Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
VI
Per donna
Adelaide e don Ippolito Laurentano era cominciato, fin dalla prima sera che eran rimasti
soli nella villa di Colimbètra, un supplizio previsto da entrambi difficilissimo da
sopportare, per quanta buona volontà l'uno e l'altra ci avrebbero messo.
Appena andati via glinvitati
alla cerimonia nuziale, don Ippolito, con molto garbo prendendole una mano, ma pur senza
guardargliela per non avvertire quanto fosse diversa da quella tenuta un tempo tra le sue
(pallida e lunga mano morbida, tenera e lieve!), aveva cercato di farle intendere il bene
che da lei si riprometteva in quella solitudine d'esilio, di cui supponeva le dovessero
esser note le ragioni, se non tutte, almeno in parte. Il discorso tenuto sul terrazzo,
davanti alla campagna silenziosa, già invasa dal bujo della notte, era stato, in verità,
un po' troppo lungo e un tantino anche faticoso. La povera donna Adelaide, oppressa dalla
violenza di tanti sentimenti nuovi durante quella giornata, e ora da tutta quell'ombra e
da quel silenzio che le vaneggiavano intorno e le rendevano piú che mai soffocante
l'ambascia per ciò che misteriosamente incombeva ancora su la sua "terribile
signorinaggine", a un certo punto, per quanto si fosse sforzata, non aveva potuto
udir piú nulla di quel pacato interminabile discorso. Aveva avuto l'impressione che esso,
proprio fuor di tempo, la volesse trarre per forza quasi in una cima di monte altissima e
nebbiosa, dalla quale le sarebbe stato difficile se non addirittura impossibile,
ridiscendere ancora in grado di resistere ad altre sorprese, ad altre emozioni che quella
notte certamente le apparecchiava. Non per cattiva volontà, ma per l'aria, ecco, per
l'aria che, a un certo punto, cominciava a sentirsi mancare, non le era stato mai
possibile prestare ascolto a lunghi discorsi. Oh, buon Dio, e perché poi prendere di
questi giri cosí alla lontana, se alla fine pur sempre bisognava ridursi a fare, sú per
giú, le stesse cose, quelle che la natura comanda? Che brutto vizio, buon Dio! F
senz'altro effetto che la stanchezza e la stizza. Anche la stizza, sí. Perché le cose da
fare sono semplici, e da contarsi tutte su le dita d'una mano; cosicché, alla fine,
ciascuno deve riconoscere che tutto quel girare attorno a esse, non solo e inutile, ma
anche sciocco e dannoso, in quanto che poi, per la stanchezza appunto e con la stizza di
questo riconoscimento, si fanno tardi e si fanno male. Dapprima sera messa a
guardare, con occhi tra imploranti e spaventati, il principe, o piuttosto, quella sua
lunga, lunghissima barba. Poi, nell'intronamento, aveva sentito un prepotente bisogno di
ritirare la mano e di soffiare, di soffiare un poco almeno, non potendo sbuffare, non
potendo gridare per dare uno sfogo alla soffocazione e alle smanie. Alla fine, era
riuscita a vincere l'intronamento: gli orecchi le si erano rifatti vivi un istante, ma per
fuggire lontano, per afferrarsi a un qualche filo di suono, nell'oscurità della notte,
che le avesse dato sollievo, distrazione. Veniva dalla riviera, laggiú laggiú,
invisibile, un sordo borboglío continuo. E tutt'a un tratto, proprio nel punto che il
discorso del principe sera fatto piú patetico, donna Adelaide era uscita a
domandargli:
"Ma che è, il mare? Si sente
cosí forte, ogni notte.»
Don Ippolito, dapprima stordito (-
il mare? che mare? -) si era poi sentito cascar le braccia:
«Ah sí... è il mare, è il
mare...»
E le aveva lasciato la mano e si era
scostato.
Donna Adelaide, imbarazzata, non
sapendo come rimediare alla evidente mortificazione del principe per quella domanda
inopportuna, era rimasta come appesa balordamente alla sua domanda.
La risposta sera fatta
aspettare un po'; alla fine era arrivata da lontano, grave:
«Grida cosí, quand'è
scirocco...»
Quella remota voce del mare era a
lui cara e pur triste. Tante volte, nella pace profonda delle notti, gli aveva dato
angoscia e compagnia. Abbandonato su la sedia a sdrajo, sera lasciato cullare da
quel cupo fremito continuo delle acque che gli parlavano di terre lontane, d'una vita
diversa e tumultuosa chegli non avrebbe mai conosciuta. Sera sentito ripiombare
tutt'a un tratto da quel richiamo nella profondità della sua antica solitudine.
Come piú
riprendere il discorso, adesso? E, d'altra parte, come rimaner cosí in silenzio, lasciar
lí discosta nel terrazzo quella donna che ora gli apparteneva per sempre e che sera
affidata alla sua cortesia, in quella solitudine per lei nuova e certo non gradita?
Bisognava farsi forza, vincere la ripugnanza e riaccostarsi. Ma certo, ormai, di non
potere entrare con lei in altra intimità che di corpo, don Ippolito sera domandato
amaramente qual altro effetto questa intimità avrebbe potuto avere, se non lo scàpito
irreparabile della sua considerazione.
E difatti, quella notte...
Ah, la povera donna Adelaide non
avrebbe potuto mai immaginare un simile spettacolo, di pietà a un tempo e di paura! Le
veniva di farsi ancora la croce con tutt'e due le mani. Ah, Bella Madre Santissima! Un
uomo con tanto di barba... un uomo serio... Dio! Dio! Lo aveva veduto, a un certo punto,
scappar via, avvilito e inselvaggito. Forse era andato a rintanarsi di notte tempo nelle
sale del Museo, a pianterreno. E lei era rimasta a passare il resto della notte,
semivestita, dietro una finestra, a sentire i singhiozzi d'un chiú innamorato, forse nel
bosco della Civita, forse in quello piú là, di Torre-che-parla.
Meno male che, la mattina dopo, la
vista della campagna e dello squisito arredo della villa l'aveva un po' racconsolata e
rimessa anche in parte nelle consuete disposizioni di spirito, per cui volentieri, ove non
avesse temuto di far peggio, si sarebbe lei per prima riaccostata al principe a dirgli,
cosí alla buona, senza stare a pesar le parole, che, via, non si désse pensiero né
afflizione di nulla, perché lei... lei era contenta, proprio contenta, cosí...
