Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
IV
Corrado
Selmi uscí dalla Camera dei deputati livido, stravolto, con un tremor convulso per tutto
il corpo. Appena su la piazza, nel sole, fece uno sforzo disperato su se stesso per
riaversi, per riafferrare in sé e rimettere sotto il suo dominio la vita che gli sfuggiva
in un tremendo scompiglio; ma restò, avvertendo che non aveva neanche la forza di trarre
il respiro, quasi avesse il petto, il ventre squarciati.
Un sentimento nuovo gli sorse allora
improvviso: la paura. Non degli altri; ma di sé.
Or ora gli altri li aveva sfidati e
assaliti, nell'aula del Parlamento, con estrema violenza. Ancora ne tremava tutto.
Nessuno, là, aveva osato fiatare. Ma quel silenzio... ah, quel silenzio era stato per lui
peggiore di ogni invettiva, d'ogni tumultuoso insorgere di tutta l'assemblea.
Quel silenzio lo aveva ucciso.
Aveva ancora negli orecchi il suono
dei suoi passi nell'uscire dall'aula. Nel silenzio formidabile, quei passi avevano sonato
come colpi di martello su una cassa da morto.
Sentiva una grande arsione; e le
gambe, come... come se gli si fossero stroncate sotto.
Schiacciato dall'accusa, aveva
voluto rilevarsene con tutto l'impeto delle energie vitali, ancora possenti in lui; ma
appena aveva finito di parlare, quel silenzio. Nessun dubbio che l'assemblea, subito dopo
la sua uscita dall'aula, avesse votato l'autorizzazione a procedere contro di lui.
Eppure tutti lo sapevano povero;
sapevano che il denaro preso alle banche non poteva essere rinfacciato a lui come a tanti
altri.
Dall'avere affrontato la morte,
quando piú bella suol essere per tutti la vita, non gli veniva il diritto di vivere?
Nella losca complicazione di tante oblique vicende la semplicità di questo diritto
appariva quasi ingenua e tale, che tutti, ridendo, dovessero negarglielo.
Morto; non solo, ma anche
svergognato lo volevano! Doveva morire allora, e sarebbe stato un eroe per tutti questi
vivi d'oggi che gli rinfacciavano come un delitto l'aver vissuto.
Ma non tanto l'accusa, in fondo, gli
sembrava ingiusta, quanto ingiusti gli accusatori; e, piú che ingiusti, ingrati e vili:
vili perché, dopo aver per tanti anni compreso che egli aveva pure questo diritto di
vivere, si levavano ora a dimostrargliene con ischerno l'ingenuità; dopo aver per tanti
anni compreso il suo bisogno, si levavano ora a rinfacciarglielo come un'onta.
Né si sarebbero arrestati qui! Ora,
il processo, la condanna, il carcere.
Corrado Selmi rise, e avvertí
ancora lo sforzo che gli costava lo scomporre la truce espressione del volto in quel riso
orribile. Il sorriso schietto e lieve, che aveva accompagnato sempre tutti gli atti della
sua vita, anche i piú gravi e i piú rischiosi, sera tramutato in quella triste
smorfia dura e amara? Ebbe di nuovo paura di sé: paura di assumere coscienza precisa di
un certo che oscuro e orrendo che gli sera cacciato all'improvviso nel fondo
dell'essere e glielo scompaginava, dandogli quell'impressione d'esser come squarciato
dentro, irrimediabilmente. E per ricomporre comunque la compagine del suo essere, per
vincere il ribrezzo e l'orrore di quell'impressione, si guardò attorno, quasi chiedendo
sostegno e conforto ai noti aspetti delle cose. Gli parvero anche questi cangiati e come
evanescenti. Sentí con terrore che non gli era piú possibile ristabilire una relazione
qual si fosse tra sé e tutto ciò che lo circondava. Sí, poteva guardare; ma che vedeva?
poteva parlare; ma che dire? poteva muoversi; ma dove andare?
Parlò, tanto per udire il suono
della sua voce, e gli parve anchesso cangiato. Disse:
"Che faccio?"
Sapeva bene quel che gli restava da
fare. Ma nello schiacciar con la lingua contro il palato le due c di faccio,
non avvertí altro che l'annodatura della lingua e l'amarezza aspra della bocca; e rimase
col viso disgustato e arcigno.
" No," soggiunse.
"Prima... che altro?"
Qualunque altra cosa gli apparve
inutile, vana. Poteva soltanto, ancor per poco, per passarsi la voglia e darsi cosí fuor
fuori uno sfogo, dire e fare sciocchezze. Pensare seriamente, agire seriamente non avrebbe
potuto se non a costo di cedere al proposito oscuro e violento che stava a distruggergli
dentro tutti gli elementi della vita. Baloccarsi poteva coi frantumi di essa che dal
tumulto interno balzavano a galla della sua coscienza squarciata: baloccarsi un poco...
Sí, in casa di Roberto Auriti! Doveva vederlo, dirgli che per lui, per coprirlo, si era
messo da sé sotto accusa. Ecco che aveva ancora dove andare.
Chiamò una vettura, per non
avvertire il tremore e la debolezza delle gambe, e diede al vetturino l'indirizzo: via
delle Colonnette.
Appena montato, se ne pentí,
prevedendo, in compenso di quanto aveva fatto, una scenata. Ma no: a ogni costo avrebbe
saputo impedirla. Piú che doveroso, il suo atto gli appariva generoso verso Roberto
Auriti. E, in quel momento, non poteva sentir che disprezzo della sua stessa generosità.
Sera spogliato d'ogni prestigio, d'ogni prerogativa, per subir la stessa sorte d'uno
sconfitto, che delle sue doti, dei suoi meriti non aveva saputo avvalersi per farsi uno
stato, per imporsi, come avrebbe potuto, alla considerazione altrui. Non pietà, ma
dispetto, poteva ispirare Roberto Auriti. Che se pure egli, navigando alla ventura, lo
aveva gittato con sé in quei frangenti, non meritava certo quel naufrago che Corrado
Selmi, già quasi scampato, si ributtasse in mare per perire con lui: non lo meritava,
perché non aveva saputo mai vivere, quell'uomo, mai disimpacciarsi da ostacoli anche
lievi: era già per se stesso un annegato, a cui tante e tante volte egli aveva gettato
una corda per ajutarlo a trarsi in salvo. Lunica volta che quest'uomo sera
messo a dar lui ajuto, ecco, con la stessa mano che gli aveva teso, lo tirava con sé nel
baratro, giú, giú, costringendolo a rinunziare al salvataggio altrui. E quel suo
fratello corso in Sicilia per salvare entrambi: ma sí! tutti dovevano stare ad aspettare
che andasse e ritornasse col denaro! a comodo! senza fretta! e dopo avere svelato tutto a
Lando Laurentano! imbecille! Ecco: per questo solo fatto, egli avrebbe potuto fare a meno
d'esporsi per coprire un inetto. Ma ormai...
