Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
II
Da una ventina di giorni, tutti,
anche quelli che andavano per via frettolosi e sopra pensiero, si voltavano, si fermavano
a mirare un vecchiotto nodoso e ferrigno, con un piccolo zàino alle spalle, quattro
medaglie al petto e un cappellaccio nero, da cui scappava un arruffio di peli, i gialli
cernecchi confusi col barbone lanoso, abbatuffolato. Camminava quel vecchiotto come in
sogno, gli occhi lustri, ilari e lagrimosi, senz'alcun sospetto della sua straordinaria
apparizione per le vie e le piazze di Roma, in quella comica acconciatura e con quella
goffa aria di selvaggio intenerito. Ma, lasciati a Valsanìa il berretto villoso, gli
scarponi imbullettati e il fucile, indossato il vestito nuovo di panno turchino e, sotto
alla ruvida camicia d'albagio violacea, un'altra camicia di tela che gli sovrabbondava
bianca e floscia dal collo e dalle maniche; con quel cappellaccio nero e le scarpe pulite,
Mauro Mortara era sicuro d'essersi acconciato da compito cittadino. La giacca, sí, aveva
su i fianchi certi rigonfii... ma le pistole, eh quelle aveva fatto voto di non lasciarle
mai. Le quattro medaglie poi che gli sintravedevano appese alla camicia d'albagio,
sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare
chera degno di passare per Roma, che sera meritata la grazia e guadagnato
l'onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zainetto.
Come avrebbe potuto supporre che
quelle medaglie, a Roma, attufata d'odio e tutta imbrattata di fango in quei lividi
giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventata quasi titolo
d'infamia la qualifica di "vecchio patriota"? Senza il piú lontano sospetto che
ridessero di lui, Mauro Mortara rideva a tutti coloro che gli ridevano in faccia, credendo
che partecipassero alla sua gioja, a quella sua gioja rigata di lagrime che, quasi
grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa. Non vedeva altro di Roma,
che questa sua gioja di esserci; e tutto in quella fiamma d'allucinazione gli si
presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi. Tre, quattro volte,
nell'allungare il passo, gli era venuto meno il marciapiedi, e per poco non era ruzzolato.
Andava com'ebro, senza mèta, smarrito, annegato nella sua beatitudine; e appena gli
fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso, giú altre lagrime dagli occhi gonfii di
commozione.
Lando Laurentano avrebbe voluto
dargli una guida; ma che guida! non voleva saper nulla; non voleva che gli si precisasse
nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn'indicazione, ogni conoscenza anche
sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il
sentimento gli creava. Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. E
ritornando la sera, stanco e non sazio, al villino di via Sommacampagna dove Lando
abitava, alle domande se avesse veduto il Colosseo, il Foro, il Campidoglio:
"Ho visto, ho visto!"
rispondeva in fretta. "Non mi dite niente... Ho visto!"
"Anche San Pietro?"
"Oh Marasantissima! Vi dico che
ho visto. Non voglio saper niente! Questo... quello... che me n'importa? È tutto
Roma!"
Che glimportava di sapere chi
fosse quel cavaliere con le gambe nude e la corona in capo sul gran cavallo di bronzo in
quell'alta piazza vegliata da statue in capo alla salita, dominata da una torre e
porticata a destra e a sinistra? Era a Roma? E dunque era un grande, certo, un eroe
dell'antichità, un vittorioso, un padrone del mondo. E quella statua lí, rossa, seduta
sopra la fontana, con una palla in mano? Roma: quella era Roma, col mondo in pugno, e
basta. Se per quella piazza non fosse passata di continuo tanta gente, si sarebbe chinato
a baciar l'orlo di quella fontana, accostato a baciare il piedestallo di quel cavaliere
con le gambe nude. E perché saffaccendava lassú tutta quella gente? Ma perché
lavorava a far piú grande Roma: ecco perché! Si davano tutti da fare per questo. E Roma,
Roma... eccola là: di nuovo, tra poco, tutto il mondo in pugno avrebbe tenuto, cosi!
Era lui davvero, Mauro Mortara, a
Roma? respirava proprio lui lassú quell'aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il
suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? o era sogno? Ah, si potevano chiudere
ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua
firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire: aveva dato atto di
presenza nella vita, risposto all'appello della storia. Che stupore! Se le era trovate
davanti all'improvviso, quelle colonne scure e maestose. Nel dubbio che fosse una chiesa,
sera tenuto in prima d'entrare per il cancello semichiuso della ringhiera, come
vedeva fare a tanti. Venendo a Roma, aveva stabilito che, dalle chiese, alla larga!
Rispettare Dio, sí, ma in cielo... E non era entrato difatti neanche in San Pietro. In
mano ai preti, lui? Maramèo! Con occhi torvi aveva guatato il Vaticano, premendo coi
gomiti su i fianchi il calcio delle due pistole. Era dunque una chiesa anche quella? Stava
per domandarlo, quando gli sera accostato un venditore di vedute di Roma: "Il
Pantheon... la tomba del Re..."
"Là dentro?"
E subito allora era entrato.
Quell'occhio tondo aperto nella cupola, da cui si vedeva il cielo, l'altare di fronte lo
avevano un po' sconcertato. Dov'era la tomba del Re? Eccola là, a destra, in alto, di
bronzo... E sera avvicinato, timoroso; aveva veduto sotto la tomba i due veterani di
guardia, con le medaglie al petto, il registro per le firme dei visitatori e, con gli
occhi ridenti e invetrati di lagrime, aveva sollevato un po' la giacca per far vedere a
quelli che aveva il diritto, lui, di firmare. Quei due veterani non avevano compreso bene,
forse, ciò che avesse voluto dire e, vedendolo ridere e piangere insieme, lo avevano
preso forsanche per matto. Uno dei due, infatti, come a rassicurarsi, gli aveva
domandato con un gesto della mano: firmare? Sí, aveva risposto lui, col capo: or ora,
dopo tutti gli altri; ché, un po' per la mano poco avvezza, un po' per gli occhi e sopra
tutto poi per la commozione, chi sa quanto tempo ci avrebbe messo! Alla fine, rimasto solo
davanti ai veterani dopo aver raspato alla meg!io sul registro, a lettera a lettera, nome,
cognome e luogo dl nascita:
"Ah, da Girgenti...
siciliano?" sera sentito domandare da uno di quelli, che con gli occhi aveva
tenuto dietro alla penna. "Avete fatto la campagna del Sessanta?"
"Eccole qua!" gli aveva
risposto, gongolante, mostrando le medaglie. "E questa, del Quarantotto!
"Ah, reduce del Quarantotto...
E siete danneggiato?"
"Come, danneggiato? Che vuol
dire?"
"Se avete la pensione dei
danneggiati politici..."
Ma che pensione! Lui? Perché la
pensione? Non aveva niente, lui. Non sapeva neppure che ci fosse, quella pensione; e se
l'avesse saputo, non l'avrebbe mai chiesta. Prender danaro per quel che aveva fatto? Ma
gli dovevano prima cascar le mani!
Quelli, cheran due piemontesi,
serano messi a ridere, guardandosi negli occhi. Lo avevano approvato - credeva lui -
sicuramente. Sí, come lo approvavano, nel villino, ogni sera, Raffaele il cameriere e
Torello il servitorino, dopo la severa riprensione del padrone che li aveva sorpresi in un
momento che se lo pigliavano a godere proprio di gusto. Alle esclamazioni di gioja, di
meraviglia, di entusiasmo, di soddisfazione, alle ingenue considerazioni di Mauro sulla
grandezza della patria, Lando Laurentano, benché pieno in quei giorni di sdegno e di
nausea, non aveva mai replicato; aveva trattenuto il sorriso anche quando il suo caro
vecchio, una di quelle sere, era entrato ad annunziargli ancor tutto esultante:
"Ho visto il Re! ho visto il
Re! Oh, povero figlio mio, come avrei potuto mai crederlo? tutto bianco... bianco come
me... Chi sa quanto gli costa sedere lassú! quanti pensieri! Eh, il palo è lui! c'è
poco da dire: il palo che regge tutto... E sapete? M'ha salutato! se la carrozza andava
piú piano, mi buttavo in ginocchio, com'è vero Dio!"
"Sentirsi in petto per un
momento quel cuore!" aveva pensato con tenerezza e con invidia Lando Laurentano.
"Potere con quella stessa fede, con quella stessa purezza d'intenti, nutrire un
sogno, un piú vasto sogno; affrontare per esso piú aspre lotte e vincere, per goder poi
una gioja piú pura e piú grande di quella!".
Come per ritemprarsi e lavarsi lo
spirito di tutte le sozzure sbomicanti in quei giorni dalla vita nazionale, sera
immerso nei discorsi di quel vecchio, strambi, sí, ma vero lavacro di purezza e di fede.
La sua vista, la sua presenza a Roma, in quei giorni, gli facevano apparir piú sozzi,
piú turpi tutti coloro che della fortuna insigne d'esser nati in un momento supremo e
glorioso serano avvantaggiati come ingordi mercanti e ladri speculatori. Che ne
sapeva, che poteva saperne quel vecchio, il quale, dopo aver dato il meglio della sua
forte e ingenua natura alla patria, sera ritratto in solitudine a fantasticare sul
frutto che l'opera sua avrebbe certamente recato, sicuro che tutti gli altri avevano fatto
come lui? Egli non pensava: sentiva soltanto: fiamma accesa, che si beava nel suo lume e
nel suo calore, e tutto avvivava intorno a sé di questo lume. E, certo, come ora qua non
avvertiva la tempesta di fango in mezzo alla quale passava raggiante di gioja e
d'entusiasmo, da trent'anni in Sicilia non aveva mai avvertito gli orrori delle tante
ingiustizie, la desolazione dell'abbandono, il crollo delle illusioni, il grido e le
minacce della miseria. Impensierito dalle notizie di giorno in giorno piú gravi che gli
arrivavano di laggiú, Lando avrebbe voluto qualche ragguaglio da lui, almeno intorno alla
provincia di Girgenti; ma non glien'aveva neppur fatto cenno, sicuro che gli avrebbe
oscurato d'un tratto tutta la festa col fargli sapere chegli, il nipote del
Generale, era per quelli che egli in buona fede doveva stimar nemici della patria, e
dunque un nemico della patria anche lui. Gli aveva domandato invece notizie del padre.
"Giú, dovete venire giú con
me!" gli aveva risposto Mauro recisamente. "Voi siete il ladro; io, il
carabiniere. E ringraziate Dio che ha mandato me! Poteva mandarvi un plotone di quei suoi
terribili pagliacci, con Sciaralla il capitano."
Lando aveva schiuso le labbra a un
sorriso afflitto. E allora Mauro, picchiandosi la fronte con una mano:
"Testa! Che volete farci? Me li
manda anche lí, a Valsanìa, vestiti a quel modo, nella casa di suo Padre! Il cuore mi si
volta in petto e vedo rosso, vi giuro, certe volte! Basta, che dicevamo? Ah... anche
questa vi pare che sia da meno? andare a sposar di nuovo, alla sua età, e una di quella
razza! Santo e santissimo non so chi e non so come, il padre di quello, vi dico, quando
vostro nonno fu mandato in esilio, andò in chiesa a cantare il Te Deum. E lui,
lui, questo don Flaminio Salvo... Corpo di Dio, sapete che ho dovuto sopportarmelo per un
mese a Valsanìa? Ah, che bracalone quel vostro zio don Cosmo! - Come! - doveva dire. -
Flaminio Salvo a Valsanìa? - E invece, niente! Padronissimo. E sapete come sono stato io
per un mese? Come una bestia che va cercando tutti i buchi e i bucherelli per nascondersi.
Se lo vedevo... sangue di... per qua lo afferravo, vi dico, per la gola, e là, suona che
ti suono, cazzotti dove coglievo coglievo! Sapete che quando mi piglia quel momentaccio,
bestiale come sono... Lasciamo andare! Questo don Flaminio Salvo, al quarantotto, che
fece? ve lo dico io che fece andò dritto filato a denunziare alla sbirraglia borbonica il
luogo dove sera nascosto don Stefano Auriti con vostra zia donna Caterina. Storia! E
ora, a Girgenti, porta tutti i preti in pianta di mano! Ma Dio, ah Dio l'ha castigato! La
moglie, pazza! Peccato che la figlia... quella, no: buona, la figlia; buona e bella... Ma
non vi venisse in mente, oh, di pigliarvela in moglie! Voi, caro mio, portate il nome di
vostro nonno, ricordatevelo! E il nome di Gerlando Laurentano dev'essere per voi... che
dico? no, caro mio, non ridete... di queste cose non dovete ridere davanti a me!"
" Rido," gli aveva
risposto Lando, "perché ha mandato un buon ambasciatore mio padre per persuadermi ad
assistere alle sue nozze!"
E Mauro, mettendo le mani avanti:
"Ah no, che c'entra? io le cose
le dico papali in faccia, anche a lui. E, tanto, se non le dico, mi si leggono in fronte
lo stesso... Ciascuno col sentimento suo. Ma voi dovete venire con me, perché il padre è
padrone, caro mio. Non andate di vostra volontà. Lui, com'ha cominciato, deve finire. Se
sè messo per quella via, che volete farci? Ve ne verrete per un po' di giorni a
Valsanía, a ristorarvi; vi arrabbierete un po' con quello stolido di vostro zio don
Cosmo; ma poi ci sono io, c'è il camerone del Generale, intatto, tal quale... Entrando
là, il petto... ah! vi sallarga e il cuore vi si fa tanto... Voi, non so, mi
parete... Con permesso, lasciatemi sentir l'orologio."
Gli sera accostato, gli aveva
posato un orecchio sul petto, dalla parte del cuore e, ridendo furbescamente, aveva
concluso:
"Ho capito! L'ora delle
femmine."