Le aveva fatto pena quel viso
rabbujato! Pover'uomo, non aveva saputo neanche alzar gli occhi a guardarla, quando a
colazione si era rimesso a parlarle. Ma sí, ma sí, certo: era una condizione insolita,
la loro: trovarsi cosí, a essere marito e moglie, quasi senza conoscersi. A poco a poco,
certo, sarebbe nata tra loro la confidenza, e... ma sí! ma sí! certo!
Sera accorta però che,
dicendo cosí, le smanie del principe erano cresciute, serano anzi piú che piú
esacerbate; e con vero terrore aveva veduto riapprossimarsi la notte. Per parecchie notti
di fila sera rinnovato questo terrore; alla fine aveva ottenuto in grazia d'esser
lasciata in pace, a dormir sola, in una camera a parte. Se non che, il giorno dopo, era
sceso a Colimbètra monsignor Montoro a farle a quattr'occhi un certo sermoncino. E allora
lei, di nuovo: «Oh Bella Madre Santissima! Ma che!... no... Ah, come?... che?... che
doveva far lei?... Gesú! Gesú!... Alla sua età, smorfie, moine? Ah! questo mai! no no!
no no! questo mai! Non erano della sua natura, ecco. E, del resto, perché? Non si poteva
restar cosí? Non chiedeva di meglio, lei. Che faccia aveva fatto Monsignore! E la povera
donna Adelaide, da quel momento in poi, non aveva saputo piú in che mondo si fosse o,
com'ella diceva, aveva cominciato a sentirsi «presa dai turchi». Ma come? il torto era
suo?
Il principe, tutto il giorno tappato
nel Museo, non sera piú fatto vedere, se non a pranzo e a cena, rigido
aggrondato taciturno. Aria! aria! aria! Sí, ce n'era tanta, lí: ma per donna Adelaide
non era piú respirabile. E il bello era questo: che della soffocazione, avvertita da lei,
le era parso che dovessero soffrire tutte le cose, gli alberi segnatamente! Sul principio
dei tre ripiani fioriti innanzi alla villa c'era da piú che cent'anni un olivo saraceno,
il cui tronco robusto, pieno di groppi e di nodi per contrarietà dei venti o del suolo,
era cresciuto di traverso e pareva sopportasse con pena infinita i molti rami sorti da una
sola parte, ritti, per conto loro. Nessuno aveva potuto levar dal capo a donna Adelaide
che quell'albero, cosí pendente e gravato da tutti quei rami, soffrisse.
«Oh Dio, ma non vedete? soffre! ve
lo dico io che soffre! poverino!»
E lo aveva fatto atterrare.
Atterrato, guardando il posto dove prima sorgeva:
«Ah!» aveva rifiatato. «Cosí va
bene! L'ho liberato.»
Né sera fermata qui. Altre
prove di buon cuore aveva dato, le sere senza luna, durante la cena, verso le bestioline
alate che il lume del lampadario attirava nella sala da pranzo. Un certo Pertichino,
ragazzotto di circa tredici anni, figlio del sergente delle guardie, era incaricato di
star dietro la sedia di donna Adelaide e di dar subito la caccia a quelle bestioline,
appena entravano. Se non che, Pertichino spesso si distraeva nella contemplazione
dei grossi guanti bianchi di filo, in cui gli avevano insaccato le mani; e donna Adelaide,
ogni volta, doveva strapparlo a quella contemplazione con strilli e sobbalzi per lo
springare di qualche grillo o per il ronzare di qualche parpaglione.
«Niente! Farfalletta... Non si
spaventi! Eccola qua, farfalletta...»
«Povera bestiola, non farla patire:
staccale subito la testa; se no, rientra... Fatto?»
«Fatto, eccellenza. Eccola qua.»
«No, no, che fai? non me la
mostrare, poverina! Farfalletta era? proprio farfalletta? Povera bestiolina... Ma chi
gliel'aveva detto d'entrare? Con tanta bella campagna fuori... Ah, avessi io le ali,
avessi io le ali!»
Come dire che, senza pensarci due
volte, se ne sarebbe volata via.
Don Ippolito, per quanto urtato e
disgustato, la aveva lasciata fare e dire. Ma una sera, finalmente, non sera piú
potuto tenere. Erano tutti e due seduti discosti sul terrazzo. Egli aspettava che sú
dalle chiome dense degli olivi, sorgenti sul pendío della collina dietro la ripa,
spuntasse la luna piena, per rinnovare in sé una cara, antica impressione. Gli pareva,
ogni volta, che la luna piena, affacciandosi dalle chiome di quegli olivi allo spettacolo
della vasta campagna sottostante e del mare lontano, ancora dopo tanti secoli restasse
compresa di sgomento e di stupore, mirando giú piani deserti e silenziosi dove prima
sorgeva una delle piú splendide e fastose città del mondo. Ora la luna stava per
sorgere, sintravvedeva già di tra il brulichío dei cimoli argentei degli olivi, e
don Ippolito disponeva la sua malinconia attonita e ansiosa a ricevere l'antica
impressione insieme con tutta la campagna, ove era un sommesso e misterioso scampanellío
di grilli e gemeva a tratti un assiolo, quando, all'improvviso, dalla casermuccia sul
greppo dello Sperone, era scoppiato a rompere, a fracassare quell'incanto, il suono
stridulo e sguajato del fischietto di canna di capitan Sciaralla. Donna Adelaide
sera messa a battere le mani, festante.
«Oh bello! Oh bravo il capitano che
ci fa la sonatina!»
Don Ippolito era balzato in piedi,
fremente d'ira e di sdegno, sera turati gli orecchi, gridando esasperato:
«Maledetti! maledetti! maledetti!»
E, afferrando per le spalle Pertichino
e scrollandolo furiosamente, gli aveva ingiunto di correre a gridare a quella canaglia dal
ciglio del burrone dirimpetto, che smettesse subito.
«E poi, fuori di qua! fuori dai
piedi! Non voglio piú vederti! Chi ha qua fastidio delle mosche se le cacci da sé!
zitta, da sé! Sono stanco, sono stufo di tutte queste volgarità che mi tolgono il
respiro! Basta! basta! basta!»
Ed era scappato via dal terrazzo,
con gli occhi strizzati e le mani su le tempie.
Fortuna che,
pochi giorni dopo, sera presentato alla villa don Salesio Marullo, con un viso
sparuto e quasi affumicato, guardingo e sgomento, a chiedere ajuto e ospitalità. Era
diventato, fin dal primo giorno, cavaliere di compagnia di donna Adelaide, la quale
credette che gliel'avesse mandato Iddio.