Arrivato in via delle Colonnette,
salendo la scala semibuja, incontrò Olindo Passalacqua che scendeva gli scalini a quattro
a quattro.
"Ah! giusto lei, onorevole!
Correvo in cerca di lei... Dica, che c'è? che c'è?"
"Vento," rispose Corrado
Selmi, placidamente.
Olindo Passalacqua restò come un
ceppo.
"Vento? Che dice? Quella
denunzia infame? Ma come? chi è stato? roba da sputargli in faccia! Andate a far l'Italia
per questa canaglia!"
Corrado Selmi gli prese il mento fra
due dita:
"Bravo, Olindo! Nobili
sensi, invero... Sú, andiamo!"
"Aspetti, onorevole,"
pregò il Passalacqua, trattenendolo. "La prevengo! Nanna mia non sa ancora nulla.
Non sapevamo nulla neanche noi. Per combinazione a mio cognato Pilade càpita tra le mani
il giornale di due giorni fa... apre e vede... ce lo manda sú, segnato... Roberto stava
ad annaffiare i fiori in terrazzo... legge, casca dalle nuvole... Ma ci si crede? un uomo,
un uomo come lui, non leggere i giornali, in un momento come questo? Capisce? come
quell'uccello... qual è? che caccia la testa nella rena... E gliene compro tre, sa? ogni
sera: tre giornali! Ne leggesse uno! Appena lo apre, si mette a pisolare; e poi dice che
li ha letti tutti e tre e che dorme poco!"
"Lo struzzo," disse
Corrado Selmi. "Permetti?"
E alzò le mani per aggiustare sotto
la gola a Olindo Passalacqua la cravatta rossa sgargiante, annodata a farfalla.
"Lo struzzo," ripeté.
"Quell'uccello che dicevi... Cosí va bene!"
Olindo Passalacqua restò di nuovo a
bocca aperta.
"Grazie," disse. "Ma
dunque... dunque possiamo star tranquilli?"
Corrado Selmi lo guardò negli
occhi, serio; gli posò le mani sugli omeri, e:
"Non sei censore tu?" gli
domandò.
"Censore... già," rispose
perplesso, quasi non ne fosse ben sicuro, il Passalacqua.
"E dunque lascia crollare il
mondo!" esclamò il Selmi con un gesto di noncuranza sdegnosa. "Censore, te ne
impipi. Sú, sú, vieni sú con me."
Trovarono Roberto abbattuto su una
poltrona, con la faccia rivolta al soffitto, le braccia abbandonate, l'annaffiatojo
accanto. Appena vide il Selmi, fece per balzare in piedi, e, arrangolando in una
irrompente convulsione, andò a buttarglisi sul petto.
"Per carità! per
carità!" scongiurò Olindo Passalacqua, correndo a chiudere l'uscio e accennando con
le mani di far piano, che Nanna non sentisse di là.
Attraverso l'uscio chiuso,
all'arrangolío di Roberto sul petto di Corrado Selmi rispondeva di là il vocalizzo
miagolante di una studentessa di canto. Corrado Selmi, gravato dal peso di Roberto, stette
un po' a guardare i cenni del Passalacqua, che seguitava a implorar carità per il cuore
malato della sua povera moglie, carità per Roberto cosí perduto, carità per la casa che
sarebbe andata a soqquadro; e scattò alla fine, scrollandosi, in una risata pazzesca:
"Ma da' qui!" disse,
ghermendo l'annaffiatojo e avviandosi di furia al terrazzo. "Ma che facciamo sul
serio? Annaffiavi? E seguitiamo ad annaffiare! Qua... qua... cosí! cosí! Pioggia,
Olindo! pioggia! pioggia!"
E una vera pioggia furiosa si
rovesciò dalla mela dell'annaffiatojo addosso a Olindo Passalacqua, che prese a fuggire
per il terrazzo, gridando e riparandosi con le mani la testa, inseguito dal Selmi che
seguitava a ridere, dicendo:
"Io passo l'acqua, tu passi
l'acqua, egli passa l'acqua, tutti passiamo l'acqua!"
"Oh Dio! per carità... no!
caro... nòooo... ma che fa? basta... per carità... non è scherzo! basta... uuuh...
basta!..."
Alle grida, sopravvennero Nanna,
la studentessa di canto, Antonio Del Re e Celsina. Subito Corrado Selmi, ansante, corse a
stringere la mano alla signora Lalla che rideva, guardando il marito che si scrollava come
un pulcino bagnato. Ridevano anche le due giovinette.
" La pianta, Nanna
mia," gridò il Selmi, "quale è la pianta piú utile? Il riso! Coltiviamo il
riso e annacquiamo Olindo che fa ridere!"
" Ma io piango, invece..."
gemette il Passalacqua.
"E appunto perché piangi, fai
ridere!" ribatté il Selmi.
"Chi fa ridere, invece..."
borbottò Antonio Del Re, serrando le pugna.
"Fa piangere, è vero?"
compí la frase il Selmi. "Bravo, giovanotto! Sempre serio! Tu le tue sciocchezze le
farai sempre sode, bene azzampate e con tanto di grugno. Noi, le nostre... qua, censore...
ballando, ballando... Su, di là, Nanna, di là... al pianoforte! Lei suona, e noi
balliamo! Roberto si metterà i calzoncini con lo spacco di dietro e la falda della
camicina fuori; prenderà la sciaboletta e il cavalluccio di legno, quelli con cui giocò
alla guerra, al Sessanta; gli faremo l'elmo di carta, e si metterà a girare attorno... arrí!...
arrí!... mentre io e Olindo balleremo al suono dell'inno di Garibaldi... Va'
fuori d'Italia... Va' fuori d'Italia... Va' fuori d'Italia... va' fuori, o stranier!