Calmo e freddo in apparenza,
Lando Laurentano covava in segreto un dispetto amaro e cocente del tempo in cui gli era
toccato in sorte di vivere; dispetto che non si sfogava mai in invettive o in rampogne,
conoscendo che, quand'anche avessero trovato eco negli altri, come ne trovavano difatti
quelle dei tanti malcontenti in buona o in mala fede, non avrebbero approdato a nulla.
Era, quel suo dispetto, come il
fermento d'un mosto inforzato, in una botte che già sapeva di secco.
La vigna era stata vendemmiata.
Tutti i pampini ormai erano ingialliti; saccartocciavano aridi; cadevano; i tralci
nudi si storcevano nella nebbia autunnale, come chi si stiri in un lungo e sordo spasimo
di noja; nella grigia distesa dei campi, tra la caligine umida, non rimaneva piú altro
che un accennar muto e lieve e lento di pàlmiti vagabondi.
Aveva dato il suo frutto, il tempo.
E lui era venuto a vendemmia già fatta. Il mosto generoso e grosso, raccolto in Sicilia
con gioja impetuosa, mescolato con l'asciutto e brusco del Piemonte, poi col frizzante e
aspretto di Toscana, ora col passante, raccolto tardi e quasi di furto nella vigna del
Signore, mal governato in tre tini e nelle botti, mal conciato ora con tiglio or con
allume, sera irrimediabilmente inacidito.
Età sterile, per forza, la sua,
come tutte quelle che succedono a un tempo di straordinario rigoglio. Bisognava assistere
tristi e inerti, allo spettacolo di tutti coloro che avevan dato mano all'opera e volevano
ora esser soli a darle assetto; alcuni tuttavia sovreccitati e quasi farneticanti, altri
già lassi e crogiolantisi con senile sorriso di sufficienza nella soddisfazione
d'un'ardua fatica comunque terminata, di cui non volevano vedere i difetti, né che altri
li vedesse.
Ah, in verità, sorte miserabile
quella dell'eroe che non muore, dell'eroe che sopravvive a se stesso! Già l'eroe,
veramente, muore sempre, col momento: sopravvive l'uomo e resta male. Guaj se non scoppia
l'anima con veemenza, investita da quel vento propulsore che la gonfia, la sforza e le fa
assumere a un tratto una terribile maschera di grandezza! Dopo quello sforzo, caduto il
vento, l'anima violentata non sa, non può piú ricomporsi nelle sue naturali proporzioni
non trova piú il suo equilibrio: qua ancora abbottata e intumidita, là floscia,
ammaccata, casca da tutte le parti e, come un pallone in cui si sia consumato lo
stoppaccio, incespica e si straccia in tutti gli sterpi della via dianzi sorvolata.
Lando Laurentano non sfogava il
dispetto, perché, non avendo potuto prima per l'età, non potendo piú ora per l'inerzia
dei tempi far nulla, sdegnava come troppo facile dir che gli altri avevano fatto male.
Fare... ecco, poter fare, senza punte parole! Avevano fatto gli altri. Ora era il tempo
delle parole. Ne facevano tante gli altri inutilmente, chegli poteva bene risparmiar
le sue. Vedeva che coloro, a cui era stato dato di fare, serano dibattuti a lungo
tra due concezioni, una vacua e l'altra servile: quella di un'Italia classica e quella di
un'Italia romantica: una fantasima in toga e un manichino da vestire con la livrea e il
beneplacito altrui: un'Italia retorica, fatta di ricordi di scuola, quella stessa forse
vagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo, repubblicana; e un'Italia
forestiera, o inforestierata tutta nell'anima e negli ordini. Purtroppo, le necessità
storiche dovevano effettuar questa. E, in fondo, non si era fatto altro che sostituire una
retorica a un'altra; alla scolastica imitazione degli antichi, la spropositata imitazione
degli stranieri. Imitare, sempre. "Oh Italiani," aveva gridato dalle Murate
di Firenze il Guerrazzi, "scimmie e non uomini!".
Soffocati dalle cosí dette ragioni
di Stato glimpeti piú generosi, la nazione era stata messa sú per accomodamenti c
compromissioni, per incidenze e coincidenze. Un solo fuoco, una sola fiamma avrebbe dovuto
correre da un capo all'altro d'Italia per fondere e saldare le varie membra di essa in un
sol corpo vivo. La fusione era mancata per colpa di coloro che avevano stimato pericolosa
la fiamma e piú adatto il freddo lume dei loro intelletti accorti e calcolatori. Ma, se
la fiamma sera lasciata soffocare, non era pur segno che non aveva in sé quella
forza e quel calore che avrebbe dovuto avere? Che nembo di fuoco allegro e violento dalla
Sicilia sú sú fino a Napoli! Ancora da laggiú, piú tardi, la fiamma sera
spiccata per arrivare fino a Roma... Dovunque era stata costretta ad arrestarsi, ad
Aspromonte o su le balze del Trentino, era rimasto un vuoto sordo, una smembratura.
Non poteva l'Italia farsi in altro
modo? Segno che non erano ancora ben maturi gli eventi, o che eran mancati in alcuni
l'energia e l'ardire per secondarli. Troppi calcoli e riflessioni ombrose e tentennamenti
e scrupoli e ritegni e soggezioni avevano mortificato la creazione della patria.
Che fare, adesso? Per chi vuole,
sí, è sempre tempo di far bene. Ma un bene modesto, umile, paziente, Lando Laurentano
sentiva che non era per lui. Gli avevano offerto, nelle ultime elezioni generali, la
candidatura in uno dei collegi di Palermo: né preghiere, né pressioni, né richiami alla
disciplina del partito erano valsi a farlo recedere dal rifiuto. Lui, a Montecitorio, in
quel momento? Meglio affogarsi in una fogna!
Fin da giovinetto sera nutrito
di forti e severi studii, non tanto per bisogno di coltura o per passione, quanto per
poter pensare e giudicare a suo modo, e serbare cosí, conversando con gli altri,
l'indipendenza del proprio spirito. Aveva qua, nel villino solitario di via Sommacampagna,
una ricca biblioteca, ove soleva passare parecchie ore del giorno. Ma, leggendo, era
tratto irresistibilmente a tradurre in azione, in realtà viva quanto leggeva; e, se aveva
per le mani un libro di storia, provava un sentimento indefinibile di pena angustiosa nel
veder ridotta lí in parole quella che un giorno era stata vita, ridotto in dieci o venti
righe di stampa, tutte allo stesso modo interlineate con ordine preciso, quello
chera stato movimento scomposto, rimescolío, tumulto. Buttava via il libro, con uno
scatto di sdegno, e si metteva a passeggiare per la sala. Che strana impressione gli
facevano allora tutti quei libri nella prigione degli alti e ampii scaffali che coprivano
da un capo all'altro le quattro pareti! Dalle due finestre basse, che davano sul giardino,
entrava il passerajo fitto, assiduo, assordante deglinnumerevoli uccelletti che ogni
giorno si davan convegno sul pino là, palpitante piú d'ali che di foglie. Paragonava
quel fremito continuo, instancabile, quell'ebro tumulto di voci vive, con le parole
racchiuse in quei libri muti, e gliene cresceva lo sdegno. Composizioni artificiose, vita
fissata, rappresa in forme immutabili, costruzioni logiche, architetture mentali,
induzioni, deduzioni - via! via! via!
Muoversi, vivere, non pensare!
Che angoscia, che smanie talvolta,
se saffondava nel pensiero che anchegli, inevitabilmente, coi concetti e le
opinioni che cercava di formarsi su uomini e cose, con le finzioni che si creava, con gli
affetti, coi desiderii che gli sorgevano, fermava, fissava in sé e tutt'intorno a sé in
forme determinate il flusso continuo della vita! Ma se già egli stesso, con quel suo
corpo, era una forma determinata, una forma che si moveva, che poteva seguire fino a un
certo punto questo flusso della Vita, fino a tanto che, man mano irrigidendosi sempre
piú, il movimento già a poco a poco rallentato non sarebbe cessato del tutto! Ebbene,
certi giorni, arrivava a sentire per il suo stesso corpo, cosí alto e smilzo, per il suo
volto bruno pallido dalla fronte troppo ampia, dalla barba nera, quadra, dal naso
imperioso in contrasto con gli occhi da arabo sonnolento e voluttuoso, una strana
antipatia. Se li guardava nello specchio come se fossero d'un estraneo. Dentro quel suo
stesso corpo, intanto, in ciò che egli chiamava anima, il flusso continuava indistinto,
sotto gli argini, oltre i limiti chegli imponeva per comporsi una coscienza, per
costruirsi una personalità. Ma potevano anche tutte quelle forme fittizie, investite dal
flusso in un momento di tempesta, crollare, e anche quella parte del flusso che non
scorreva ignota sotto gli argini e oltre i limiti ma che si scopriva a lui distinta, e
chegli aveva con cura incanalato nei suoi affetti, nei doveri che si era imposti,
nelle abitudini che si era tracciate, poteva in un momento di piena straripare e
sconvolger tutto.
Ecco: a uno di questi momenti di
piena egli anelava! Si era perciò immerso tutto nello studio delle nuove questioni
sociali, nella critica di coloro che, armati di poderosi argomenti, tendevano ad abbattere
dalle fondamenta una costituzione di cose comoda per alcuni, iniqua per la maggioranza
degli uomini, e a destare nello stesso tempo in questa maggioranza una volontà e un
sentimento che facessero impeto a scalzare, a distruggere, a disperdere tutte quelle forme
imposte da secoli, in cui la vita sera ponderosamente irrigidita. Sarebbero sorti
nelle maggioranze quella volontà e quel sentimento cosí forti da promuover subito il
crollo? Mancava in esse ancora la coscienza e l'educazione necessarie. Renderle coscienti,
educarle, prepararle: ecco un ideale! Ma a quando l'attuazione? Opera lenta, lunga e
paziente anche questa, purtroppo.
Nei suoi vasti possedimenti in
Sicilia, nella provincia di Palermo, ereditati dalla madre, aveva già accordato ai
contadini la piú equa mezzadria, proibendo assolutamente al suo amministratore di gravare
anche d'un minimo interesse le anticipazioni concesse con liberalità per la semente e per
tutte le altre spese necessarie alla coltura dei campi; vi aveva fondato e manteneva a sue
spese parecchie scuole rurali, piú volte, a ogni richiesta, aveva contribuito largamente
ai fondi di riserva per la resistenza dei contadini e dei solfaraj nelle lotte contro i
proprietarii di terre e i produttori di zolfo; pagava le spese di stampa d'un giornale del
partito: La nuova età, che si pubblicava ogni domenica a Palermo. L'amministratore
Rosario Piro protestava da laggiú, mese per mese, con lunghissime lettere piene di buon
senso e di spropositi di lingua: protestava e si lavava le mani. Povero Piro! Chi sa come
se l'era ridotte, quelle mani, a furia di lavarsele! Lando, forse senza neppure
accorgersene, o credendo forsanche di viver sobriamente, spendeva molto per sé.
L'esperienza di quanto vacua e insulsa fosse la vita di tutti coloro che per professione
facevano bella figura nel cosí detto bel mondo, nei circoli, nei saloni dei grandi
alberghi, nelle sale da giuoco, nelle piste delle corse, nelle cacce a cavallo, se l'era
pagata, non per voglia che n'avesse, ma per non apparir singolare dagli altri in una cosa
di cosí poco valore per lui e che in fondo non gli costava alcun sacrificio, date le sue
abitudini signorili e le sue relazioni sociali; seguitava ancora a pagarsela di tratto in
tratto, e pur cara, nei momenti in cui piú forte sentiva il bisogno d'afferrarsi al
solido fondamento della bestialità umana per sottrarsi o resistere a certi impulsi
strani, a certi capricci dell'immaginazione, alle smaniose incertezze dell'intelletto. Si
abbandonava allora a esercizii violenti con una freddezza che a lui stesso talvolta
incuteva raccapriccio, o a piaceri sensuali, la cui profumata e luccicante squisitezza
esteriore non riusciva a nascondergli la trista volgarità. Ma nell'inerzia si sentiva
rodere; tra le smanie della forzata inazione, soffocare, tanto piú in quanto si
costringeva a respingere quelle smanie per non dare alcuno spettacolo di sé, mai. E
mentre sorrideva, ascoltando al circolo o in qualche altro ritrovo le baggianate dei suoi
conoscenti, dondolando un piede o carezzandosi la barba, immaginava freddamente qualche
scoppio improvviso che mettesse in iscompiglio ridicolo a un tempo e spaventoso tutto quel
mondo fatuo, fittizio, di cui gli pareva incredibile che gli altri sul serio potessero
vivere e appagarsi. Gli altri? E lui? Di che viveva lui? Non se ne appagava, è vero; ma
che ci guadagnava a non appagarsene? Ecco, quelle smanie. Non cupidigie effimere, non
appetiti da soddisfare vi trovavano i suoi sensi: ritrarsene, non gli sarebbe costato
alcuno sforzo di volontà; anzi doveva sforzarsi per rimanervi, come se fosse per lui
esercizio di un dovere increscioso, condanna. D'altro canto, non sarebbe impazzito a
restar solo con se stesso? Tanta era la mala contentezza della propria esistenza arida,
senza germogli di desiderii vivi. Certe notti, rincasando oppresso dalla piú cupa noja,
aveva cosí forte l'impressione d'andare a ritrovar nella solitudine del suo villino il
proprio spirito che non se n'era mosso e che lo avrebbe accolto dallo specchio con
atteggiamento di scherno e gli avrebbe domandato se fuori faceva bel tempo, se c'era la
luna, se qualche lampada elettrica non si fosse per caso stizzita lungo la via, o se San
Paolo, stanco di stare in piedi, non si fosse messo a sedere su la colonna Antonina; cosí
forte aveva questa impressione, che tornava indietro, per lasciar fuori la propria persona
e non presentarla a quella derisione. Eccola, eccola lí, la sua bella persona, ben
curata, ben lisciata, azzimata... chi se la voleva prendere a quell'ora di notte? Si
fermava un po' per sentire intorno a sé il silenzio notturno; gli pareva che questo
silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido
lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli
passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzata via.
