Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
VIII
Nella casa di donna Caterina Auriti
Laurentano, il giorno delle elezioni, erano raccolti intorno a Roberto i pochi amici
rimasti fedeli, riveduti, in quei giorni, mutati come lui dal tempo e dalle vicende della
vita. Per un momento, negli occhi di ciascuno, abbracciando l'amico, era guizzato lo
sguardo della gioventú, di quei giorni lontani, ignari di ciò che la sorte riserbava; e,
subito dopo fra un lieve tentennío del capo, quegli occhi seran velati di
commozione mentre le labbra si schiudevano a uno squallido sorriso. "Chi ci avrebbe
detto," esprimevano quello sguardo velato e quel sorriso "chi ci avrebbe detto
allora, che un giorno ci saremmo ritrovati cosí? che tante cose avremmo perdute, che
erano tutta la nostra vita allora, e che ci sarebbe parso impossibile perdere? Eppure le
abbiamo perdute; e la vita ci è rimasta cosí: questa!". Piú penosa ancora era la
vista di qualcuno che non sera accorto, o fingeva di non accorgersi tuttavia delle
sue perdite, e lo mostrava nella cura della propria persona rinvecchignita, da cui
spiravano, compassionevolmente affievolite, le arie e le maniere d'un'altra età. Ciascuno
sera adattato alla meglio alla propria sorte, sera fatto un covo, uno stato.
Sebastiano Ceràulo, avvocato di scarsi studii, fervido improvvisatore di poesie
patriottiche negli anni della Rivoluzione, giovine allora animoso, impetuoso, con una
selva di capelli scarmigliati, era entrato per favore come segretario negli ufficii della
Provincia, e si raffilava ora sul cranio con miserevole studio i quattro lunghi peli
incerottati che gli erano rimasti; sera ingrassato enormemente; aveva preso moglie;
ne aveva avuto cinque figliole, ora tutte smaniose di trovar marito. Un altro, Marco Sala,
condannato a morte dal governo borbonico, e pur non di meno tante volte dall'esilio venuto
in Sicilia travestito da frate per diffondervi segretamente i proclami del Mazzini,
sera dato prima al commercio dello zolfo; aveva avuto fortuna per alcuni anni; poi
un tracollo; e per parecchio tempo aveva mantenuto col giuoco la famiglia; alla fine aveva
avuto il posto di magazziniere dei tabacchi. Rosario Trigòna, che nella giornata del
maggio del 1860, a Girgenti, mentre Garibaldi combatteva a Calatafimi, era uscito solo,
pazzescamente, con altri quattro compagni, la bandiera tricolore in una mano e uno
sciabolone nell'altra incontro ai tre mila uomini del presidio borbonico, e che,
inseguito, tempestato di fucilate, era scampato per miracolo e aveva raggiunto a piedi
Garibaldi vittorioso, correndo di giorno e di notte e sfuggendo all'esercito regio che
sinternava nella Sicilia in cerca del Filibustiere, il quale era intanto a
Gibilrossa sopra Palermo; Rosario Trigòna, disfatto adesso dalla nefrite, gonfio, calvo,
sdentato e quasi cieco, sovraccarico anchesso di famiglia, vivucchiava miseramente
col magro stipendio di vice-segretario alla Camera di Commercio. E Mattia Gangi, che aveva
buttato la tonaca alle ortiche per prender parte alla Rivoluzione, ora, asmatico,
rabbioso, con la barba, i capelli e le foltissime sopracciglia ritinti d'un color rosso di
carota, insegnava nel ginnasio inferiore alauda est laeta, e "lieta un
corno!" soggiungeva ai ragazzi con tanto d'occhi sbarrati: "ma che lieta! non ci
credete, canta perché ha fame, canta per chiamare! lieta un corno!" Contrastava con
questi Filippo Noto, alto, mago, appassito, ma ancora biondiccio e azzimato. Prima del
60 sera battuto in duello con un ufficialetto borbonico per motivo di donne ed
era stato perseguitato; quell'avventura amorosa era divenuta per lui un precedente
patriottico; ma simpacciava poco di politica: studiando molto, era riuscito a
tenersi a galla, a rinnovarsi coi tempi, pur rimanendo malva, conservatore; passava
per uno degli avvocati piú dotti del foro siciliano, ed era spesso chiamato a difendere
le piú importanti cause civili anche a Palermo, a Messina, a Catania.
Questi cinque amici e il canonico Agrò si
sforzavano di tener desta la conversazione, parlando di cose aliene, di avvenimenti
lontani, ricordando aneddoti che promovevano qualche riso stentato; tanto per impedire che
col silenzio il peso della sconfitta, quantunque prevista, gravasse maggiormente su gli
animi oppressi. Ma veramente, a poco a poco, dopo la prima scossa nel riveder l'amico e
ora per la commozione crescente nel rievocare gli antichi ricordi della gioventú,
cominciava a scomporsi in loro la coscienza presente, e con una specie di turbamento
segreto che li inteneriva avvertivano in sé la sopravvivenza di loro stessi quali erano
stati tanti e tanti anni addietro, con quegli stessi pensieri e sentimenti che già da un
lungo oblío credevano oscurati, cancellati, spenti. Si dimostrava vivo in quel momento in
ciascuno di loro un altro essere insospettato, quello che ognun d'essi era stato
trent'anni fa, tal quale; ma cosí vivo, cosí presente che, nel guardarsi, provavano una
strana impressione, triste e ridicola insieme, dei loro aspetti cangiati, che quasi quasi
a loro medesimi non sembravano veri. Di tratto in tratto, però, entrava nel salotto
Antonio Del Re, che li vedeva vecchi com'erano, e che, stando un pezzo a udire i loro
discorsi, provava una tristezza indefinita, la tristezza che si prova nel veder nei
vecchi, che per un tratto si dimenticano d'esser tali, ancora verdi certe passioni che
hanno radici in un terreno oltrepassato, che noi ignoriamo.
"Ci eravamo trattenuti a San
Gerlando," raccontava Marco Sala, "a giocare fin quasi a mezzanotte in casa di
Giacinto Lumía, buon'anima."
"Povero Giacinto!" sospirò il
Trigòna, scrollando il capo.
"C'era con noi Vincenzo Guarnotta di
Siculiana," seguitò il Sala.
"Ah, Vincenzo!" disse Roberto
Auriti. "Che ne è?"
" Morto," rispose il Sala.
" Anche lui?"
"Eh, sarà nove o dieci anni!"
Con quel suo sorriso perenne, piú degli
occhi che della bocca... occhi chiari, di mare, col nudo faccione di terracotta... "Ah!
sti cazzi chi mi pigli pi fissa?" - scomparso anche lui.
"Era venuto a Girgenti per affari, e
alloggiava, come usava allora che non c'erano alberghi, nel convento di Sant'Anna. Adesso,
neanche il convento c'è piú! Nottata da lupi: vento, lampi, tuoni e acqua, acqua che il
tetto pareva ne dovesse subissare. Tanto che Giacinto Lumía alla fine propose a tutti di
rimanere a dormire in casa sua. Ci saremmo accomodati alla meglio. Gli altri, scapoli, e
il Guarnotta, forestiere, accettarono l'invito; io, non ostanti le preghiere insistenti,
volli andarmene per non tenere in pensiero mia madre, sant'anima, e mia moglie. Prima
d'andarmene, il Guarnotta, sapendo che per arrivare a casa dovevo passare per lo stretto
di Sant'Anna, mi pregò di bussare alla porta del convento per avvertire il frate
portinajo chegli quella notte avrebbe dormito fuori. Glielo promisi e andai. Vi
assicuro che, appena su la via, mi pentii di non avere accettato l'ospitalità del Lumía.
Che vento! portava via! frustava la pioggia, densa come piombo; e freddo e bujo, un bujo
che saffettava, dopo gli sprazzi paurosi dei lampi. Tuttavia, passando per lo
stretto di Sant'Anna, mi ricordai di quel che m'aveva detto il Guarnotta e mi fermai a
picchiare alla porta del convento. Picchia e ripicchia: niente! non mi sentiva nessuno!
Per miracolo non buttai la porta a terra. Stavo per andarmene, su le furie, quando sentii
schiudere una finestra ferrata in alto; e un vocione "Chi è là"
"Sala," dico, "Marco Sala!" "Va bene!" risponde
allora il vocione di lassú; e subito dopo sento sbattere di nuovo e sprangare la
finestra. Restai come un allocco. Non mi avevano dato il tempo di parlare, e andava bene?
Mi scrollai dalla rabbia, pensando che per far piacere al Guarnotta che se ne stava al
coperto, io, col rischio di prendere un malanno, per giunta ero passato forse per matto o
per ubriaco. Chi poteva girare a quell'ora, con quel tempo? Fatti pochi passi, sento per
lo Stretto un rintocco di campana, - don - lento, che mi fece sobbalzare; e il
vento propagò il suono, lugubremente, nella notte; poi, di nuovo, don, don,
altri rintocchi; saranno stati quindici; non ci badai piú. Arrivato a casa, mi strappai
gli abiti, che mi serano incollati addosso; mi asciugai ben bene; mi cacciai a
letto, e buona notte. La mattina dopo m'alzo presto, com'è mia abitudine, vado per aprire
la porta, e indovinate chi mi trovo davanti? I portantini col cataletto. Appena mi vedono,
levano le braccia, dànno un balzo indietro; rimangono basiti: "Don Marco! Ma come? Voscenza
non è morto?" "Figliacci di cane!" grido io, levando il bastone. E quelli:
"Sissignore... A Sant'Anna, stanotte, sono venuti ad avvertire che Voscenza
era morto!" "Quella campana, capite? aveva sonato a morto per me. Ed ero andato
io stesso ad annunziare la mia morte."