Non aveva finito l'ultima battuta,
che su la soglia del terrazzo si presentò, con gli occhi ilari e lagrimosi, raggiante di
commossa beatitudine, Mauro Mortara, con le medaglie sul petto e lo zainetto dietro le
spalle. Appena lo vide, Corrado Selmi fece un gesto d'orrore e scappò via per l'altro
finestrone che dava sul terrazzo, gridando:
"Ah perdio, no! Questo poi è
troppo!"
Roberto Auriti gli corse dietro per
trattenerlo:
"Corrado! Corrado!"
Mauro Mortara, a quella fuga, restò
come smarrito davanti allo stupore della signora Lalla, del Passalacqua e della
studentessa di canto, alla meraviglia sorridente di Celsina e a quella ingrugnita di
Antonio Del Re.
"Vengo, se non c'è
offesa," disse, "a salutare don Roberto. Parto domani."
" Ma chi siete?" gli
domandò la signora Lalla, come se avesse davanti un abitante della luna, piovuto dal
cielo.
"Sono..." prese a
rispondere Mauro Mortara; ma sinterruppe riconoscendo Antonio Del Re. "Non
siete il nipote di donna Caterina, voi?"
E, pronunziando questo nome, si
levò il cappello.
"Diteglielo voi,"
soggiunse, "chi sono io. Sono venuto due altre volte; non mi hanno fatto salire,
perché don Roberto non era in casa."
Il Passalacqua, tutto bagnato, gli
saccostò, gli sbirciò le medaglie sul petto, e:
"Patriota siciliano?"
domandò. "Ai patrioti siciliani, perdio, statue d'oro! sta... statu...
statue..."
Uno starnuto, tardo a scoppiare, lo
tenne un tratto a bocca aperta, le nari frementi, le mani tese come a pararlo; finalmente
scoppiò e:
"D'oro!" ripeté il
Passalacqua. "Mannaggia il Selmi che m'ha fatto raffreddare! Ma perché è scappato?
Che è pazzo?... Guardate come mi... mi ha... ma dove è andato?
"Roberto!" strillò a
questo punto la signora Lalla, accorrendo dal terrazzo nella stanza, attraverso la quale
il Selmi era poc'anzi fuggito.
Rientrarono tutti, spaventati,
dietro a lei.
Un estraneo, col cappello in mano e
gli occhi bassi, stava rigido su la soglia di quella camera, mentre Roberto, col viso
terreo, chiazzato qua e là, si guardava attorno, convulso, indeciso. Al grido di lei,
protese le mani, ma come per impedire il prorompere della sua piú che dell'altrui
commozione.
"Vi prego, vi prego,"
disse, "senza chiasso... Nulla... Una... una chiamata in questura..."
"Lo arrestano!" fischiò
allora tra i denti Antonio Del Re, col volto scontraffatto e tutto vibrante.
Nanna cacciò uno strillo
e cadde in convulsione tra le braccia del marito.
"Lo arrestano?" domandò
Mauro Mortara, facendosi innanzi, mentre Roberto Auriti cercava nella camera gli abiti da
indossare e con le mani accennava a tutti di non gridare, di non far confusione.
"Come?" seguitò Mauro,
guardando Antonio Del Re.
Non ottenendo risposta da nessuno,
andò incontro a quell'estraneo e, levando un braccio, lo apostrofò:
"Voi! voi siete venuto qua ad
arrestare don Roberto Auriti?"
"Mauro!" lo interruppe
questi. "Per carità, Mauro... lascia!"
"Ma come?" ripeté Mauro
Mortara, rivolgendosi a Roberto. "Arrestano voi? Perché?"
Roberto accorse a dare una mano al
Passalacqua, alla studentessa di canto, a Celsina, che non riuscivano a sorreggere la
signora Lalla, la quale si dibatteva e si scontorceva, tra urli, singhiozzi, gemiti e risa
convulse.
"Di là, per carità, di là,
portatela di là!" scongiurò.
Ma non fu possibile. Il Passalacqua,
invece di avvalersi dell'ajuto di Roberto, pensò bene di buttargli le braccia al collo,
rompendo in singhiozzi ed esclamando:
"Cireneo! Cireneo!
Cireneo!"
Roberto si divincolò, quasi con
schifo, e si turò gli orecchi, mentre il Passalacqua, rivolto a Mauro Mortara, seguitava:
"Patriota, vedete? cosí
l'Italia compensa i suoi martiri! cosí!"
"Il figlio di Stefano
Auriti!" diceva tra sé Mauro Mortara, con gli occhi sbarrati, battendosi una mano
sul petto. "Il figlio di donna Caterina Laurentano!... E dovevo veder questo a Roma?
Ma che avete fatto?" corse a domandare a Roberto, afferrandolo per le braccia e
scotendolo. "Ditemi che siete sempre lo stesso! Sí? E allora..."
Si afferrò con una mano le medaglie
sul petto; se le strappò; le scagliò a terra; vi andò sopra col piede e le calpestò;
poi, rivolgendosi al delegato:
"Ditelo al vostro
Governo!" gridò. "Ditegli che un vecchio campagnuolo, venuto a veder Roma con
le sue medaglie garibaldine, vedendo arrestare il figlio d'un eroe che gli morí tra le
braccia nella battaglia di Milazzo, si strappò dal petto le medaglie e le calpestò!
cosí!"
Tornò a Roberto, lo abbracciò, e
sentendolo singhiozzare su la sua spalla:
"Figlio mio! figlio mio!"
si mise a dirgli, battendogli dietro una mano.
A questo punto, Antonio Del Re
scappò via dalla camera mugolando e rovesciando nella furia una seggiola. Celsina, che lo
spiava, gli corse dietro, sgomenta, chiamandolo per nome. Mauro Mortara si voltò
felinamente, come se a quell'uscita precipitosa gli fosse balenato in mente che si volesse
impedire comunque l'arresto; e si mostrò pronto a qualunque violenza. Sciolto
dall'abbraccio di lui, Roberto Auriti si fece innanzi al delegato:
"Eccomi."
"No!" gridò Mauro,
riafferrandolo per un braccio. "Don Roberto! Cosí vi consegnate?"
"Ti prego, lasciami..."
disse Roberto Auriti; e, rivolgendosi al delegato: "Lei scusi..."
Con la mano chiamò Nanna,
che fiatava ora a stento, con ambo le mani sul cuore, e la baciò in fronte, dicendole:
"Coraggio..."
