Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
I
Seduto innanzi all'ampia scrivania, su cui stavano schierati tutt'intorno prospetti e relazioni irti di cifre, il segretario aspettava che S. E. il Ministro si ricordasse che doveva riprendere a dettare. Già era la terza notte che il cav. Cao... - ohé, lavorare, va bene; ma... ma... ma... - un'intera giornata a sgobbare al Ministero; poi la sera lí, al palazzo di Sua Eccellenza; di questo passo, non sarebbe venuta piú a fine quella esposizione finanziaria. Eppure, tra pochi giorni avrebbe dovuto esser letta alla Camera dei deputati. Non ne poteva piú! Ma veramente non era tanto la stanchezza, quanto la sofferenza che da qualche tempo gli cagionava la vista di quell'uomo venerando, per cui sentiva ancora profondo e sincero affetto, se non piú l'ammirazione di prima. Aveva già veduto tante cose il cav. Cao, prima da lontano, cert'altre ne vedeva adesso da vicino! Non si può vivere, è vero, settanta e piú anni, commettendo sempre eroiche azioni. Per forza qualche sciocchezza, o piccola o grande, si deve pur commettere. E una oggi, una domani, tirando infine le somme... Si tirava, invece, cosí pensando, il cav. Cao un ispido pelo dei baffi, inverosimilmente lungo. Perbacco! Fin sul capo, gli arrivava... Un pelo solo. Nero. Per avvertir meno la stanchezza e la noja di quell'attesa, lavorava di fantasia. Un pajo di lenti di Sua Eccellenza, lí su la scrivania, eran diventate due laghetti gemelli; uno spazzolino da penne, un fitto boschetto di elci; il piano della scrivania, dov'era sgombro, una sterminata pianura, che forse primitive tribú migratrici attraversavano, sperdute. Sua Eccellenza passeggiava per lo scrittojo, aggrondato, a capo chino, con le mani dietro la schiena. E il cav. Cao, alzando gli occhi a guardarlo, con l'immagine di quello spazzolino da penne nella retina, pensò che Sua Eccellenza aveva la schiena pelosa. Pelosa la schiena e peloso il petto. Lo aveva veduto un giorno nel bagno. Pareva un orso, pareva. Ah quante cose, quante particolarità ridicole non aveva scoperto nella persona di Sua Eccellenza, da che non lo ammirava piú come prima! Quella nuca, per esempio, cosí grossa e liscia e lucente, e tutti quei nerellini che gli pinticchiavano il naso, e quelle sopracciglia... là zí! e zí! come due virgolette. Finanche negli occhi, negli occhi che gli incutevano un tempo tanta suggezione, aveva scoperto certe macchioline curiose, che pareva gli forassero la cornea verdastra. Proprio vero: minuit praesentia famam! E si meravigliava il cav. Cao e si rattristava insieme di poter vedere ora cosí quell'uomo che in altri tempi lo aveva addirittura abbagliato, acceso d'entusiasmo per le gesta eroiche che si raccontavano di lui garibaldino e poi per le memorabili lotte parlamentari "strenuamente combattute". Mah! Ormai Francesco D'Atri non pensava che a sporcarsi timidamente, d'una tinta gialligna, canarina, i pochi capelli che gli erano rimasti attorno al capo e l'ampia barba che sarebbe stata cosí bella, se bianca. Anche lui, è vero, il cav. Cao, da circa un anno, poco poco... i baffi soltanto. Ma per non averli, ecco, un po' bianchi, un po' neri. Gli seccava. E poi del resto, per lui quella tintura non avrebbe mai avuto le disastrose conseguenze che aveva avuto per Sua Eccellenza. Quantunque infine non avesse ancora quaran... ah già, sí, quarant'anni, da tre giorni: ebbene, quaranta: non avrebbe mai preso moglie, lui. E Francesco D'Atri, invece, sí l'aveva presa, a ses-san-ta-set-te anni sonati; e giovane per giunta l'aveva presa. Segno evidentissimo di rammollimento cerebrale. Bisognava metterlo da parte - (la vita ha le sue leggi!) - da parte, senza considerazione e senza pietà. Pietà, tutt'al piú, poteva averne lui, perché gli voleva bene, perché lo vedeva soffrire atrocemente, in silenzio, dell'enorme sciocchezza commessa; ma provava anche sdegno, ecco, per la remissione di cui gli vedeva dar prova di fronte a quella moglie che, quasi subito dopo le nozze, sera messa a far pubblicamente strazio dell'onore di lui. Tutti, o quasi tutti, ammogliati tardi e male, questi benedetti uomini della Rivoluzione. Da giovani, si sa, avevano da pensare a ben altro! Amare, sí... la bella Gigogin... un bacio, e:
Addio, mia bella, addio;
l'armata se ne va...
In fondo, a voler dir proprio,
non avevano potuto far nulla a tempo e bene, né studii, né altro. Nelle congiure, nelle
battaglie erano stati come nel loro elemento; in pace, erano ora come pesci fuor d'acqua.
In vista, e senza uno stato; anziani, e senza una famiglia attorno... Dovevan purtroppo
commettere tardi e male tutte quelle corbellerie che non avevano avuto tempo di commettere
da giovani, quando, per l'età, sarebbero stati piú scusabili. E poi, anche...
Il cav. Cao, a questo punto, tornò
a scuotersi come per un brivido alla schiena. Da alcuni giorni era veramente sbigottito
della gravità e della tristezza del momento. Tutte le sere, tutte le mattine, i
rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato
al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di
uno scrocco a danno di questa o di quella banca. In certi momenti climaterici, ogni uomo
cosciente che sdegni di mettersi con gli altri a branco, che fa? si raccoglie; pòndera;
assume secondo i proprii convincimenti una parte, e la sostiene. Così aveva fatto il cav.
Cao. Aveva assunto la parte dell'indignato e la sosteneva. Non poteva tuttavia negare a se
stesso, che godeva in fondo dello scandalo enorme. Ne godeva sopra tutto perché,
investito bene della sua parte, trovava in sé in quei giorni una facilità di parola che
quasi lo inebriava, certe frasi che gli parevano d'una efficacia meravigliosa e lo
riempivano di stupore e d'ammirazione. Ma sì, ma sí: dai cieli d'Italia, in quei giorni,
pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango sappiastrava da per
tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie
già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio!
esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei
pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le
cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma
dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su Cui svolazzavano
stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell'aria
densa e fumicosa, mentre come scialbe lune all'umida tetra luce crepuscolare si
accendevano ronzando le lampade elettriche, e nell'agitazione degli ombrelli, tra
l'incessante spruzzolío di un 'acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt'intorno, il
cav. Cao vedeva in quei giorni ogni piazza diventare una gogna; esecutore, ogni giornalajo
cretoso, che brandiva come un'arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto,
e vomitava oscenamente le piú laide accuse. E nessuna guardia sattentava a turargli
la bocca! Ma già, piú oscenamente i fatti stessi urlavano da sé. Uomo d'ordine, il cav.
Cao avrebbe voluto difendere a ogni costo il Governo contro la denunzia delle vergognose
complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa attraverso le gazzette e il Parlamento.
Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini
elettorali, per altri piú loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo
avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori,
proponendoli agli onori della commenda e del Senato. Ma non poteva negare che fosse stato
aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della
stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del
paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si
poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma colla
speranza che la percossa ai piú deboli salvasse i piú forti. Certo, lo sdegno del paese
nel veder così bruttati di fango alcuni uomini pubblici che nei begli anni dell'eroico
riscatto avevano prestato il braccio alla patria, si rivoltava acerrimo, adesso, anche
contro la gloria della Rivoluzione, scopriva fango pur lí; e il cav. Cao si sentiva
propriamente sanguinare il cuore. Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva
sotto certi nembi d'ingiurie che savventavano in quei giorni da tutta Italia contro
Roma, rappresentata come una putrida carogna. In un giornale di Napoli aveva letto che
tutte le forze serano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli
entusiasmi; e tutte le virtú, corrotte. Meglio, meglio quand'essa viveva d'indulgenze e
di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai
divoti! Ne fremeva il cav. Cao, perché i clericali, naturalmente, ne tripudiavano.
Accompagnando talvolta Sua Eccellenza a Montecitorio, vedeva per i corridoi e le sale
tutti i deputati, giovani e vecchi, novellini e anziani, amici o avversarii del Ministero,
come avvolti in una nebbia di diffidenza e di sospetto. Gli pareva che tutti si sentissero
spiati, scrutati; che alcuni ridessero per ostentazione, e altri, costernati del colore
del loro volto, fingessero di sprofondarsi con tutto il capo in letture assorbenti. Per
certuni, non ostante il freddo della stagione, i caloriferi erano mal regolati: troppo
caldo! troppo caldo! Chi sa in quante coscienze era il terrore che da un momento all'altro
gli occhi d'un giudice istruttore penetrassero in esse a indagare, a frugare, armati di
crudelissime lenti. Al cav. Cao era sembrato, il giorno avanti, che alcuni deputati, i
quali discutevano accalorati in una sala, avessero troncato a un tratto la discussione
vedendo passare Sua Eccellenza D'Atri. Sera fermato un po' a guardare, accigliato, e
da uno di quei deputati, che aveva subito voltato le spalle, aveva sentito ripetere
chiaramente piú volte, sottovoce ma con accento vibrato e impeto di sdegno, il nome di
Corrado Selmi che in quei giorni correva sulla bocca di tutti. Il cav. Cao sapeva bene che
nessuno avrebbe osato mettere in dubbio l'illibatezza di Francesco D'Atri; ma poteva darsi
che, per via della moglie, fosse coinvolto anche lui nella rovina del Selmi che pareva
ormai a tutti irreparabile.
Eppure, eccolo lí: passeggiando per
lo scrittojo e non ricordandosi piú evidentemente né di chi stava ad aspettarlo né
dell'esposizione finanziaria, Sua Eccellenza pareva soltanto impensierito d'un pianto
infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, arrivava fin li, da una camera remota,
non ostanti gli usci chiusi. Già una volta si era recato di là a vedere che cosa avesse
la figliuola. Il cav. Cao non seppe frenar piú oltre la stizza - (perché, santo Dio,
tutta Roma sapeva che quella bambina... quella bambina...) - si alzò come sospinto da una
susta, soffiando per le nari uno sbuffo.
Sua Eccellenza si fermò e si volse
a guardarlo. Subito il cav. Cao contrasse la faccia, come per un fitto spasimo improvviso,
e disse, sorridendo e stropicciandosi con una mano la gamba:
"Crampo, eccellenza..."
"Già... lei aspettava... Scusi
tanto, cavaliere. M'ero distratto... Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non
mi sento disposto. Saranno le undici, è vero?"
"Mezzanotte, eccellenza! Ecco
qua: le dodici e dieci..."
"Ah si? E... e questo teatro,
dunque, quando finisce?"
"Che teatro, eccellenza?"
"Ma, non so; il Costanzi,
credo. Dico per... per quella bambina... Sente come strilla? Non si vuol quietare. Forse,
se ci fosse la mamma..."
"Vuole che passi dal Costanzi,
ad avvertire?"
"No, no, grazie... Tanto,
adesso, poco potrà tardare. Piuttosto, guardi: avrei bisogno urgente di parlare con
lAuriti."
"Col cav. Giulio?"
" Sí. È con mia moglie. Può
darsi che non venga sú alla fine del teatro. Mi farebbe un gran piacere, se lo
avvertisse."
"Di venir sú? Vado subito,
eccellenza."
"Grazie. Buona notte,
cavaliere. A domani."
Il cav. Cao sinchinò
profondamente, tirando per il naso aria aria aria; appena varcata la soglia, la buttò
fuori con un versaccio di rabbia, che mutò subito però in un sorriso grazioso alla vista
del cameriere in livrea che gli si faceva incontro.
Rimasto solo, Francesco D'Atri si
premé forte le mani sul volto. Il lucido cranio gli sinfiammò sotto le lampadine
elettriche della lumiera che pendeva dal soffitto. Si trattenne ancora un pezzo nello
scrittojo a passeggiare col viso disfatto dalla stanchezza e alterato dai foschi pensieri
in cui era assorto. Con la piccola mano grinzosa e indurita dagli anni si lisciava quella
lunga barba canarina in contrasto cosi penoso e ridicolo con tutta l'aria del volto e la
gravità della persona. Come mai non saccorgeva egli stesso, che quella barba, cosí
mal dipinta, nelle circostanze presenti, era una smorfia orrenda? Non se n'accorgeva,
perché da un pezzo ormai Francesco D'Atri non aveva più la guida di sé, né piú lui
soltanto comandava in sé a se stesso. Non eran piú suoi gli occhi con cui si guardava;
eran d'un altro Francesco D'Atri che dallo specchio gli si faceva incontro ogni mattina
con aria rabbuffata e di sdegnoso avvilimento nel vedergli gonfie e ammaccate le borse
delle pàlpebre, e tutte quelle rughe e quel bianco attorno alla faccia. Né questo era il
solo Francesco D'Atri che si rifacesse vivo in lui nella senile disgregazione della
coscienza, e lo tirasse a pensare, a sentire, a muoversi, com'egli adesso non poteva, non
poteva piú, con quelle membra e il cervello e il cuore imbecilliti dall'età. Era ormai
un povero vecchio che volentieri si sarebbe rannicchiato in un cantuccio per non
muoversene piú; ma tanti altri lui spietati che gli sopravvivevano dentro,
approfittando di quel suo smarrimento, non volevano lasciarlo in pace; se lo disputavano,
se lo giocavano, gli proibivano di lamentarsi e di dirsi stanco, di dichiarare che non si
ricordava piú di nulla; e lo costringevano a mentire senza bisogno, a sorridere quando
non ne aveva voglia, a pararsi, a far tante cose che gli parevano di piú. E uno, ecco,
gli tingeva in quel modo ridicolo la barba; un altro gli aveva fatto prender moglie,
quando sapeva bene che non era piú tempo; un altro ancora gli faceva tener tuttavia quel
posto supremo, pur riconoscendolo di tanto superiore alle sue forze; un altro poi lo