» Don Salesio, per carità,
mangiate! Per carità, don Salesio, rimettetevi subito! Subito, Pertichino, due
altri ovetti a don Salesio!»
Sera messa a ingozzarlo come
un pollo d'India prima di Natale. Il povero gentiluomo, ridotto una larva, non aveva
saputo opporre alcuna resistenza; aveva ingollato, ingollato, ingollato tutto ciò che gli
era stato messo davanti, e quasi in bocca, a manate; poi... eh, poi l'aveva scontato con
tremende coliche e disturbi viscerali d'ogni genere, per cui, nel bel mezzo d'uno svago o
d'un passatempo concertato con capitan Sciaralla per distrarre la principessa, si faceva
in volto di tanti colori e alla fine doveva scappare, non è a dire con quanta sofferenza
della sua dignità, per quanto ormai intisichita.
La donna Adelaide ne gongolava. Non
potendo nulla contro quella del principe suo marito, per vendetta sera gettata a
fare strazio d'ogni dignità mascolina che le si parasse davanti: anche di quella di
Sciaralla il capitano. Aveva trovato per caso tra le carte della scrivania, nella stanza
del segretario Lisi Prèola, una vecchia poesia manoscritta contro il capitano, dove tra
l'altro era detto:
Oppur vai ai, don
Chisciottino,
all'assalto d'un molino?
od a caccia di lumache
t'avventuri col mattino,
cosí rosso nelle brache,
nel giubbon cosí turchino,
Sciarallino, Sciarallino
E un giorno, chera piovuto
a dirotto, appena cessata la pioggia, era scesa nello spiazzo sotto il corpo di guardia
dove «i militari» facevano le esercitazioni, e chiamando misteriosamente in disparte
capitan Sciaralla, gli aveva ordinato di mandare i suoi uomini, con la zappetta in una
mano e un corbellino nell'altra, in cerca di babbaluceddi, ossia delle lumachelle
che dopo quell'acquata dovevano essere schiumate dalla terra.
Il povero capitano, a quell'ordine,
era rimasto basito.
Come dare militarmente un siffatto
comando ai suoi uomini? Perché donna Adelaide, per metterlo alla prova, aveva preteso che
quella cerca di lumache avesse tutta l'aria d'una spedizione militare.
«Eccellenza, e come faccio?»
«Perché?»
«Se perdiamo il prestigio,
eccellenza...»
«Che prestigio?»
«Ma... capirà, io debbo
comandare... e in momenti come questi...»
«Io voglio i babbaluceddi.»
«Sí, eccellenza... piú tardi,
quando rompo le file...»
«Quando rompete... che cosa?»
«Le file, eccellenza.»
«No no! E allora finisce il bello,
che c'entra! Io voglio babbaluceddi militari!»
E non c'era stato verso di farla
recedere da quella tirannia capricciosa. Con quali effetti per la disciplina, Sciaralla il
giorno dopo lo aveva lasciato considerare amaramente a don Salesio Marullo, già da un
pezzo messo a parte della sua costernazione per le notizie che arrivavano da tutta la
Sicilia, del gran fermento dei Fasci, a cui pareva non potessero piú tener testa
né la polizia, né la milizia, «quella vera«.
«Capissero almeno che qua siamo
anche noi contro il governo... Ma no, caro sí-don Salesio: perché sono una lega, non
tanto contro il governo, quanto contro la proprietà, capisce?»
«Capisco, capisco...»
«Vogliono le terre! E se, cacciati
dalle città, si buttano nelle campagne? Quattro gatti siamo... E piú diamo all'occhio,
perché figuriamo in assetto di guerra, capisce?»
«Capisco, Capisco.»
«Qua, cosí armati, diciamo quasi
noi stessi che c'è pericolo; sfidiamo l'assalto; siamo come un piccolo stato, a cui si
può fare benissimo una guerra a parte, mi spiego? E domani il prefetto un'offesa a noi sa
come la prenderebbe? come una giusta retribuzione. Guarderà gli altri, e per noi dirà:
«Ah, S. E. il principe di Laurentano, vuol fare il re, con la sua milizia? Bene, e ora si
difenda da sé!» Ma con che ci difendiamo noi? Me lo dica lei... Che roba è questa?»
«Piano... eh, con le armi...»
«Armi? Non mi faccia ridere! Armi,
queste? Ma quando si vuol tener gente cosí... e vestita, dico, lei mi vede... coraggio ci
vuole, creda, coraggio a indossare in tempi come questi un abito che strilla cosí... e io
mi sento scolorir la faccia, quando mi guardo addosso il rosso di questi calzoni. Dico,
sí-don Salesio, che scherziamo? Quando, dico, si sta sul puntiglio di non volersi
abbassare a nessuno...»
«Forse,» suggeriva, esitante, don
Salesio, «sarebbe prudente raccogliere...»
«Altra gente? E chi? Sarebbe questo
il mio piano! Ma chi? I contadini? E se sono anchessi della lega? I nemici in
casa?»
«Già... già...»
«Ma che! L'unica, sa quale
sarebbe?...»
A voce, non lo disse: con due dita
si prese sul petto la giubba; guardingo, la scosse un poco; poi, quasi di furto, fece
altri due gesti che significavano: ripiegarla e riporla, e subito domandò:
«Che? No? Lei dice di no?»
Don Salesio si strinse nelle spalle:
«Dico che il principe... forse...»
» Eh già, perché non deve
portarla lui! Sí-don Salesio, il cielo sincaverna, sincaverna sempre piú da
ogni parte; e i primi fulmini li attireremo noi qua, con questi ferracci in mano, vedrà
se sbaglio!»
Scoppiò difatti il fulmine, e
terribile, pochi giorni dopo, e fu la notizia dell'eccidio d'Aragona. Parve che scoppiasse
proprio su Colimbètra, poiché lí, per combinazione, sotto lo stesso tetto si trovarono
il padre dell'autore principale dell'eccidio, cioè il segretario Lisi Prèola, e il
patrigno della vittima, il povero don Salesio. E lo sbigottimento e l'orrore crebbero
ancor piú, allorché da Roma, come il rimbombo di quel fulmine caduto cosí da presso,
giunse l'altra notizia dell'impazzimento di Dianella.