Benché la storiella non fosse allegra, le
ultime parole del Sala furono accolte dalle risa degli amici.
"Ridete." dissegli.
"Eppure chi sa se non sono morto davvero, io, allora, cari miei! Ma sí! Posso dire
che quella fu l'ultima nottata allegra della mia gioventú! Forse, ripensandoci,
l'impressione di quei rintocchi mi sè fissata, mal augurosa; ma mi sembra che
proprio da allora la vita mi si sia chiusa tra un diluvio di guaj, sia divenuta per me
come era lo stretto di Sant'Anna in quella notte da lupi, e che quei don don della
campana a morto mi abbiano seguito per tutto il cammino..."
Rientrò, in quel punto, Antonio Del Re
con un nuovo telegramma. Ne erano già arrivati parecchi dalle varie sezioni elettorali
del collegio. Il canonico Agrò lo aprí, lo lesse con gli occhi soltanto e lo buttò in
un canto, su la sedia presso al canapè. Né Roberto né gli altri si curarono di sapere
da che sezione venisse, che esito recasse. Il gesto e il silenzio dell'Agrò avevano reso
inutile ogni domanda. La sconfitta del momento, che toccava all'Auriti, rendeva piú
evidente quella, ben piú grave e irrimediabile, che a ciascuno era toccata dal tempo e
dalla vita. E questa sconfitta pareva avesse la propria immagine scolpita in donna
Caterina Auriti Laurentano, taciturna e scura. Di tratto in tratto gli amici e Roberto le
volgevano uno sguardo fuggevole, come a uno spettro del tempo, di cui essi erano i
superstiti vani. Altre voci erano nel nuovo tempo, che non trovavano eco negli animi loro;
altri pensieri che non entravano nelle loro menti; altre energie, altri ideali, innanzi a
cui i loro animi si chiudevano ostili. E la prova era patente e cruda in quel mucchio di
telegrammi su la sedia. Era sorta improvvisamente, negli ultimi giorni, ma certo preparata
in segreto da lunga mano, la candidatura d'un tale Zappalà di Grotte, perito minerario:
candidatura esplicitamente dichiarata come di protesta e d'affermazione dei lavoratori
delle zolfare e delle campagne della provincia, già raccolti in fasci. Roberto Auriti era
passato in terza linea. In quasi tutte le sezioni quello Zappalà aveva raccolto piú voti
di lui, mettendolo cosí fuori di combattimento, d'un tratto spiccio e sprezzante, come si
butterebbe da canto con un piede uno straccio inutile, ingombro piú che inciampo. A un
certo punto, quando arrivò il telegramma da Grotte chera uno dei maggiori centri
zolfiferi della provincia con l'esito della votazione quasi unanime per lo Zappalà, parve
che costui dovesse finanche contender seriamente la vittoria al Capolino ed entrare in
ballottaggio, non ostante il suffragio entusiastico che il campione clericale aveva
raccolto a Girgenti, in compenso della grave ferita riportata nel duello. Il Trigòna, per
coprire con pietoso inganno la verità, voleva attribuire principalmente la sconfitta
all'esito di quel duello inconsulto, alle maniere troppo violente del Verònica,
forestiere, e al contegno arrogante d'uno dei suoi padrini, quel signor tale, spadaccino,
che aveva urtato e indignato veramente la cittadinanza girgentana, non ostante che il
Selmi, già partito per il suo collegio, avesse fatto di tutto per attenuare
l'indignazione. Il canonico Agrò approvò col capo, in silenzio. Non sapeva perdonare al
Verònica di avergli mandato a monte, con quella indegna piazzata, il piano strategico
meditato e disegnato da lui con astuzia cosí sottile. E quell'altro cavaliere Giovan
Battista Mattina! Mandato a Grotte a sostenervi la candidatura dell'Auriti, aveva fatto la
parte di Giuda, mettendosi d'accordo all'ultimo momento coi popolari.
"Ma chi è costui?" domandò col
solito piglio feroce Mattia Gangi. "Chi rappresenta? come vive? che fa? da qual
chiavica è scappato fuori? Lindo, attillato, con quell'aria di principe regnante..."
Il canonico Agrò scosse leggermente la
testa con un sogghignetto su le labbra, poi disse:
"Aquiloni, cari amici, aquiloni! Lui,
il Verònica e quanti altri mai! Aquiloni... Li vedete in alto, ai sette cieli, rimanete a
bocca aperta a mirarli; e chi sa intanto qual è la mano che dà loro il filo! Può esser
quella di qualche mala femmina; o il filo può venire dalla Questura, o da qualche bisca
notturna. . Nessuno può saperlo! L'aquilone intanto è là, piglia il vento, lo segue e
par che lo domini. Di tratto in tratto, uno svarione, una vertigine, l'accenno d'un crollo
a capofitto. Ma la mano ignota, sotto, subito lo rialza con lievi scossettine sapienti o
con larghe stratte energiche e lo rimette a vento e torna a dar filo e filo e filo. Gli
aquiloni, cari miei... Quanti ce n'è! E hanno tutti la coda, et in cauda venenum...
Sei teste si scossero per approvare
silenziosamente e con profonda amarezza l'immaginoso paragone del canonico Agrò, che ne
rimase egli stesso un pezzetto come abbagliato, e trasse un respiro di sollievo, quasi con
esso si fosse scrollato dall'anima il peso della sconfitta.
Roberto Auriti soffriva maggiormente per
quell'ostinato, cupo silenzio della madre. Ella aveva parlato molto prima, contro il suo
solito, per dissuaderlo dall'impresa; e gravi erano state allora le sue parole; piú
grave, adesso, era il suo silenzio. Voleva che soltanto i fatti parlassero ora,
crudamente, a conferma di quanto aveva detto. Se ne irritò, e disse:
"Del resto, amici miei, aquiloni o
serpi... lasciamoli andare! A parlarne, parrebbe che io, venendo, mi fossi fatta qualche
illusione. Nessuna, lo sapete. Mi ha mandato qua Uno, a cui non potevo dir di no: mi
sarebbe parso di disertare."
"Povero Cristo!" esclamò Mattia
Gangi. "Per farti mettere in croce sei venuto!"
"In croce no, veramente,"
sorrise Roberto. "Perché la mia offerta, col valore che poteva avere nella presente
lotta, venisse respinta dai miei concittadini- e questa risposta data sul mio nome al
Governo, facesse pensare che ormai basta, qua si vuol altro!"
"Zappalà, Zappalà si vuole!"
sghignò allora Mattia Gangi. "Quanto mi piacerebbe che fosse eletto Zappalàl
"Mamma," soggiunse piano
Roberto, toccandole un braccio, con un sorriso d'amara rassegnazione, "asini
vecchi..."
La madre sporse il labbro e aggrottò le
ciglia mentre gli altri gridavano, approvando l'augurio di Mattia Gangi, che fosse eletto
Zappalà. Un Zappalà solo? No! Cinquecentootto Zappalà, uno per ogni collegio della
penisola! Che sedute allora alla Camera! Subito, abolizione di tutte le scuole! abolizione
di tutte le tasse! abolizione dell'esercito e della polizia! della polizia e della
pulizia! spianare i confini, e tutti fratelli! già, già, decapitare le montagne, ridurle
tutte a colline d'uguale altezza! E Mattia Gangi, sorto in piedi, si mise a declamare;
Al ronzio di quella lira
Ci uniremo, gira gira,
Tutti in un gomitolo.
Varietà d'usi e di clima
Le son fisime di prima;
È mutata l'aria.
I deserti, i monti, i mari,
Son confini da lunari,
Sogni di geografi...
... E tu pur chetati, o Musa,
Che mi secchi con la scusa
Dell'amor di patria.
Son figliuol dell'universo,
E mi sembra tempo perso
Scriver per l'Italia.
Seran levati tutti in piedi,
tranne Pompeo Agrò, e applaudivano calorosamente.
"Signori miei, signori miei,"
disse allora Filippo Noto, tirandosi con le dita adunche i polsini di sotto le maniche,
"siamo giusti, signori miei; non pigliamocela con loro, perché il torto è tutto
nostro! di noi cristianelli! Quando noi sentiamo dire: "Vogliamo che a ciasuno si
dia secondo le sue opere! Vogliamo che la personalità umana possa elevarsi sopra la vita
materiale! Vogliamo che ciascuno trovi pane e lavoro!" "noi borghesucci
ignoranti, noi cristianelli pietosi, siamo i primi ad applaudire...
"Sfido!" gridò il Ceràulo.
"Nei voti per la felicità universale, sfido! tutti gli animi onesti si trovano
d'accordo.
"E i socialisti, ahm! aprono la
bocca, e voi ci cascate dentro," rimbeccò pronto Filippo Noto." Fanno
intravedere un ideale d'umanità e di giustizia che a nessuno può dispiacere, di cui
tutti dovrebbero esser contenti; e cosí fanno proseliti alla loro causa tra quanti non
sanno distinguere le ragioni astratte da quelle pratiche della vita sociale, caro
Ceràulo! Ingenui che non si domandano neppure se i nuovi metodi non siano tali da render
mille volte maggiori le ingiustizie e la tristezza della nostra valle di lacrime; dico
bene, Monsignore?"
Pompeo Agrò chinò piú volte il capo in
segno di approvazione.
"Il pericolo vero, signori miei, è
qua," seguitò con piú calore il Noto: "nella persuasione in cui siamo venuti
noi cristianelli, che il movimento del cosí detto quarto stato sia inevitabile,
irresistibile..."