Da questi momenti non rari lo
richiamava in sé ogni volta, accorrendo da Palermo senza invito e sempre in punto un
amico, forse il solo che avesse sincero: Lino Apes, direttore della Nuova Età:
Socrate, com'egli lo chiamava. E di Socrate veramente Lino Apes aveva l'umore e la
bruttezza: alto, tutto collo e senza spalle, con le braccia scimmiesche che gli
scivolavano fin quasi ai ginocchi, la fronte sfuggente, il naso schiacciato, e certi occhi
ilari e acuti, che ridendo gli lagrimavano, quasi nascosti dalle folte sopracciglia
spioventi. Poverissimo, con incredibili stenti superati allegramente, sera mantenuto
da sé agli studii, fino a laurearsi in lettere e filosofia; senza ambizioni di sorta,
sadattava a insegnare a suo modo in un ginnasio inferiore, con molto godimento dei
ragazzi, con molto struggimento del direttore che non osava muovergli alcuna riprensione.
Passava il resto della giornata sperperando nella conversazione l'inesauribile ricchezza
delle idee che, dopo un lungo giro, gli ritornavano appena appena riconoscibili, ciascuna
col marchio della sciocchezza o della vanità di chi se l'era appropriata. Era il suo
discorso una fonte perenne di speciosissimi argomenti, da cui sprazzava a un tratto una
luce nuova e strana che, inaspettatamente, rendeva tutto semplice e chiaro. Lino Apes
aveva piú volte dimostrato a Lando Laurentano che, dicendosi socialista, mentiva con la
piú ingenua sincerità; si vedeva non qual era, ma quale avrebbe voluto essere. Il che,
sosteneva lui, avviene a tutti, ed è la sorgente prima del ridicolo. Socialista, un
indisciplinato? socialista, un nemico, non di questo o quell'ordine, ma dell'ordine in
genere, d'ogni forma determinata? Socialista era per il momento: per quel tal momento di
piena, a cui anelava. Ma la maggior parte dei socialisti, del resto, erano come lui e
perciò poteva consolarsi, o piuttosto, provarne dispetto. A ogni modo, una specialità
l'avrebbe sempre avuta: quella di esser ricco tra tanti consimili poveri e di farsi cavar
sangue da tutti e da lui, Lino Apes, direttore della Nuova Età e privato ispettore
delle scuole rurali dipendenti da S. E. il giovane principe di Laurentano.
Lando lo ascoltava con piacere.
Tutto quello che gli altri dicevano lo lasciava scontento e insoddisfatto, come tutto
quello che diceva lui stesso, pur riconoscendo che, sí, era spesso sensato. Riconosceva
anche che tanti e tanti parlavano meglio di lui; ma che valevano poi tutte quelle parole,
tutti quei ragionamenti, tutte quelle idee giuste, tutte quelle cose sensate? Dentro di
lui scattava, esasperata, una protesta: "No, no, non è questo!" senza che poi
egli stesso sapesse dire che cosa dovesse essere in cambio. Ma tutto il resto, i guizzi, i
lampi che gli saccendevano nello spirito non erano esprimibili: sarebbe sembrato
pazzo, se li avesse espressi. Ebbene, Lino Apes, Socrate, aveva questo: che sapeva
esprimerli, ed era stimato saggio.
Riceveva da lui in quei giorni
lettere su lettere, e ognuna con agro stile lo pressava ad accorrere in Sicilia. Tutti i
galli nelle aje bruciate non avevano avuto mai cosí rossa e cosí irta la cresta, né mai
piú spavaldo avevan lanciato nei campi il loro grido a salutare il nuovo sole che, per la
prima volta dopo una notte di secoli, sbadigliava nelle coscienze dei lavoratori.
Coscienze? Per modo di dire. Alla chiesa avevano sostituito il Fascio; e aspettavan da
questo tutti i miracoli impetrati invano da quella. Ma il fanatismo era al colmo: e dunque
possibili i miracoli e facile il còmpito dei taumaturghi. La piena stava per irrompere, e
in un momento avrebbe potuto travolgere "le impure sedi del dominio borghese"
ora senza presidio di soldatesche. Bisognava accorrere e agire prima che la Sicilia fosse
invasa militarmente e la reazione cominciasse.
Lando fremeva, ma non sapeva
staccarsi da Roma in quel momento. Lo scandalo bancario era come una voragine di fuoco
aperta davanti al Parlamento nazionale: a una a una uscendo di là, le putride carcasse
del vecchio patriottismo vi sarebbero precipitate; e quel fuoco, divorandole,
avrebbe purificato la patria. Lo spettacolo era allegro nella sua oscena terribilità. Ma
forse non sarebbe stato tale per Lando, se in quella voragine non avesse aspettato con
ansia feroce uno: Corrado Selmi.
Ah finalmente! Già lo vedeva come
un albero mezzo sfrondato all'appressarsi della lava: forsanche prima d'esser
toccato dal liquido fuoco vorace, sarebbe sparito in una stridula vampata. E Lando sperava
che il suo spirito si sarebbe rischiarato a quella vampata. Ah, per un momento almeno! Il
male che quell'uomo gli aveva fatto non era piú rimediabile: gli aveva per sempre
ottenebrato la vita, tolto per sempre la speranza di volgersi, di riaccostarsi a colei che
nella prima giovinezza gli aveva fatto intendere l'eternità in un attimo di luce: luce
sfavillante da due occhi neri e da un vanente sorriso, una sera di maggio, lungo la marina
di Palermo illuminata, tra i fragor delle vetture, l'odore delle alghe che veniva dal
mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini. Per il divino ricordo
incancellabile di quest'attimo si sarebbe certamente riaccostato alla cugina, appena senza
rimorso, senza profanazione almeno dal suo canto, morto il vecchio marito avrebbe potuto
farla sua di nuovo. Ben per questo l'aveva respinta, quand'ella in un momento di follia,
aveva voluto con rabbiosa disperazione aggrapparsi a lui. E quell'uomo vigliaccamente ne
aveva profittato.
No, non poteva allontanarsi da Roma
in quel momento.
Ora, chiamato con tanta premura da
ben altre ragioni in Sicilia, quella per cui Mauro Mortara era venuto non poteva non
sembrargli una grottesca irrisione. Pensò che non certo per il piacere di vederlo lo si
voleva presente a quel festino di nozze, ma per una diffidenza del Salvo, che l'offendeva.
E, per sbarazzarsene, decise di scrivere a costui una lettera che lo rassicurasse
pienamente e per cui quel matrimonio potesse aver luogo senza il suo intervento. A Lino
Apes rispose che, prima di muoversi, avrebbe voluto consultare tutti quei compagni che tra
pochi giorni dovevano passare per Roma diretti al Congresso di Reggio Emilia. Si sarebbe
tenuta un'adunanza in casa sua, alla quale anche lui, Socrate, doveva prender
parte. A suo carico le spese di viaggio, tanto sue quanto quelle dei rappresentanti dei
maggiori Fasci, di cui voleva un preciso ragguaglio delle condizioni in cui si sarebbe
impegnata la lotta; e se queste veramente erano favorevoli, non avrebbe esitato un momento
a cimentarsi, ad arrischiar tutto, là e addio! Due giorni dopo la spedizione di questa
lettera, gli arrivò all'orecchio la notizia del salvataggio scandaloso del Selmi tentato
dal Governo. Sentí rompersene lo stomaco, e in un furioso ribollimento di sdegno decise
di partir subito per dar fuoco alle polveri preparate in Sicilia. La mattina dopo, mentre
parlava con Mauro Mortara della partenza imminente, gli fu annunziata la visita del cugino
Giulio Auriti.
Mauro era andato due volte a casa di
Roberto in via delle Colonnette, e non l'aveva trovato. Prima di partire, avrebbe voluto
almeno salutarlo. Non conosceva Giulio, avendolo veduto due o tre volte soltanto da
ragazzo; diede un balzo, appena lo vide entrare nella stanza:
"Don Stefano!" esclamò.
"Oh figlio mio! Don Stefano nelle forme... Tutto, tutto lui! La stessa faccia... Io
stesso corpo..."
Ma, notando che il giovine,
nell'agitazione a cui era in preda, gli restava dinanzi con fredda e accigliata
perplessità:
"Non sapete chi sono io?"
aggiunse. "Sono Mauro Mortara. Morí qua, tra queste braccia, vostro padre, con una
palla in petto, qua sotto la gola. Aveva al collo il fazzoletto, e una cocca gli era
entrata nella ferita: non poteva parlare; con codesti vostri occhi, nell'agonia, mentre lo
sorreggevo, mi raccomandò il figliuolo, vostro fratello, che io scostavo col gomito,
coprendo con tutta la persona il corpo di vostro padre caduto, per non farglielo
vedere..."
Giulio Auriti si premé forte le
mani sul volto e scoppiò in singhiozzi.
Lando, conoscendo la rigida tempra
del cugino, il dominio freddo che aveva di se stesso, si voltò a guardarlo, turbato e
costernato. Gli saccostò; gli posò una mano su la spalla:
"Giulio!"
"Avreste fatto meglio a
lasciarglielo vedere!" disse allora questi, rivolto a Mauro, riavendosi d'un tratto,
al richiamo. "Gli sarebbe rimasto piú impresso. Era troppo piccolo! E piccolo è
rimasto. Piccolo e cieco. Ho da parlarti," aggiunse poi, rivolgendosi a Lando, e con
la mano si strinse gli occhi, quasi per portarne via ogni traccia di pianto.
Mauro non intese, non comprese
nulla: con gli occhi fissi nella lontana visione della battaglia, scosse il capo a lungo,
sospirò:
"Bella morte! Bella morte! Può
piangerla un figlio; ma a pensarci, è una festa. Una festa era per noi morire! Che morte
faremo adesso? Vecchi, sporcheremo il letto... Basta; me ne vado. È in casa don Roberto?
Voglio andare a salutarlo. Ho visto Roma, però, e anche in un canto, mangiato dalle
mosche, posso morir contento..."
Fece con la mano un gesto di
noncuranza e se ne andò.
Tutta la notte, dopo il colloquio
con Francesco D'Atri, Giulio Auriti invece di pensare a ciò che avrebbe dovuto dire al
cugino per ottener l'ajuto che doveva chiedergli, prevedendolo nemico, per farsi animo
all'impresa aveva richiamato, tra un continuo incalzar di smanie rabbiose, pensieri e
ragioni che non avrebbe potuto manifestargli; sera compiaciuto nel dire a se stesso
ciò che non avrebbe potuto dire a lui; aveva voluto vedere in sé quasi un diritto a
quell'ajuto. E sera accorto che soltanto in apparenza era stata finora cordiale la
sua relazione con lui. Quanta invidia ignorata e qual rancore non gli aveva sommosso dal
fondo segreto dell'anima, in quella notte, il bisogno! Finora aveva pensato che la
meschinità della condizione sua d'impiegato in un Ministero, nascosta con tanti
sacrifizii sotto vesti signorili, non poteva avvilirlo di fronte al cugino ricco e
titolato, perché Lando doveva sapere che essa era conseguenza dell'altera e sdegnosa
rinunzia della madre; e che, quanto alla nobiltà, non era da meno la sua, per ciò che il
padre era stato. Ma ora? Compromesso indegnamente Roberto in quel turpe scandalo bancario,
e costretto lui a chieder soccorso, crollavano miseramente le ragioni della sua alterezza,
e con esse, a un tratto, anche quelle della cordialità verso il cugino. E sera
preparato a quel colloquio con lui come a un assalto contro un nemico. Nemico, sí,
perché Lando certamente avrebbe negato l'ajuto, sapendo che quel denaro era stato preso
dal Selmi. Avrebbe dovuto per forza confessarglielo. Ma Lando doveva anche pensare,
perdío, che né Roberto si sarebbe ridotto a prestar come un cieco di quei favori al
Selmi, in ricambio d'altri favori; né lui a chiedergli ora quell'ajuto, se la madre non
avesse rinunziato all'eredità paterna! Il danaro che gli avrebbe chiesto, rappresentava
in fondo una minima parte di quello lasciato sdegnosamente dalla madre al fratello
maggiore; ed egli avrebbe potuto chiederlo a titolo di restituzione, data quell'orribile
necessità. Il sacrificio suo nel chiederlo non sarebbe stato minore di quello di Lando
nel darlo.
Ora, uscito Mauro Mortara, che gli
aveva cagionato quella improvvisa commozione col ricordo della morte eroica del padre,
egli, di fronte al cugino che lo guardava turbato, in attesa ansiosa e benigna, restò per
un pezzo come smarrito, in preda a un orgasmo crudele. Contrasse tutto il volto nella
rabbia del cordoglio e, stringendo le mani intrecciate fin quasi a spezzarsi le dita:
"Ho bisogno di te, Lando,"
disse. "È per me un momento terribile, da cui solamente tu puoi liberarmi, ma... te
ne prevengo, con un grande sacrifizio anche da parte tua, morale e materiale."
Lando, confuso, perplesso, soffrendo
alla vista del cugino cosí agitato e presentendo anche dalle parole di lui la gravità di
ciò che gli avrebbe chiesto, mormorò, aprendo le braccia:
"Parla... tutto quello che
posso..."
"Ah, no!" troncò subito
Giulio, urtato dalla frase comune. "È difficile, è difficile, tanto per me, quanto
per te, sai! Ma devi pensare che la mia vita, Lando, la vita di mia madre, l'onore nostro,
sono... sono nelle tue mani, ecco! Pensa a questo, e allora forse... spero... troverai la
forza di compiere il sacrifizio che ti domando.