Donna Adelaide, colpita ora
direttamente dalla sciagura, lasciò d'accoppare con la sua fragorosa e affannosa carità
don Salesio e si mise a strillare per conto suo che, con Dianella impazzita a causa di
quell'eccidio, non era piú possibile che rimanesse lí a Colimbètra il padre
dell'assassino! E il principe, per farla tacere, quantunque stimasse ingiusto incrudelire
su quel vecchio già atterrato dalla colpa nefanda del figlio, si vide costretto a
mandarlo via dalla villa, con un assegno. Prima d'andare, il Prèola, strascicandosi a
stento, col grosso capo venoso e inteschiato ciondoloni, volle baciar la mano anche alla
signora principessa e le disse che volentieri offriva ai suoi padroni, per il delitto del
figlio, la penitenza di lasciare dopo trentatré anni il servizio in quella casa, compiuto
con tanto amore e tanta devozione. Donna Adelaide, commossa e pentita, cominciò a dare in
ismanie e chiamò innanzi a Dio responsabile il principe del suo rimorso per l'ingiusta
punizione di quel povero vecchio; sí, il principe, sí, per l'orgasmo continuo in cui la
teneva, cosí che ella non sapeva piú quel che si volesse e, pur di darsi uno sfogo,
diceva e faceva cose contrarie alla sua natura. Le sue smanie divennero piú furiose che
mai, come seppe cherano ritornati da Roma suo fratello Flaminio e Dianella. A
monsignor Montoro, sceso a Colimbètra in visita di condoglianza per la morte di donna
Caterina, domandò con gli occhi gonfii dal pianto, se gli pareva umano che le si
proibisse d'andare a vedere e assistere la nipote, a cui aveva fatto da madre!
Don Ippolito, in quel momento, non
era in villa. Sera recato al camposanto di Bonamorone, poco discosto da Colimbètra,
a pregare su la fossa della sorella. Quando entrò, scuro, nel salone, finse di non vedere
il pianto della moglie, e al vescovo che gli si fece innanzi compunto e con le mani tese,
disse:
«È morta disperata, Monsignore.
Disperata. Il figlio in carcere, compromesso con tanti altri di questi patrioti,
nella frode delle banche. E quel Selmi venuto qua padrino avversario del Capolino, ha
saputo? sè ucciso. Scontano tutti le loro belle imprese! E lo sfacelo, Monsignore!
Dio abbia pietà dei morti. Io mi sento il cuore cosí arso di sdegno, che non m'è stato
possibile pregare. Un fremito ai ginocchi m'ha fatto levare dalla fossa della mia povera
sorella, e mi sono domandato se questo era il momento di pregare e di piangere, o non
piuttosto d'agire, Monsignore! Ma dobbiamo proprio rimanere inerti, mentre tutto si
sfascia e le popolazioni insorgono? Ha sentito, ha letto nei giornali? Le folle hanno un
bell'essere incitate da predicazioni anarchiche; scendendo in piazza a gridare contro la
gravezza delle tasse, recano ancora con sé il Crocefisso e le immagini dei Santi!»
«Anche quelle, però, del re e
della regina, don Ippolito,» gli fece osservare amaramente Monsignore.
«Per disarmare i soldati, queste!«
rispose pronto don Ippolito. «Il segno che l'animo del popolo è ancora con noi, è in
quelle! è chiaro in quelle! Sa che mio figlio è in Sicilia?»
Monsignore chinò il capo piú volte
con mesta gravità, credendo che il principe gli avesse fatto quella domanda per chiamarlo
a parte d'un dispiacere.
«Ha viaggiato insieme con don
Flaminio,» aggiunse con un sospiro, «e con la povera figliuola.»
Donna Adelaide ruppe in nuovi e piú
forti singhiozzi. Don Ippolito pestò un piede rabbiosamente.
«Bisogna vincere i proprii
dolori,» disse con fierezza «e guardar oltre! Saper vivere per qualche cosa che stia
sopra alle nostre miserie quotidiane e a tutte le afflizioni che ci procaccia la vita! Io
ho scritto a mio figlio, Monsignore, e ho fatto anche chiamare il Capolino per proporgli
d'andare ad abboccarsi con lui, se fosse possibile venire a qualche intesa...»
«Ma come, don Ippolito?» esclamò,
con stupore e afflizione, Monsignore. «Con quelli che gli hanno or ora assassinato
barbaramente la moglie?»
Don Ippolito tornò a pestare un
piede sul tappeto, strinse e scosse le pugna, e col volto levato e atteggiato di sdegno,
fremette:
«Schiavitú! schiavitú!
schiavitú! Ah se io non fossi inchiodato qui!»
«Ma che siamo sbanditi? davvero
sbanditi?» domandò allora, tra le lagrime, donna Adelaide, rivolta al vescovo. «Chi ci
proibisce d'uscire di qui, d'andare dove ci pare, Monsignore?»
«Chi?» gridò don Ippolito,
volgendosi di scatto, col volto scolorito dall'ira. «Non lo sapete ancora? Monsignore,
non ha posto lei chiaramente i patti di queste mie nuove nozze sciagurate? Come non sa
ancora costei chi ci proibisce d'uscire di qui?»
«Ma in un caso come questo!«
gemette donna Adelaide. «Vado io sola! Egli può restare! Santo Dio, ci vuole anche un
po' di cuore, ci vuole!»
Monsignor Montoro la supplicò con
le mani di tacere, d'usar prudenza. Don Ippolito si portò e si premette forte le mani sul
volto, a lungo; poi mostrando un'aria al tutto cangiata, di profonda amarezza, di profondo
avvilimento, disse:
«Monsignore, procuri d'indurre mio
cognato a portar qui la figliuola, presso la zia. Forse la quiete, la novità del luogo le
potranno far bene.»
«Ah, qui? davvero qui? Ah se viene
qui...» proruppe allora con furia di giubilo donna Adelaide, dimenandosi, quasi ballando
sulla seggiola. «Sí, sí, sí, Monsignore mio. Sente? lo dice lui! La faccia venire qui,
Monsignore, subito subito, qui, la mia povera figliuola!»
Lieto della concessione, Monsignore
parò le candide mani paffute ad arrestare quella furia:
«Aspettate... permettete? Ecco...
vi devo dire... oh, una cosa che mi ha tanto, tanto intenerito... Qua, sí... ma
aspettate... vedrete che è meglio lasciare per ora a Girgenti la povera figliuola...