"E che dirò a vostra
madre?" esclamò allora Mauro agitando in aria le mani.
Roberto Auriti si gonfiò, si portò
le mani sul volto per far argine all'impeto della commozione e andò via, seguito dal
delegato, mentre la signora Lalla, sostenuta dal marito e dalla studentessa di canto,
riprendeva piú a gemere che a gridare:
" Roberto! Roberto!
Roberto!"
Mauro Mortara restò a guatare, come
annichilito. Quando il Passalacqua lo ragguagliò di tutto, e, fresco della recente
lettura del giornale, gli espose tutta la miseria e la vergogna del momento:
"Questa," disse,
"questa è l'Italia?"
E, nel crollo del suo gran sogno,
non pensò piú a Roberto Auriti, all'arresto di lui, non sentí, non vide piú nulla. Le
sue medaglie rimasero lí per terra, calpestate.
Uscendo dalla casa di Roberto,
Corrado Selmi simbatté per le scale nel delegato e nelle guardie che salivano ad
arrestar l'innocente. Si fermò un istante, indeciso; ma subito si sentí occupare il
cervello da una densa oscurità, e in quella tenebra d'ira e d'angoscia udí una voce che
dal fondo della coscienza lo ammoniva chegli non poteva in alcun modo sul momento
impedire quell'atroce ingiustizia. Seguitò a scendere la scala; rimontò in vettura e
provò quasi stupore alla domanda del vetturino, ove dovesse condurlo. Ma a casa; c'era
bisogno di dirlo? dove poteva piú andare? che piú gli restava da fare?
"Via San Niccolò da
Tolentino."
E, come se già vi fosse, si vide
per le scale della sua casa: ecco, entrava in camera; si recava all'angolo, ov'era uno
stipetto a muro, di lacca verde; lo apriva; ne traeva una boccetta, e... Istintivamente,
sera cacciata una mano nel taschino del panciotto, ov'era la chiave di quello
stipetto. Cosa strana: pensava ora allo specchio, a un piccolo specchio ovale, appeso
accanto a quello stipetto, al quale egli non avrebbe dovuto volger lo sguardo, per non
vedersi. Ma pure, ecco, si vedeva: sí, in quello specchio, con la boccetta in mano:
vedeva l'espressione dei suoi occhi, ridente, quasi non credessero chegli avrebbe
fatto quella cosa. No! Prima doveva scrivere e suggellare una dichiarazione per
l'Auriti: poche righe, esplicite. Non meritavano gli accusatori un suo ultimo sfogo. Due
righe soltanto, per salvar l'amico, già in carcere.
I nemici... - ma quali? quanti
erano? Tutti! Possibile? Tutti gli amici di jeri. Tutti e nessuno, a prenderli a uno a
uno. Ché nulla egli aveva fatto a nessuno di loro perché le liete accoglienze di jeri si
convertissero cosí d'un tratto in tanta alienazione d'animi, in tanta ostilità. Ma era
il momento, la furia cieca del momento, che sabbatteva su lui, che in lui trovava la
preda, e lo abbrancava, ecco, e lo sbranava in un attimo.
Ah come andava lenta quella vettura!
Parve a Corrado Selmi chessa gli prolungasse con feroce dispetto lagonía.
"Non sono in casa per
nessuno," disse a Pietro, il vecchio servo che stava da tanti anni con lui.
E il primo suo moto, entrando in
camera, fu verso quello stipetto. Si trattenne. Pensò alla dichiarazione da scrivere. Ma
pur volle prendere prima la boccetta e, senza guardarla, la recò con sé alla scrivania
dello studio. Restò un pezzo lí in piedi, come sospeso in cerca di qualche cosa che
sera proposto di fare e a cui non pensava piú. Istintivamente, pian piano, rientrò
nella camera; gli occhi gli andarono al piccolo specchio ovale, appeso alla parete presso
lo stipetto. Aveva dimenticato di guardarsi lí. Scrollò le spalle e tornò indietro,
alla scrivania; sedette; trasse dalla cartella un foglio e una busta; guardò se su la
scrivania ci fosse il cannello di ceralacca e il sigillo; si alzò di nuovo e rientrò
nella camera per prendere dal tavolino da notte la bugia con la candela.
La dichiarazione gli venne men breve
di quanto aveva divisato, poiché a maggior salvaguardia dell'innocenza dell'Auriti pensò
di chiamare in testimonio lo stesso governatore della banca, già anche lui tratto in
arresto, col quale, prima di contrarre sott'altro nome quel debito, si era segretamente
accordato. Finito di scrivere, guardò su la scrivania la boccetta, e sentí mancarsi a un
tratto la voglia di rileggere quanto aveva scritto. Gli parvero enormi tutte le piccole
cose che gli restavano ancora da fare: piegare in quattro quel foglio; chiuderlo nella
busta; accendere la candela; bruciarvi il cannello di ceralacca; apporre i sigilli... Si
diede a far tutto con esasperazione. Ansava; le dita, senza piú tatto, gli ballavano.
Stava per chiudere la busta, quando giú dalla via scattò stridulo, sguajato, il suono
d'un organetto. Parve al Selmi che quel suono, in quel punto, gli spaccasse il cranio: si
turò gli orecchi, balzò in piedi, contrasse tutto il volto come per uno strazio
insopportabile, fu per avventarsi alla finestra a scagliare ingiurie a quel sonatore
ambulante. Ah no perdio! cosí, no! al suono d'una canzonetta napoletana, no, no, no. Si
sentí avvilito da tutta quella furia. O che era un ladro davvero? Piano, piano, senza
tremor di mani, senza quell'aridezza in bocca; dopo aver sedato i nervi, e sorridente,
egli doveva uccidersi, come a lui si conveniva. Prese la busta con la dichiarazione e la
cacciò dentro la cartella; Si pose in tasca la boccetta del veleno. Voleva uscir di nuovo
per un'ultima passeggiata, per salutar la vita, scevro ormai d'ogni cura, esente d'ogni
peso, libero d'ogni passione, con occhi limpidi e animo sereno; salutar la vita, col suo
lieve antico sorriso; bearsi per l'ultima volta delle cose che restavano, liete in quel
giorno di sole, ignare in mezzo al torbido fluttuare di tante vicende che presto il tempo
avrebbe travolte con sé. Ridiscese in istrada, fe' cenno a un vetturino d'accostarsi e si
fece condurre al Gianicolo. Dapprima, come in preda a quello stordimento rombante
cagionato da un improvviso otturarsi degli orecchi, non poté avvertire, né vedere, né
pensar nulla; solo quando passò con la vettura per la via della Lungara, innanzi le
carceri di Regina Coeli, pensò che forse a quell'ora Roberto Auriti vi era rinchiuso; ma
non volle affliggersene piú. Tra poco, con quella sua dichiarazione, ne sarebbe uscito,
per seguitare la sua incerta e penosa esistenza tra quella sua signora Lalla e il
Passalacqua e il Bonomè, mentre egli, invece ah! si sarebbe liberato!