persuadeva ad amare con infinita pena quella bambina, che anchegli sapeva non sua,
adducendo una ragione quanto mai speciosa, che cioè, avendo egli avuto da giovine una
figliuola a cui altri aveva dato e nome e amore e cure e sostanze, in compenso e in
espiazione toccasse a lui ora di dare a questa il proprio nome e amore e cure e sostanze,
come se questa fosse veramente quella sua povera piccina d'allora. Cedendo però a questo
sentimento, riconoscendo davanti agli altri come sua la figliuola, "eh" lo
avvertiva quello della barba, armato di pennello e di tintura "bisogna pure che tu,
caro, per esser creduto padre, con codesta moglie giovine accanto, dia una mano di giallo
a tutta la tua canutiglia!"; consiglio sciocco, a cui avrebbe voluto opporsi, per non
profanare, non solo la sua figura veneranda, ma anche, in fondo, il suo vero sentimento
verso quella bambina. Non sapeva però opporsi piú, se non timidamente. E questa
timidità penosa e ridicola si rispecchiava appunto nella tintura della barba. Preso in
mezzo, tenuto lí come fra tanti, che ognuno pareva facesse per sé e lui non ci fosse per
nulla, non sapeva dove voltarsi prima; niente gli piaceva; ma, a muoversi per un verso o
per l'altro, temeva di far dispiacere a questo o a quello dei suoi crudeli padroni; e ogni
risoluzione, anche lieve, gli costava pena e fatica. Vedeva purtroppo in qual ginepraio si
fosse cacciato, contro ogni sua voglia; e non trovava piú modo a uscirne. Tutto a
soqquadro, tutto! Qua a Roma, l'abbaruffío osceno d'una enorme frode scellerata; in
Sicilia, un fermento di rivolta. Tra gli urli delle passioni piú abiette, scatenatesi
nello sfacelo della coscienza nazionale, non sera quasi avvertito un rombo di
fucilate lontane, prima scarica d'una terribile tempesta che saddensava con
spaventosa rapidità. Una sola voce sera levata nel Parlamento a porre avanti al
Governo lo spettro sanguinoso di alcuni contadini massacrati in Sicilia, a Caltavutúro;
ad agitare innanzi a tutti con fiera minaccia il pericolo, non si radicasse nel paese la
credenza perniciòsa che si potessero impunemente colpire i miseri e salvare i barattieri
rifugiati a Montecitorio. Sí, aveva esposto la verità dei fatti quel deputato siciliano:
quei contadini di Sicilia, trovando nella rabbia per l'ingiustizia altrui il coraggio
d'affermare con violenza un loro diritto, serano recati a zappare le terre demaniali
usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune:
intimoriti dall'intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a
reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; assente il capo, sera
affacciato al balcone un subalterno che, per allontanare il tumulto, li aveva consigliati
di ritornar pure a zappare; ma per via la folla aveva trovato il passo ingombro dalla
milizia rinforzata; accennando di voler resistere, sera veduta prima assaltare alla
bajonetta; poi, a fucilate, per avere agitato in aria le zappe a intimorir gli assalitori.
Dodici, i morti; piú di cinquanta, i feriti: tra questi, alcuni bambini, uno dei quali
crivellato da ben sette bajonettate. Questo particolare orrendo sera rappresentato
agli occhi di Francesco D'Atri cosí vivo, che da tre giorni pur tra tante cure e tanto
tumulto di pensieri, di tratto in tratto, riaffacciandosi, gli dava raccapriccio. Perché
la ferocia di quel soldato, accanita sul corpo d'un bambino innocente, gli pareva
l'espressione piú precisa del tempo: la vedeva in tutti, quella stessa ferocia, e n'era
sbalordito. Non piú rispetto, né carità per le cose piú sacre; una furia cieca, una
rabbia d'odio, una selvaggia voluttà di basse vendette. Saspettava d'esser preso
per il petto da un forsennato qualunque, per dar conto di tutti i suoi errori, antichi e
nuovi. Errori? E chi non ne aveva commessi? Ma era un momento, quello, che anche i piú
lievi, quelli a cui in altro tempo sera soliti di passar sopra, saltavano agli occhi
di tutti, pigliavan dalla sinistra luce di quei giorni un certo ispido rilievo, un certo
color misterioso, che subito aizzavano la smania di frugar sotto, per la soddisfazione
atroce o la feroce consolazione di scoprire altre piú gravi magagne nascoste. Il coraggio
piú difficile, quello della pubblica accusa, legato e persuaso con tanti argomenti a non
rompere i freni della prudenza, ora che tutti si trovavan d'accordo, sera
svincolato, sferrato da tutti i ritegni e riguardi sociali; era diventato tracotanza
inaudita; e nessuna coscienza poteva piú sentirsi tranquilla e sicura. Quelle sue nozze
tardive con una giovine; l'illusione che il prestigio del suo passato e degli altissimi
onori a cui era venuto sarebbe valso a compensare nella stima e nel cuore di lei, quanto
di fervor giovanile doveva di necessità mancare al suo affetto grato e profondo il lusso
avventato; la relazione scandalosa della moglie col Selmi, quella bambina... potevano da
un momento all'altro diventar pretesto d'accusa e di maligne insinuazioni, cagione di chi
sa quali sospetti oltraggiosi. Tra i fantasmi dell'incertezza, in quella vuota, oscura
realtà in cui gli pareva d'esser avviluppato, Francesco D'Atri sentiva di punto in punto
crescere in sé la costernazione, ora che le grida rinfuriavano per il salvataggio
violento, da parte del Governo, di alcuni parlamentari piú in vista e piú compromessi.
Tra questi era il Selmi, che pure fino a quel giorno sera lasciato esposto allo
scandalo. Non glien'avevano detto nulla i suoi colleghi del Gabinetto; ma sera
accorto dalle loro arie che gli si voleva dare a intendere che il Selmi si salvava per
lui. Non era vero! Non per lui, se mai; ma perché egli era con loro; e, in quel momento,
la sua caduta avrebbe potuto determinare il crollo di tutti. Non era intanto peggiore del
male quel rimedio? Non aveva saputo opporsi. Come proferir quel nome? Mondo d'ogni colpa,
integro, per una sola debolezza, per quella illusione cosí presto perduta, si vedeva
trascinato dalla moglie giú nel fango della piazza, ove una canea famelica di scandalo lo
aspettava per farne strazio, accozzando in uno sconcio impasto il suo corpo e quello della
moglie e del Selmi. Ora, con una nuova violenza si vedeva strappato dalla piazza, ma
insieme col Selmi, aggrappato a lui e alla moglie, insieme con tutta la canaglia
aggrappata al Selmi. Gli pareva che glielo rimettessero in casa, là, con tutta la folla
urlante beffarda e ingiuriosa. Tutti, ora, tutti avrebbero creduto che lo salvava lui il
Selmi, non per generosità, ma per paura. E forsanche il Selmi stesso... Ma qual
paura, in fondo, poteva aver lui? Per generosità, se mai, avrebbe potuto farlo, perché
lo ricordava prode e nobile, un giorno, sprezzante della vita tra i pericoli e tutto
acceso dell'ideale santo della patria. Ma no, no, neanche per questa generosità lo
avrebbe fatto: troppo, oltre all'odio e allo sdegno per il tradimento (quantunque ne
facesse piú carico alla moglie), troppo gli coceva il sospetto in lui di quella paura.