Forse abbiamo un mezzo per guarirla. Sí, ecco, l'altro jer sera, sapete chi è venuto a
trovarmi al vescovado? Il De Vincentis, quel povero Niní De Vincentis innamorato da lungo
tempo della ragazza, lo sapete. Caro giovine! Oh se l'aveste veduto! In uno stato, vi
assicuro, che faceva pietà. Si mise a piangere, a piangere perdutamente, e mi pregò, mi
scongiurò di dire a don Flaminio che si fidasse di lui e lo mettesse accanto alla
ragazza, ché egli col suo amore, con la sua calda pietà insistente sperava di scuoterla,
di richiamarla alla ragione, alla vita. Ebbene, che ne dite?
«Magari!» esclamò donna Adelaide.
«E Flaminio? Flaminio?»
«Ho fatto subito, jeri mattina,
l'ambasciata,» rispose Monsignore. «E don Flaminio, che conosce il cuore, la gentilezza
e l'onestà illibata del giovine, ha accettato la proposta, promettendo al De Vincentis
che la figliuola sarà sua se farà il miracolo di guarirla. Ora il giovine è lí, presso
la povera figliuola. Lasciamola stare, donna Adelaide, e preghiamo Iddio insieme, che il
miracolo si compia!»
Con questa esortazione, monsignor
Montoro tolse commiato. Per le scale disse a don Ippolito che aveva in animo di mandare
una pastorale ai fedeli della diocesi, e che fra qualche giorno sarebbe venuto a fargliela
sentire, prima di mandarla. Don Ippolito aprí le braccia e, appena il vescovo partí con
la vettura, andò a rinchiudersi nelle sale del Museo.
Donna Adelaide rimase a piangere,
prima di tenerezza per quell'atto del povero Niní, poi per disperazione, poiché sapeva
purtroppo in che conto la nipote tenesse un tempo quel giovine. Forse, se anche lei avesse
potuto esserle accanto, a persuaderla... chi sa! E cominciò a fremere di nuovo e a
struggersi tra le smanie e a sentirsi divorata dalla rabbia per quella barbarie del
principe, che la costringeva a star lí. E perché poi? che cosa rappresentava, che cosa
stava a far lí, lei? No, no, no; voleva andar via, scappare, fuggire, o sarebbe
anchessa impazzita! Decise di scrivere al fratello, scongiurandolo di venir subito a
riprendersela, a liberarla da quella galera, o con le buone o con le cattive.
Lieto della chiamata del principe di
Laurentano, Ignazio Capolino si disponeva a scendere a Colimbètra, quando nella saletta
d'ingresso udí la vecchia serva respingere sgarbatamente qualcuno, che chiedeva di lui.
Si fece avanti, sporse il capo a guardare, vide due donne vestite di nero, con uno scialle
pur nero in capo, stretto attorno al viso pallido e smunto. Erano le due figliuole del
Pigna, Mita e Annicchia.
Capolino, come intese il nome, le
fece entrare nel salotto e, dopo averle costrette a sedere, domandò loro che cosa
desiderassero. Per pudore della loro miseria e per sostenere con dignità il cordoglio,
resistevano entrambe alla commozione irrompente Lo sforzo che facevano per non piangere,
intanto, e la suggezione, impedivano la voce. E tutte e due stropicciavano forte, sotto lo
scialle nero, il pollice della mano sinistra sulla costa dell'ultima falange dell'indice,
ottusa, incallita, annerita e bucherata dall'assiduo passaggio dell'ago e del filo, quasi
che soltanto nella sensibilità perduta di quel dito potessero trovar la forza e il
coraggio di parlare. Alla fine, Mita, levando appena gli occhi offuscati, riuscí a dire:
«Signor deputato, siamo venute a
pregarla...»
E l'altra subito suggerí, corresse:
«Le diamo l'incomodo... col dolore
che deve avere in sé...»
«Dite, dite pure,» le esortò
Capolino. «Sono qua ad ascoltarvi.»
«Sissignore, ecco... Vossignoria
saprà,» riprese Mita facendosi improvvisamente rossa in viso, «che nostro padre e il
Lizio, che è...»
«Marito d'una nostra sorella,«
tornò a suggerire Annicchia.
Mita le rivolse con gli occhi un
pietoso rimprovero.
«Sono stati arrestati, signor
deputato!»
«Innocenti, signor deputato,
innocenti!»
«Siamo testimonie noi, che non
sapevano nulla, proprio nulla del fatto...»
Capolino, confuso tra l'ansia
affannosa e incalzante con cui le due sorelle ora parlavano, domandò:
«Di qual fatto?»
«Come!» fece Mita. «Del fatto,
che vossignoria, purtroppo...»
«Oh Signore!» esclamò Annicchia.
«Ce ne trema ancora il cuore.»
E Mita riprese:
«Sono stati arrestati
anchessi, innocenti come Cristo... Siamo testimonie noi, che sono rimasti sbalorditi
e senza fiato, quando se ne sparse la notizia; non sapevano nulla di nulla...»
«E vossignoria può credere,«
aggiunse Annicchia, «che non avremmo avuto il coraggio di venire qua a parlarne a
vossignoria, se non fossimo piú che sicure che sono innocenti...»
E Mita con gli occhi bassi,
tremante:
«La sua signora,» disse, «noi
l'abbiamo servita e sappiamo quant'era buona... signora affabile... e bella, oh quant'era
bella... che pena!»
Capolino strizzò gli occhi, si
torse un po' sulla seggiola, e domandò con voce grossa:
Avete avuto una perquisizione in
casa?
«Sissignore,» risposero a una voce
le due sorelle. Seguitò Mita: «Guardie, delegati, giudici... come tanti diavoli... hanno
messo tutto sossopra...»
«E che hanno trovato?»
«Niente!»
«Oh, Maria, proprio niente...
Qualche lettera... giornali...l'elenco dei socii.»
«Socii per modo di dire... non
veniva nessuno...»
«Libri... carte... Si son portato
via tutto... anche un capo di biancheria, signor deputato, con una goccia di sangue che
mero fatto io, qua al dito, cucendo...»
Capolino si strinse la bocca con una
mano sotto il naso, e rimase un pezzo accigliato, a pensare; poi disse:
«Se non verrà fuori qualche
compromissione...»
«Ah, nossignore!» esclamò subito
Mita. «Col fatto per cui sono stati arrestati, nessuna; certo nessuna! Vossignoria può
crederlo...»
«Non saremmo venute da
vossignoria...» ripeté Annicchia.
Capolino tese le mani per fermarle,
si raccolse di nuovo a pensare.