Giunto in cima al colle, gli parve
davvero una liberazione quell'altezza, da cui poté contemplare Roma luminosa nel sole,
sotto l'azzurro intenso del cielo; liberazione da tutte le piccole miserie acerbe che
laggiú lo avevano offeso e soffocato, dall'urto di tutte le meschine volgarità
quotidiane; dalle fastidiose risse dei piccoli uomini che volevano contendergli il passo e
il respiro. Si sentí lassú libero e solo, libero e sereno, sopra tutti gli odii, sopra
tutte le passioni, sopra e oltre il tempo, inalzato, assunto a quella altezza dal suo
grande amore per la vita chegli difendeva, uccidendosi. E in esso e con esso si
sentí puro, in un attimo, per sempre. Nell'eternità di quell'attimo si cancellarono,
sparvero assolte le sue debolezze, i suoi trascorsi, le sue colpe, già che egli era pure
stato un uomo e soggetto a contrarie necessità. Ora, con la morte, le avrebbe vinte
tutte. Restava solo, in quel punto, luminoso indefettibile immortale il suo amore per la
vita, l'amore per la sua terra, per la sua patria, per cui aveva combattuto e vinto. Sí,
come i tanti che avevano avuto lassú, in difesa di Roma, una bella morte, troncati nel
frenetico ardore della gioventú e resi immuni di tutte le miserie, liberi di tutti gli
ostacoli che forse nel tempo li avrebbero deformati e avviliti. Ora in quel momento
anchegli, spogliandosi di tutte le miserie, liberandosi di tutti gli ostacoli,
acceso e vibrante dell'ardore antico, con negli occhi l'oro dell'ultimo sole su le case
della grande città quadrata, si foggiava com'essi una bella morte, una morte che lo
inalzava a se stesso, senza invidia per quelli effigiati e composti lassú per la gloria
in un mezzo busto di marmo. Pensò che aveva con sé la boccetta del veleno; ma no! a
casa! a casa! tranquillamente, sul suo letto: senza dare spettacolo! E ridiscese alla
città.
Ridisceso, gli parve di aver
lasciato la propria anima lassú, nel sole. Qua, nell'ombra era il corpo ancor vivo, per
poco. Si guardò le mani, le gambe, e provò subito un brivido d'orrore. Ma, come se di
lassú una voce severamente lo richiamasse, egli si riprese e a quella voce rispose che
sí, quel suo corpo, egli lo avrebbe tra poco ucciso, senza esitare.
Passato il ponte di ferro, udí
strillare da alcuni giornalaj un'edizione straordinaria del foglio piú diffuso di Roma.
Pensò che fosse per lui, e fece fermar la vettura; comprò quel foglio. Difatti, in prima
pagina era il resoconto della seduta parlamentare, e nella sesta colonna spiccava in cima
il suo nome
Corrado Selmi
come titolo dell'articolo del giorno. Prese a leggerlo; ma presto n'ebbe un fastidio
strano: avvertí che quello era già per lui un linguaggio vuoto e vano, che non aveva
piú alcun potere di muovere in lui alcun sentimento, quasi fatto di parole senza
significato. Gli parve che lo scrittore di quell'articolo non avesse altra mira che quella
di dimostrare che egli era vivo, ben vivo, e che, come tale, poteva e sapeva giocare con
le parole, perché gli altri vivi, i lettori, potessero dire: "Guarda com'è bravo!
guarda come scrive bene!". Quel foglio, cosí leggero, gli parve a un tratto, con
quel suo nome stampato lí in cima, una lapide, la sua lapide, chegli stesso per uno
strano caso si portasse in carrozza, diretto alla fossa; strana lapide, in cui, anziché
le solite lodi menzognere, fossero incise accuse e ingiurie. Ma che importavano piú a
lui? Era morto.
Voltò la pagina del giornale.
Subito gli occhi gli andarono su un'intestazione a grossi caratteri, che prendeva cinque
colonne di quella seconda pagina:
Leccidio dAragona in Sicilia
e sotto, a caratteri piú piccoli: Gli operaj delle zolfare in rivolta - L'assalto
alla vettura dell'ingegnere minerario Costa - Scene selvagge - Lo uccidono con la moglie
del deputato Capolino e bruciano i cadaveri.
Corrado Selmi restò, oppresso
d'orrore e di ribrezzo, con gli occhi fissi su quelle notizie. Comprese che per esse e non
per lui era uscita quell'edizione straordinaria del giornale. La moglie del deputato
Capolino? Egli l'aveva veduta a Girgenti, quando vi si era recato per sostenere la
candidatura di Roberto Auriti e assistere il Verònica nel duello col marito di lei.
Bellissima donna... Uccisa? E come si trovava in vettura, ad Aragona, con quell'ingegnere?
Ah, partita da Roma con lui... Una fuga?... Era l'ingegnere del Salvo... Gli operaj delle
zolfare si recavano in colonna dal paese alla stazione, risoluti a non farlo entrare, se
da Roma non portava l'assicurazione che le promesse sarebbero state mantenute... Oh,
guarda... quel Prèola... Marco Prèola, quel miserabile che Roberto Auriti aveva
scaraventato contro l'uscio a vetri della redazione del giornalucolo clericale...
capitanava lui, adesso, quella turba selvaggia di facinorosi... li incitava all'assalto
della vettura, al macello. Ah, vili! colpire una donna... Il Costa sparava... e allora...
Il Selmi non poté leggere piú
oltre; restò, nel raccapriccio, col giornale aperto tra le mani, come soffocato da quella
strage; gli parve di sentirsi investito dal feroce affanno di tutto un popolo
inselvaggito. Appallottò in un impeto di schifo il foglio e lo scagliò dalla vettura.