Intanto, sottratte tutte le carte che avrebbero potuto perdere il Selmi, era rimasto
esposto, senza difesa, e compromesso, un innocente: Roberto Auriti. Sera trovato a
carico di lui un debito di circa quarantamila lire; e, quel chera peggio, piú d'un
biglietto laconico e misterioso, in cui si faceva allusione a un amico che
assicurava il governatore della banca, o prometteva che avrebbe fatto o parlato o scritto
secondo le istruzioni ricevute. Questi biglietti erano già in mano dell'autorità
giudiziaria, e di questo egli doveva informare tra poco Giulio Auriti, fratello di
Roberto.
Sera già abituato all'orrore
della situazione; ne aveva acquistato il sentimento quasi d'una necessità fatale; e il
suo sbalordimento era pieno d'uggia, di ribrezzo e greve d'una stanchezza dolorosa. Nessun
conforto dalle memorie del passato: a richiamarle per un momento, non sarebbero valse ad
altro che ad accrescere la vergogna e la miseria del presente. E in quell'uggia, la vista
di tutte le cose, anche dei ninnoli della stanza, acquistava agli occhi suoi una
insopportabile gravezza. Ah, il bujo, il bujo, un luogo di riposo: la morte, si! Tutta
quella guerra faceva vincere volentieri il ribrezzo della morte. Che crudeltà! Egli era
uno che doveva presto morire... Serbargli quella feccia per gli ultimi giorni, da ingojare
nel bicchiere della staffa...
Francesco D'Atri si fermò, con gli
occhi immobili e vani. Immaginò il tempo dopo la sua fine: il tempo per gli altri... Ecco
tornata la calma... per gli altri! rabbonite quelle onde, squarciato l'orrore di quella
tempesta; e nessuna pietà, nessun rimpianto, nessuna memoria di chi sera trovato in
quei frangenti e vi era perito.
A un tratto, su la mensola, a cui
teneva fissi gli occhi, gli savvistò una piccola bertuccia di porcellana, che gli
rideva in faccia sguajatamente. Gli venne quasi la tentazione di romperla; voltò le
spalle; avvertí di nuovo il pianto angoscioso della bambina e savviò a quella
camera remota.
Era la camera della bàlia. Un
lumino da notte, riparato da una ventola litofana, sul cassettone, la rischiarava a mala
pena. La vecchia governante, magra e linda, passeggiava con la bimba in braccio che,
convulsa dagli spasimi, pareva volesse sguizzarle dalle mani; procurava di tenersela
adagiata sul seno e:
"Nooo... nooo..."
le ripeteva, come in risposta ai vagiti angosciosi, dimenandosi in ritmo con tutta la
persona e battendole di continuo, lievemente, una mano alle spalle.
La bàlia, con un'enorme mammella
tirata fuori del busto, piangeva anche lei: piangeva in silenzio e giurava alla cameriera
che le sedeva accanto di non aver mangiato nulla che avesse potuto cagionare quella colica
alla bambina.
Francesco D'Atri si fermò un pezzo
a guardarla con occhi assenti: e i tratti del volto espressero lo sforzo quasi istintivo
chegli, col cervello altrove, faceva per intendere ciò che essa stava a dire tra le
lagrime copiose. Intanto guardava nauseato quella sconcia mammella dal cui capezzolo
paonazzo pendeva una goccia di latte. La cameriera pensò bene di tirar sú il corpetto
della bàlia per nascondere quella vista. E allora Francesco D'Atri si volse a guardar la
governante. Stordito dai vagiti della bimba trangosciata, strizzò gli occhi; poi si recò
a prendere dal tavolino da notte un campanello e si mise a farlo tintinnire pian piano
innanzi agli occhi della piccina, per distrarla, andando dietro alla governante che
seguitava a passeggiare, dondolandosi.
Cosi lo trovò, poco dopo, donna
Giannetta di ritorno dal teatro, tutta frusciante di seta. Alzò le ciglia e schiuse
appena le labbra a un impercettibile sorriso canzonatorio dinanzi a quel notturno
commovente quadro familiare, credendo che Sua Eccellenza si compiacesse, sotto gli occhi
delle serve, di mostrare la sua ridicola tenerezza paterna dopo le gravi cure dello Stato.
Ma la cameriera, accorsa a prendere il velo nero tutto luccicante di dischetti d'argento
chella si levava dal capo e a slacciarle la mantiglia, le spiegò, piano, che cosa
era accaduto.
"Ah sí? Poverina..."
disse, ostentando indifferenza, ma con una voce calda, melodiosa, e si accostò alla
governante, cosí tutta fragrante di profumo e di cipria e ampiamente scollata. Ma il
D'Atri le fe' cenno di tacere. La bambina si era finalmente quietata. Donna Giannetta
allora con un lieve sbuffo di stanchezza savviò per la sua camera. Su la soglia si
volse e disse al marito, quasi cantando:
"Oh, Giulio Auriti è di
là."
Francesco D'Atri chinò il capo; le
si avvicinò e le disse a voce bassa e grave, senza guardarla:
"Aspettami. Ho da
parlarti."
"Discorso lungo?" domandò
ella. "Non potresti domani? Temo d'esser troppo stanca e d'aver sonno. Mi sono
orribilmente annojata."
"Mi farai il piacere
d'aspettarmi," insistette egli.
E andò allo scrittojo, ove lo
attendeva l'Auriti.
Ah, come volentieri, adesso, avrebbe
fatto a meno di veder quel giovine a cui doveva dare una tremenda notizia! Se n'era già
dimenticato... Si moveva, in quei giorni, dava ordini istruzioni, imponeva a se stesso
atti, parole, risoluzioni, di cui subito dopo non riusciva piú a veder bene la ragione,
l'opportunità, lo scopo. Chiuse gli occhi e sospirò profondamente, con le ciglia gravate
da un'oppressione tenebrosa. Aveva or ora detto alla moglie che lo aspettasse perché
doveva parlarle. Ma di che? a che scopo? E lui stesso, poc'anzi, aveva pregato il suo
segretario d'avvertir l'Auriti, all'uscita dal teatro, che venisse sú da lui, perché
aveva urgente bisogno di vederlo. Era necessario, sí, che quel povero giovine avesse al
piú presto notizia dell'orrenda sciagura che gli stava sopra. Non poteva comunicargliela
altri che lui. Sollevata la tenda dell'uscio e vedendolo, provò intanto un certo rancore
per la pietà e la commozione che colui già gli suscitava.
Giulio Auriti non somigliava punto
al fratello: alto, smilzo, elegantissimo, spirava dalla temprata agilità del corpo una
energia vigorosa, che gli occhi d'un bel grigio d'acciajo, attenuavano con un certo
sguardo d'orgoglio svogliato. Si cangiò tutto, d'un subito, alla vista del vecchio
Ministro che gli si faceva innanzi cosí scombujato. Uno dei guanti, che teneva in mano,
gli cadde sul tappeto.
"Ebbene?" domandò.
Francesco D'Atri socchiuse gli occhi
per sottrarsi alla pena dell'ansia smaniosa che gli leggeva nel viso. Aprí le mani e
mormorò scotendo il capo:
"Non sè trovata."
"Ah, no!" scattò allora
l'Auriti con una nuova subitanea alterazione del viso, che esprimeva sdegno, rabbia e
insieme risoluzione fierissima di ribellarsi a un'iniquità, senza alcun riguardo piú per
nessuno. "Ah, no, mi perdoni, eccellenza: la carta c'è, e si deve trovare! Lei sa
che mio fratello Roberto..."