«Sapete,» poi domandò che io non
sono benvisto dall'autorità? Sapete che, per scusare trenta e piú anni di malgoverno, si
vuol far credere che tutti questi torbidi in Sicilia siano suscitati sotto sotto dal
partito clericale, a cui io appartengo?»
«Vossignoria... ma come!» disse
Annicchia, con le mani giunte. «Se vossignoria ha avuto... se a vossignoria...»
«Tanto piú! Tanto piú!» troncò
Capolino. «Diranno: «Ecco, vedete che c'è l'accordo? Il cuore è una cosa; la politica,
un'altra! Viene lui, lui stesso, a intercedere per gli arrestati«. Cosí diranno!»
Le due sorelle restarono smarrite,
oppresse.
«E come si può credere una tal
cosa?...» domandò Mita.
«Ma non la credono affatto!«
rispose con un sorriso di sdegno Capolino. «Fingono di credere! È la loro scusa. E io,
andando, voi lo capite, farei il loro gioco, senza ottenere nulla per voi. È proprio
cosí! Anche nel 1866, che voi altre non eravate neppur nate, la sommossa popolare a causa
delle iniquità politiche e amministrative, fu addebitata a questo capro espiatorio del
partito clericale. È la scusa piú comoda, per i governanti, e di sicuro effetto!»
Le due sorelle rimasero un pezzo in
silenzio, assorte, quasi a veder la speranza che le aveva condotte lí, rintanarsi nella
pena, cacciata da una ragione inattesa che non riuscivano a intendere chiaramente.
«C'eravamo figurate,» disse poi
Mita, «che se vossignoria avesse detto una parola... non solo di fronte all'autorità...
ma anche per il paese... Viviamo del lavoro che facciamo noi due, io e questa mia
sorella... Nessuno ce ne vuol piú dare adesso, perché tutti, per quest'arresto, credono
che nostro padre e nostro cognato siano complici nel fatto che giustamente ha indignato
tutto il paese... Ora, se vossignoria, che è stato piú di tutti offeso, dice una
parola... l'innocenza...»
«E c'è anche questo, signor
deputato! «proruppe Annicchia, non riuscendo piú a trattenere le lagrime,«che nostra
sorella, signor deputato, quando sono venute le guardie ad arrestare il marito e nostro
padre, aveva il bambinello attaccato al petto. Le si è attossicato il latte, signor
deputato; e ora il bambino sta morendo, e non sappiamo come curarlo; e nostra sorella pare
impazzita per il figlio che le muore, col padre in carcere! Siamo rimaste cinque sorelle
in casa; ci volgiamo da tutte le parti e non sappiamo che ajuto darle... Per questo siamo
venute qua, a supplicarla, signor deputato!»
Capolino salzò, come sospinto
dalla commozione.
«Vedrò... vedrò di fare qualche
cosa...» disse. «Datemi un po' di tempo... Bisogna che veda... per la mia... dico per la
mia responsabilità politica... Il cuore, ve l'ho detto, è una cosa; la politica,
un'altra... Ma vedrò... non m'impegno... Quietatevi, quietatevi... e coraggio, figliuole
mie... È un momento orribile per tutti, credete... e nessuno riesce a vederci uno
scampo...»
Le accompagnò, cosí dicendo, fino
alla saletta d'ingresso; non volle scuse né ringraziamenti; richiuse pian piano la porta
alle loro spalle.
Pur senz'alcuna fiducia in quella
vaga promessa d'ajuto, le due sorelle, appena uscite su la via, provarono un certo
sollievo per il passo che avevano fatto, quasi un'ebbrezza d'aver saputo parlare, per cui
si sentirono alquanto riconfortate. Ma presto, pensando al luogo ove erano avviate,
ricaddero nell'avvilimento d'una vergogna scottante. Si recavano alla Posta a riscuotere
un po' di denaro che Celsina aveva mandato da Roma, e di cui non sapevano che pensare.. E
altro danaro in quei giorni, poco, oh poco, e frutto d'un'altra vergogna ben nota, veniva
dalla sorella maggiore, da Rosa, a quelle loro povere mani logorate dal lavoro e ora
forzate dall'ozio, forzate ad accogliere il tristo peso di quei soccorsi non chiesti.
Che agli occhi altrui figurasse
d'andare a Colimbètra non di sua volontà, ma chiamato, piaceva molto a Capolino. Era
là, adesso, appesa al ramo una pera, rimasta un tempo acerba alla sua brama; ma che ora,
a quanto poteva congetturare da notizie recenti, doveva esser piú che matura, lí lí per
cadere a una scrollatina cauta e ardita della sua mano. Sarebbe stato questo, il perfetto
compimento della sua vendetta! E tutto pareva meravigliosamente preordinato perché si
compisse presto e bene. Adelaide Salvo figurava nubile tuttora davanti allo stato civile.
L'avrebbe spinta a fuggire con lui a Roma, a riparare in casa della sorella Rosa.
Prudentemente, per raffermar bene il suo diritto di salvatore, si sarebbe prima trattenuto
alcuni giorni a Napoli con lei che, poverina, doveva aver tanto bisogno di quegli svaghi
che solamente una città come Napoli poteva offrirle. A Roma, si poteva senza chiasso
contrar le nozze civili. Francesco Vella avrebbe trovato modo di farlo entrare in qualità
d'avvocato consulente nell'amministrazione delle ferrovie; e non era detto che non dovesse
piacergli che egli, divenuto di nuovo suo cognato, restasse con quella medaglietta
ciondolante sul panciotto. Col tempo anche Flaminio Salvo, per intercessione di don
Francesco e di donna Rosa, si sarebbe forse placato e non gli avrebbe attraversato la via.
Il vero punto, adesso era persuadere Adelaide d'affrontar lo scandalo della fuga, in quel
momento sciagurato della pazzia della nipote. Ma monsignor Montoro gli aveva detto che il
principe proibiva assolutamente alla moglie di recarsi a Girgenti anche per una visita in
casa del fratello. Un'altra congiuntura maravigliosamente propizia era nell'opera pietosa
offerta da quel caro Niní De Vincentis alla povera ragazza. Che se Dianella fosse stata
portata a Colimbètra presso la zia come il principe aveva proposto, altro che pensare
alla fuga, egli non avrebbe potuto piú neanche mettervi il piede! Ma poteva bastare ad
Adelaide questa vaga speranza, questa magra consolazione da lontano, di sapere
inginocchiato innanzi alla nipote demente quel povero San Luigi? In fondo tutto
quell'ardore, per quanto sincero, di visitare la nipote, doveva essere un pretesto per
uscir da Colimbètra. Le ragioni delle sue smanie perduravano tutte, esacerbate per giunta
da quella proibizione. Né Flaminio Salvo si sarebbe mai indotto a persuadere il principe
di concedere alla sorella quell'uscita. Bisognava insistere su questo punto, dimostrare ad
Adelaide che il fratello non era uomo da venir meno ai patti stabiliti col principe per
nessuna considerazione; cosicché ella, perduta ogni speranza nell'ajuto del fratello e
vedendosi condannata a struggersi lí nel dispetto e nella noja, non vedesse piú altro
scampo che in lui, e trovasse nella disperazione il coraggio della fuga.