Domani, o la sera di quello stesso giorno, in una nuova edizione straordinaria esso
avrebbe annunziato con quei grossi caratteri il suicidio di lui.
Rientrando in casa, da Pietro, il
vecchio servo, fu avvertito che c'era in salotto il nipote dell'Auriti, Antonio Del Re.
"Sta bene," disse.
"Lo farai entrare nello studio, appena sonerò."
Forse Pietro si aspettava una
riprensione per aver fatto entrare quel giovanotto, e aveva pronta la risposta, che questi
cioè sera introdotto di prepotenza in casa, non ostante che lui già una prima
volta gli avesse detto che il padrone non c'era e avesse fatto poi di tutto per impedirgli
il passo. Aprí le braccia e sinchinò al reciso ordine del Selmi; ma, come questi
savviò per la sua camera, rimase perplesso, se non lo dovesse prevenire circa al
contegno minaccioso e all'aspetto stravolto di quel giovanotto. Socchiuse gli occhi, si
strinse nelle spalle, come per dire: "L'ordine è questo!" e si recò nel
salotto per tener d'occhio quell'insolente visitatore.
"Ecco" gli disse,
indicando con una mossa del volto luscio di fronte. "Adesso, appena
suona..."
Antonio Del Re non stava piú alle
mosse; friggeva. Il viso, nello spasimo dell'attesa terribile, gli si scomponeva. Teneva
una mano irrequieta in tasca. E il vecchio servo gli guatava quella mano che, dentro la
giacca, pareva brancicasse un'arma. Il suono del campanello, intanto, tardava; e piú
tardava, piú cresceva l'ansito, invano dissimulato, del giovine e l'irrequietezza di
quella mano. Il vecchio servo, ormai al colmo della costernazione, si accostò all'uscio,
vi si parò davanti, appena a tempo, ché allo squillo del campanello Antonio Del Re
savventò all'uscio come una belva con un pugnale brandito, trascinandosi dietro
nella furia il vecchio che lo teneva abbrancato.
Corrado Selmi, pallidissimo, seduto
innanzi alla scrivania, col bicchiere ancora in mano, da cui aveva bevuto or ora il veleno
della boccetta rovesciata presso la cartella, si volse e arrestò d'un tratto con uno
sguardo gelido e un sorriso appena sdegnoso, tremulo su le labbra, la violenza del
giovine.
"Non t'incomodare!", gli
disse. "Vedi? Ho fatto da me... Lascialo!" ordinò al servo. "E ti
proibisco di gridare o di correre a soccorsi."
Prese dalla scrivania la busta
sigillata e la mostrò al giovine che ansimava e mirava, ora, allibito.
"Tu butti male, ragazzo,"
gli disse. "Hai una trista faccia... Ma sta' tranquillo: questa busta è per tuo zio.
Sarà liberato. Lasciala stare qua."
Posò di nuovo la busta su la
scrivania; strizzò gli occhi; serrò i denti; sinterí, mentre nel pallore
cadaverico il viso gli si chiazzava di lividi. Fece per alzarsi; il servo accorse a
sostenerlo.
"Accompagnami... al
letto..."
Si voltò al Del Re, con gli occhi
già un po' vagellanti. Quasi l'ombra d'un sorriso gli tremò ancora nella faccia spenta.
E disse con strana voce:
"Impara a ridere, giovanotto...
Va' fuori: oggi è una bellissima giornata."
E scomparve dall'uscio, sostenuto
dal servo.
Come da via delle Colonnette,
all'arresto di Roberto Auriti, Antonio Del Re era scappato alla casa del Selmi, cosí, ma
con altro animo, Mauro Mortara era corso in cerca di Lando Laurentano. Al villino di via
Sommacampagna, Raffaele il cameriere gli aveva detto che il padrone, letta nel giornale la
notizia di quell'eccidio avvenuto in Sicilia, dalle parti di Girgenti, era saltato in
vettura, diretto alla casa dei Vella.
"E dov'è? Come faccio a trovar
la via?"
"Se volete, in vettura vi ci
accompagno io."
In vettura, vedendolo affannato e
smanioso d'arrivare, gli aveva chiesto se conosceva quella signora e quell'ingegnere.
"Che signora? che
ingegnere?"
"Come? Non avete inteso? Non
sapete nulla? Li hanno assassinati ad Aragona..."
"Ad Aragona?"
"I solfaraj."
"Ma dunque..."
E sera interrotto, con un
balzo, per guardar prima fisso in faccia, con occhi stralunati, il cameriere, poi dalla
vettura la gente che passava per via, quasi tutt'a un tratto assaltato dal dubbio che una
gran catastrofe fosse accaduta, senza chegli ne sapesse nulla.
" Ma dunque, che succede? Tutto
sottosopra? Là ammazzano! Qua arrestano! Sapete che hanno arrestato don Roberto
Auriti?"
"Il cugino del padrone?"
"Il cugino! il cugino! E lui se
ne va dal Vella! Gli arrestano il cugino, don Roberto Auriti, uno dei Mille, che al
Sessanta aveva dodici anni, e combatteva! E suo padre mi morí fra le braccia, a
Milazzo... Arrestato! Sotto gli occhi miei! A questo, a questo mi dovevo ritrovare!
Sera messo a gridare in
vettura e a gesticolare e a pianger forte; e tutta la gente, a voltarsi, a fermarsi, a
commentare, nel vederlo cosí stranamente parato, con quello zainetto dietro le spalle, in
fuga su quella vettura e vociferante.
"Statevi zitto! statevi
zitto!"
Ma che zitto! Voleva giustizia e
vendetta Mauro Mortara di quell'arresto; e come Raffaele, per farlo tacere, gli parlò
della visita che, alcuni giorni addietro, forse per questo don Giulio, il fratello di don
Roberto, aveva fatto al padrone:
"Ma sicuro!" gridò,
sovvenendosi. "C'ero io! c'ero io! E l'ho visto piangere. Per questo, dunque,
piangeva quel povero figliuolo? Voleva ajuto... E dunque... e dunque don Landino gliel'ha
negato? Possibile?"
"Forse perché la somma era
troppo forte..."