"So, so..." cercò
d'interromperlo, con durezza, il D'Atri.
"Ma dunque!" incalzò
l'Auriti. Quella sola dichiarazione può salvarlo, e non deve sparire! O via anche tutto
ciò che può compromettere Roberto!
Il D'Atri sedette, tornò a premersi
forte le mani sul volto e si lasciò cader dalle labbra:
"Il guajo è questo: che
l'autorità giudiziaria..."
"Ma no, eccellenza!"
insorse di nuovo l'Auriti. "L'autorità giudiziaria ha in potere soltanto ciò che il
Governo le ha voluto lasciare. Lo sanno tutti ormai!"
Il D'Atri lo guardò come se egli,
intanto, non lo sapesse: si rizzò su la vita e, facendo viso fermo, parve lo ammonisse
che non poteva permettere si desse corso, in sua presenza, a una voce cosí piena di
scandalo. Ma l'Auriti, smaniando, torcendosi le mani, aggiunse:
"E io... io che riposavo
tranquillo... Ma come, eccellenza? Io riposavo tranquillo perché c'era lei!"
Il D'Atri saccasciò; ma
subito, come se qualcosa dentro gli facesse impeto nello spirito, tornò a rizzarsi e
gridò con rabbia, guardando odiosamente il giovine:
"Che c'entro io? che posso
io?"
"Come!" esclamò l'Auriti.
"Il Selmi..."
"Il Selmi..." ruggí
Francesco D'Atri, serrando le pugna, come se avesse voluto averlo fra le unghie.
"Ma sí, lo salvino pure!"
esclamò Giulio Auriti. "Per salvarlo però..."
"Già! ti figuri anche tu che
lo salvi io..." disse lentamente il D'Atri, scrollando il capo con amarissimo sdegno.
"Ma il Selmi stesso,
eccellenza," ripigliò subito, con diverso sdegno l'Auriti, "vedrà che il Selmi
stesso non tollererà d'esser salvato a costo dell'assassinio morale di mio fratello. E
poi, eccellenza, se non parla lui, se tacerà Roberto, griderò io! C'è mia madre di
mezzo, eccellenza! L'arresto di Roberto? Mia madre ne morrebbe! E il nostro nome?"
A questo grido, il volto di
Francesco D'Atri si scompose.
"Tua madre... sí... tua
madre..." mormorò; e, curvo, si portò di nuovo le mani sul volto; stette un pezzo
cosí, finché non cominciò a sussultare violentemente come per un impeto di singhiozzi
soffocati. Aveva conosciuto a Torino, giovane, donna Caterina Laurentano e Stefano Auriti
che quel figliuolo gli ricordava in tutto; pensò a quegli anni lontani; vide se stesso
com'era allora; vide Roberto ragazzo; pensò a una notte sul mare, con quel ragazzo su le
ginocchia un'ora dopo la partenza da Quarto... ah, da quella notte a questa, che baratro!
Giulio Auriti, vedendo sussultare le
spalle poderose del vecchio Ministro, allibí.
Questi alla fine scoprí il volto e,
rimanendo curvo, guardando verso terra, scotendo le mani a ogni parola:
"Che gridi? che gridi?"
gli disse. "La vergogna di tutti? Tutti impeciati! Vuoi dirmi che sai perché il
Selmi prese quel denaro sotto il nome di tuo fratello? E griderai anche la mia
vergogna!"
" No, eccellenza!" negò
subito con sbalordimento d'orrore, l'Auriti.
"Ma sí!" rispose
Francesco D'Atri, levandosi. "Tutti impeciati, ti dico! Tutti... tutti... Muojo di
schifo... Il fango, fino qua!"
E safferrò con le mani la
gola.
"M'affoga! Questo... dovevo
veder questo! I piú bei nomi... Tu vedi soltanto tuo fratello! Niente, sí, non glien'è
venuto niente in mano; ma ha tenuto di mano a quello lí... E non è vergogna, questa?
come lo scusi? che gridi? Tuo fratello promette, il tuo signor fratello assicura, in quei
biglietti là, i laidi ufficii dell'amico..."
"E non lo nomina!" disse
coi denti stretti, ridendo d'ira, d'onta, di dispetto, Giulio Auriti. "Ecco perché
non sono stati sottratti!"
"Ma quando la paura ha preso
possesso!" venne a gridargli in faccia, con voce soffocata, Francesco D'Atri.
"Zuffa di ladri che rubano di notte con mani tremanti e come ciechi; rimestano,
arraffano, ficcano dentro; e intanto di qua, di là, dal sacco, dalle tasche, il furto
scappa via, e nella ressa, tra i piedi, c'è chi ruba ai ladri, chi ghermisce questa o
quella carta caduta e corre a far bottega su la vergogna: "Ecco, signori, i piú bei
nomi d'Italia! Ecco l'onore! ecco le glorie della patria!" Non mi far parlare... So a
chi parlo! Ma ormai... tanto, n'ho fino alla gola.. Non è umano, capisco che non è umano
pretendere da Roberto il silenzio: per sé, per sua madre, per te, per il nome che
portate..."
"Roberto?" fece l'Auriti.
"Ma Roberto, Vostra Eccellenza lo conosce, sarà anche capace di tacere. Il Selmi
stesso..."
"Se Roberto tacerà?"
domandò il D'Atri, come se ne dubitasse.
"Ma io no, eccellenza!"
saffrettò allora a ripetere l'Auriti. "Glielo dico avanti: io no, per mia
madre!"
"Aspetta!" riprese il
D'Atri, quasi imponendogli di tacere. "Se ho voluto vederti, è segno che ho da dirti
qualche cosa."
Giulio Auriti lo guardò
ansiosamente negli occhi Ma il D'Atri non sostenne quello sguardo; n'ebbe fastidio, anzi
dispetto; scorse per terra il guanto caduto fin da principio dalle mani del giovine e
riebbe fortissima l'impressione di gravezza insopportabile, che in quei giorni gli faceva
la vista di tutto. Ne distrasse gli occhi e disse, cupamente:
"Tu intendi che in tutta questa
faccenda... io non posso cacciar le mani..."
Si guardò le mani e le ritirò con
atto di schifo.
"Pure," seguitò,
"per Roberto, ho parlato... questa sera stessa; ho detto... ho... ricordato...
ricordato le sue benemerenze... Forse - ascolta bene - quei biglietti compromettenti, per
cui è già spiccato il mandato di cattura... sí! Ma - ascolta bene - quei
biglietti..."
Non volle dire: significò con un
rapido gesto espressivo della mano: via!
" Però," riprese subito,
"tu sai che i giornali hanno già pubblicato il nome dl tuo fratello. Bisognerà, per
togliere ogni sospetto di compromissione losca e per non lasciare nessuna traccia, nessuno
strascico..."
" Pagare? domandò, smorendo,
l'Auriti. "E dove... come?"
Il D'Atri si strinse rabbiosamente
nelle spalle.
"Sono quarantamila lire,
eccellenza..."
"Io non posso dartele...
Procura... E presto! Tu intendi, è l'unico mezzo..."
"Un denaro preso da
altri..." gemette l'Auriti.
"Ma come preso?" domandò
con ira il D'Atri. "Questo devi vedere!"
" Per altri!" protestò
Giulio.
"Sei un ragazzo?"