"È, è, è, purtroppo!" lo
interruppe di nuovo il Ceràulo.
"Ma nient'affatto! nientissimo
affatto! Fandonie! Fandonie!" gridò Filippo Noto. "Alla teoria dei socialisti
manca l'appoggio della scienza, caro mio, della scienza, della logica, della morale e
anche della civiltà, e non può reggersi, e cadrà per forza come un sogno pazzo, come
uno sproloquio da ubriachi! Vorrei dimostrartelo, vorrei dimostrarlo a tutti, e prima agli
uomini di governo che ci fanno assistere allo spettacolo miserando dello Stato che si
piega, dello Stato che si smarrisce e simpaccia di cose di cui non dovrebbe
impacciarsi!"
Si calmò alquanto, protese le mani e
riprese con altro tono di voce:
"Lasciatemi dire, in poche parole.
Tutto il procedimento è sbagliato, dall'a alla z Guardate! Il provvedere ai
vecchi, alle donne, ai fanciulli abbandonati, agli infermi, può esser cosa, realmente,
d'interesse pubblico."
"Interesse d'umanità," disse il
Trigòna.
"Benissimo! D'accordo!" approvò
il Noto. "Ma dal soccorrere la miseria presente per mezzo d'asili, di dormitorii, di
cucine economiche, è stato facile, inavvertito il passo, signori miei, a salvaguardare il
proletariato..."
"Il cosí detto proletariato,"
masticò tra i denti il Gangi.
"...dalla miseria anche
possibile," seguitò il Noto, "mercé le assicurazioni obbligatorie contro
glinfortunii del lavoro e contro la futura inabilità dell'operajo per età o per
malattia. Ora non vi sembra facile, cari miei, dati questi primi passi, il darne altri che
ci conducano sempre piú verso quello Stato-Provvidenza tanto biasimato dai piú illustri
scrittori positivi? Perché, quando sia entrato nella coscienza pubblica il concetto che
la comunità deve occuparsi di coloro che per inabilità fisica non possono lavorare, è
facile saltare il fosso che ci separa dalla regione vera del socialismo, estendendo il
principio anche agli uomini validi e disoccupati. E valga il vero! Se questi, non ostante
la buona volontà, non trovano lavoro, o se le loro fatiche non sono sufficientemente
retribuite, sono forse meno da compiangere di coloro che, per un difetto fisico, non
possono lavorare? L'effetto è il medesimo, signori miei: la fame non meritata! E con la
proclamazione del diritto al lavoro, si può vedere da tutti dove si andrà a finire; si
è già veduto, del resto, in Francia, nel 1848..."
Un'improvvisa esclamazione di sdegno del
canonico Agrò interruppe a questo punto il discorso di Filippo Noto, che cominciava ad
assumere proporzioni e tono di vera concione.
Era arrivata da Comitini, paese nativo
dell'Agrò, una lettera che denunziava un altro tradimento. Il figlio di Rosario Trigòna
sera venduto colà al partito Capolino, spargendo la voce che Roberto Auriti si
ritirava dalla lotta e pregava gli amici di votare per il candidato clericale contro il
socialista Zappalà. L'Agrò non si poté frenare: senz'alcuna pietà per il povero padre
mezzo cieco lí presente, ebbe parole di fuoco per quel tristo che gli faceva patire un
cosí grave smacco là, nella sua stessa cittadella. Roberto Auriti tentò piú volte di
interromperlo, saffrettò poi a consolare l'amico, il quale dapprima sera
levato in piedi inorridito, lí per lí per lanciarsi su quella lettera e su l'Agrò, poi
sera lasciato cader di peso su la seggiola, rompendo in singhiozzi, col volto tra le
mani.
"Ma sarà una calunnia, Rosario...
una calunnia, vedrai! Tuo figlio avrà agito in buona fede, credendo di interpretare il
mio pensiero... Difatti, tra i due, tra il Capolino e quello Zappalà, via! meglio che i
voti siano andati al Capolino... Ha stimato insostenibile da parte mia la lotta...
e..."
"No... no..." muggiva tra i
singhiozzi Rosario Trigòna, inconsolabile. "Infame! Infame!"
Per fortuna, sopravvenne Mauro Mortara,
che da Valsanía sera recato a Colimbètra per accordarsi col principe circa alla
sua andata a Roma. Non sapeva nulla delle elezioni. Accolto con festa da Marco Sala, dal
Ceràulo, dal Gangi, i quali non lo vedevano da tanto tempo, scostò tutti con le braccia
e quasi singinocchiò ai piedi di donna Caterina, prendendole una mano e
baciandogliela piú e piú volte; abbracciò poi Roberto e si chinò a baciarlo al suo
solito in petto, sul cuore.
"A Roma!" disse. "Sapete?
Vengo a Roma!"
Ma il suo giubilo non trovò eco: tutti
erano ancora sconcertati e commossi dal pianto del Trigòna."
"Oh, don Rosario!" esclamò
Mauro. "E che avete? Perché piangete?"
Guardò tutti in giro e appuntò gli occhi
sul canonico Agrò che appariva il piú scuro e il piú turbato.
"Niente," disse subito Roberto.
"Una notizia, senza dubbio, infondata. Signori miei, per carità! Soffro... soffro
della vostra pena... molto piú che per me. Volete farmi contento? Non parliamo piú di
nulla. Quel che è stato è stato. Basta! Voi sapete quanto mi siete cari e per qual
ragione. Io non vi ringrazio di quel che avete fatto per me in questa occasione, perché
so che, se sono cangiati i tempi, non è cangiato il nostro cuore, e voi dunque non
potevate non fare per me quel che avete fatto. Il torto è nostro, veramente, cari miei! E
lo sappiamo tutti, da un pezzo, chi per un verso, chi per un altro. Dunque... dunque
basta: perché lagnarci adesso? E stata un'altra prova, di cui io, per conto mio, non
sentivo alcun bisogno... Basta!"
Non ne poteva proprio piú Roberto Auriti.
La vista di quegli amici e il silenzio della madre, il pianto del Trigòna, la stizza
acerba dell'Agrò, la frigida saccenteria del Noto gli eran divenuti insopportabili. Gli
premeva di scrivere a Roma, di dar subito notizia della lotta perduta alla sua donna, a
colei che da tanto tempo gli aveva addormentato aspirazioni e sdegni, e nella quale
affogato ormai nell'incuria di tutto ciò che non si riferisse direttamente e minutamente
alla sua persona, neghittoso e dimentico, saziava soltanto la fame bruta del senso. Di
fronte alla nobiltà della madre, alla purezza della sorella, si sentiva quasi
istintivamente costretto a nascondere anche a se stesso la sua schiavitú d'affetto per
quella donna che conosceva tutte le sue miserie; e le scriveva di notte. Falsando i
proprii sentimenti, per stare in pace con lei e averla docile e pronta alle sue voglie,
non aveva osato confessarle prima di partire la vera ragione per cui sesponeva a
quella lotta: le aveva dato a intendere chera per migliorare la sua condizione,
ponendosi da deputato piú in vista.
E nelle prime lettere le aveva lasciato
sperare non improbabile la vittoria; poi man mano l'aveva messa in dubbio; le aveva
scritto infine che gli premeva ormai soltanto di ritornar presto a lei. Andava lui stesso
a impostare quelle lettere, mentre per tutte le altre si serviva del nipote. Eppure sapeva
che questi, il giorno appresso, sarebbe partito con lui per intraprendere a Roma gli
studii universitarii e avrebbe abitato in casa sua e veduto, dunque, e saputo tutto. Ma
voleva, finché era lí, serbare il segreto. Quel giovanotto ispido e angoloso non era
fatto certamente per attirar la confidenza di alcuno. E Roberto soffriva al pensiero di
condurlo con sé, di fargli conoscere e di far quindi conoscere per mezzo di lui alla
madre e alla sorella la vita chegli viveva a Roma. Ma come esimersi?
Donna Caterina, intanto, domandava a Mauro
notizie del fratello Cosmo, "di quel matto", e di donna Sara Alàimo.
"Non me ne parlate, per
carità!" esclamò Mauro. "Vado a Roma, vi dico, e non so altro, non voglio
saper altro in questo momento!"
"Caro Mauro mio,"gli rispose
allora donna Caterina, sorridendo amaramente, "se è cosí, chiudi gli occhi, túrati
bene gli orecchi e ritòrnatene subito subito in campagna: segui il consiglio mio!"
Quando dalla Badia Grande gli amici
scesero alla via Atenèa, si trovarono presi in mezzo a una fiumana di popolo che esaltava
la proclamazione d'Ignazio Capolino.
La carrozza del canonico Agrò si dovette
fermare; il vecchio servo-cocchiere dalle zampe sbieche faceva schioccar la frusta: "Ohi,
favorì! Ohi, favorì!" Poteva mai figurarsi che si dovesse mancar di rispetto al
suo padrone, o che questi dovesse aver paura? E, tra il clamore e la confusione, non udiva
la voce del Canonico che gli gridava: "Indietro, Cola! indietro! Per la via del
Purgatorio!". Un fischio, e due, e tre... Figli di cane! Ma Capolino era ancora a
letto, convalescente nella villa del principe di Laurentano a Colimbètra, e la
dimostrazione di giubilo, per darsi uno sfogo diretto, fu proprio tentata di cangiarsi lí
per lí in dimostrazione di protesta contro il canonico Agrò. Per fortuna, i caporioni
riuscirono a stornar la bufera che stava per rovesciarsi sulla carrozza mal capitata, non
per riguardo a Pompeo Agrò che non ne meritava alcuno, ma all'abito che indossava
indegnamente. Qualche fischio sí, passando, non sarebbe stato sprecato; poi via, via,
alla Passeggiata, sotto la villa di Flaminio Salvo.
