ma senza
piú armi, non gli andò via per tutto il tempo che durò la visita. Sorridendo ascoltò
sotto le colonne del vestibolo esterno la risposta di capitan Sciaralla impostato su
l'attenti, che le armi, nossignore, non erano state consegnate all'autorità, ma si
tenevano riposte per prudenza; sorridendo accolse l'invito di Liborio d'accomodarsi nel
salone, e, poco dopo, l'irrompere come una bufera della sorella Adelaide e le prime
domande affannose, tra il pianto, intorno a Dianella.
"Mah... fa cura d'amore,"
le rispose.
E sorrise allo sbalordimento quasi
feroce della sorella, per la sua placida risposta.
"Ridi?... Dunque può
guarire?"
"Guarire... Speriamo! La cura
è buona..."
Sorrise di piú alle improperie che
donna Adelaide gli scagliò in un impeto aggressivo, e poi alla rappresentazione di tutte
le ambasce, di tutte le sofferenze e dei maltrattamenti chella chiamava
"pestate di faccia", da parte del marito.
"Bada, Flaminio!" proruppe
a un certo punto la sorella; vedendolo sorridere a quel modo. "Bada! Finisce
chio la faccio davvero, la pazzia!"
Egli la guardò un poco, e poi,
aprendo le braccia:
"Ma perché? Scusa, se hai una
bellissima cera!"
A questa uscita, la sorella scappò
via come per porre a effetto, subito subito, la minaccia.
E allora, attendendo che entrasse il
principe per la seconda scena, sorrise ai ritratti dei due re di Napoli e Sicilia che lo
guardavano con molta serietà dall'alto della parete.
Don Ippolito, scuro in viso e,
dentro, in gran pensiero per la sorte del figliuolo di cui non aveva piú notizie, entrò
nel salone, maldisposto anche lui a quell'incontro, dal quale l'unico bene che potesse
ripromettersi sarebbe stato certamente a costo d'uno scandalo, dopo la nauseante amarezza
di volgari spiegazioni. Ma si rischiarò alla vista di quel sorriso sulle labbra del
cognato. Lo interpretò nel senso che due uomini com'essi erano, non potessero e non
dovessero dare alcuna importanza alle lagrimucce facili, alle smaniette passeggere d'una
donna, che la loro generosità maschile poteva e doveva senza stento compatire.
Sorrise allora anche lui, ma con
mestizia, don Ippolito, stringendo la mano al cognato; e, seguitando a sorridere, gli
parlò pacatamente e in quel tono di superiorità maschile del suo dispiacere per i
dissapori sorti tra lui e la moglie, perché tardava ancora... eh, tardava purtroppo a
stabilirsi l'accordo tra i loro sentimenti e i loro pensieri, non volendo ella intendere
le ragioni per cui...
"Ma via, principe!" cercò
d'interromperlo il Salvo.
"No no," sostinò a
dire don Ippolito. "Perché io apprezzo moltissimo il sentimento da cui ella è mossa
a chiedermi quel che non posso accordarle. Io partecipo, credetemi, con tutto il cuore,
alla vostra sciagura, e..."
"Ma se sarebbe, tra l'altro,
inutile la sua presenza!" disse, per troncare il discorso, il Salvo.
E con gran sollievo d'entrambi
presero a parlar d'altro, cioè dei gravi avvenimenti del giorno. Se non che, allora, il
principe restò sconcertato nel notare la permanenza di quel sorriso su le labbra del
cognato, mentr'egli manifestava con tanto calore la sua indignazione, sia per le misure
oltraggiose del governo, sia per la tracotanza popolare. Quale sarebbe stato il suo
stupore se, interrompendosi all'improvviso e domandando a Flaminio Salvo perché
seguitasse a sorridere a quel modo, questi gli avesse risposto:
"Perché?... Ah... Perché in
questo momento sto pensando che Colimbètra ha, tra l'altro, la bella comodità d'esser
molto vicina al cimitero, sicché voi tra poco, morendo, avrete l'insigne vantaggio
d'esser seppellito a due passi da qui, senza attraversare la città, neanche da
morto."
Ma gli sovvenne che il principe
sera fatto edificare nella stessa tenuta, e propriamente nel boschetto d'aranci e
melograni attorno al bacino d'acqua che le dava il nome, un tumulo uguale a quello di
Terone, e gli sorse una viva curiosità di andarlo a vedere. Appena poté, interruppe
anche quel discorso e propose al cognato una giratina in quel boschetto.
Donna Adelaide approfittò di quel
momento per spedire Pertichino di corsa a Girgenti a consegnare un biglietto all'onorevole
deputato Ignazio Capolino: S.P.M. (sue pregiatissime mani).
Quando, sul far della sera, Flaminio
Salvo rientrò in casa, nell'aprir l'uscio della stanza ove di solito stava Dianella
guardata dalla vecchia governante e da una infermiera, ebbe la sorpresa di trovar la
figliuola appesa al collo di Niní De Vincentis, con gli occhi che le si scoprivano appena
di su la spalla del giovine, ilari, sfavillanti di felicità, sotto i capelli
scarmigliati, e le due mani aggrovigliate nella stretta.
"Dianella... Dianella..."
la chiamò, con l'ansia nella voce, di saperla guarita.
Ma Niní De Vincentis, piegando a
stento il capo e mostrando il volto congestionato da un orgasmo atroce, gli rispose
disperatamente:
"Mi chiama Aurelio..."
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 06 September, 1998