"Tu mi spaventi!" esclamò
Lando. "Parla; che ti è accaduto?"
Giulio tornò a stringersi le mani,
convulsamente; se le batté piú volte, cosí strette, su la bocca, tenendo gli occhi
serrati. Le vene gonfie, nella fronte contratta, mostravano lo sforzo atroce che faceva su
se stesso.
"Se dico tutto," scattò,
smaniando, "mi darai ajuto?"
"Ma perché no?" domandò
Lando, con pena. "Che c'è? Se non so di che si tratta!"
"Di me," rispose pronto
Giulio. "Pensa che si tratta di me soltanto, o, piuttosto, di mia madre. Tieni
presente mia madre e tutte tutte le sciagure della mia famiglia. Tu hai rispetto e
affezione per mia madre, non è vero?"
"Ma sí, lo sai!" affermò
Lando, con sincero interessamento. "Non mi tener cosí sospeso, per carità!"
"Aspetta... aspetta..."
scongiurò l'Auriti; come se non sapesse staccarsi da quel rivo di tenerezza,
nell'amaritudine in cui affogava. "Per noi, per me è tutto; l'orgoglio suo, il suo
sentimento... per cui, senza lagnarci mai, ci siamo ridotti... cosí... Non so, non so
proprio come debba dirti; ma noi non abbiamo altro, non abbiamo mai avuto altro che questo
orgoglio... e ora... ora..."
"Càlmati, Giulio!" lo
esortò di nuovo Lando, con un moto d'impazienza. "Non comprendo... Hai bisogno di
me. Di'... Tua madre..."
"Debbo impedire che ne
muoja!" gridò Giulio. "A qualunque costo! E tu devi ajutarmi, Lando; e per
ajutarmi devi fare il sacrifizio di vincere ogni risentimento, ogni ragione d'odio verso
un uomo che è la causa di tutta questa rovina c che io detesto e maledico come te e
vorrei morto con la stessa tortura che infligge ora a noi!"
Lando sirrigidí a un tratto,
aggrottò le ciglia.
"Il Selmi?" domandò.
"Roberto... col Selmi?"
Giulio crollò piú volte il capo;
poi, in breve, concitatamente, espose la situazione del fratello e quel che si doveva fare
per salvarlo, tacendo del colloquio avuto la sera avanti con S. E. il ministro D'Atri.
Ma Lando, già prevenuto, col
pensiero fisso in un sol punto, dalle parole affannose del cugino non comprese altro, in
prima, che salvare cosí Roberto voleva dire salvare anche il Selmi, e che la salvezza di
questo poteva ancor dipendere da quella del cugino. Guardò Giulio negli occhi, quasi ora
soltanto lo vedesse davanti a sé:
"E come?" esclamò,
stupito. "Tu vieni da me, Giulio, per questo? proprio da me?"
Sopraffatto da questa domanda piena
di tanto stupore, Giulio si perdette per un momento e, come se l'orgasmo gli si
sciogliesse dentro in un'agrezza velenosa:
"A chi... a chi altro...?"
balbettò. "Tu sai che la mia famiglia... E poi... ricòrdati, t'ho chiesto,
entrando, un sacrifizio...
"Ma che sacrifizio! No!"
gridò Lando. "Non è umano! Vieni da me per questo? Ma come! Non sai che cosa
rappresenta per me quell'uomo?"
"T'ho detto perciò..." si
provò a soggiungere Giulio.
"Che m'hai detto? No!"
scattò di nuovo Lando. "Tu vieni a dirmi, Giulio, cosí: "Eccoti l'arma,
l'unica arma con cui puoi uccidere il nemico che sta per sfuggire alla tua vendetta; ma
no! quest'arma, tu non devi usarla; tu devi anzi ajutarmi a nasconderla, a levarla di
mezzo, per salvarlo!". Questo vieni a dirmi!"
"Perché vedi il Selmi, ecco,
vedi il Selmi e non sai veder altro!" smaniò, esasperato, l'Auriti. "Lo sapevo!
Quando ti dirò tutto, mi darai piú ajuto?"
"Ma che ajuto?" ribatté
ancora una volta Lando. "Lo chiami ajuto, codésto? Questa è, da parte mia,
complicità! Mi vuoi complice nel salvataggio del Selmi?"
"E dàlli!" gridò Giulio.
"Roberto! Io voglio salvare Roberto! Mia madre! Che m'importa del Selmi? L'odio, ti
ho detto, lo detesto piú di te! Ma devo salvar Roberto..."
Lando con un violento sforzo su se
stesso si costrinse alla calma di fronte a quella cieca, disperata ostinazione del cugino.
Volle provarsi a ragionare con lui.
" Scusa," disse.
"Guarda... guarda, Giulio, rispondi a me. È colpevole Roberto? lo credi tu
colpevole?
"Colpevole o non
colpevole," rispose Giulio, scrollandosi, "non si tratta di questo! è
compromesso!"
"Ma può difendersi,
perdío!" ribatté subito Lando.
"Grazie! Lo so. Ma io devo
impedire che sia accusato, che sia tratto in arresto, non capisci?" spiegò l'Auriti.
"Lo so che può difendersi! E se non vorrà difendersi lui..."
"Ecco, ecco... benissimo!"
approvò Lando. "Anchio con te..."
"Ma no! grazie!" ricusò
di nuovo, con sdegno, Giulio. "Ajuto di parole, grazie! Basto io solo. Non c'era
bisogno che venissi da te."
"Scusa," disse Lando,
risentito. "L'ajuto onesto... la difesa vera, onorevole, è soltanto questa. Pagare
è complicità. Roberto deve parlare; non rendersi complice del Selmi, tacendo e pagando
per lui.
"E tu vuoi dunque,"
domandò Giulio, "chegli subisca lignominia dell'arresto e del carcere,
quand'io posso ancora risparmiargliela?"
"Col denaro?"
"Col denaro, col denaro,"
ripeté Giulio. "Onestà, disonestà che vuoi che m'importi adesso? Basta a me
saperlo onesto! Chi lo crederebbe piú tale, domani, se oggi fosse arrestato? Chi crede
piú alle difese di chi è stato in carcere? Lando, per carità, stiamo all'esperienza.
Guarda soltanto a Roberto! Tu, bada bene, ora mi neghi l'ajuto, non per altro, ma perché
vuoi far Roberto strumento della tua vendetta!"
"No, questo no!" negò
energicamente Lando. "Ma non posso farmi, io, strumento della salvezza del Selmi, lo
capisci? Tu m'infliggi un supplizio disumano! Io non posso, non devo subirlo! Per Roberto,
tutto! Ma se Roberto è coinvolto col Selmi, e il mio ajuto può giovare a costui, no, io
non posso dartelo, né tu puoi chiedermelo!"
Giulio Auriti rimase un pezzo in
silenzio, assorto cupamente.
"Dunque, no?" disse poi,
levando il capo e guardando negli occhi il cugino.
A questa domanda categorica, Lando,
compreso di profonda pietà, non seppe rispondere con un nuovo reciso rifiuto. Giunse le
mani, saccostò all'Auriti, disse:
"Ma, a parte ogni ragione mia
propria, Giulio, pensa... pensa alle relazioni mie, al mio modo di sentire, alle idee per
cui combatto... Io non potrei piú domani trovarmi coi miei compagni in quest'opera
d'epurazione che abbiamo intrapresa...
Saccorse subito che non doveva
dire cosí, e tuttavia non seppe frenarsi, pur notando quasi con sgomento l'alterazione
del volto del cugino a ogni parola che proferiva. Lo vide alla fine scattare in piedi,
scontraffatto.
"Voi epurate, già!"
esclamò Giulio Auriti, con un ghigno orribile. "Tu puoi epurare! Siete i puri,
vojaltri! Noi, io, Roberto, anche mio padre, se vivesse..."
"Giulio... Giulio!" cercò
di richiamarlo Lando, addolorato.
Ma l'Auriti, fuori di sé, seguitò:
"Tutti quanti sporcati,
nojaltri. E conierei moneta falsa, sí, e ruberei per aver queste quarantamila lire, che
tu hai e chio non ho. E perché non le ho, sono uno sporcato! Tu le hai, e sei puro!
Ma pensa che mia madre, intanto, non volle averle, perché le parvero sporche!"
Lando si drizzò su la persona, e,
fermo in mezzo alla stanza, squadrò il cugino con fredda alterezza:
"Il denaro mio," disse,
"tu lo sai, è quello soltanto di mia madre."
Ma anche dopo aver proferite queste
parole si pentí subito, e atteggiò il volto di schifo per la crudezza triviale, a cui la
discussione trascendeva. Pensò in un attimo che, per un'iniqua disposizione, anche nella
famiglia materna uno aveva scontato con la povertà la ribellione generosa; pensò che tra
le tante ragioni, per cui nel fervore giovanile aveva voluto far sua Giannetta Montalto,
egli aveva posto anche questa, di ridarle cioè almeno una parte di quanto era stato tolto
al padre di lei, diseredato. Previde che il cugino avrebbe risposto a quella sua altera e
inconsulta affermazione, trascinando ancor piú in basso la contesa vergognosa. E difatti
Giulio Auriti, scontorcendo il torbido volto, cozzando tra loro le pugna serrate e poi
aprendole innanzi agli occhi sfavillanti di un lustro di scherno, ghignò:
"Ma anche il denaro di tua
madre, via!"
E Lando, di fronte alla
provocazione, ancora una volta non seppe frenarsi.
"Il denaro di mia madre?"
domandò, facendoglisi avanti a petto.
Giulio Auriti si passò una mano su
la fronte ghiaccia di sudore, si nascose gli occhi, saccasciò dolorosamente.
"Non mi far dire altro!"
Lando rimase a guardarlo, o
piuttosto, a guardargli dentro; poi disse con cruda freddezza, piano, tra i denti, quasi
sillabando:
"E anche ammesso ciò che tu
pensi, vuoi che paghi io un debito contratto dal Selmi per lo spasso d'una donna, che
potrebbe aver da ridire sul denaro di mia madre? Va', va', va',... per carità,
vàttene!" proruppe poi, nascondendosi anche lui gli occhi. "Non posso piú
guardarti in faccia!"
Udí andar via il cugino, stette
ancora a lungo con le mani sul volto, per il ribrezzo che sentiva d'aver toccato il fondo
lurido d'una realtà, a cui non si sarebbe mai aspettato di poter discendere, e della
quale sempre gli sarebbe rimasta nell'anima l'impressione orrenda. Ora, risorgendo da quel
fondo, nel quale per un momento era scivolato, non gli sarebbe sembrato falso e vacuo e
lercio tutto intorno? In ogni suo sentimento, in ogni idea, in ogni atto, in ogni parola,
non sarebbe rimasto un segno, l'impronta di quel fango toccato?
Con gli occhi strizzati, i denti
serrati e le labbra schiuse, aride e amare, si stropicciò forte le mani. Poi aprí gli
occhi, guardò la stanza; si sentí soffocare, e andò a una finestra che dava sul
giardino.
Ah, tutto, tutto cosí!... Tutto era
vergogna in quel momento! La peste era nell'aria. La carcassa sociale si sfaceva tutta, e
anche la sua anima, ogni suo pensiero, ogni suo sentimento... tutto era insozzato...
Tre giorni dopo, nella sala della
biblioteca erano adunati i compagni che dovevano recarsi al Congresso socialista di Reggio
Emilia; i rappresentanti dei Fasci piú numerosi dell'isola, invitati da Lando;
alcuni deputati amici, quattro milanesi del Partito italiano dei lavoratori e Lino
Apes.
Spiccava tra tanti uomini una
giovinetta in giacchettino rosso e berretto nero a barca, con una penna di gallo ritta
spavaldamente da un lato: Celsina Pigna, venuta invece di Luca Lizio a rappresentare il Fascio
di Girgenti. Nessuno voleva far le viste di meravigliarsene; ma ella saccorgeva bene
dei rapidi sguardi furtivi che tutti le lanciavano, in ispecie i meno giovani; e notava,
ridendo dentro di sé, che quei pochi, i quali ostinatamente si vietavano di guardarla,
prendevano per lei arie languide o fiere impostature e, per lei, parlando, davan certe
modulazioni alla voce, chi flebili e chi vivaci, le quali tradivano tutte quel tale
orgasmo che la presenza d'una donna suscita di solito. Notava anche in piú d'uno un'altra
ostentazione: quella di una disinvoltura quasi sprezzante, che tradiva il disagio segreto
di trovarsi in una casa ricca e ben messa.
Lando Laurentano non c'era ancora.