"Viva Ignazio Capolinòòò!"
"Vivààà!
"Viva il nostro deputatòòò!"
"Vivààà!"
Nel bujo della sera, sotto il pallore dei
lampioni, per l'angusta via passò tumultuando quel torrente di popolo, che si lasciava
trascinare senza il minimo entusiasmo, come un armento belante, dalla volontà di due o
tre interessati. La villa di Flaminio Salvo era illuminata tutta, splendidamente, perché
si vedesse come segno di trionfo dalla lontana Colimbètra. Vi erano raccolti i
maggiorenti del partito che si affacciarono tutti al gran balcone dalla balaustrata di
marmo, appena i clamori della dimostrazione si fecero sentire giú per il viale.
"Viva Flaminio Salvòòo!"
"Vivààà!"
"Viva Ignazio Capolinòòò!"
" Vivààà!"
Salí alla villa una commissione di
dimostranti, che fu accolta dal Salvo con quel solito sorriso freddo, a cui lo sguardo
lento degli occhi sotto le grosse pàlpebre dava un'espressione di lieve ironia. E
veramente quei quindici o sedici cittadini accaldati, usciti or ora dalla moltitudine
anonima, che giú nel bujo del viale aveva tanta imponenza, assumendo lí ciascuno il
proprio nome, il proprio aspetto, timidi, impacciati, smarriti, ossequiosi, facevano una
ben misera figura, tra gli splendori del magnifico salone. Flaminio Salvo si dichiarò
grato alla cittadinanza di quella spontanea affermazione del sentimento popolare; diede
notizie della salute dell'on. Capolino e, in presenza della commissione stessa, pregò
l'ingegnere Aurelio Costa di recarsi sul momento alla villa del principe, a Colimbètra,
per darvi l'annunzio della proclamazione e di quella manifestazione di giubilo di tutto il
popolo di Girgenti. Uno dei quindici, allora, saffacciò al balcone e, tra i lumi
sorretti da due camerieri, arringò con impeto la folla.
Nessuno badò allo scompiglio delle povere
nottole del viale che abbarbagliate piombavan dall'alto a strisciare sulle teste dei
dimostranti, quindi al clamore, al battío delle mani, si risollevavano disperatamente,
lanciando acutissimi stridi, come per chiedere ajuto e vendetta alle stelle che
sfavillavano ilari in cielo. L'oratore improvvisato diceva che l'elezione di Capolino era
un avvenimento dei piú memorabili della storia italiana contemporanea; ma nessuno
certamente avrà potuto levar dal capo a quelle nottole, che invece tutta la città,
quella sera, si fosse raccolta soltanto per dare a loro una immeritatissima guerra.
Arringava ancora quell'oratore, quando Aurelio Costa su un sauro del Salvo, sellato in
fretta in furia, partí di galoppo per Colimbètra.
Giù, confuso tra la folla, era il Pigna
arrivato in coda alla dimostrazione, espurgato smaltito evacuato da essa con molta
violenza di conati lungo tutto il percorso. Prepotenza! Sopraffazione! Andava per i fatti
suoi, stava a traversar la via Atenèa, quando la folla gli era venuta addosso; non aveva
fatto in tempo a ritrarsi, e allora quelli che stavano alla fronte lo avevano strappato
indietro per passare, e cosí la fiumana se l'era ingojato: sguizzare, con quelle cianche
e quel groppone, non gli era stato possibile; furibondo, urlando, sera messo a
tirare spinte da tutte le parti e pugni e calci e gomitate, per farsi un po' di largo e
uscirne; ma quelli per il gusto di portarselo via con sé come in ostaggio gli seran
pigiati con furia addosso, gridandoo "Ecco Pigna! c'è Pigna! viva Pigna! abbasso Propaganda!
no, viva! giú, giú con noi!" e qualche lattone e qualche scapaccione era pur
volato; piú che mai inferocito, come un cinghiale in mezzo a una muta di cani, aveva
avventato anche morsi ai piú vicini; piú d'una volta, puntando i piedi e le spalle per
svincolare un braccio e credendo che la folla dietro lo avrebbe parato, trovando invece un
po' di largo fatto da qualcuno che voleva scansarlo, era stato per cadere; ma subito altri
lo avevano scaraventato con un nuovo urtone alle spalle di chi stava davanti, e lí,
rinserrato, compresso, boccheggiante come un pesce, altri lattoni e scapaccioni e dileggi;
e tira e spingi, se l'erano sballottato cosí, malmenandolo in tutti i modi, fino a che,
pesto, disfatto, non sera lasciato andare alla corrente, ma con le proprie gambe no,
no: là, cosí, trascinato... Selvaggi! Mascalzoni! Coscienze vendute! Che spettacolo! Oh
Girgenti, disonore della Sicilia e dell'umanità! ludibrio, vituperio! Tutti in sagrestia
domani, sí, sí, ad attaccar con le ostie della chiesa le mezze carte da cinque lire...
Sí, viva Capolino e viva Salvo! viva Bacco e viva Mammone! - Cosí esclamando, e
guardando con aria di dispetto minaccioso la folla sotto la villa del Salvo, ora
saccomodava una spalla, ora soffiava o sbruffava, ora sorsava col naso, e puh,
feccia della umanità! puh, vili ignoranti!
"Domani, Propaga', sta'
zitto!" gli gridavano alcuni. "Domani c'inscriveremo tutti al Fascio! Ora, qua: Viva
Capolinòòò! (Non ci credere, sai? è per minchionare). Viva! Vivààà!
Questa la conclusione d'una giornata
campale, questo il rinfranco di tutte le corse che sera fatte fin dalla mattina da
un seggio elettorale all'altro, per assegnar le parti ai compagni, per dare istruzioni, e
qua regolare, e là persuadere, e incitare, e pregare, secondo i casi, che il suffragio di
tutti i lavoratori fosse per un lavoratore, loro compagno, perdio! Angelo Zappalà, che li
avrebbe difesi, che avrebbe perorato la loro causa in Parlamento!
Sí, dato che quella candidatura popolare
doveva valer soltanto quale protesta, egli in fondo avrebbe potuto dichiararsi soddisfatto
dell'esito: sí, ma della votazione dei paeselli vicini! il cuore gli faceva sangue invece
per la vergogna di Girgenti capoluogo, della sua città natale! Ludibrio, vituperio...
Quando, alla fine, il Pigna, senza piú
voce, cascante a pezzi dalla stanchezza, si ridusse a casa, al Piano di Gamez, per mandar
giú un boccone di cena avvelenato dalla bile, salendo i primi gradini della scaletta di
legno che dalla stanza terrena conduceva a quella di sopra, vi trovò al bujo in fitto
colloquio Celsina e Antonio Del Re.
"Ohé, voi qua?"
"Va' sú; passa, papà!" gli
disse Celsina, come a un cane. "Sto a salutarlo. Parte domani."
"Ah, buona sera, allora," disse
il Pigna. "Cioè, buon viaggio... Partite subito, dunque? V'invidio, caro mio. Oh,
vedrete certo a Roma... come viene a essere di voi don Landino Laurentano? già, zio,
l'abbiamo detto: riveritelo tanto per me, ditegli che Girgenti ha bisogno di lui; sta
disonorando l'isola, Girgenti..."
"Abbiamo inteso, papà," lo
interruppe Celsina infastidita. "Lasciaci parlare adesso! Vattene!"
"Paese di carogne!" brontolò il
Pigna, tirando sú a stento le cianche per la scala. "Farabutti... ohi ohi...
ignoranti..."
E svoltò. Subito i due giovani si
riabbracciarono. Antonio non si reggeva piú; ebro, perduto, non poteva piú staccarsi da
lei; le cercò la bocca, com'arso di sete, per un altro bacio che le penetrasse nel fondo
piú fondo dell'anima; un altro bacio smanioso, cocente, infinito, col quale darle tutto
se stesso e prendersela tutta, nello spasimo del piú violento desiderio.
"Basta," gemette ella, esausta,
abbandonandogli il capo sul petto.
Ma egli la stringeva ancora, piú ardente;
piú tremante; voleva ancora la bocca.
"No, basta, Nino," disse allora
Celsina, riavendosi. "Basta... basta..."
Gli prese le mani, gliele strinse; se le
posò sul seno ansante, senza lasciargliele; riprese:
"Cosí!... Dunque, senti... tu
vedrai, è vero? cercherai... Devi far di tutto..."
"Sí..."
"M'ascolti?"
" Sí."
"Non m'ascolti! Basta, ora, Nino!
T'ho detto, basta. Non m'ascolti..."
"Sí... cercherò..."
"Che cercherai? Lasciami, per
carità!"
"Non so... farò di tutto...
figúrati! Dammi ancora un bacio..."
"No! Dove cercherai?"
"Ma per tutto per tutto..."
"Sí, un posticino qualunque...
infimo anche... per cominciare, capisci?... Tu sai che posso... m'adatterò a fare ogni
cosa! Debbo, debbo essere a Roma al piú presto, m'ascolti?"
"Sí, amore... amore... amore
mio!" alitò egli; poi, stringendole le braccia e smaniando: "Come faccio? oh
Celsina mia... come faccio?"
"Zitto!" gli intimò Celsina.
"Non voglio che ti sentano sú."
"Allora vado... non posso..."
"Sí, va' va'... è tardi! Mi
chiamano. Scrivimi subito, sai?"
"Sí..."
"Addio, addio."
Ma egli non sapeva lasciarle ancora la
mano; le accostò il volto al volto, le domandò:
"Che mi dài?"
"Che vuoi?"