Questi pensieri e ricordi e
propositi rivolgeva in sé Capolino, scendendo da Girgenti a Colimbètra in vettura. Ma
non gli suscitavano dentro né ansia, né calore. Avvertiva anzi una frigidità nauseosa,
come se la vita gli si fosse rassegata; sentiva che quella sua vendetta era per cose che
restavano indietro nel tempo, irrevocabili, e già morte nel cuore, e che però non ne
avrebbe avuto né gioja, né promessa di bene per l'avvenire. Vendicava uno che, un
giorno, era stato respinto da Adelaide Salvo; ma era piú ormai quell'uno? Tante cose non
avrebbero dovuto accadere, che purtroppo erano accadute, e di cui sentiva in sé, nel
cuore, il peso morto, perché avesse ora qualche gioja della sua vendetta. E appunto tutte
queste cose morte gliela rendevano cosí facile. Ecco perché sentiva quella frigidità
nauseosa. In Nicoletta Spoto aveva potuto trovare un certo compenso, un rinfranco alla
nausea della sua abiezione, per quella e con quella, valeva quasi la pena d'esser vile...
Ma suscitare adesso un nuovo scandalo, fare un affronto a un uomo come don Ippolito
Laurentano, per Adelaide Salvo... Forse però, in fin dei conti, sarebbe stato anche un
sollievo per don Ippolito portargli via quella moglie! Sul momento, l'amor proprio ne
avrebbe un po' sofferto; ma non era male che a lui cosí favorito sempre dalla sorte,
bello, nobile, ricco, che aveva potuto prendersi il gusto e la soddisfazione di tener
sempre alta la fronte, la sorte stessa, ora, all'ultimo, con la mano di lui Capolino,
allungasse uno scappellotto, cosí di passata.
Ancora un'altra agevolazione, e
questa davvero inaspettata, e tale da fargli quasi cader le braccia, trovò, appena
arrivato alla villa. Don Ippolito, sdegnato da un canto dalla sfiducia del vescovo,
dall'altra al tutto disilluso dalla risposta di Lando, arrivatagli la sera avanti da
Palermo, circa la possibilità di venire a un accordo col partito clericale, sera
rifugiato, come in tante altre occasioni bisognoso di conforto, nel culto delle antiche
memorie, nell'opera da lungo tempo intrapresa sulla topografia akragantina.
Come per l'acropoli, cosí per
l'emporio d'Akragante, sera messo contro tutti i topografi vecchi e nuovi, che lo
designavano alla foce dell'Hypsas. Quivi egli invece sosteneva che fosse soltanto un
approdo, e che l'emporio, il vero emporio, Akragante, come altre antiche città greche non
poste propriamente sul mare, lo avesse lontano, in qualche insenatura che potesse offrire
sicuro ricovero alle navi: Atene, al Pireo; Megara attica, al Niseo; Megara sicula, allo
Xiphonio. Ora, qual era l'insenatura piú vicina ad Akragante? Era la cosí detta Cala
della Junca, tra Punta Bianca e Punta del Piliere. Ebbene là, dunque, nella Cala della
Junca, doveva essere l'emporio akragantino.
A questa conclusione era arrivato
con la scorta d'un antico leggendario di Santa Agrippina. Ed era lieto e soddisfatto di
una pagina che aveva trovato modo d'inserire nell'arida discussione topografica, per
descrivere il viaggio delle tre vergini Bassa, Paola e Agatonica, che avevano recato per
mare da Roma il corpo della santa martire dell'imperatore Valeriano. Non era dubbio che le
tre vergini fossero approdate col corpo della santa alla spiaggia agrigentina, in un luogo
detto Lithos in greco e Petra in latino, quello stesso oggi chiamato Petra
Patella, o Punta Bianca. Orbene, nell'antico agiografo si leggeva che al momento
dell'approdo delle tre vergini un monaco che usciva dal monastero di Santo Stefano nel
villaggio di Tyro presso l'emporio, avviato ad Agrigento, sera fermato, attratto dal
soave odore che emanava dal corpo della santa, ed era poi corso alla città ad annunziare
quel prodigio al vescovo San Gregorio. Se, come volevano i vecchi e nuovi topografi,
l'emporio era alla foce dell'Hypsas, e dunque pur lí il vicus di Tyro e il
monastero di Santo Stefano, come mai quel monaco, avviato ad Agrigento, sera potuto
imbattere a Punta Bianca nelle tre vergini che approdavano col corpo della santa martire?
Era del tutto inammissibile. Il monastero di Santo Stefano di Tyro doveva esser lí,
presso Punta Bianca, e dunque pur lí l'emporio. E la prova piú convincente era nel nome
di quel villaggio, uguale a quello della grande città fenicia: Tyro. Questo nome
probabilmente lo avevano dato i Cartaginesi al tempo del loro attivo commercio con gli
Akragantini, e tale per qualche monte che doveva sorgere presso il villaggio: tur,
difatti, in fenicio significa monte. Ne sorgeva forse qualcuno presso la foce dell'Hypsas?
No; il monte, designato anzi come per antonomasia il Monte Grande, sorge là appunto,
presso Punta Bianca, e domina la Cala della Junca.
Don Ippolito, quella mattina per
tempissimo, sera recato a cavallo, con la scorta di Sciaralla e di altri quattro
uomini, a visitar piú attentamente quei luoghi, e in ispecie la costa di quel Monte
Grande, nella contrada detta Litrasi, ove sono certi loculi creduti da alcuni topografi
tombe fenicie, ma che a lui parevano molto piú recenti e disposti e scavati in uno stile
uso in Sicilia al tempo del basso impero, sicché potevano risalire agli anni del
vescovado di San Gregorio, cioè al tempo che colà erano sbarcate le tre fedeli vergini
Bassa, Paola e Agatonica con la salma odorosa della santa martire Agrippina.