Lino Apes, a nome di lui, aveva pregato gli amici d'avere un po' di pazienza, che presto
sarebbe venuto. Nell'attesa serano formati alcuni crocchi: due presso le finestre
che davano sul giardino, uno presso la tavola preparata in capo alla sala per chi doveva
presiedere all'adunanza. Alcuni passeggiavano cogitabondi, altri leggevano sul dorso delle
rilegature i titoli dei libri negli scaffali, tendendo gli orecchi, senza parere, a ciò
che si diceva in questo e in quel crocchio. Parecchi spiavano obliquamente uno dei
deputati che, passeggiando per la sala con le dita inserte nei taschini del panciotto,
alzava di tratto in tratto le spalle, protendeva il collo e in segno di meraviglia e di
commiserazione stirava la bocca sotto i ruvidi baffi rossastri già mezzo scoloriti. Era
il deputato repubblicano Spiridione Covazza che in quei giorni aveva scritto male, su una
rassegna francese, dell'organamento delle forze proletarie in Sicilia. Vedendosi sfuggito
da tutti, con quel gesto pareva dicesse: "Incredibile!" Ma pur doveva sapere che
il suo torto era quello di veder tante cose che gli altri non vedevano e di dare ad esse
quel peso che gli altri ancora non sentivano, perché nel calore della passione ogni cosa
par che si sollevi con chi la porta in sé. Illusioni: bolle di sapone, che possono a un
tratto diventar palle di piombo. Lo sapevano bene quei poveri contadini massacrati a
Caltavutúro. Aveva scritto su quella rassegna francese ciò che in coscienza credeva la
verità; al solito suo, rudemente e crudamente. Ma volevano dire chegli provasse un
acre piacere nel mettere avanti cosí, fuor di tempo e di luogo, le verità piú
spiacevoli, nello spegnere col gelo delle sue argomentazioni ogni entusiasmo, ogni fiamma
d'idealità, a cui pur tuttavia era tratto irresistibilmente ad accostarsi. Scarafaggio
con ali di falena - lo aveva definito su la Nuova età Lino Apes: - accostatosi
alla fiamma, spariva la falena, restava lo scarafaggio. Calunnia e ingratitudine! Egli
stimava dover suo, invece, serbarsi cosí frigido in mezzo a tante fiamme giovanili; che
se queste non eran fuochi di paglia, alla fine si sarebbe scaldato anche lui, e se erano
faceva il bene di tutti, spegnendoli. Forse la sua stessa figura, grassa e pure ispida,
quegli occhi vitrei, aguzzi dietro gli occhiali a staffa, quel naso di civetta, il suono
della voce, suscitavano in tutti una repulsione tanto piú irritante, in quanto ciascuno
poi era costretto a riconoscere che quasi sempre il tempo e gli avvenimenti gli avevano
dato ragione, a pregiarne la dottrina vasta e profonda, la dirittura della mente e della
coscienza, la onestà degli intenti e ad avere stima e anche ammirazione di quella sua
franchezza rude e dispettosa e del coraggio con cui sfidava l'impopolarità.
Quell'accoglienza ostile, intanto, Spiridione Covazza sapeva di doverla sopra tutto a tre
giovani siciliani, che erano nella sala circondati in quel momento dalla fervida simpatia
di tutti: Bixio Bruno, Cataldo Sclàfani e Nicasio Ingrao, i quali piú degli altri
seran sentiti ferire dalla sua critica. Stava ciascun d'essi in mezzo ai tre crocchi
che si erano formati nella sala. Bixio Bruno, svelto, dal volto olivastro animoso e i
capelli crespi gremiti da negro, spiegava con fluida e colorita loquela, storcendo in un
mezzo sorriso di soddisfazione la bocca rossa e carnuta, come in poco tempo fosse riuscito
a raccogliere a Palermo in un sol fascio i ventisei sodalizii operai, le maestranze
discordi, le cui bandiere smesse erano adesso conservate in una sala, quali trofei di
vittoria. Appariva pieno di fiducia e sicuro del trionfo. Si aspettava, credeva anzi
imminente la reazione da parte del Governo: scioglimento dei Fasci, arresti,
invasione militare. Ma il buon seme era sparso! Ogni sopraffazione, ogni persecuzione
avrebbe reso piú grande la vittoria. Potevano esser tratti in arresto trecentomila
uomini? No. I capi soltanto, qualche dozzina di socii se mai. Bene, eran già pronti i
capi segreti, ignorati ancora dalla polizia, e la propaganda avrebbe seguitato piú
efficace che mai. Cataldo Sclàfani, tarchiato, con gli occhi un po' strabi e un barbone
che pareva un fascio di pruni, parlava nell'altro crocchio, profeticamente ispirato;
diceva con sorridente commozione che là dove prima era spuntata l'alba dell'unità della
patria, era fatale spuntasse ora quella piú rossa e piú fulgida della rivendicazione
degli oppressi. Sapeva, sí, che già prima nelle Romagne, nel Modenese, nelle province di
Reggio Emilia e di Parma, nel Cremonese, nel Mantovano, nel Polesine, era sorto a far le
prime armi il socialismo italiano; ma tutt'altra cosa era adesso in Sicilia! Rivelazione
improvvisa, prodigiosa! Lino Apes, ascoltandolo, si tirava i baffi fino a strapparseli,
per tenere a freno il sorriso. Nelle sue lettere a Lando, chiamava Cataldo Sclàfani il Messia
dei Fasci. Nel terzo crocchio Nicasio Ingrao, tozzo, rude, con un'atra voglia di
sangue che gli prendeva mezza faccia, parlava coi deputati, arrotondando alla meglio il
dialetto nativo, e balzando con strana mimica da una sconcia bestemmia a una ingenua
invocazione infantile; parlava della crisi dell'industria zolfifera in Sicilia e della
spaventevole miseria dei solfaraj già da alcuni mesi in isciopero forzato. Un compagno,
direttore del Fascio di Comitini, si provò a far sapere a quei deputati quanto
l'Ingrao, proprietario di terre e di case in Aragona, avesse fatto e facesse per quei
solfaraj, per impedire che trascendessero a rapine, incendii e tumulti sanguinosi; ma
l'Ingrao gli saltò addosso e gli turò la bocca, minacciando di attondarlo con un pugno,
se seguitava. Celsina Pigna, dal posto in cui si teneva appartata, scoppiò a ridere, a
quel violento gesto burlesco, e l'Ingrao le domandò, ridendo anche lui:
"Lo attondo, signorina?"
Nei tre crocchi tutti gli altri
Isolani, giovinotti dai venti ai trent'anni, sentendo parlare quei tre capi piú in vista,
gonfiavano d'orgoglio, sintenerivano fin quasi alle lagrime. Erano certi, nella loro
sincera fatuità giovanile, di rappresentare una parte nuova nella storia, pur lí a Roma.
Avevano veduto davanti a quei tre duci del Comitato centrale migliaja di donne, migliaja
di contadini, intere popolazioni dell'isola in delirio, gettar fiori, prosternarsi con la
faccia a terra, piangere e gridare, come prima davanti alle immagini dei loro santi.
Tutti si volsero a un tratto e si
mossero verso Lando Laurentano che entrava di fretta. Chiedendo scusa del ritardo, strinse
la mano ai primi che gli si fecero innanzi; pregò tutti di prender posto, e appena fu
fatto silenzio, disse:
"Ho perduto tempo, signori, per
una ragione forse non estranea agli interessi nostri, agli interessi specialmente di tanti
nostri compagni che piú degli altri, credo, hanno bisogno in questo momento di ajuto,
giú in Sicilia.
"I solfaraj!" gridò
l'Ingrao, balzando in piedi, come se egli ne fosse il piú legittimo difensore. "Ho
capito!" aggiunse. "Vuoi dire che c'è qua l'ingegnere Aurelio Costa? Ho capito.
Eh, ha viaggiato con me questo signore! Abbiamo discorso a lungo e..."
Lando con un gesto lo pregò di
tacere:
"L'ingegnere Aurelio Costa,
appunto," riprese, "direttore delle zolfare del Salvo, che credo sia uno dei
piú ricchi proprietarii di miniere della provincia di Girgenti, è venuto a Roma per
interessare la deputazione siciliana a un disegno..."
"Permesso?" interruppe di
nuovo l'Ingrao. "Non perdiamo tempo, signori miei! Vi spiego io il fatto com'è. Il
signor Salvo sta per imparentarsi, per via d'una sorella, col principe di
Laurentano..."
Un mormorio di protesta si levò per
il tratto ruvido dell'Ingrao verso Lando, a cui tutti gli occhi si volsero a chiedere
scusa dello sgarbo. Ma Lando, sorridendo, saffrettò a dire:
"Non con me, vi prègo. Non con
me."
E l'Ingrao allora, scrollandosi
irosamente, gridò:
"Madonna santissima, per chi mi
prendete? Se dico il principe! Avrei chiamato principe il nostro amico riverito, ospite e
compagno amatissimo? Non per cosa oh! ma egli sa di non salire, se lo chiamiamo principe,
e sa che noi non vogliamo abbassarlo chiamandolo semplicemente Laurentano. Io alludo al
principe suo padre, e Lando Laurentano non può offendersi delle parole mie. Se si
offende, è uno sciocco! Parlo io invece di lui, perché egli sta a Roma, io sto in mezzo
alle zolfare, e so che il progetto del signor Salvo non tende ad altro che ad ingraziarsi
il figlio del principe, facendogli vedere che gli stanno a cuore le sorti degli operaj
delle zolfare. Bubbole! Panzane! Polvere negli occhi! Sa meglio di me il signor Salvo che
il suo progetto è una coglionatura! Sissignori, io parlo nudo, cosí. Se veramente vuol
fare qualche cosa, tolga il signor Salvo dalle zolfare di sua proprietà le cosí dette botteghe,
dove gli operaj sono costretti a provvedersi con l'usura del cento per cento dei generi di
prima necessità: vino, che è aceto; pane, che è pietra!"
Spiridione Covazza domandò allora
di parlare, e tutti si voltarono con viso ostile a guardarlo.
"Volete adesso difendere le botteghe?"
lo apostrofò l'Ingrao.
Il Covazza non si voltò nemmeno.
"Vorrei sapere" disse
piano "le idee generali di questo disegno."
"Vi dico che è una
coglionatura!" tornò a gridare l'Ingrao."
Il Covazza tese una mano, senza
scomporsi.
"Prego," disse,
"urlare non è ragionare. Sono stato anchio nelle zolfare: ho studiato
attentamente le condizioni dell'industria zolfifera, le ragioni complesse della sua crisi
e vi so dire che, se nelle condizioni presenti quelli che hanno da sperar meno sono i
solfaraj, picconieri e carusi, non meno tristi sono però le sorti dei coltivatori delle
miniere e dei proprietarii; e se questo disegno..."
Non poté seguitare. Tutti i
rappresentanti dei Fasci scattarono in piedi protestando. Lando sinterpose,
cercò di calmarli, ammoní che si avesse rispetto per le opinioni altrui e propose che
uno fosse subito chiamato a dirigere la discussione.
"Bruno! Bruno! Bixio
Bruno!" si gridò da varie parti.
E Bixio Bruno, avvezzo ormai a
vedersi designato a quell'ufficio, in due salti fu alla tavola preparata in capo alla
sala.
" Signori," disse.
"Di straforo, incidentalmente, siamo entrati nel pieno della discussione. L'on.
Covazza, in un suo scritto recente..."
"Pubblicato all'estero!"
interruppe uno in fondo alla sala.
"All'estero, o in Italia,
sciocchezze!" ribatté il Bruno. "Le nostre idee, il nostro partito non
riconoscono confini di nazionalità. In questo scritto l'on. Covazza ha criticato l'opera
mia e dei miei compagni."
Spiridione Covazza, con le braccia
incrociate sul petto, negò piú volte col capo.
"No?" domandò il Bruno.
"Come no? Non ha ella detto che la nostra propaganda è fatta di miraggi?"
"Io ho detto," rispose il
Covazza, levandosi in piedi, "che le vostre dimostrazioni oneste d'una libertà che
dia intero realmente il diritto di soddisfare ai bisogni della vita, le spiegazioni che
voi date della lotta di classe, sfruttati contro sfruttatori, e del programma della scuola
marxista in genere e di quello minimo che vi siete tracciato, si traducono,
inevitabilmente e sciaguratamente, in miraggi, per la ignoranza di coloro a cui sono
rivolte. Questo ho detto! E ho soggiunto..."
Nuove proteste confuse si levarono
nella sala. Il Bruno batté il pugno sulla tavola e impose silenzio.
"Lasciatelo parlare!"
"Ho soggiunto," riprese il
Covazza, "che voi, abbagliati, nel fervore della vostra sincera fede giovanile,
credete che le vostre dimostrazioni e spiegazioni siano veramente comprese."
"Sono! sono! sono!"
gridarono molti a coro.
"Non sono! Non possono
essere!" negò energicamente il Covazza. "Come volete che siano, se non le
comprendete bene neanche voi stessi?"
Una tempesta di urli si scatenò a
questa affermazione. Il Bruno, Lando Laurentano, Lino Apes, i colleghi deputati stentarono
un pezzo a domarla. Spiridione Covazza aspettò a capo chino, con gli occhi chiusi, che
fosse domata; a un certo punto, giunse le mani e, tenendole alte, piegò di piú il capo
tra esse, curvò con fatica l'obesa persona; poi, aprendole in un ampio gesto e
risollevandosi, pregò quasi piangente:
"Non mi costringete, signori,
per falsi riguardi al vostro malinteso amor proprio, non mi costringete ad attenuare d'un
punto la verità, con concessioni che farebbero a me e a voi stessi vergogna, e che
potrebbero essere perniciose in questo momento! Quanti tra voi conoscono veramente Marx?
Quattro, cinque, non piú! Siate franchi! Tutti gli altri non hanno coscienza vera di quel
che si vuole: sí, sí, proprio cosí! né dei mezzi congrui per conseguirlo, infatuati
d'un socialismo sentimentale, che singhirlanda delle magiche promesse di giustizia e
d'uguaglianza. Ma sapete voi che cosa vuol dire giustizia per i contadini e i solfaraj
siciliani? Vuol dire violenza! sangue, vuol dire! vuol dire strage! Perché alla giustizia
legale, alla giustizia fondata sul diritto e sulla ragione essi non hanno mai creduto,
vedendola sempre a loro danno conculcata! Li conosco io, molto meglio di voi, i contadini
e i solfaraj siciliani... sí, sí, purtroppo, molto meglio di voi! Voi vi illudete! Voi
dite loro collettivismo? ed essi traducono: divisione delle terre, tanto io e tanto tu!
Dite loro abolizione del salario? ed essi traducono: padroni tutti, fuori le borse
contiamo il denaro, e tanto io tanto tu.
"Non è vero! Non è
vero!" gridarono alcuni.