"Te, tutta! Vieni con me, vieni con
me!"
"Potessi! Subito!"
"Oh amore... Che mi dài? Qualcosa
tua..."
"Non ho nulla, Nino mio..."
"Eppure ho qualcosa di te, sai? che
tu m'hai data."
"Io."
"Non m'hai dato niente tu? Neppure il
cuore, un poco?"
"Ah, quello..."
"E, un'altra cosa... Non ti
ricordi?"
"No..."
"La bambola... "
"Ah," sorrise Celsina,
"quella coi baffi?"
"Non ridere, non ridere. Glieli ho
cancellati, sai? Me la porto con me."
"Ragazzo..."
"Sai? stanotte è stata con me,
abbracciata con me, a letto. E sempre..."
"Ma va'! Non sono io, quella,
sai!"
"Lo so; ma è tua, è stata tua...
non l'hai baciata tu?"
"Tanto, da bambina..."
"E dunque..."
"Va', va', Nino. Mi richiamano.
Addio. Ricòrdati, sai? Scrivimi! Addio."
Un altro lungo, lungo bacio sulla porta, e
Antonio andò via. Si fermò nel Piano di Gamez deserto; e si guardò intorno, smarrito;
guardo sú nel vano immoto dell'aria ed ebbe un senso di stupore, come se, sveglio, fosse
entrato in un sogno. Come sfavillavano le stelle! Sentí schiudere la vetrata del
balconcino. Celsina saffacciò.
"Addio. Ricòrdati."
" Sí. Addio!"
Era già lontana; lontana la voce, lontana
la figura; e quella casetta, sulla cui facciata chiara in mezzo al Piano umido e nero si
rifletteva la luna, e quel Piano stesso, il chioccolío della fontanella, e quelle anguste
viuzze storte, nere, tutto il paese silenzioso nella notte, alto sul colle, sotto le
stelle, ogni cosa gli parve come lontana ormai; gli parve come se egli da lontano, con
tristezza infinita, con infinita angoscia contemplasse la propria vita che rimaneva lí,
strappata da lui.
Quando Aurelio Costa arrivò a
Colimbètra, don Ippolito Laurentano sapeva già della proclamazione di Capolino; e ne
parlava nel salone con don Salesio Marullo e con Niní De Vincentis. Il primo, accorso
subito da Girgenti appena conosciuto l'esito del duello; il secondo, dopo lo scontro
a cui aveva assistito da testimonio, rimasto a Colimbètra accanto al letto del
ferito.
Zio Salesio ascoltava il principe con
un'aria di degnazione contegnosa, come se Capolino lo avesse fatto elegger lui. Ma sí,
via! non gli aveva dato in moglie la figliastra? Da cinque giorni si sentiva proprio
rinato, là tra gli splendori di Colimbètra, nei quali sinvaniva e si ricreava.
come se fossero suoi. Camminava su gli spessi tappeti piú che mai in punta di piedi;
faceva il bocchino a tutte le cose belle e preziose che vedeva; a tavola per poco non
sveniva dal piacere davanti a quelle finissime stoviglie luccicanti, o quando Liborio in
marsina e guanti bianchi gli presentava i cibi prelibati. E sul tramonto, non ostante che
i piedi gli facessero male, scendeva su lo spiazzo e andava fino dl cancello per il gusto
di farsi salutare militarmente dall'uomo di guardia in calzoni rossi e cappotto turchino.
L'uomo di guardia prendeva lo stesso gusto a salutare; e tutti e due, dopo il saluto, si
guardavano e si sorridevano.
Niní De Vincentis pareva non si fosse
rimesso ancora del tutto dallo spavento che sera preso nel veder Capolino piegarsi
sulle gambe, ferito in petto dalla pistola del Verònica, al secondo colpo. Era stata,
veramente, una terribile sorpresa per tutti, quella ferita. Le pistole, per tacita intesa
fra i padrini, erano state caricate in modo da non produrre alcun effetto, volendosi che
il vero duello avvenisse alla sciabola.
E meno male che la palla, arrivata senza
troppa violenza, aveva appena appena intaccato una costola ed era deviata dal cuore! Ma
non solo quello spavento teneva ancora il povero Niní tanto abbattuto e sbalordito;
Nicoletta Capolino gli aveva lasciato intendere chiaramente che Dianella Salvo non era né
sarebbe mai stata per lui, quand'anche il padre non avesse opposto un cosí reciso rifiuto
alla domanda. Dopo la prima notte vegliata accanto al letto del marito, non ostante
l'assicurazione dei medici che ogni pericolo per fortuna fosse scongiurato, Nicoletta si
era persuasa che non era piú il caso di rappresentar la parte della moglie disperata,
come aveva fatto a Valsanía all'annunzio della ferita toccata "a Gnazio suo". E
sera messa ad alternar le cure amorose e diligenti al suo povero
"paladino" ferito con lo studio sapiente di rimaner lí a Colimbètra, nella
memoria di don Ippolito Laurentano, ospite graditissima. Ah, se al posto di quella foca di
Adelaide Salvo fosse stata lei, là, tra poco, regina di quel piccolo regno! Era certa che
tutte le parti buone, di cui si sentiva pur dotata e che la sorte aveva voluto opprimere e
soffocare in lei, si sarebbero ridestate liberamente e avrebbero preso alla fine in lei il
sopravvento; certo che avrebbe saputo render felici gli ultimi anni di quell'altero e
bellissimo vecchio, ancora cosí vegeto, e fresco! Indovinava in lui l'amaro disinganno
provato alla vista della futura sposa; ma intuiva che nessun'arte di seduzione sarebbe
valsa su quell'uomo, il quale della fedeltà alla parola data sera fatta quasi una
religione. Neppur l'ombra della civetteria, dunque, in lei, ma una gara di cortesie e di
compitezze con lui, in quei giorni, senza la minima affettazione. E che prediche a quattro
occhi allo zio Salesio, il quale non voleva capire che non c'era piú nessuna ragione,
proprio, perché si trattenesse ancora a Colimbètra. Sapeva star bene a posto, sí -
troppo bene, anzi - zio Salesio; ma... ma... ma... E del suo sogno inattuabile, della
nostalgia della bontà, dell'incubo che le cagionava la vista del patrigno cosí compito e
ridicolo, della nausea che in quel momento le dava la sua lunga odiosa finzione d'affetto
per quel marito, per quel degno compagno della parte peggiore di sé, Nicoletta si
vendicava tormentando Niní De Vincentis, segnatamente la sera, su quel terrazzo aggettato
su le colonne del vestibolo esterno. Gli parlava di Dianella. Lo straziava quasi con
voluttà. Sapeva che nessun dolore, nessuna ingiustizia, non solo non avrebbero fatto
commettere alcunché di male a quel giovine incorruttibile, ma non gli avrebbero neppure
strappato una parola acerba dalle labbra, tanto era schiavo della propria bontà e
rassegnato a essa! Gli parlava misteriosamente, con frasi smozzicate, quasi per non farlo
saziare in una volta sola del proprio dolore. Niní voleva sapere per qual ragione gli
avesse detto che Dianella Salvo non sarebbe stata mai per lui, nemmeno se il padre avesse
accondisceso.
"Perché? Eh, caro Niní... C'è una
ragione, una ragione che non è cattiva soltanto per voi!"
"Che ragione?"
"Non ve la posso dire."
"Cattiva anche per chi?"
"Anche per me, Niní!"
"Per lei?" domandava Niní,
stupito.
E lei, sorridendo:
" Sicuro. Voi non la vedete; ma c'è.
C'è una relazione tra me, voi e... lei. Che relazione? Che ci può esser di comune tra me
e voi? Eppure c'è, Niní. Io e voi siamo uniti da qualche cosa. Pare impossibile, no?
Eppure!"
Niní De Vincentis restava assorto ad
almanaccare su quella ragione misteriosa e si struggeva dentro.
Quando Aurelio Costa, introdotto da
Liborio, si presentò nel salone, Nicoletta era presso il marito; ma sopravvenne poco dopo
e provò un gran piacere nel farsi veder da lui in quella casa principesca, tra gli
ossequii e il rispetto di tutti. Don Ippplito saffrettò a riferirle la notizia
della dimostrazione popolare.
"Ora riposa," dissella.
"Temo che si turberebbe troppo... Ma, se vogliono..."
"No, no," soggiunse subito il
principe. "Si troverà modo d'annunziarglielo domani."
"Ma sí, credo che don
Flaminio," aggiunse Aurelio Costa, "mi abbia mandato cosí di fretta a
quest'ora, per far sapere lí per lí agli elettori che l'onorevole Capolino e il principe
sarebbero stati subito informati della dimostrazione."
"Mi dispiace tanto per lei,
ingegnere," disse allora Nicoletta, "che ha dovuto farsi codesta corsa..."
"Ma non lo dica!" - la
interruppe subito il Costa. "L'ho fatta anzi con piacere."
"Anche perché, scommetto,"
interloquí zio Salesio, "lei non era mai stato a Colimbètra, eh? Meravigliosa
dimora caro ingegnere... meravigliosa! Vero paradiso in terra!"
Il principe sorrise chinando lievemente il
capo e invitò Aurelio Costa a rimanere a cena.