"Ma che troppo forte mi andate
dicendo! Quando si tratta dell'onore d'un patriota! E lui è ricco! E sua zia non ebbe
nulla dei tesori del padre, ché si prese tutto il fratello maggiore... Oh Dio! Dio! Donna
Caterina... l'unica degna figlia di suo padre... Ora donna Caterina ne morrà di
crepacuore... Ma se è vero questo, per la Madonna, che gli ha negato ajuto, non lo guardo
piú in faccia, com'è vero Dio! Non ci credo! non ci voglio credere!"
Arrivato in casa Vella, però, vi
trovò tale scompiglio, che non poté piú pensare a domandar conto a Lando dell'arresto
di Roberto Auriti. Dianella Salvo, la sua amicuccia donna Dianella, la sua colomba, che in
quel mese passato a Valsanía aveva saputo avvincerlo e intenerirlo con la grazia soave
degli sguardi e della voce, nel vederlo entrare aggrondato e smarrito nel salone, gli si
precipitò subito incontro quasi con un nitrito di polledra spaurita, e gli
saggrappò al petto, tutta tremante, affondandogli la testa scarmigliata entro la
camicia d'albagio, quasi volesse nascondersi dentro di lui, e gridando, con una mano
protesa indietro, verso il padre:
"Il lupo!... Il lupo!"
Mauro Mortara, cosí soprappreso,
frugato nel petto da quella fanciulla in quello stato, levò il capo, sbalordito, a cercar
negli occhi degli astanti una spiegazione: mirò visi sbigottiti, afflitti, piangenti,
mani alzate in gesti di timore, di riparo, di pena e di maraviglia. Non comprese che la
fanciulla fosse impazzita. Le prese il capo tra le mani e provò di scostarselo dal petto
per guardarla negli occhi:
"Figlia mia!" disse.
"Che vi hanno fatto? che vi hanno fatto? Ditelo a me! Assassini... Il cuore... hanno
strappato il cuore... il cuore anche a me!"
Ma, come poté vederle gli occhi e
la faccia disfatta, stravolta, aperta ora a uno squallido riso, con un filo di sangue tra
i denti, inorridí: guatò di nuovo tutti in giro e, riponendosi sul petto il capo di lei
e lasciandovi sui capelli scarmigliati la mano in atto di protezione e di pietà:
"Come la madre?" disse in
un brivido, e addietro spinto dalla fanciulla che, seguitando sul petto di lui
quell'orribile riso come un nitrito, con ansia frenetica lo incitava:
"Da Aurelio... da
Aurelio..."
Accorse, col volto inondato di
lagrime, la cugina Lillina, mentre in fondo al salone Lando Laurentano e don Francesco
Vella cercavano di far coraggio a Flaminio Salvo che, a quella scena, sera nascosto
il volto con le mani, imprecando.
"Sí, Dianella, sii buona! sii
buona! Ora lui ti porterà... ti porterà dove tu vuoi... sii buona, cara, sii buona! da
Aurelio!"
Ma Dianella, sentendo la voce del
padre, invasa di nuovo dal terrore, aveva ripreso ad affondar la testa sul petto di Mauro
e a riaggrapparsi a lui piú freneticamente, urlando:
" Il lupo!... il lupo!..."
"Ci sono qua io! Dov'è il
lupo?" le gridò allora Mauro, ricingendola con le braccia. "Non abbiate paura!
Ci sono io, qua!"
"Vedi? c'è lui, ora! c'è
lui!" le ripeteva Lillina.
E anche Ciccino e la zia Rosa le si
fecero attorno a ripetere:
"C'è lui! Vedi che è venuto
per te? per difenderti, cara..."
Levò, felice e tremante, il volto,
appena appena, la poverina, a mostrare un sorriso di riconoscenza, e seguitò a spinger
Mauro verso la porta:
"Sí... sí... da Aurelio... da
Aurelio..."
Strozzato dalla commozione Mauro,
cosí respinto indietro, tra quella gente che non conosceva e gli si stringeva attorno,
domandò con rabbia:
"Ma insomma, che è? com'è
stato? che dice? dice Aurelio? Chi è? Il figlio di don Leonardo Costa? Ah, è lui...
quello che hanno assassinato?"
Con gli occhi, con le mani, tutti
gli facevano cenno di tacere, e qualcuno gli rispondeva chinando il capo.
"Lo amava? Oh figlia..."
Lando Laurentano e don Francesco
Vella si portarono via di là Flaminio Salvo.
"Ditemi, ditemi che vi hanno
fatto, "seguitò Mauro rivolto a Dianella, con tenerezza quasi rabbiosa. "Ora
andiamo da Aurelio... Ma ditemi che vi hanno fatto! Chi è il lupo, che lo ammazzo? Chi è
il lupo?" domandò agli altri con viso fermo.
Ma nessuno sapeva con certezza che
cosa fosse accaduto, a chi veramente alludesse Dianella con quel suo grido. Pareva al
padre, ma poi, chi sa? Forse lo scambiava per un altro. Era stato lí, durante la loro
assenza, Ignazio Capolino. Dianella era rimasta in casa, lei sola, perché si sentiva poco
bene; e certo sopra di lei Capolino, senza misericordia, forsennato per l'orrenda
sciagura, aveva dovuto rovesciar la furia della sua disperazione. Ciccino e Lillina, che
erano stati i primi a rincasare, gli avevano sentito gridare:
"Tuo padre! tuo padre,
capisci?"
Ma al loro entrare, quegli era
scappato via, furibondo, lasciando questa poveretta come insensata, come intronata da
tanti colpi spietati alla testa, e, subito dopo, dando segni di terrore, sera messa
a urlare: "Il lupo!... il lupo!..."
Che le aveva detto Capolino?
Uno solo poteva saperlo, cosí bene
come se fosse stato presente alla scena: Flaminio Salvo, che di là, tra Lando Laurentano
e il cognato Francesco Vella, sentiva prepotente il bisogno di confessare il suo rimorso,
ma che tuttavia, senza che potesse impedirlo, si scusava accusandosi.
Francesco Vella gli aveva domandato,
se si fosse mai accorto che la figliuola amava il Costa.
"Se tu non lo sapevi!"