"No, eccellenza: è la
difficoltà... Dove lo trovo? come lo trovo?"
"Cerca... tu hai parenti
ricchi... tuo cugino..."
"Lando?"
"O i tuoi zii..."
Giulio Auriti rimase pensieroso, a
considerare quale, quanta probabilità di riuscita gli offrisse quella via indicata tra
gli ostacoli che già gli si paravano davanti: per Lando, l'ombra odiosa del Selmi; per
gli zii, la fierezza incrollabile della madre. Come si sarebbe piegata questa a chiedere
ajuto di danaro, per quel debito non netto del figlio, a quel fratello? A piegarla, si
sarebbe certo spezzata! Decise senz'altro di tentar lui presso Lando: lui, a costo di
tutto, per risparmiare quel sacrifizio estremo della madre.
"Che tempo?" domandò.
"Presto..." ripeté il
D'Atri. "Vedi tu... cinque, sei giorni..."
Giulio Auriti, perduta lí per lí
la nozione dell'ora, compreso già della parte che doveva sostenere, si licenziò e
savviò in fretta, accigliato, come se dovesse subito correre a casa del cugino.
Francesco D'Atri lo seguí con gli
occhi fino alla soglia dell'uscio; poi rimase perplesso, aggrondato, a stropicciarsi con
una mano il dorso dell'altra, quasi cercasse nella memoria ciò che ancora gli restava da
fare. A un tratto, scorse di nuovo per terra, sul rosso del tappeto, il guanto bianco,
caduto di mano all'Auriti. Quel guanto, lasciato lí, gli parve il segno che egli ormai
non avrebbe potuto piú allontanare del tutto da sé le cose, la gente, i pensieri da cui
si sentiva soffocare: sempre una traccia, sempre un'orma, un vestigio, ne sarebbero
rimasti, risorgenti o incancellabili, come nell'incubo di un sogno. E come se in quel
guanto si potesse scorgere una sua compromissione, Francesco D'Atri si chinò guardingo a
raccattarlo con ribrezzo e se lo cacciò in tasca, furtivamente.
Donna Giannetta, in accappatojo, con
una graziosa cuffia di trine e di nastri in capo, aspettava intanto nella sua camera su
un'ampia e bassa poltrona massiccia di cuojo grigio; una gamba su l'altra, tormentandosi
il labbro inferiore con le dita irrequiete. Teneva gli occhi fissi acutamente alla punta
della babbuccia di velluto rosso, che compariva e spariva dall'orlo della veste al lieve
dondolío della gamba accavalciata.
Era la prima volta che il marito con
quell'aria e quel tono le annunziava di voler parlare con lei. Non le aveva detto mai
nulla, prima, quando avrebbe avuto ragione di parlare. Che poteva piú dirle, ora?
Aveva notato che, da alcuni mesi,
era piú cupo e piú oppresso del solito; ma, certo, non per lei; forse, per difficoltà
parlamentari. Non aveva mai voluto saper di politica, lei: aveva sempre proibito
assolutamente agli amici che ne parlassero davanti a lei; non leggeva giornali e si
gloriava della sua ignoranza, si compiaceva delle risate con cui erano accolte certe sue
confessioni, come ad esempio quella di non sapere chi fossero i colleghi del marito. Che
ora egli volesse annunziarle, come aveva già fatto una volta, dopo il primo anno di
matrimonio, che aveva in animo di lasciare il "potere"? Oh, non le avrebbe fatto
piú né caldo né freddo, ormai.
Ma eccolo... Subito donna Giannetta
si sgruppò, si abbandonò con gli occhi chiusi su la spalliera della poltrona, volendo
fingere di dormire; come però il D'Atri aprí l'uscio, riaprí gli occhi con molle
stanchezza, quasi veramente avesse dormito.
"Domani, no?" gli domandò
di nuovo, con grazia languida. "Ho proprio sonno, Francesco! Temo di perdere il filo
del discorso."
"Non lo perderai,"
dissegli aggrondato, lisciandosi la barba con la mano tremolante. "Del resto,
se vuoi, il mio discorso potrà anche essere breve."
"Ti dimetti?" domandò
lei, placidamente.
"No..." disse.
"Perché?"
"Credevo..." sbadigliò
donna Giannetta, portandosi una mano alla bocca.
"No, qui, qui, di cose nostre,
della casa, devo parlarti" riprese egli. "Abbi un po' di pazienza. Sono
anchio tanto stanco! Se vuoi del resto che il mio discorso sia breve, non
offenderti."
Donna Giannetta sgranò gli occhi:
"Offendermi? perché?"
"Ma perché, se dev'esser
breve, sarà pure per conseguenza un po' rude, senza frasi," rispose egli. " Mi
lascerai dire; poi farai, spero, quel che ti dirò io, e basterà cosí. Dunque,
senti."
" Sento," sospirò ella,
richiudendo gli occhi.
Francesco D'Atri agitò piú volte
con stento due dita:
"Due sciagure ti sono
capitate," cominciò.
Donna Giannetta tornò a scuotersi.
"Due? a me"
"Una, l'hai proprio
voluta," seguitò egli. "Vecchia sciagura. Sono io."
"Oh," esclamò ella,
abbandonandosi di nuovo su la poltrona. "Mi hai spaventata!"
Sorridendo e intrecciando le mani
sul capo, soggiunse:
" Ma no... perché?"
Le larghe maniche dell'accappatojo
scivolarono e le scoprirono le braccia bellissime.
"Finora, no," riprese
egli. "Non te ne sei accorta bene, perché al fastidio che ho potuto recarti di
quando in quando..."
"Francesco, ho tanto
sonno," gemette lei.
"Permetti... permetti...
permetti..." dissegli con stizza. "Voglio dirti, che al fastidio hai
trovato un compenso assai largo nella mia... nella mia... dirò, filosofia..."
"Dimmi subito l'altra sciagura,
ti prego!" sospirò quasi nel sonno donna Giannetta.
Francesco D'Atri si mise a sedere.
veniva adesso il difficile del discorso, e voleva esprimersi quanto meno crudamente gli
fosse possibile. Poggiò i gomiti sui ginocchi, si prese la testa tra le mani per
concentrarsi meglio, e parlò, guardando verso terra.
"Eccomi. Aspetta. Io ho
dovuto... ho dovuto scontare... Ma già tu, in questo, non hai nessuna colpa. Era naturale
che, tra i diritti della tua gioventú e i tuoi doveri di moglie, tu seguissi piuttosto
quelli che questi. Avrei potuto farti osservare da un pezzo che tu stessa, accettando
spontaneamente, anzi con... con giubilo, un giorno, questi doveri verso un vecchio, avevi
implicitamente rinunciato a quei diritti; ma neanche di ciò ti fo colpa perché forse
anche tu, allora, ti facesti l'illusione che..."
A questo punto Francesco D'Atri
sollevò il capo e sinterruppe. Donna Giannetta dormiva, con un braccio ancora sul
capo e l'altro proteso verso di lui, come per implorar misericordia.
"Gianna!" chiamò, ma non
tanto forte, frenando la stizza e lo sdegno, come se al suo amor proprio dolesse che ella,
destandosi a quel richiamo, dovesse riconoscere d'aver ceduto cosí presto al sonno
mentr'egli le parlava di cosa tanto grave. Riabbassò il capo e terminò a voce alta il
discorso rimasto sospeso:
"Ti facesti l'illusione che...
sí, che avresti potuto facilmente adempiere ai tuoi doveri."