Per quella serata Niní De Vincentis fu
lasciato in pace da Nicoletta; ma non gliene fu grato affatto. Aveva preso gusto alla
tortura. Fu tutta per Aurelio Costa Nicoletta quella sera. E volle proprio inebriarlo;
volle chegli interpretasse segretamente tutte le premure e gli sguardi e i sorrisi
di lei come un compenso all'incarico ingrato impostogli da Flaminio Salvo, di venire cioè
là a Colimbètra ad annunziare il trionfo del marito; e volle che in quel compenso
chella gli dava, egli sentisse un sapor di vendetta contro il Salvo stesso, il
quale, pur conoscendo i sentimenti di lui, lo aveva mandato lí come un servo. Considerava
egli tutti come suoi schiavi venduti? Poteva anche darsi però che questi schiavi alla
fine, cosí provocati, accettassero la sfida e sintendessero tra loro! Non
sintendevano già? Non c'era già tra loro un accordo, un patto segreto? E gli occhi
di Nicoletta Capolino fissi in quelli di lui ora sfolgoravano aizzosi e ardenti, ora
sillanguidivano velati e turbati, quasi nella promessa di un'intensa voluttà.
Schiavo, schiavo con lei! si sarebbero vendicati di tutti quei vecchi che volevano tenere
schiavi loro due giovani! Per lei, d'ora innanzi, egli avrebbe amata la sua schiavitú; e
non avrebbe piú pensato di diventar padrone anche se Dianella Salvo gli avesse fatto
intendere apertamente il suo amore. Schiavo, schiavo con lei!
Era veramente com'ebro Aurelio Costa,
avvampato in volto da una gioja riconoscente verso quella donna, quando, a sera tarda,
lasciò Colimbètra. Non sapeva che pensare. Il sangue gli frizzava per le vene, le
orecchie quasi gli rombavano. Era ella cosí per abito o per natura, lusinghiera con
tutti, o per lui unicamente aveva formato quei sorrisi e trovato quegli sguardi e quelle
premure? Doveva dubitarne o esserne certo? E se certo, per qual ragione sera indotta
cosí d'improvviso a tentarlo, a provocarlo, dopo avere opposto, anni fa, un cosí deciso
e sdegnoso rifiuto all'onesta domanda di lui? Se n'era pentita? Stanca, nauseata della
parte infame che le aveva assegnato il marito, voleva ribellarsi e vendicarsi, scegliendo
per la vendetta chi onestamente un giorno aveva voluto farla sua? Voleva ora dargli questa
rivincita sopra colui per il quale lo aveva allora rifiutato? O voleva tendergli
un'insidia? Questo sospetto, per quanto gli paresse indegno in quel momento, gli
sera pure insinuato tra le varie ondeggianti supposizioni. Non poteva aver molta
stima di lei. Ma quale insidia? Innamorarlo, fargli perdere la testa, fino al punto di
suscitar la gelosia di Flaminio Salvo, e farlo cacciar via da questo? Ma non le aveva egli
detto che nessuna perdita sarebbe stata per lui, ormai, lasciare il Salvo? E poi, qual
interesse avrebbe avuto ad allontanarlo? che ombra le dava? Le ricordava nella miseria
presente, il passato? Ma se lei stessa, stringendogli forte, segretamente la mano, aveva
voluto ricordare a lui invece quel passato, per toglier l'ombra di esso fra loro due? E
gli era parsa sincera! Sí, franca e sincera! E com'era bella! Qual fascino si sprigionava
da tutta la persona di lei! Oh, esserne amato...
Giunto alla villa di Flaminio Salvo, ora
silenziosa e buja, Aurelio Costa lasciò nella scuderia il cavallo e salí nello studio,
ove il Salvo lo aspettava. Questi notò subito il turbamento, l'animazione insolita nel
volto e nelle parole del giovine che si scusava del ritardo per essere stato trattenuto a
cena dal principe. Ascoltandolo, lo fissava con acuta investigazione; e, appena Aurelio
chinava gli occhi, accentuava un po' piú il solito sorriso, effuso in tutti i lineamenti
del volto, che un po' di stanchezza, quella sera, faceva apparir piú floscio.
"Me l'aspettavo" gli disse,
carezzandosi le basette.
"Credetti che..." si provò ad
aggiungere Aurelio.
"Ma sí! hai fatto bene," lo
interruppe subito il Salvo. "Che buon'aria porti da fuori! Deve far bene una
cavalcata a quest'ora in campagna... Bella serata! Qua si soffoca... Quando sarai vecchio
te ne ricorderai..."
" Io?" domandò Aurelio, indotto
a sorridere dal tono amorevole con cui il Salvo gli parlava, quantunque le parole, dopo le
riflessioni fatte nel venire, lo ponessero in sospetto. "Perché?"
" Mah... dico, forse..."
sospirò il Salvo, accompagnando un'alzata di spalle con un gesto vago della mano.
"Veramente, tu ci sei avvezzo... Di giorno, di notte, in giro... Vita mossa, la tua!
Ma forse questa gita è stata speciale. Quando siamo vecchi, ci si accendono, cosí, a
lampi, ricordi, visioni lontane di noi stessi quali fummo in certi momenti... e non
sappiamo neppure perché quel momento e non un altro ci sia rimasto impresso e, a un
tratto, ci si stacchi e guizzi sperduto nella memoria. Era forse un ricordo piú ampio, di
tutto un brano di vita. Sè spezzato. Resta viva una sola scena, vivo un sol
momento, un attimo... E ti rivedrai a cavallo, in una notte serena sotto le stelle... e
forse invano ti sforzerai di ricordarti quali pensieri avevi in quel punto in mente, quali
sentimenti nel cuore..."
"Ma questo avviene anche senz'esser
vecchi" osservò Aurelio.
"Non è lo stesso,"rispose il
Salvo." Te n'accorgerai.
E restò un pezzo con gli occhi immobili e
fissi senza attenzione. C'era veramente anche nel Salvo, quella sera, non so che di
strano, e anche Aurelio lo notò, come se, durante la sua assenza, quegli, lí nello
studio austero, se ne fosse stato immerso in pensieri che gli avessero ingenerato una
tristezza nuova. Quali pensieri? Certo, se n'era stato coi gomiti su la scrivania e la
testa tra le mani, poiché sul capo, calvo su l'occipite, erano scomposti i pochi capelli
grigi attorno alla fronte. Aurelio sapeva chera profondamente triste il fondo di
quell'anima torbida e imperiosa, e che il tratto duro, i modi risentiti e irruenti eran
come rigurgiti istantanei di quella tristezza inveterata, nascosta, compressa,
inconsolabile. Ma perché si era tanto abbandonato ad essa proprio in quella sera che
doveva esser lieto della vittoria?
"Tutti bene laggiú?" domandò
il Salvo, riscotendosi. "Lui, lo hai visto?"
"No," rispose Aurelio,
dissimulando l'impaccio e il turbamento che forse gli trasparivano sul viso, col timore
d'aver mancato a una cosa che doveva fare; e però aggiunse in iscusa, arrossendo:
"Perché la signora disse che riposava."
"Su gli allori, eh?" aggiunse il
Salvo; quindi, levando il mento e sorridendo apertamente, domandò: "E... dimmi,
contenta, lei ... la signora?
Aurelio aprí le braccia, e con l'aria di
chi si fa nuovo di ma cosa:
"Non mi parve," rispose.
"Perché?"
"Dev'esser contenta. Va a
Roma..."
"Già, col marito adesso..."
"Deputato, deputato," concluse
il Salvo, dimenando il capo. "Era necessario! Deputato."
E si alzò.
"Vedi, caro mio, quali sono le nostre
colpe imperdonabili? Poi ci lamentiamo! In un momento come questo, con un'impresa come
quella che abbiamo in animo di tentare, che ci costa già tanti studii, che mi espone già
a tanti rischi, ho fatto eleggere deputato Capolino. Proprio l'uomo che mi ci voleva, non
ti pare? per parlar forte a Roma, domani, al Ministero dell'Industria e del Commercio...
Ma era necessario. Vedrai che Ignazio starà benissimo a Roma: è il posto suo, quello.
Qua m'ingombrava... Piazza pulita, piazza pulita... Caso mai, andrò io a parlare col
signor Ministro, a Roma. Bisogna però che prima qua sottoscrivano tutti i produttori di
zolfo, grossi e piccini; li voglio tutti; e con questo, che limitino occorrendo,
l'estrazione del minerale e lo depositino tutto nei magazzini generali. Se no, niente.
Arrischio i miei capitali per la salvezza dell'industria siciliana. Ho diritto di
pretendere l'unione e l'accordo di tutti glinteressati e qualche lieve sacrifizio,
se occorre. Intanto, mentre qua si studia sul serio per portar rimedio a questa condizione
di cose disperata per tutti, hai sentito a Grotte? Vogliono imporsi col numero... Stupidi!
Imporsi a chi, e perché? la rovina, oggi, è piú per chi ha, che per chi non ha! Il
numero... Che forza può avere il numero? Ti può dar l'urto bestiale; ma la valanga che
atterra, si frantuma anchessa nello stesso tempo. Ah che nausea! che nausea! A uno a
uno, hanno paura, capisci? e si raccolgono in mille per dare un passo che non saprebbero.
da soli; a uno a uno, non hanno un pensiero; e mille teste vuote, raccolte insieme, si
figurano che l'avranno, e non saccorgono che è quello del matto o dell'imbroglione
che le guida. Questo, là. E qua? Qua un altro spettacolo, piú nauseante. Io forse
invecchio, Aurelio."
"Lei?"