"Lasciatemi finire!"
esclamò stanco, anelante, il Covazza. "L'altra illusione, che voi vi fate, è sul
numero degli iscritti ai vostri Fasci: tremila qua, quattromila là, ottocento,
mille, diecimila... Dove, come li contate? Son ombre vane, signori, filze di nomi e
nient'altro! Sí, lo so anchio: appena si aprono le iscrizioni, come le pecore: una
dà l'esempio, tutte le altre dietro! Ma volete sul serio dar peso, fondarvi su questo,
chè frutto d'un inevitabile contagio psichico? Quanti, sbollito il primo
entusiasmo, restano effettivamente nei vostri Fasci? Basta ad allontanare il
maggior numero la prima richiesta della misera quota settimanale! E quanti Fasci,
sorti oggi, non si sciolgono domani? Lasciatevelo dire da uno che non singanna e che
non vi inganna, signori! So che voi oggi qua volete stabilire se si debba, o no, secondare
la tendenza delle moltitudini a un'azione immediata. So che parecchi tra voi sono
contrarii, e io li stimo saggi e li approvo. Un movimento serio come voi l'intendete, non
è possibile ancora in Sicilia! Se credete che già ci sia per opera vostra, v'ingannate!
Per me non è altro che febbre passeggera, delirio di incoscienti!
Spiridione Covazza sedette,
asciugandosi il sudore dal volto congestionato, mentre dieci, quindici, tutt'insieme, si
levavano a domandar la parola.
Parlò Cataldo Sclàfani con voce
tonante e col volto atteggiato piú di dolore che di sdegno, giacché non l'accusa per se
stessa poteva offenderlo, ma che uno potesse accusarlo e accusar con lui i suoi compagni.
"Non mi difendo," disse,
"espongo!"
Quanti erano i Fasci? Eran
presenti i capi dei piú importanti, e ciascuno poteva dire all'on. Covazza come erano
contati i socii e quanti fossero. I Fasci, secondo gli ultimi dati del Comitato
centrale, erano centosessantatré fermamente costituiti, trentacinque in via di
formazione. C'era dunque davvero un grande esercito di lavoratori in Sicilia, nel quale
non si sapeva se ammirar piú il fervore, la coscienza, o la disciplina con cui obbediva a
un cenno del Comitato centrale. Il capo d'ogni Fascio passava la parola d'ordine ai
singoli capi di sezione, e questi a lor volta ai capi dei rioni e delle strade: in un
batter d'occhio, sia di giorno, sia di notte, tutti i socii dei Fasci potevano ricevere un
avviso. E se domani i lavoratori si fossero mossi, tutta la gente siciliana sarebbe stata
travolta come da una corrente di fuoco. Perché già da lunghi anni covava il fuoco in
Sicilia, da che essa cioè, nel mare, si era veduta come una pietra a cui lo stivale
d'Italia allungava un calcio in premio di quanto aveva fatto per la cosí detta unità e
indipendenza della patria. Perché dire che solo da un anno si parlava di socialismo in
Sicilia? Non vi era già, diciott'anni addietro, una sezione dell'Internazionale? E da
allora non vi si eran sempre pubblicati giornali del partito; e circoli, gruppi, nuclei
non si erano formati qua e là, sicché appena sorta la prima idea dei Fasci, era
stato un subito accorrere e un subito riaggregarsi di antichi compagni di fede? Non era
vero dunque che la rapidissima formazione dei Fasci era dovuta solo all'assidua e
vigorosa propaganda dei giovani: il terreno era già da lunga mano preparato; mancava
l'unione, un indirizzo; e ai giovani era bastato soltanto dare una voce e indicar la via,
la stessa via che da anni batteva il proletariato di altri paesi. I contadini e gli operaj
di Sicilia erano accorsi ai giovani con le braccia tese, gridando: "Voi, voi siete
i veri amici!" e si erano mossi a seguirli con la gioja nel cuore, e con la piena
coscienza di ciò che si disponevano a fare. E, a provar questa coscienza, Cataldo
Sclàfani parlò, commosso, dei discorsi tenuti nell'ultimo congresso di Palermo da alcune
donne di Piana dei Greci e di Corleone; discorsi che dimostravano, nel modo piú lampante,
come non il lume artificiale d'una coltura accademica, né teorie di scuola bisognavano a
destar quella coscienza, ma la pratica quotidiana del dolore e dell'ingiustizia, e
l'indicazione piú semplice e piú spontanea del rimedio a tanti mali: l'unione!
Socialismo sentimentale? Ma la forza che crea è appunto il sentimento, non la fredda
ragione, armata di dottrina! Che importava la nozione astratta d'un diritto, quando c'era
il sentimento immediato e prepotente di un bisogno? Sentire il proprio diritto con la
forza stessa con cui si sente la fame valeva mille volte piú d'ogni precisa dimostrazione
teorica di esso. Peraltro, ora questo sentimento era già divenuto coscienza lucida e
ferma, e si dimostrava in tutti i modi. Un vero spirito fraterno sera diffuso tra i
contadini e gli operaj, per cui nei numerosi arresti recenti seran veduti i compagni
liberi mantenere i carcerati e le loro famiglie; nella disgrazia di qualcuno, il pronto
soccorso di tutti e l'assistenza e la sorveglianza amorosa. Ecco la ronda dei decurioni,
la sera, per le strade e le osterie delle città e delle campagne, perché i fratelli non
trascendessero ad atti violenti, eccitati dal vino.
" Questi sono gli
arruffapopoli, on. Covazza!" esclamò a questo punto, concludendo, Cataldo Sclàfani
con gli occhi lustri d'ebrezza e commozione. "Vergognatevi delle vostre accuse! Siamo
qua oggi, a Roma, di fronte, due generazioni. Guardate allo spettacolo che dànno i
vecchi, e guardate a noi giovani! Domani da qui il Governo, che protegge tutti coloro che
dell'amor di patria affagottato e tolto in braccio si fecero scudo per tanti anni ai sassi
del popolo censore, manderà in Sicilia l'esercito e l'armata per soffocare con la
violenza questo gran palpito di vita nuova e noi giovani vi abbiamo destato! Fin oggi la
maggioranza del Comitato centrale, di cui fo parte, è contraria a un'azione immediata. Ma
presto verrà il giorno, lo prevedo, che le smanie dell'impazienza da tanto tempo represse
scoppieranno, e noi capi non potremo piú frenare il popolo senza immolare noi
stessi."
Lando Laurentano, seduto accanto a
Lino Apes, ascoltò il lungo discorso dello Sclàfani a capo chino, stirandosi qua e là
con le dita nervose la barba e lanciando occhiate a destra e a sinistra. Quell'adunanza in
casa sua gli pareva la prova generale di una rappresentazione. Tutti quei giovani si erano
anche loro assegnate le parti, e gli pareva che, a furia di ripeterle, se le fossero
cacciate a memoria e le recitassero con artificioso calore. Mancava il coro innumerevole,
che era in Sicilia. Oh sí, parlava bene, con bella enfasi apostolica, Cataldo Sclàfani;
meritava in qualche punto l'applauso caldo e scrosciante, le lodi del coro, se fosse stato
presente. Innamorato della sua parte, l'avrebbe rappresentata con perfetta coerenza anche
davanti ai fucili dei soldati, in piazza; e, se tratto in arresto, davanti ai giudici, in
una corte di giustizia. Perché lui solo non riusciva ancora a comporsi una parte? perché
ancora, ancora dentro, esasperatamente, gli scattava la protesta: "No, non è
questo?" Che volevano infatti tutti quei suoi compagni? Ben poco, per il momento, in
Sicilia. Volevano che, per l'unione e la resistenza dei lavoratori, venissero a patti piú
umani i proprietarii di terre e di zolfare, e cessasse il salario della fame, cessassero
l'usura, lo sfruttamento, le vessazioni delle inique tasse comunali, per modo che a quelli
fosse assicurato, non già il benessere, ma almeno tanto da provvedere ai bisogni primi
della vita. Volevano, adattandosi modestamente alle condizioni locali, l'impianto di
cooperative di consumo e di lavoro e la conquista dei pubblici poteri; fra qualche anno
trionfare nelle elezioni comunali e provinciali dell'isola; riuscir vittoriosi in qualche
collegio politico, per aver controlli e banditori delle piú urgenti necessità dei miseri
nei Consigli comunali e provinciali e nella Camera dei deputati. Questo volevano. Ed era
giusto. Degne d'ammirazione la fede e la costanza con cui seguitavano quest'opera di
protezione e di rivendicazione. Che altro voleva lui? Non c'era altro da volere, altro da
fare, per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse
nessuno, fuori dell'isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare
sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse piú ai padri che ritornavano
disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spento; che
fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva
peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve
miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della
Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero
bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di minacce, senza
bisogno d'assumere quelle arie d'apostoli, di profeti, di paladini. Oneste, modeste
aspirazioni, quasi evangelicamente disciplinate, da raggiungere grado grado, col tempo e
con la chiara coscienza del diritto negato! Poteva egli pascersi di esse, e non pensare ad
altro? No, no: troppo poco per lui! Se fosse bastato, magari avrebbe dato tutto il suo
denaro, e chi sa, forse allora, da povero, avrebbe trovato in quelle aspirazioni un
pascolo per l'anima irrequieta. Ma cosí, no, non potevano bastargli! All'improvviso,
voltandosi a guardar Lino Apes, si sentí sonar dentro, come una feroce irrisione, i versi
del Leopardi nella canzone all'Italia:
L'armi, qua l'armi: io
solo
Combatterò, procomberò sol io!
E scattò in piedi agli applausi
che in quel punto stesso scoppiavano nella sala a coronar l'eloquente discorso di Cataldo
Sclàfani, e anche lui con tutti gli altri, senza volerlo, si recò a stringere la mano
all'oratore.
Ma Lino Apes, dal suo posto, col
socratico sorriso su le labbra e negli occhi, domandò allora a gran voce:
"Signori miei, e che si
conclude?"
Pareva tutto finito; assolto il
còmpito; e ciascuno si sentiva come sollevato e liberato da un gran peso. Al richiamo
dell'Apes tutti si guardarono negli occhi, sorpresi, con pena, e ritornarono mogi mogi ai
loro posti.
"La natura, signori miei,"
seguitò Lino Apes, appena li vide seduti, "la natura, nella sua eternità, può non
concludere, anzi non può concludere, perché se conclude, è finita. Ma l'uomo no, deve
concludere; ha bisogno di concludere; o almeno di credere che abbia concluso qualche cosa,
l'uomo! Ebbene, signori miei, che concluderemo noi? Siamo uomini, e venuti qua per questo.
Ma vi leggo negli occhi. Voi non avete nessuna voglia di concludere, pur non essendo
eterni! Voi avete viaggiato. Molti tra voi seguiteranno il viaggio fino a Reggio Emilia.
Qua a Roma, chi ci viene per la prima volta, ha da veder tante cose; e il tempo stringe.
Scusatemi, se parlo cosí: sapete che io vedo per minuto, e parlo come vedo. Ho poca
fiducia nelle conclusioni degli uomini, i quali tutti, a un certo punto, guardandosi
dietro, considerando le opere e i giorni loro, scuotono amaramente il capo e riconoscono:
"Sí, ci siamo arricchiti", oppure: "Sí, abbiamo fatto questo o
quest'altro, - ma che abbiamo infine concluso?". Veramente, a dir proprio, non si
conclude mai nulla, perché siamo tutti nella natura eterna. Ma ciò non toglie che noi
oggi qua, dato il momento, non dobbiamo venire a una qualsiasi, magari illusoria,
conclusione. Io vi dico che questa simpone, perché altrimenti ci verranno da sé,
senza la vostra guida illuminata e il vostro consenso, gli operaj delle città, delle
campagne, delle zolfare. E sarà cieco scompiglio, tumulto feroce, quello che potrebbe
essere invece movimento ordinato, premeditato, sicuro. Le conseguenze? Signori, usa
prevederle chi non è nato a fare. Credete voi che ci sia ragione d'agire? Avvisiamo ai
modi e ai mezzi. Tutta la Sicilia è ora senza milizie. Tre quattro compagnie di
fantaccini vi fan la comparsa dei gendarmi offenbachiani, oggi qua, domani là, dove il
bisogno li chiama. E contro ad essi, come voi dite, un intero, compatto esercito di
lavoratori. Non c'è neanche bisogno d'armarlo; basterà disarmar quei pochi e si resta
padroni del campo. No? Dite di no? Aspettate! Lasciatemi dire... santo Dio,
concludere!"
Ma non poté piú dire. Come i
ranocchi quatti a musare all'orlo d'un pantano, se uno se ne spicca e dà un tonfo, tutti
gli altri a due, a tre, tuffandosi, vi fanno un crepitío via via piú fitto; gli
ascoltatori incantati dapprima dall'arguto dire dell'Apes, cominciarono alla fine dietro
un primo interruttore a interromperlo a due, a tre insieme, e quasi d'un subito, tra
fautori e avversarii, schizzò da ogni parte violenta la contesa.
Di qua Lando Laurentano quasi
pregava:
"Sí, ecco, se c'è da fare
qualche cosa, amici..."
Di là Bixio Bruno e Cataldo
Sclàfani gridavano:
"No! no! Sarebbe una, pazzia!
Ma che! La rovina!"
E sfide, invettive, proposte,
sabbaruffarono per un pezzo nella sala. Alcuni, e tra questi il Covazza, scapparono
via, indignati. A un certo punto, uno, tutto spaurito, si cacciò zittendo e con le
braccia levate nel crocchio dove piú ferveva la contesa e annunziò:
"Signori miei, siamo
spiati!"
Tutti gli occhi si volsero alle due
finestre.
Dietro la ringhiera del giardino due
uomini stavano difatti a spiare, cercando di farsi riparo delle piante. Celsina Pigna
guardò alla finestra anche lei e, appena scorse quei due, diventò in volto di bragia.
"Ma no!" saltò a dire
irresistibilmente. "Li conosco io... Aspettano me."