"Io lo sapevo. Ma potevo io, io
padre, profferire la mia figliuola a un mio dipendente? Quel disgraziato, lui, non se
n'era mai accorto, per la modestia della mia figliuola, e perché a lui stesso non poteva
passare per il capo una tal cosa; tanto piú che, da un pezzo, era invescato nella
passione per quell'altra disgraziata... Ma il torto è mio, il torto è mio: io non ho
scuse! Nessuno meglio di me può sapere che il torto è mio! Avevo beneficato quel povero
giovine, come avevo beneficato tutti coloro che laggiú lo hanno assassinato! Qual altro
frutto poteva recare il beneficio? Il Costa era cresciuto a casa mia, come un figliuolo; e
quella mia povera ragazza... Ma sí, certo! E io, io vedevo bene la necessità che il male
da me fatto in principio, beneficando, si dovesse compiere con un matrimonio; però, lo
confesso, mi ripugnava, e cercavo d'allontanarlo quanto piú mi fosse possibile. Ma,
vedete: intanto, avevo richiamato quel figliuolo dalla Sardegna, e lo avevo assunto alla
direzione delle zolfare d'Aragona; e ora, qua a Roma, avevo detto al Capolino che, se il
Costa fosse riuscito a domare quei bruti laggiú, io gli avrei dato in premio la mia
figliuola. Notate questo: che dunque Capolino sapeva e, per conseguenza, sapeva anche la
moglie, che questo era il mio disegno. Sí, è vero, sotto, avevo altre intenzioni, o
piuttosto, una speranza... Signori miei, io potevo bene per la mia figliuola aspirare a
ben altro... (e, cosí dicendo, fissò negli occhi Lando Laurentano). L'avevo perciò
condotta a Roma e mi proponevo di lasciarla qua in casa di mia sorella, con la speranza
che si distraesse da quella sua puerile ostinazione. Ebbene, la signora Capolino volle
profittare di questa mia speranza per render vano quel mio disegno: volle partire col
Costa per toglierlo per sempre alla mia figliuola. E il signor Capolino forse sperava che,
sposo Aurelio, domani, di mia figlia e già amante di sua moglie, egli potesse seguitare a
tenere un posto in casa mia. E ora, ora che tutto gli è crollato cosí d'un tratto, ha
gridato a mia figlia, come mie, le sue macchinazioni! Ma io vi giuro, signori, che lo
schiaccerò, lo schiaccerò... Seppure... ormai... ormai..."
Scrollò le spalle, scartò con le
mani quella sua minaccia come se ogni proposito gli désse ora un'invincibile nausea. E
andò a buttarsi su una poltrona, come atterrito a mano a mano dal vuoto arido, orrido,
che dopo quel lungo sfogo gli sera fatto dentro.
Nulla: non sentiva piú nulla:
nessuna pietà, né affetto per nessuno. Un fastidio enorme, anzi afa, afa sentiva ormai
di tutto, e specialmente della parte che doveva rappresentare, di padre inconsolabile per
quella sciagura della figliuola, che invece non gli moveva altro che irritazione, ecco, e
dispetto, e quasi vergogna, sí, vergogna. Quella smania folle della figliuola per
l'innamorato lo rivoltava come alcunché di vergognoso. E si domandava, con bieca
crudezza, se avesse mai amato veramente, di cuore, quella sua figliuola. No. Come per
dovere l'aveva amata. E ora che questo dovere gli si rendeva cosí grave e penoso, non
poteva provarne altro che uggia e nausea. Ma sí, perché era anche fatalmente condannata
quella sua figliuola! Non era pazza la madre? E ormai, tutto quello che poteva accadergli,
ecco, gli era accaduto. La misura era colma, e basta ormai! Lo sterminio della sorte su la
sua esistenza era compiuto; in quel vuoto arido, orrido, restava padrone, senza piú nulla
da temere. La morte non la temeva. E guardò il brillío della grossa pietra preziosa
dell'anello nel tozzo mignolo della sua mano pelosa, posata su la gamba. Quel brillío,
chi sa perché, gli richiamò un lembo delle carni di Nicoletta Capolino che laggiú quei
bruti avevano arse. Sollevò il capo, con le nari arricciate. Ah come volentieri avrebbe
fumato un sigaro! Ma pensò che non poteva fumare, perché in quel momento sarebbe
sembrato scandaloso. Sentí che Francesco Vella diceva a Lando Laurentano:
" Ma sí, è certo: erano
fuggiti! Partiti da quattro giorni, arrivavano allora appena ad Aragona... Dove erano
stati in questi quattro giorni?"
E interloquí, con altra voce, con
altro aspetto, come se non fosse piú quello di prima:
"Non c'è luogo a dubbio,"
disse. "Già l'altro jeri da Napoli m'era arrivata una lettera del Costa, con la
quale si licenziava da me. È andato dunque a morire per conto suo laggiú: e anche di
questo, dunque, posso non aver rimorsi.
Entrò a questo punto Ciccino come
sospeso e smarrito nell'ambascia della notizia che recava.
"Lando," disse esitante,
"bisogna che ti avverta... Quel vecchio..."
"Mauro?"
"Ecco, sí... era venuto qua
col tuo domestico a cercarti per... dice che... dice che hanno arrestato Roberto
Auriti."
Lando impallidí, poi arrossí,
aggrottando le ciglia come per un pensiero che, contro la sua volontà, gli si fosse
imposto; si mostrò imbarazzato lí tra gente che aveva per sé una sciagura ben piú
grave.
"Vada, vada,"
saffrettò a dirgli Flaminio Salvo, tendendogli una mano e posandogli l'altra su una
spalla per accompagnarlo.
"Le auguro," gli disse
allora Lando, "che sia un turbamento passeggero questo della sua figliuola."
Flaminio Salvo socchiuse gli occhi e
negò col capo:
"Non mi faccio illusioni."
E rientrarono nel salone, cosí, con
le mani afferrate.
Mauro Mortara, già da un pezzo
esasperato, soffocato, ancora con la povera fanciulla demente aggrappata al petto, non
seppe trattenersi a quello spettacolo: si scrollò con un muggito nella gola, e gridò
alle due donne che gli stavano attorno:
"Tenetela... prendetevela...
Gli dà la mano... Non posso vederlo... Sapete come si chiama? Ha il nome di suo nonno:
Gerlando Laurentano!"
E, strappandosi dalle braccia di
Dianella, scappò via.
Flaminio Salvo schiuse le labbra a
un sorriso amaro, piú di commiserazione derisoria che di sdegno: e, alle scuse che gli
porgeva Lando Laurentano, rispose:
"Contagio... Niente principe...
La pazzia purtroppo è contagiosa..."
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 04 September, 1998