"Invecchio, sí; perdo il gusto di
comandare. Me lo fa perdere la servilità che scopro in tutti. Uomini, vorrei uomini! Mi
vedo attorno automi, fantocci che devo atteggiare così o così, e che mi restano davanti,
quasi a farmi dispetto, nell'atteggiamento che ho dato loro, finché non lo cambio con una
manata. Soltanto di fuori però, capisci? si lasciano atteggiare! Dentro... eh, dentro,
restano duri, coi loro pensieri coperti, nemici, vivi solamente per loro. Che puoi su
questi? Docili di fuori, miti, malleabili, visi ridenti, schiene ossequiose, t'approvano,
t'approvano sempre. Ah, che sdegno! Vorrei sapere perché mi arrovello cosí; perché e
per chi lo faccio... Domani morrò. Ho comandato! Sí, ecco: ho assegnato la parte a
questo e a quello, a tanti che non hanno mai saputo veder altro in me che la parte che
rappresento per loro. E di tant'altra vita, vita d'affetti e di idee che mi sagita
dentro, nessuno che abbia mai avuto il piú lontano sospetto... Con chi vuoi parlarne?
Sono fuori della parte che devo rappresentare... Certe volte, a qualcuno che viene qua a
visitarmi, a incensarmi, mi diverto a rivolgere certi sguardi, certi sguardi che sfondano
la parete, e me lo vedo allora per un attimo, restar davanti sospeso, impacciato, goffo;
Dio sa che forza devo far su me stesso per non scoppiargli a ridere in faccia. Mi
crederebbe ammattito, per lo meno. E anche tu, caro mio, se vedessi con che occhi mi stai
guardando in questo momento..."
"Io no!" disse subito Aurelio,
riscotendosi.
Flaminio Salvo rise, scotendo il capo:
"Anche tu, anche tu... È cosí; per
forza è cosí... Ti posso io dire quel che vorrei veramente da te? il piacere che mi
faresti, se tu agissi com'io forse al tuo posto agirei?"
"E perché no?" domandò
Aurelio, levandosi. "Mi dica..."
"Ma perché no," negò subito il
Salvo, stringendosi nelle spalle, "perché non posso... Puoi dirmi tu quel che pensi,
quel che senti, la vita che hai dentro in questo momento?... Non puoi... Sei davanti a me
nelle relazioni che possono correre fra me e te: tu sei il mio ingegnere, il mio buon
figliuolo che amo, a cui questa sera, davanti a una ventina di marionette, ho dato
l'incarico di recarsi a Colimbètra, messaggero di trionfo: e basta! Che altro potrei
dirti? Questo soltanto, forse, per il tuo bene...
E Flaminio Salvo posò una mano sulla
spalla di Aurelio:
"Non ti tracciar vie da seguire,
figliuolo mio; né abitudini, né doveri; va', va', muoviti sempre; scròllati di tratto
in tratto d'addosso ogni incrostatura di concetti; cerca il tuo piacere e non temere il
giudizio degli altri e neanche il tuo, che puoi stimar giusto oggi e falso domani. Conosci
don Cosmo Laurentano? Se sapessi quanta ragione ha quel matto! Va', va', è tardi; andiamo
a dormire. Addio."
Sceso nel viale della Passeggiata, sotto
gli alberi spioventi, nell'ampio silenzio della notte, Aurelio Costa ebbe l'impressione di
non trovar piú se stesso in sé, e si fermò come per cercarsi. I pensieri che lo avevano
agitato intorno al suo avvenire, per quel vasto disegno del Salvo; gli sguardi provocanti,
le parole e le premure di Nicoletta Capolino, poc'anzi, a Colimbètra; e qua, adesso,
questo discorso triste, sinuoso e inatteso del Salvo, gli avevano quasi disperso,
sparpagliato lo spirito. Una parte era rimasta là a Colimbètra; l'altra qua nella villa.
Frastornato, messo in sospetto, ripensava alle parole del Salvo. E dunque sarebbe andata a
Roma Nicoletta? E allora? Ma come? Il Salvo sera voluto sbarazzare del Capolino?
Sí, lo aveva detto chiaramente: Piazza pulita. Aveva alluso forsanche a lei?
C'era una certa ironia nella domanda che gli aveva rivolta: Contenta, la signora?
Aveva voluto allontanare anche lei dalla sua casa? O forse ella gli si era ribellata? Era
egli cosí triste, in un animo cosí insolito, per questo? E che voleva da lui? Che senso
cavare dalle strane cose che gli aveva dette? Ti posso io dire il piacere che mi
faresti, se tu agissi com'io forse al tuo posto agirei? Che piacere? che aveva inteso
dire? Un desiderio segreto, inconfessabile? O aveva detto cosí, in genere? Sera
lamentato d'aver attorno automi, fantocci... E quei consigli, infine! Per quanto si
sforzasse, non riuscí a raccapezzarsi. E allora, quasi lasciando fuori, a vagar dove
volevano pensieri e dubbii e sospetti, si restrinse nel guscio sicuro della sua coscienza,
nel sentimento modesto, tranquillo e solido che aveva sempre avuto di sé. Per il caso
fortuito d'aver cavato, un giorno, quasi senza volerlo, dalle mani della morte il Salvo,
era stato sollevato a una condizione invidiabile, di cui con le sue stesse doti naturali,
e la buona volontà, aveva poi saputo rendersi degno. Il favore stesso della fortuna, che
tutti riconoscevano meritato, l'eco ingrandita degli onori a cui era venuto negli studii,
nei concorsi, nella professione, gli avevano dato di poi un'importanza che egli stesso
riconosceva soverchia, e che lo metteva qualche volta in imbarazzo. Il modo con cui si
vedeva accolto e trattato, quel che si diceva di lui, gli dimostravano di continuo
chegli era per gli altri qualcosa di piú che per se stesso; un altro Aurelio Costa,
chegli non conosceva bene, di cui non si rendeva ben conto; restava perciò sempre
innanzi agli altri in uno stato d'animo angustioso, in una strana apprensione confusa, di
venir meno all'aspettativa altrui, di decadere dalla sua reputazione. Sapeva star bene al
suo posto, ma avrebbe voluto starci quieto e sicuro; invece gli pareva che gli altri,
avendo egli preso a salire fin da ragazzo, gli indicassero ancora come a lui pertinente un
posto piú alto, e lo spingessero e non lo lasciassero star tranquillo. Non era timidezza
la sua; era un ritegno impiccioso, che spesso lo irritava contro gli altri o contro se
stesso, una costernazione assidua che si scoprisse in lui qualche manchevolezza, se appena
appena si fosse allontanato dal campo delle sue conoscenze, ove si sentiva sicuro, dal
posto, ove poteva stare, ov'era arrivato da sé per suo merito effettivo. La irritazione
contro se stesso nasceva anche dal veder che tanti, da lui stesso stimati inferiori in
tutto, sapevano farsi avanti con disinvoltura ed erano lasciati passare; mentre lui,
ritenuto da tutti superiore anche al concetto chegli aveva di se medesimo, lui si
tirava indietro e, se spinto, si sentiva spesso impacciato nei movimenti, nel parlare, e
arrossiva talvolta come una fanciulla.
Quella sera, Aurelio Costa avvertì piú
che mai quel senso di inesplicabile fastidio che gli cagionava sempre la propria ombra
nell'allungarsi sperticatamente, assottigliandosi innanzi a lui, a mano a mano che si
allontanava dai lampioni accesi. Dopo il frastuono della dimostrazione popolare, il
silenzio della città addormentata, vegliata da quei lugubri lampioni, glincuteva
ora una cupa ambascia.
A metà della via Atenèa deserta, scorse
Roberto Auriti, solo; si voltò a guardarlo con profonda pena e lo segui con gli occhi
finché non lo vide svoltare per una delle erte viuzze a manca che conducevano alla Badia
Grande.
Tutta quella notte si vegliò in casa di
donna Caterina Laurentano, dovendo Roberto e il nipote partire a bujo, alle quattro del
mattino. La vecchia casa era ancora illuminata a petrolio, e sandava col lume in
mano da una stanza all'altra.
Anna Del Re sindugiava amorosamente
negli ultimi preparativi per il figliuolo. Che strazio, per lei, quella partenza! Tutto il
suo mondo, tutta la sua vita, da anni e anni, erano raccolti nell'amore e nelle cure per
quel suo unico bene. Come avrebbe vissuto piú ora senza di lui? E piangeva
silenziosamente.
Se l'era allevato, lo aveva custodito con
l'anima e col fiato non badando ai rimproveri della madre che temeva lo avviziasse troppo.
Ma no, no! che avviziare! Era tanto impensierita e tormentata, lei, nel vederlo crescere
così freddo e arcigno, sempre e tutto chiuso in sé, e procurava con le sue maniere, con
le cure sempre vigili, d'addolcirlo, ecco, di riscaldarlo con l'amore materno, di renderlo
piú espansivo e confidente.
Non sapeva che cosa egli covasse in fondo
al cuore, che lo allontanava anche dalla compagnia dei giovani della sua età. Studiare,
studiava anche troppo, con nocumento finanche della salute; e quando non studiava, stava
acutamente assorto in certi pensieri che gli rendevano piú irsute le ciglia, piú duro e
scontroso lo sguardo dietro le lenti da miope.
"Oh Dio, Ninuccio, se vedessi come ti
fai brutto..."
Egli le rispondeva con una spallata.
Forse soffriva, il suo Ninuccio, delle
angustiose condizioni della famiglia, forse pensava che la nonna anche senza derogare
affatto a se stessa, ai suoi sentimenti, avrebbe potuto essere ricca. Troppo, certo,
l'infanzia di lui e la prima giovinezza erano state aduggiate dall'ombra cupa di tante
sventure in quella vecchia e vasta casa sempre silenziosa, nella quale il sole, entrando,
pareva non recasse mai né luce né calore. Che casa! Lo notava quella notte, presentendo
lo squallore in cui domani le sarebbe apparsa! Logorati i mobili, anneriti i soffitti,
consunto il pavimento, inaridite e stinte le cornici delle imposte, sbiadita in tutte le
stanze la carta da parato. Pur curata e pulita e rassettata sempre, pareva che
anchessa sentisse oscuramente la doglia della vita. Aveva ragione Corrado Selmi;
aveva interpretato bene il segreto sentimento di lei... Già da tempo rassegnata, avrebbe
desiderato, se non per sé, almeno per quel figliuolo, che alla fine qualche sorriso di
pace alleviasse un po' l'oppressione delle memorie dolorose, quel cupo rancore contro la
vita, la muta, disperata amaritudine della madre.