Donna Giannetta non si destò; anzi,
pian piano l'altro braccio le scivolò dal capo, le cadde in grembo con pesante abbandono.
Allora Francesco D'Atri sorse in piedi, fremente; fu lí lí per afferrarle quel braccio
nudo proteso e scoterglielo con estrema violenza, gridandole in faccia le ingiurie piú
crude. Ma la calma incosciente del sonno di lei, per quanto gli paresse spudorata e quasi
una sfida, lo trattenne. Sembrava che cosí giacente nel sonno, gli dicesse:
"Guardami come son giovane e come son bella! Che pretendi, tu vecchio, da me?".
Ah, che pretendeva! Ma di quella sua
bellezza che ne aveva fatto? e che ne stava facendo della sua gioventú? Scempio
vergognoso! Sí, dandosi a lui, a un vecchio, dapprima! Ma egli almeno, quei tesori li
avrebbe adorati con animo tremante e traboccante di gratitudine, come un premio divino!
Ella, invece, con obbrobrioso disprezzo, con incosciente crudeltà, li aveva violati! E
nulla piú poteva ormai rifar sacre quella bellezza e quella gioventú cosí indegnamente
profanate!
Scosse il capo e uscí pian piano
dalla camera.
Subito donna Giannetta balzò in
piedi, sbuffando.
Auff! sul serio, a quell'ora, una
spiegazione? E perché? Quando avrebbe dovuto parlare, zitto; ora che lei sannojava
soltanto, mortalmente, pretendeva una spiegazione? Eh via! Troppo tardi. Se lui stesso,
del resto, col suo contegno, tra le inevitabili relazioni della nuova vita in cui l'aveva
messa di fronte alle tentazioni a cui questa vita la esponeva, agli esempii che di
continuo le poneva sotto gli occhi, l'aveva indotta, certo senza volerlo, a stimar troppo
ingenuo, puerile e tale da attirar l'altrui derisione il bel sogno da lei accarezzato,
sposandolo?
Con la massima sincerità aveva
sognato di rallegrare col riso della sua giovinezza gli ultimi anni della vita eroica di
Francesco D'Atri, vecchio amico e fratello d'armi del padre.
Gli era forse sembrato che con
troppa avventatezza ella avesse preso la risoluzione di sposarlo, quella sera ormai
lontana, in cui, discorrendosi in casa del padre di donne, di vecchi, di matrimonii, a una
domanda di lei egli aveva risposto per ischerzo, sorridendo malinconicamente: "Eh,
bellina mia, se mi sposi tu..."?
Ma forsanche aveva sospettato
in lei l'ambizione di diventar moglie d'un ministro! Per il parentado, per le condizioni
della sua nascita, era quasi povera.
Avrebbe dovuto saper bene però che
in casa di lei, sempre, le risoluzioni piú serie erano state prese cosí; e che la
precipitazione nel prenderle non era stata mai a scàpito della fermezza nel mantenerle.
Suo padre, Emanuele Montalto, giovine, nella compagnia spensierata e gioconda di
tant'altri giovani dell'aristocrazia palermitana, quasi per una picca da un giorno
all'altro sera ribellato alla famiglia devota ai Borboni; e non solo per quella
ribellione aveva sofferto persecuzioni, prigionia, esilio dal governo oppressore, ma era
stato anche diseredato dal padre a beneficio del fratello maggiore e della sorella Teresa,
moglie di don Ippolito Laurentano e madre di Lando. E anche lei, già una volta, proprio
per una picca, da un giorno all'altro sera guastata col cugino Lando il quale,
vivendo a Palermo in casa dello zio principe di Montalto, veniva di furto ad amoreggiar
con lei, cuginetta eretica, figlia dello zio eretico, a cui quello (il
principe) come per un'elemosina della quale si dovesse vergognare, faceva passar sotto
mano un assegno appena appena decente. Da un giorno all'altro, tutto finito, per sempre:
non aveva piú voluto sapere del cugino e aveva indotto il padre a lasciar Palermo per
Roma, con la speranza che, allontanando il padre dall'isola, in una piú larga cerchia e
meno oppressa da pregiudizii, egli avesse alla fine condisceso a lasciarle prendere la via
per cui il sangue materno la chiamava. Sua madre era stata un'attrice piemontese, la
Berio, conosciuta dal padre a Torino, durante l'esilio, e sposata colà. Il sangue,
proprio il sangue, non l'esempio la chiamava, perché la mamma lei non l'aveva nemmeno
conosciuta: morta nel darla alla luce; e tutti, a Palermo, e piú di tutti il padre,
serano sempre guardati dal farle sapere ciò che la madre era stata. Ma una Montalto
sul palcosenico? Orrore! E anche lei, sí, doveva riconoscerlo, provava tra sé e sé un
certo segreto ribrezzo. Tuttavia, per lanciare una sfida al cugino Lando e per far onta a
quello zio che si vergognava finanche di mantenerli di nascosto, oh, non solo questo
ribrezzo avrebbe saputo vincere facilmente, ma qualunque altro! Lando, poco dopo, era
venuto anche lui a stabilirsi a Roma, e insieme col padre aveva cercato di ammansarla, di
rabbonirla. No, no e no. Già sera innamorata di quel suo sogno per Francesco
D'Atri, che, fin dal primo vederla, era rimasto come abbagliato di lei. Perché poi non
l'aveva ritenuta capace Francesco D'Atri di serbarsi fedele a quel sogno? come non aveva
compreso che un tal dubbio, un tal timore, manifestati con certi sguardi pietosi, con
certi mezzi sorrisi afflitti, l'avrebbero offesa acerbamente, al pari della libertà
concessa, anzi quasi imposta, non ostanti quel dubbio e quel timore? Dunque per lui una
sua caduta era inevitabile e ci si rassegnava? E se lui non credeva, qual merito, qual
premio, a non cadere? Per se stessa? Ah sí, per se stessa! Le era morto il padre, da
poco. Addolorata, amareggiata profondamente, eppur costretta a far buon viso a tutti,
sera veduta, pure in quei giorni di lutto, vigilata da Lando con occhi freddamente
sdegnosi. In un momento d'angoscia, di esasperazione, in un momento di vera pazzia,
perché lo sdegno di quegli occhi si ritorcesse anche contro di lui, gli sera
offerta. Probo, intemerato, incorruttibile, Lando l'aveva respinta. Oh, e allora, piú per
vendicarsi di lui che della triste e muta sconfidenza del vecchio marito, sera
buttata in braccio di Corrado Selmi, e giú, giú, giú... orribilmente, sí... come
un'ubriaca, come una pazza aveva sguazzato un anno nello scandalo.
Ma via! Non le aveva detto anche or
ora il vecchio, che non trovava nulla da ridire? Perché dunque avrebbe dovuto farsene un
rimorso? Oh, non si era davvero divertita in quell'anno della sua relazione col Selmi. Che
voleva da lei ora, il marito?