Innanzi al vermiglio sorriso e agli
occhi sfavillanti di lei, la contesa cadde, come se a nessuno paresse piú possibile
seguitarla, quando quel fior di giovinetta, a cui sera fatto le viste di non badare,
si faceva avanti d'un tratto, quasi ad ammonire: "Ci sono io, finitela: sono
aspettata"
Poco dopo, come tutti, tranne Lino
Apes, furono andati via, Celsina si accostò a Lando Laurentano e gli domandò, alludendo
a uno di quei due che stavano dietro la ringhiera ad aspettarla:
"Non lo conosce? È suo
nipote..."
"Mio nipote?" disse con
meraviglia Lando che ignorava affatto d'averne uno.
"Ma sí, Antonio Del Re,"
affermò Celsina. "Figlio di sua cugina Anna, sorella del signor Roberto
Auriti."
"Ah!" esclamò Lando.
"E perché non è entrato?"
Celsina notò sul volto del
Laurentano un improvviso turbamento subito dopo la domanda, e lo interpretò a suo modo,
che egli cioè, sospettando qualche intrigo fra lei e il nipote, si fosse pentito della
domanda inopportuna, e si affrettò a rispondere:
"Non è dei nostri, sa! Sta qui
a Roma in casa del signor Roberto, all'Università... Ma temo che..."
Sinterruppe, accorgendosi che
il Laurentano, astratto, assorto, non le badava; e subito riprese:
"Le reco i saluti del Lizio,
presidente del Fascio di Girgenti, e i saluti di mio padre. Anchio credo, se
posso esprimere il mio parere, che non sia tempo d'agire. Abbiamo nel Fascio di
Girgenti circa ottocento iscritti... Ma sono nomi soltanto; pochi vengono, pochi
pagano..."
"Ma sí, ma sí, ma
sí..." le disse allora, graziosamente ridendo con tutto il volto bruttissimo, Lino
Apes, quasi per farle intendere che egli aveva parlato a quel modo col solo intento di
cacciar via tutti. "Agire? Ma sarebbe una pazzia! L'ho detto per celia,
signorina!"
Gli occhi di Celsina schizzarono
fiamme. Lo avrebbe schiaffeggiato. Gli sorrise. Tese la mano a Lando Laurentano e:
"Mi permettano" disse.
"Li lascio in libertà."
Il quondam tenore Olindo
Passalacqua, marito onorario della maestra di canto signora Lalla Passalacqua-Bonomè,
nonché censore effettivo del Privato Conseratorio Bonomè, da circa due ore
cercava in tutti i modi di tenere a freno la muta rabbiosa impazienza di Antonio Del Re.
Parlava sottovoce, e ogni tanto, di nascosto, se Antonio Del Re sbuffando guardava
altrove, cavava fuori lesto lesto l'orologino della moglie e "Poveretto, ha
ragione!" diceva prima con la mimica degli occhi, delle ciglia, della bocca, e subito
dopo, con altra mimica: "Qua sono: avanti; seguitiamo!" E seguitava a parlare, a
parlare quasi per commissione; ma in una particolar maniera comicissima e quasi
incomprensibile, perché a voli a salti a precipizii per sottintesi che si riferivano a
lontane e bizzarre vicende della sua scompigliata esistenza. E a ogni salto, a ogni volo,
eran subitanee alterazioni di viso e di voce esclamazioni e ghigni e gesti o di rabbia o
di gioja o di minaccia o di commiserazione o di sdegno, che facevano restare intronato, a
bocca aperta chi, ignorando quelle vicende, riuscisse per un po', senza ridere, a
prestargli ascolto. Olindo Passalacqua, di fronte a questo intronamento, restava
soddisfatto; era per lui la misura dell'effetto; e con le mani aperte a ventaglio si
tirava sú, sú, sú, da ogni parte i lunghi grigi capelli riccioluti per modo che gli
nascondessero la radura sul cocuzzolo, e quindi coi due indici tesi si toccava gli aghi
incerati dei baffetti ritinti, quasi per mettere il punto a quel gesto abituale o per
accertarsi che nella foga del parlare, non gli fossero cascati.
"Una miseria, basterebbe una
miseria!" diceva. "Guarda, che sono due lirette al giorno, che sono? E vorrei
dire anche meno! Una miseria... Sciagurato! Quanti ne butta via con quei farabutti là che
glinsudiciano il come si chiama... sicuro... lo stemma avito! Porci! E mio suocero
per l'Italia rovina l'impresa del Carolino a Palermo... Tesori! Bastava la semplice
Jone... povero Petrella!... mio cavallo di battaglia... Là, tutto a catafascio...
per questi porci qua! Senti come strillano? Ed è principe, sissignore... Vergognosi...
Dico io, due lirette al giorno per un'opera meritoria... Dio dei cieli, una fortuna come
questa! Tutto gratis... E tu che ne sai? Certi patti infernali... schiavitú per tutta la
vita... Io, io, per più di dieci anni, trionfatore e schiavo... Qua, invece, solo
chegli dicesse di sí... M'impegnerei io, Nino, m'impegnerei io di portarla in meno
d'un anno su i primari palcoscenici d'Italia. Tu mi conosci; mi spezzo, non mi... non
mi...frangar... come si dice? lo sapevo pure in latino, mannaggia! La parola... se
do la parola! E che mi resta? Unico patrimonio. Bisognerà nutrirla un tantino meglio nei
primi tempi: questo sí! Ma se ne viene... se ne viene... oh se se ne viene.. E la
bastarda musica moderna..."
Aveva scoperto, Olindo Passalacqua,
una portentosa voce di soprano nella gola di Celsina Pigna, subito, appena l'aveva sentita
parlare.
"E con quella figurina là, che
scherzi? Furore, m'impegno io: farà furore! Basterebbe a mio cognato, per rispetto a
Roberto e a te, un misero assegnino, anche di una lira e cinquanta al giorno; per le spese
del vitto... Nutrirla bene... e in meno di un anno... dici di no?"
Antonio Del Re tornava a scrollarsi
tutto, rabbiosamente, appena una parola del Passalacqua riusciva a cacciarsi tra il
tumulto dei pensieri violenti a cui era in preda. Il giorno avanti, Celsina gli sera
presentata all'improvviso in casa dello zio Roberto, durante il desinare. Frastornato,
stordito dalla vita rumorosa della grande città, dagli aspetti nuovi, dalle nuove e
strane abitudini, non aveva potuto attendere in alcun modo alla promessa che le aveva
fatto prima di partire, di trovarle subito, cioè, un collocamento a Roma. Le aveva
scritto tuttavia che presto, appena un po' rassettato, si sarebbe messo a cercare; con la
certezza però, dentro di sé, che non solo non sarebbe riuscito, ma che non avrebbe avuto
né animo né modo di provarcisi, sospeso come si sentiva, e come per un pezzo avrebbe
seguitato a sentirsi, in uno smarrimento che quasi gli toglieva il respiro e gli faceva
apparir tutto intorno vacillante e inconsistente. Questo smarrimento, difatti, non solo
gli era durato, ma gli era via via cresciuto, in mezzo a quella precarietà d'esistenza
eccentrica, scombussolata, in casa dello zio. Come mai aveva potuto questi adattarsi a
vivere cosí, comporsi in un certo suo ordine meticoloso, in mezzo a tanto disordine,
trovarvi un po' di terra da gettarvi le radici? Capiva Olindo Passalacqua, la signora
Lalla (Nanna, come la chiamavano) e il fratello di lei, Pilade Bonomè: zingari; il
primo, chi sa donde venuto; gli altri due, figli d'un impresario teatrale, capitato prima
del 1860 a Palermo e travolto nella corrente liberale dai giovani signori
dell'aristocrazia palermitana, frequentatori assidui del palcoscenico del teatro Carolino.
Fallita dopo alcuni anni l'impresa, poveri, vittime della rivoluzione, come diceva
ancora Olindo Passalacqua, il quale, subito dopo avere sposato la figlia dell'impresario,
aveva perduto la voce; erano venuti a Roma, poco dopo il '70, e serano rovesciati
addosso a zio Roberto, raccomandati da un amico di Palermo. Avventurarsi nel bujo della
sorte, gettarsi alle piú stravaganti imprese, prendere da un momento all'altro le piú
strampalate risoluzioni, era per essi come bere un bicchier d'acqua. Oggi qua, domani là;
oggi abbondanza, domani carestia; bastava loro ogni giorno arrivare alla sera, comunque,
senza indietreggiare di fronte a tutti i possibili ostacoli, ai sacrifizii piú duri,
buttando in mare le cose piú care e piú sacre pur di salvar la barca, barca senza piú
né bussola, né àncora, né timone, assaltata dalle onde incessanti in quella perpetua
bufera chera stata la loro vita. Ma tuttavia questo era in essi meraviglioso e
pietoso e comico a un tempo, che pur avendo fatto getto di tutto senza alcun ritegno, eran
rimasti nell'anima schietti, d'una ingenuità vivida e tutta alata di palpiti gentili,
eran rimasti affettuosi, generosi, pronti sempre a spendersi per gli altri, a confortare,
a soccorrere, ad accendersi d'entusiasmo per ogni nobile azione. Quel che di scorretto, di
male, di vergognoso era nella loro vita, forse stimavano sinceramente non imputabile a
essi. Necessità su cui bisognava chiudere un occhio, e se uno non bastava, tutt'e due.
Con quanta dignità, per esempio, Olindo Passalacqua, dopo aver mangiato alla tavola di
zio Roberto e aver raccomandato a questo di non dimenticarsi di far prendere a Nanna
le gocce per il mal di cuore o di far toglier subito dalla tavola il trionfino delle
frutta per paura che, toccando inavvertitamente la buccia di qualche pesca, non le si
avesse a rompere, Dio liberi il sangue del naso come tante volte le soleva avvenire,
lasciava a lui il letto maritale e, augurando alla moglie la buona notte, felicissimi
sogni a tutti; anche ai canarini e al merlo nelle gabbie, al pappagallo Cocò sul
tréspolo; a Titì, la scimmietta tisica, su l'anello; a Ragnetta, la
gattina in colletto e cravatta; ai due vecchi cani Bobbi e Piccinì,
invalidi entrambi in una cesta, quello cieco e questo con la groppa impeciata; se n'andava
coi due indici su le punte dei baffi, impalato già nella rigida severità di censore
inflessibile, a dormire nel Privato Conseratorio del cognato Bonomè in via dei
Pontefici! E che barca di matti quella tavola a cui sedevano ogni sera quattro o cinque
estranei, invitati lí per lí, o che venivano a invitarsi da sé, deputati amici di zio
Roberto e di Corrado Selmi, maestri di musica chiomati, cantanti d'ambo i sessi! Che
discorsi vi si tenevano, a quali scherzi spesso si trascendeva! E che pena vedere zio
Roberto lí in mezzo, zio Roberto chegli da lontano sera immaginato con le
stesse idee e gli stessi sentimenti della nonna e della mamma (e non a torto, ché ogni
giorno poi glieli dimostrava con le piú squisite attenzioni e le cure paterne), che pena
vederlo lí in mezzo, partecipare a quei discorsi, a quegli scherzi, e di tratto in tratto
sorprendergli nel volto uno sguardo, un sorriso afflitto, di mortificazione, se incontrava
gli occhi suoi che lo osservavano stupiti e addolorati! Qual guida piú poteva dargli
quello zio? Avrebbe potuto permettersi tutto, sicuro di non potere aver da lui né un
richiamo, né un rimprovero. Sera iscritto alla facoltà di scienze; ma come
studiare in quella casa che cinfolava, gargarizzava, guagnolava dalla mattina alla sera di
trilli e scivoli e solfeggi e vocalizzi? Del resto, l'Università cosí lontana, i
numerosi studenti gaj e spensierati, gli avevano destato fin dal primo giorno
un'avversione invincibile, uggia, scoramento, sdegno, dispetto; e, pigliando scusa da ogni
cosa, non era piú andato. Sera figurato, e subito aveva ritenuto per certo, che a
qualcuno di quei ragazzacci potesse venire la cattiva ispirazione di farsi beffe di lui
cosí serio e diverso: e che sarebbe allora accaduto? Solo a pensarci, gli
sartigliavano le mani. Un incentivo qualunque, in quel punto, una favilla, e il
furore, represso con tanto sforzo, sarebbe divampato terribile. Aveva l'impressione che la
vita gli si fosse come ingorgata dentro e gli ribollisse, fomentata dal rimorso di
quell'ozio e dal bisogno prepotente di darsi comunque uno sfogo. Ma come sottrarsi a
quell'ozio, se aveva ormai acquistato la certezza di non poter piú far nulla, poiché
tutto gli si era come intralciato e confuso nel cervello? e dove trovar lo sfogo? Aveva
corso Roma da un capo all'altro, come un matto, quasi senza veder nulla, tutto assorto in
sé, in quella cupa scontentezza di tutto e di tutti, in quel ribollimento continuo di
pensieri impetuosi che, prima di precisarsi, gli svaporavano dentro, lasciandolo vuoto e
come stordito, coi lineamenti del volto alterati, le pugna serrate, le unghie affondate
nel palmo della mano.
Infine, dalla sorda rabbia che lo
divorava, da quell'agra inerzia fosca, un'idea truce, mostruosa, aveva cominciato a
germinargli nel cervello, la quale subito aveva preso a nutrirsi voracemente di tutto il
rancore contro la vita, fin dall'infanzia accolto e covato. L'idea gli era balenata,
sentendo una sera a tavola discorrere del modello delle bombe recate da Francesco Crispi
in Sicilia alla vigilia della Rivoluzione del 1860 e della preparazione di esse. Corrado
Selmi aveva detto che ne aveva preparate alcune anche lui, di notte, nel magazzino preso
in affitto da Francesco Riso presso il convento della Gancia. Forte delle sue nozioni di
chimica moderna, sera messo a ridere e aveva dimostrato quanto fosse puerile quella
preparazione, e come adesso si sarebbero potuti ottenere effetti piú micidiali con
ordigni di molto piú piccolo volume.