Calma, e non pace! Non poteva aver pace
l'anima di donna Caterina Laurentano. Forse perché non credeva piú in nulla? Lei sì,
Anna, credeva; credeva fervidamente in Dio, pur senza seguire alcuna delle pratiche
religiose. Le donne del vicinato non la vedevano mai andare a messa, come la madre; e
tuttavia distinguevano tra l'una e l'altra, indovinavano che la signora giovane era
religiosa e, nell'intravederla qualche volta da lontano, cosí bella e mite, sempre
vestita di nero, se l'additavano come una santa.
Anna stava sopra tutto in pensiero per la
nuova vita, in mezzo alla quale si sarebbe trovato fra poco il figlio nella casa del
fratello, a Roma. Non dubitava che Roberto avrebbe avuto le piú diligenti cure per il
nipote; ma la donna chegli aveva con sé? i parenti, gli amici? quel Corrado Selmi
che, col suo fascino strano, era finanche riuscito a turbar lei? Chi sa quale impressione
ne avrebbe ricevuto il suo Ninuccio, vissuto sempre qua, rinchioccito presso lei e la
nonna! L'una e l'altra avevano parlato spesso e a lungo, con amarezza, della vita mancata
del loro Roberto, della falsa famiglia che sera formata, su le notizie che ne aveva
dato loro Giulio, l'altro fratello; notizie piuttosto vaghe, perché Giulio, cresciuto
sempre a Roma, aveva perduto del tutto l'aria, il sentimento della famiglia, non pareva
piú affatto neanche siciliano; e forse scusava il fratello maggiore; certo non dava alcun
peso, alcuna importanza a tante cose che per poco a lei e alla madre non facevano orrore.
Era una maestra di canto, moglie d'un
tenore che aveva perduto la voce, la compagna di Roberto. E Giulio aveva detto, ridendo,
che questo tenore, buon uomo, sedeva ogni giorno alla tavola di Roberto e dormiva poi, la
sera, presso un fratello della moglie che teneva una specie di collegio, di conservatorio
di musica privato, dove colei insegnava canto e il marito fungeva nientemeno che da
censore. Roberto era come in pensione in quella casa, dove qualche volta, nelle annate di
maggiore affluenza, alloggiava anche qualche convittore che non aveva trovato posto nel
collegio del fratello. A contatto di tal gente si sarebbe trovato dunque, tra poco, il
figliuolo. Parecchie volte Anna aveva cercato di persuadere la madre di proporre a Roberto
il loro trasferimento a Roma. Avrebbero venduto quella casa, albergo di tante sventure e
si sarebbero accomodate a vivere alla meglio a Roma, magari sole dapprima, sole o con
Giulio soltanto. Chi sa che, a poco a poco, col tempo, la madre non sarebbe poi riuscita a
liberar Roberto da quella compagnia... Non sarebbe stato anche un risparmio, di tre case
farne una sola? E tutta la famiglia raccolta insieme...
" Sogni!" le aveva detto la
madre. E non aveva voluto neanche mettere in discussione la proposta.
Sapeva che né Giulio avrebbe voluto
perdere la propria libertà, né Roberto avrebbe saputo sciogliersi dalla schiavitú di
quella donna. Anche lei, poi, all'età sua, non avrebbe potuto resistere a un cambiamento
cosí radicale di vita e d'abitudini.
"Sogni! Quand'io morrò, e Nino sarà
cresciuto, tu andrai con lui... Ci penserà lui a farti una nuova vita."
"Ma intanto!..." sospirava Anna,
e guardava nell'altra stanza il figlio, che ascoltava i discorsi della nonna e dello zio,
con una mano tra i capelli, un gomito su la tavola, sotto la lampada che pendeva d'al
soffitto. Eccolo: non dimostrava né pena d'allontanarsi da lei per circa un anno, né
gioja di recarsi a Roma. Sempre cosí! Una volta sola su i primi dello scorso anno,
infatuato d'una scoperta che credeva d'aver fatto, d'un suo speciale congegno per trarre -
diceva - l'energia elettrica dalle onde del mare (era venuto, quell'anno, all'Istituto
Tecnico un bravo professore di fisica, il quale era riuscito a infervorare per la sua
scienza tutti gli scolari) le aveva parlato con vero calore, per indurla a spingere la
nonna a chiedere in prestito qualche migliajo di lire, - non allo Zio Borbonico,
no! - ma allo zio Cosmo, magari: un migliajo di lire in prestito, per costruire alla
meglio gli attrezzi necessarii agli esperimenti che si sarebbe recato a fare a Valsanía,
su la piaggia. Povero figliuolo! Gli aveva fatto cascar le braccia, subito. La nonna?
chieder denaro in prestito ai fratelli? E non la conosceva? Sera subito rinchiuso
nel suo ispido silenzio, e non aveva voluto darle nemmeno una spiegazione su quella sua
famosa scoperta. Chi sa quanto c'era di vero... Forse un'illusione puerile! Ma pure, tutto
quell'anno, aveva seguitato a studiare accanitamente quella scienza, e ora, andando a
Roma, si proponeva di dedicarsi a essa interamente. Altri affetti - pur essendo cosí
giovane - altre cure, altre voglie pareva non avesse.
"Ninuccio," chiamò.
Aveva finito di preparare la valigia, e
voleva l'ajuto di lui, per chiuderla. Egli accorse subito.
"Troppo piena?" gli domandò.
"Hai voluto metterci tutti quei libri... Non sarebbe meglio levarli di qua e porli
insieme con gli altri nella cassetta? Tanto, te la spediremo subito."
"Me la porto via con me, la
cassetta," dissegli. "Non mi fido. Chi sa quando m'arriverebbe...
"Ma ti peserà troppo, figlio mio,
che dici? Impossibile... Non dubitare, l'avrai subito. Ci penserò io..."
"E allora qua nella valigia, lasciali
qua, questi libri. Chiudo?"
"Non ha detto nulla la nonna di là,
a zio Roberto?" domandò lei allora, alludendo a quella sua proposta.
"Nulla," rispose il figlio.
"Capisco anchio," sospirò
Anna, "che è quasi impossibile... L'avrei voluto per te... Mah! Ninuccio mio, mi
raccomando: mi devi scrivere tutto, sempre... se hai bisogno di qualche cosa... come
stai... se ti trovi bene... Tutto! Mi contento anche di poche righe... Ma le prime
lettere, no, sai? lunghe, le prime lettere... Voglio saper tutto! E bada, Ninuccio... un
po' piú d'ordine! Ti disporrai bene tutta la biancheria nei cassetti... Non fare al
solito tuo! Zio Roberto è molto ordinato, lo sai... Ordinato anche tu! E non ti dico
altro... So che farai il tuo dovere e che contenterai tua madre e la nonna, che restiamo
qua... sole... Basta, basta... Presto sarà l'ora..."
Entrarono nella sala da pranzo, dove la
nonna e Roberto sedevano accanto sul canapè.
"Vedrai," diceva donna Caterina.
"Io vorrei prima finir di chiudere questi occhi. Ma toccherà forse di vedere anche a
me, per conchiudere bene, questo spettacolo qua. Ci sarà, non dico, chi mette male
apposta; ma alla mala semenza il terreno è preparato da anni. Voi state a Roma, e non
sentite e non vedete nulla. Vorrei ingannarmi! Ma non m'inganno."
Alzò il capo a guardar la figlia e il
nipote, vide negli occhi di Anna le lagrime, ed esclamò, levando un braccio:
"Lascialo partire, lascialo andar
via! Aria! Aria! Respirerà... Buca l'uovo, figliuolo mio; e lascia star qua nojaltri, ad
aspettare la manna del cielo! Nel Sessanta, caro Roberto, sai che facemmo noi qua?
sciogliemmo in tante tazzoline le animucce nostre, come pezzetti di sapone; il Governo ci
mandò in regalo un cannellino per uno; e allora noi qua, poveri imbecilli, ci mettemmo
tutti a soffiare nella nostra acqua saponata e che bolle! che bolle! una piú bella e piú
variopinta dell'altra! Ma poi il popolo cominciò a sbadigliare per fame, e con gli
sbadigli, addio! fece scoppiare a una a una tutte quelle magnifiche bolle che sono finite,
figlio mio, con licenza parlando, in tanti sputi... Questa è la verità!"
La serva venne ad annunziare che la
carrozza era arrivata e che il vetturino, un po' in ritardo, faceva fretta. C'era circa
mezz'ora di vettura da Girgenti alla stazione ferroviaria in Val Sollano.
Anna, con la candela in mano innanzi alla
porta, presso la madre, rimase come sopraffatta, insaziata dell'ultimo abbraccio
frettoloso al figlio, che correva accanto allo zio, giú per la ripida viuzza a scalini,
nel bujo ancor fitto.
"Figlio mio! figlio mio!" gemeva
tra sé.
"Tu, Ninuccio, lo rivedrai," le
disse piano la madre. "Io, Roberto... chi sa!"
Udirono nel silenzio profondo il rotolío
della vettura che sallontanava. E Anna levò gli occhi pieni di lagrime al cielo,
dove le stelle, per lei, vegliavano religiosamente.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998