Di ritorno, benché da ogni parte
gli si stendessero amenissimi allo sguardo nel tepore quasi primaverile immensi tappeti
vellutati di verzura, qua dorati dal sole, là vaporosi di violente ombre violacee, sotto
il turchino intenso e ardente del cielo, don Ippolito, guardando le sue mani appoggiate su
l'arcione della sella, non aveva pensato piú ad altro che alla morte, alla sua scomparsa
da quei luoghi, che ormai non doveva essere lontana. Ma contemplata cosí, sotto quel
sole, in mezzo a tutto quel verde, mentre il corpo si dondolava ai movimenti uguali della
placida cavalcatura, la morte non gli aveva ispirato orrore, bensí un'alta serenità
soffusa di rammarico e insieme di compiacenza, per la gentilezza e la nobiltà dei
pensieri e delle cure, di cui aveva sempre intessuto la sua vita in quei luoghi cari, a
cui tra poco avrebbe dato l'ultimo addio. E sera immerso a lungo in quel sentimento
nuovo di serenità, come per mondarsi del terrore angoscioso chessa, la morte, gli
aveva cagionato finora, e a cui doveva quelle indegne sue seconde nozze che avevano
profanato il decoro della sua vecchiezza, l'austerità del suo esilio.
Poco dopo mezzogiorno, rientrando a
Colimbètra, stanco della lunga cavalcata, sorprese nel salone Capolino e donna Adelaide
in fitto colloquio: questa, accesa e in lacrime; quello, pallido e in fervida agitazione.
Si fermò su la soglia, con un piglio piú di nausea che di sdegno.
«Oh, principe...» fece subito
Capolino, levandosi in piedi, smarrito.
«State, state...» disse don
Ippolito, protendendo una mano, piú per impedirgli d'accostarsi, che per fargli cenno di
restar seduto. «Non vi chiedo scusa del ritardo, perché la signora, vedo... mi avrà
dipinto anche a voi per un cosí barbaro uomo, che non vi sarete doluto se vi è mancata
finora la mia compagnia...»
«No... la... la principessa...
veramente...» barbugliò Capolino.
Don Ippolito simpostò
fieramente e disse con accigliata freddezza:
«Può andare, se vuole. Ma sappia
che ciò che oggi le impedisce di uscire dal cancello della mia villa, le impedirà domani
di rientrarvi. E ora seguitate pure la vostra conversazione.»
Si mosse per uscire dal salone.
Capolino tentò di sostenere, innanzi alla donna, la sua dignità maschile, e gli disse
dietro, quasi con aria di sfida, ma che poteva anche parer di scusa:
«Voi, principe, mi avete fatto
chiamare...»
Don Ippolito, già arrivato
all'uscio, si voltò appena, tenendo scostata con la mano la portiera:
«Oh, per una cosa da nulla,«
disse. «Ormai... ubbie! ubbie!»
E passò, lasciando ricadere la
portiera.
«La risposta... la risposta...«
proruppe subito donna Adelaide, alzandosi soffocata e con gli occhi tumidi e insanguati
dal pianto, aspetto fino a domani la risposta, o che venga lui qua a dirmi se debbo
proprio crepare e farmi pestar la faccia cosí...»
«Ma certo! ma certo! ma certo!«
ribatté Capolino, andandole dietro. «Come vuoi che Flaminio ti dica...»
«Me lo deve dire!» lo interruppe
lei, frenetica, mostrando i denti e le pugna. «Questo mi deve dire, con la sua bocca; e
allora sí, allora sí, subito! faccio lo sproposito! sono pronta! faccio lo sproposito!»
Entrò in quel punto Liborio, il
cameriere favorito del principe, in preda a un'ansia spaventata, e restò un momento
perplesso alla vista del pianto e dell'agitazione della signora.
«Eccellenza... Eccellenza...«
disse, «il signor don Salesio...»
«Che cosè?» domandò con
rabbia donna Adelaide. «Che vuole?»
«Niente, eccellenza... pare
che...»
E Liborio alzò una mano a un gesto
vago, di benedizione.
«Ah,» fece allora donna Adelaide,
piantando duramente gli occhi in faccia a Capolino e restando un tratto a guardarlo
accigliata e a bocca aperta, come per saper da lui se fosse bene o male, che giusto in
quel punto quel poveretto morisse. «Meglio... meglio cosí!» esclamò poi, «meglio
cosí, pover'uomo... Andiamo, Gnazio, andiamo a vederlo...»
E corse dietro a Liborio, seguita da
Capolino, frastornato e turbato.
«L'ho tenuto qua con me...» gli
diceva, andando, «l'ho trattato... l'ho curato... Bella gente siete stati vojaltri, ad
abbandonarlo cosí... povero vecchio... Meglio, meglio... si leva di patire...
Anchio l'ho trascurato in questi ultimi giorni... Assassini! Gli hanno dato il colpo
di grazia... Ma anche lui però, bisogna dirlo, mangiava troppo... troppi dolci...»
«Eh sí, eccellenza,» sospirò
Liborio, «glielo dicevo anchio... troppi...»
«Piglia, piglia, Gnazio... m'è
caduto il fazzoletto. Oh Bella Madre Santissima, che puzzo qui!»
E si turò il naso con una mano,
restando davanti alla soglia della cameretta in cui il povero vecchio moriva, sostenuto
sul letto dal cuoco, accorso alla chiamata di Liborio. Trattenuti dall'orrore istintivo
della morte, ma forse piú dal ribrezzo per l'estrema magrezza di quel volto
cartilaginoso, dai peli stinti, dai globi degli occhi già induriti sotto le pàlpebre
semichiuse, donna Adelaide e Capolino stavano a guardare, ancora lí su la soglia,
allorché videro la bocca del moribondo aprirsi, aprirsi sempre piú, spalancarsi
smisuratamente, come forzata con violenza crudele da una molla interna.
«Oh Dio!» gemette donna Adelaide.
«Perché fa cosí?»
Non aveva finito di dirlo, che da
quella bocca springò fuori, di scatto, qualcosa, orribilmente. Donna Adelaide gettò un
grido di raccapriccio e levò le mani quasi a riparo del volto. Liborio andò a guardare
sul letto e, scorgendovi una dentiera aperta:
«Niente, eccellenza!» disse con un
sorriso pietoso. «Ha finito di mangiare...»
Il cuoco intanto adagiava sul
cuscino il capo esanime del povero vecchio.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 06 September, 1998