"Ecco!" aveva esclamato
allora Corrado Selmi! "Per fare un po' di festa, bisognerebbe buttare dalle tribune
uno di questi giocattolini nell'aula del Parlamento!"
D'improvviso sera sentito
prendere e predominar tutto da quest'idea. Gli urli d'indignazione della piazza per la
frode scoperta delle banche, e prima il sospetto e poi la certezza che anche zio Roberto
col Selmi era coinvolto nello scandalo di quella frode, le notizie sempre piú gravi che
arrivavano dalla Sicilia, lo avevano deciso a cercare i mezzi e il modo d'attuare al piú
presto quell'idea. Tanto, ormai, era finita per lui! Se zio Giulio, partito a precipizo
per Girgenti, non riusciva a ottenere dal fratello della nonna il denaro, zio Roberto
sarebbe stato arrestato; e allora il crollo, il baratro... Ah, ma prima! Sí, sí, questa
sarebbe la giusta vendetta, questo lo sfogo di tutte le amarezze, che avevano attossicato
la sua vita e quella dei suoi; e a quei suoi compagni là, di Sicilia, cianciatori,
avrebbe dimostrato che lui solo sapeva far quello che loro tutti insieme non avrebbero mai
saputo.
Ebbene, proprio in quel momento era
capitata Celsina a Roma. Nel vedersela comparir dinanzi tutta accesa in volto e ridente
nell'imbarazzo, aveva provato un fierissimo dispetto. Gli pareva ormai che nulla piú
potesse accadere, nulla piú muoversi senza una sua spinta; che tutti dovessero stare al
loro posto, immobili e come sospesi nell'attesa dell'atto grandioso e terribile
chegli doveva compiere. Donde, come era venuta Celsina, se egli non aveva fatto
nulla per farla venire? I denari di Lando... già! quei denari negati a zio Roberto... Il
Fascio di Girgenti... Buffonate! E che rabbia nel veder Celsina accolta con tanta festa da
quei Passalacqua, per i quali era la cosa piú naturale del mondo che una ragazza si
avventurasse sola fino a Roma con un pretesto come quello, e si presentasse lí in cerca
dell'innamorato, ferma nel proposito di non ritornar piú in Sicilia. Sera fatto di
tutti i colori nel vedersi guardato da quelli con certi occhi ridenti di malizia e di
indulgenza, che gli dicevano chiaramente: "Via, che c'è di male? abbiamo capito! Non
ti vergognare!". E anche zio Roberto era rimasto lí, col suo solito sorriso
afflitto, sotto al quale voleva nascondere il fastidio che gli recava ogni novità:
soltanto il fastidio. Anche per lui nulla di male che una ragazza fosse venuta a trovare
il nipote in casa sua, in un momento come quello, col baratro aperto in cui stavano per
precipitare tutti. Per quei Passalacqua quel baratro era niente: una delle tante
difficoltà della vita da superare; e per superarla fidavano ciecamente in Corrado Selmi.
Bastava poi a tranquillarli la calma che zio Roberto simponeva per non agitar la sua
Nanna malata di cuore. Via, via quel signor Antonio e quel lei, con
cui Celsina sera messa a parlargli! a chi voleva darla a intendere? ma si dessero
pure del tu! Oh, cara... Ma sí, brava, ridere... Se non si rideva di cuore a quell'età,
e con quegli occhi e con quel musino... Uh, che voce! ma senti?... un campanello! Non
sera mai provata la voce? Non aveva mai cantato, neanche cosí per ischerzo? mai
mai? Ma bisognava provare, subito subito... Impossibile che non ci fosse la voce, con
quelle inflessioni, con quelle modulazioni... Via, sú, una canzoncina qualunque, là, nel
salottino, subito subito... Ecco il terno! Nulla meglio di questo espediente per non
ritornar piú in Sicilia! I mezzi per studiare? Ma c'era lei, la signora Lalla, e il Privato
Conservaorio Bonomè. Lezioni gratis, carte e pianoforte gratis: soltanto un piccolo
assegno per il vitto. E Olindo Passalacqua, saputo che Celsina era compagna di fede
socialista di Lando Laurentano, subito aveva suggerito di chiedere a lui quell'assegno.
No? perché no? Opera meritoria! Maledetti certi scrupoli, certi pudori che impediscono
alla coscienza di fare il bene! Si sarebbe potuto proporre al Laurentano la restituzione
di quel piccolo assegno coi primi guadagni; ma, nossignori, queste cose le fanno gli
sfruttatori, gli strozzini, ragion per cui un gentiluomo deve astenersi dal farle...
Stupidaggini! Miserie! Sera contorto su la seggiola, Antonio, udendo questi
discorsi. Avrebbe voluto strappare per un braccio Celsina e gridarle sul volto: "Va',
tòrnatene donde sei venuta! Costoro son pazzi che danzano su l'abisso. Va'! va'! L'abisso
lo spalancherò io! Non c'è piú nulla; io stesso non sono piú: tutto è finito!".
Ma pure, eccolo lí, aveva col Passalacqua accompagnato Celsina fino al villino di Lando,
e ora stava ad aspettare che l'adunanza si sciogliesse ed ella ne uscisse. Celsina gli
aveva promesso in confidenza che non avrebbe neppur fatto cenno al Laurentano di quella
ridicola proposta dell'assegno; solo lo avrebbe pregato d'interessarsi in qualche modo per
farle trovare, con le sue tante aderenze, un posticino a Roma. L'assegno, Celsina si era
proposto di domandarlo invece per lui, per Antonio. Egli le aveva confidato la sera avanti
la terribile condizione in cui si trovava lo zio.
"E tu?" gli aveva
domandato lei.
Non aveva avuto altra risposta che
un gesto furioso, di disperazione. Le era balenato il sospetto chegli covasse un
proposito violento, ma contro sé; e aveva cercato di scuoterlo, di rincorarlo. Era venuta
con l'animo tutto acceso di sogni e di speranze, piena di fiducia in sé, e pronta e
preparata a vincere tutti gli ostacoli. Ebbene, sarebbero stati in due, ora, a dividerli e
ad affrontarli; ella lo avrebbe trascinato nella sua foga. Possibile chegli, col suo
parentado, perisse? E non c'era poi l'altro zio? Via, via! Le difficoltà sarebbero state
per lei. Ma ecco, ne rideva!
Uscí dal villino, su le furie.
"Niente! Buffoni... Andiamo!
andiamo!" disse, spingendo i due compagni.
"Non ha parlato?"
domandò, sospeso e afflitto, il Passalacqua.
"Ma che parlare!" si
scrollò Celsina. "Sono tanti pazzi, scemi, stupidi, imbecilli... Chiacchiere,
chiacchiere, declamazioni o ciance insipide che vorrebbero parere spiritose... Via, via,
via! Ma ci ho guadagnato questo almeno, che sono qua, a Roma! Nino, per carità, Nino, non
mi far quella faccia! Vattene... sí, sí... è meglio che te ne vada, se mi devi
affliggere cosí!"
Olindo Passalacqua corse dietro ad
Antonio che, gonfio di rabbia, tutto rabbuffato, aveva allungato il passo; lo trattenne
invitò con la mano Celsina ad avvicinarsi subito, raccomandando con cenni calma e
prudenza. Ma Celsina, sorridendo e avvicinandosi pian piano, gli accennò col capo che lo
lasciasse pure andare.
"Ma pazzie, scusate... calma,
ragazzi! Cosí v'accecate... E il rimedio? il rimedio cosí, accecandovi con le furie, non
lo trovate piú. Il rimedio c'è sempre, cari amici; a tutto c'è rimedio; piú o meno
duro, piú o meno radicale... ma c'è! Non bisogna spaventarsi... In prima, come! dice,
questo? Questo no! questo mai!... Poi... eh, cari miei, l'avrei a sapere! Questo e
altro!... Però, però, però... dico, intendiamoci, rispettando sempre le leggi del...
del... della... Siamo gentiluomini! Nino, tu lo sai, mi spezzo, non mi... non mi..."
"Che fai? che vuoi? che ti
strilli cosí?" domandò Celsina a Nino, rimasto ansante in atteggiamento truce.
"Finiscila! Sono proprio furie sprecate... Io mi sento cosí tranquilla e contenta!
Sú, sú, per dove si prende, signor Olindo? Tu... tu guardami... no, no, guardami bene
negli occhi... qua, dentro gli occhi... Prima di partire, ti ricordi?"
Nino contrasse tutto il volto, nel
tremendo orgasmo, e singultò nel naso, premendosi forte un pugno su la bocca.
"Via! basta, ora!
Andiamo!" riprese Celsina. "Lei, signor Olindo, mi deve dir questo soltanto, ma
me lo deve dire proprio in coscienza: Ho la voce?"
Olindo Passalacqua si tirò un passo
indietro, con le due mani sul petto:
"Ma io ho cantato con la Pasta,
sa lei? con la Lucca ho cantato; io ho cantato con le due Brambilla..."
"Va bene, va bene," lo
interruppe Celsina. "E lei è certo dunque che io abbia la voce?"
"Ma d'oro!" esclamò il
Passalacqua. "D'oro, d'oro, d'oro, glielo dico io! E in meno d'un anno lei..."
"Va bene," tornò a
interromperlo Celsina. "E allora senta.... un altro favore! A procurarmi l'assegnino,
come dice lei, ci penso io. Son capace di presentarmi in tutte le botteghe che vedo, in
tutti gli alberghi, ufficii, banche, caffè, se han bisogno d'una contabile, giovane di
negozio, interprete, quel che diavolo sia! Ho il diploma in ragioneria, licenza d'onore;
possiedo due lingue, inglese e francese... Ma anche per sarta mi metto, per modista... Non
so neppur tenere l'ago in mano; imparerò!... maestra, governante, istitutrice... Lasci
fare a me! Lei ora se ne vada. Mi lasci sola con questo bel tomo! A rivederla."
E, preso Antonio sotto il braccio,
scappò via.
"Fammi veder Roma!"
Ma che vedere! Non poteva veder
nulla, col cervello in subbuglio. Parlava, parlava, e gli occhi le sfavillavano ardenti,
sotto quel cappellino dalla piuma spavalda; le labbra accese le fremevano, e rideva
senz'ombra di malizia a tutti quelli che si voltavano a mirarla.
"Nino, senti," gli disse a
un certo punto, piano, in un orecchio. "Portami lontano... in un punto solitario...
lontano. .. voglio cantare!. .. Ho bisogno di sentire come canto.. . Se fosse vero! Tu ci
pensi? Ah, se fosse vero, Nino mio! Andiamo, andiamo..."
Seguitò a cinguettare per tutta la
via. Gli disse che per forza lei, prima di diventare un soprano, un contralto celebre, per
forza doveva trovar marito, dato quel brutto cognome che l'affliggeva."
"Celsa, va bene; ma Pigna! ti
pare possibile? Vediamo un po', mettiamo... Celsa... come? Celsa Del Re? Oh Dio no! Le mie
opinioni politiche... Del re? Impossibile, Nino! non posso diventare tua moglie, è
fatale! Ma tu del resto non mi vuoi... Ahi, ahi no! mi hai fatto un livido nel braccio...
Mi vuoi? E allora Celsina Del Re, e non se ne parli piú! Celsina di Sua Maestà, è
buffo, sai? di Sua Maestà Antonio I.
Arrivarono, chera già il
tramonto, di là dal recinto militare, in prossimità del Poligono, su la sponda destra
del Tevere. Monte Mario drizzava il suo cimiero di cipressi nel cielo purpureo e vaporoso,
e la vasta pianura, che serve da campo di esercitazione alle milizie, e le sponde erbose
del fiume, nell'ombra soffusa di viola, parevano smaltate. Nel silenzio quasi attonito,
piú che la voce si sentiva il movimento delle acque dense, d'un verde morto, tinte dai
riflessi rosei del cielo e qua e là macchiate da qualche cuora nera.
"Bello!" sospirò Celsina,
guardandosi intorno. E con l'impressione che la vita vera se ne fosse come andata via di
là, e ne fosse rimasta quasi una larva, nel ricordo o nel sogno, dolce e malinconica,
aggiunse piano:
"Dove siamo qua?"
Poi, volgendosi ad Antonio, che si
era seduto su un masso e guardava verso terra, curvo, con le mani strette tra le gambe:
"Ma che fai?" gli
domandò. "Ma tu non vedi, tu non senti piú nulla? Alza il capo, guarda, senti...
questo silenzio qua... il fiume... e là Roma... e io che sono qua con te!"
Gli saccostò, gli posò una
mano sui capelli, si chinò a guardarlo in faccia, e:
"Tu non hai ancora
vent'anni!" gli disse. "E io ne ho diciotto..."
Antonio si scrollò rabbiosamente,
per respingerla, e allora ella, sdegnata, alzò una spalla e si allontanò.
Poco dopo, da lontano, giunse ad
Antonio il suono della voce di lei che cantava, in quel silenzio, limpida e fervida.
Disperato, serrando le pugna nella
furia della gelosia, la vide parata da attrice, in un vasto teatro, davanti ai lumi della
ribalta. Si alzò, fremente; andò a raggiungerla.
"Andiamo! andiamo!
andiamo!"
"Che te ne pare?" gli
domandò lei, con un fresco sorriso di beatitudine.
Antonio le strinse un braccio e,
guardandola odiosamente negli occhi:
"Tu ti perderai!" le
gridò tra i denti.
Celsina scoppiò a ridere.
"Io?" disse. "Ma se
tu non mi vuoi, si perderanno quelli che mi verranno appresso, caro mio! Io ho le ali...
le ali... Volerò!"
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 04 September, 1998