Donna Giannetta scrollò le spalle,
e subito vide quel suo gesto, come se l'avesse fatto un'altra davanti a lei. Aveva
spiccatissima la facoltà strana di osservarsi cosí, quasi da fuori anche nei momenti di
maggior concitazione, di vedersi muovere, di sentirsi parlare o ridere; e ne aveva quasi
sgomento, talvolta, e spesso fastidio; temeva che i suoi atteggiamenti, i suoi gesti, il
suono della sua voce, gli scatti dei suoi sorrisi potessero apparire studiati; soffriva di
quel raggelarsi improvviso dei moti piú spontanei e men pensati del suo essere, sorpresi
in sul nascere da lei sessa in sé. Si passò parecchie volte la mano su la fronte e
cercò d'affondarsi in un pensiero che le togliesse la visione di sé, cosí costernata.
Ecco. L'altra sciagura... Quale poteva essere l'altra sciagura di cui il marito avrebbe
voluto parlarle? Il volto le si fece scuro. Davanti agli occhi le sorse l'immagine del
Selmi, che, o sbigottito, per romper quella furia di scandalo, o per timore di perderla,
cominciando ella a essere stufa, o con la speranza di legarla a sé maggiormente, o forse
anche per vendetta, non aveva saputo impedire che divenisse madre. Sí, non c'era dubbio:
l'altra sciagura, a cui il vecchio alludeva, era la figlia, quella bambina...
"Due sciagure ti sono
capitate... Una, l'hai proprio voluta."
L'altra, dunque, no. E aveva
ragione: quest'altra sciagura, non l'aveva proprio voluta.
Ma se egli sapeva tutto, e sapeva
che lei non poteva sentire alcun affetto per quella creatura che le ricordava l'amante
odiato, perché poc'anzi sera fatto trovare presso quella bambina piangente, con un
campanello in mano? Perché tanta ostentazione di tenerezza per quella creatura? Perché
aveva voluto accomunarla a sé, come per mettersi con essa di fronte a lei, dicendo che
entrambi - lui e la bambina - rappresentavano per lei due sciagure? Che voleva concludere?
Donna Giannetta si pentí d'aver
finto di dormire. Rimase ancora un pezzo a riflettere; poi uscì dalla camera in punta di
piedi e, al bujo, trattenendo il respiro, si recò fino all'uscio della camera del marito.
Origliò, poi si chinò a guardare attraverso il buco della serratura.
Francesco D'Atri, seduto lí nella
sua camera, come dianzi nella camera di lei, coi gomiti sui ginocchi e la testa tra le
mani, piangeva.
Donna Giannetta si sentì fendere la
schiena da un brivido e si ritrasse sconvolta, in preda a uno stupore che era anche
sgomento.
"Piange..."
Restò lí, tremante, senza riuscire
a formare un pensiero. Poi, improvvisamente, temendo chegli aprisse l'uscio e la
scoprisse lí in agguato, si mosse per rientrare nella sua camera. Ma, passando come una
ladra davanti all'uscio della camera ove dormiva la bambina, si fermò.
Anche la bambina, qua, piangeva!
Tutt'e due...
Inconsciamente, quasi per trovare un
rifugio che la nascondesse a se medesima in quel momento, schiuse quell'uscio, entrò.
La bàlia, seduta in mezzo al letto,
smaniava, disperata. La bambina, dopo un breve sonno inquieto, aveva ripreso a contorcersi
per le doglie e a vagire cosí.
Donna Giannetta non intese bene
dapprima ciò che la bàlia diceva; allungò una mano su la bambina trangosciata e subito
la ritrasse, quasi per ribrezzo. Com'era fredda! Ma bisognava farla tacere... Quel pianto
era insopportabile... Non voleva latte? Era fasciata forse troppo stretta? Volle
sfasciarla lei, con le sue mani. Oh che gambette misere, paonazze... e come tremavano,
contratte dallo spasimo... Si provò a tenergliele; ma erano gelate! Era tutta gelata,
quella povera piccina... Fosse stato almeno un maschio; ma no, ecco, femminuccia... Con
che ravvolgerla? Ecco là, la copertina della culla... Sú, sú. Donna Giannetta se la
prese in braccio, se la strinse contro il seno, forte e delicatamente, e si mise a
passeggiare per la camera, cullando la figlioletta col dondolio della persona, come non
aveva mai fatto. E stupì di saperlo fare. Sentiva sul seno le contrazioni del piccolo
ventre addogliato e quasi il gorgoglio del pianto dentro quel corpicciolo tenero e freddo.
Quasi senza volerlo, allora, si mise a piangere anche lei, non per pietà della piccina,
no... o forsanche, sí, perché la vedeva soffrire... ma piangeva anche perché...
perché non lo sapeva neppur lei.
A poco a poco la piccina, come se
sentisse il calore dell'amor materno che per la prima volta la confortava, si quietò di
nuovo. Donna Giannetta era già stanca, tanto stanca, e pur non di meno seguitò ancora un
pezzo a passeggiare e a batter lievemente, a ogni passo, una mano sulle spallucce della
piccina. Poi si fermò; con la massima cautela, per non farla svegliare, se la tolse dal
seno; si mise a sedere e se la adagiò su le ginocchia; fe' cenno alla bàlia di
rimanersene a letto e, al lume del lampadino da notte, si diede a contemplare la
figliuola. Vide quella creaturina, tranquilla ora per opera sua, lí in grembo a lei, come
non l'aveva mai veduta. Forse perché non aveva mai fatto nulla per lei, povera piccina,
cresciuta finora senz'affetto, senza cure... E che colpa aveva lei? Strizzò gli occhi,
come per ricacciare, indietro un sentimento odioso... Ma no! Che colpa aveva la piccina
d'esser nata?
E a un tratto, guardando cosí la
figlia, comprese quel che il marito voleva dirle. Egli era e si sentiva vecchio, e sapeva
di non poter riempire la vita di lei; ma ella aveva una figlia ora; e una figlia può e
deve riempir la vita d'una madre. Egli poteva fare uno scandalo, e non l'aveva fatto; non
solo, ma aveva dato anzi a quella bambina, che non era sua, il prestigio del nome, del
grado, e anche... sí, anche la sua tenerezza. Orbene, lei, madre, poteva dar bene alla
propria figlia l'affetto, le cure, l'esempio d'una condotta illibata.
Ecco, sí, questo, questo senza
dubbio, egli voleva dirle. E lei aveva fatto finta di dormire...
A lungo donna Giannetta rimase lí,
quella notte, a pensare, con la bambina in grembo. Pensò con amarissimo rimpianto al suo
sogno giovanile; e, con nausea, a quel che gli uomini le avevano offerto in cambio di quel
sogno... Stupide finzioni, volgarità schifose... Poi, a poco a poco, cedette al sonno.
Prima dell'alba, Francesco D'Atri,
attraversando il corridojo per recarsi allo studio, vide aperto l'uscio della camera della
bàlia e sporse il capo a guardare. Rimase stupito nel trovare la moglie lí addormentata
su una poltrona, con la bambina in braccio. Le saccostò pian piano per contemplarla
e sentí lo stupore sciogliersi, con un tremore per le vene, in una tenerezza infinita. Si
chinò e le sfiorò con un bacio la fronte.
Donna Giannetta si destò; provò
anche lei stupore, dapprima, nel ritrovarsi lí, con la piccina su le ginocchia; poi
sorrise - vide quel suo sorriso - e, tendendo una mano al marito e guardandolo con gli
occhi pieni d'una gioja nuova, gli domandò:
"Va bene cosí?"
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998