Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
VI
Né inviti agli elettori stampati a
caratteri cubitali su carta d'ogni colore, né alcuna animazione insolita per le vie
tortuose della vecchia città. Eppure il giorno fissato per le elezioni politiche era
imminente. Ma il tedio da gran tempo aveva soffiato in bocca alla ciarlataneria, e questa
aveva perduto la voce. La scala per dar l'assalto ai muri le si era imporrita e rotto il
pentolino della colla. Sera camuffata decorosamente da prete la ciarlataneria a
Girgenti, e raccolta, guardinga, a collo torto, andava per via, nascondendo tra le pieghe
del tabarro il mazzocchio della grancassa cangiato in aspersorio. I cittadini, sotto a
quel travestimento, la riconoscevano bene: la lasciavano andare e fare; la rispettavano
anche; oh, perché non seccava nemmeno con troppe prediche; prestava denaro poi, sottomano
- a usura, ma ne prestava -; pubblicamente, con molti carati del Salvo e con altri di
socii minori, aveva aperto una banca popolare cattolica - all'interesse consentito da
santa madre Chiesa. I pubblici ufficii, prefettura, intendenza delle finanze, scuole
governative, tribunali, davano ancora un po' di movimento, ma quasi meccanico, alla
città: altrove ormai urgeva la vita. L'industria, il commercio, la vera attività
insomma, sera da un pezzo trasferita a Porto Empedocle giallo di zolfo, bianco di
marna, polverulento e romoroso, in poco tempo divenuto uno de' piú affollati e
affaccendati emporii dell'isola. Ma anche là, la sovrabbondanza dello zolfo per le
condizioni mal proprie con cui si svolgeva l'industria, 'ignoranza degli usi a cui
quel minerale era destinato e dei profitti che se ne potevano ricavare, il difetto di
grossi capitali, il bisogno o l'avidità di un pronto guadagno, eran cagione che quella
ricchezza del suolo, che avrebbe dovuto esser ricchezza degli abitanti, se n'andasse
giorno per giorno ingojata dalle stive dei vapori mercantili inglesi, americani, tedeschi
e francesi, lasciando tutti coloro che vivevano di quell'industria e di quel commercio con
le ossa rotte dalla fatica, la tasca vuota e gli animi inveleniti dalla guerra insidiosa e
feroce, con cui si eran conteso il misero prezzo o lo scotto o il nolo della merce da loro
stessi rinvilita. A Girgenti, solo i tribunali e i circoli d'Assise davano da fare
veramente, aperti com'erano tutto l'anno. Sú al Culmo delle Forche il carcere di San Vito
rigurgitava sempre di detenuti, che talvolta dovevano aspettare tre o quattro anni per
essere giudicati. E meno male che l'innocenza, nel maggior numero dei casi, di questo
forzato indugio non aveva a patire. La città era piuttosto tranquilla; ma nelle campagne
e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise
o per vendette meditate, e le grassazioni e l'abigeato e i sequestri di persona e i
ricatti erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza,
dell'asprezza delle fatiche che abbrutivano, delle vaste solitudini arse, brulle e mal
guardate. In piazza Sant'Anna, ov'erano i tribunali, nel centro della città,
saffollavano i clienti di tutta la provincia, gente tozza e rude, cotta dal sole,
gesticolante in mille guise vivacemente espressive: proprietarii di campagne e di zolfare
in lite con gli affittuarii o coi magazzinieri di Porto Empedocle, e sensali e affaristi e
avvocati e galoppini; saffollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara,
di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle
facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino, con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o
padovane; con cerchietti o catenaccetti d'oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per
assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte
protratte interiezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei
loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le
loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti
d'un'ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di
panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento,
alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a
lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti
di qualche assassinato. Fra queste, quand'eran sole, saggirava occhiuta e obliqua
qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l'onta
e che pur non di meno talvolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti,
a fare abbandono del proprio corpo, senz'alcun loro piacere, per non ritornare al paese a
mani vuote, per comperare ai figliuoli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola. ("Occasioni! Una poverella bisognava che ne profittasse. Nessuno
avrebbe saputo... Presto presto... Peccato, sí, ma Dio leggeva in cuore...). I molti
sfaccendati della città andavano intanto sú e giú, sempre d'un passo, cascanti di noja,
con l'automatismo dei dementi sú e giú per la strada maestra, l'unica piana del paese,
dal bel nome greco, Via Atenéa, ma angusta come le altre e tortuosa Via Atenéa, Rupe
Atenéa, Empedocle... - nomi: luce di nomi che rendeva piú triste la miseria e la
bruttezza delle cose e dei luoghi. L'Akragas dei Greci, l'Agrigentum dei Romani, eran
finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio degli Arabi era rimasto indelebile negli
animi e nei costumi della gente. Accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia. Dal
bosco della Civita, cuore della scomparsa città vetusta, saliva un tempo al colle, su cui
siede misera la nuova, una lunga fila di altissimi e austeri cipressi, quasi a segnar la
via della morte. Pochi ormai ne restavano; uno, il piú alto e il piú fosco si levava
ancora sotto l'unico viale della città, detto della Passeggiata, la sola cosa bella che
la città avesse, aperto com'era alla vista magnifica di tutta la piaggia, sotto, svariata
di poggi, di valli, di piani, e del mare in fondo, nella sterminata curva dell'orizzonte.
Quel cipresso, stagliandosi nero e maestoso dopo il fiammeggiare dei meravigliosi tramonti
su la piaggia che sembrava tutta di notturno azzurro, pareva riassumesse in sé la
tristezza infinita del silenzio che spirava dai luoghi, sonori un tempo di tanta vita. Era
qua, ora il regno della morte. Dominata, in vetta al colle, dall'antica cattedrale
normanna, dedicata a San Gerlando, dal Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città
dei preti e delle campane a morto. Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si
rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l'invito alla preghiera, diffondendo
per tutto un'angosciosa oppressione. Non passava giorno che non si vedessero per via in
processione funebre le orfanelle grige del Boccone del povero: squallide, curve,
tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, e un cero in
mano. Tutti, per poca mancia, potevano averne l'accompagnamento; e nulla era piú triste
che la vista di quella fanciullezza oppressa dallo spettro della morte, seguito cosí ogni
giorno, a passo a passo, con un cero in mano, dalla fiamma vana nella luce del sole.
Chi poteva curarsi, in tale animo, delle
elezioni politiche imminenti? E poi, perché? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, né
mai l'aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e
considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso, chiunque si levasse a gridarle contro.
In quei giorni, piú che delle imminenti
elezioni politiche, gli sfaccendati parlavano del duello del candidato Ignazio Capolino
con Guido Verònica.
Per l'intromissione violenta di Roberto
Auriti, la questione cavalleresca sera complicata. Guido Verònica aveva accettato
subito la sfida del Capolino; aveva chiesto però qualche giorno di tempo per provvedersi
di padrini. Ed era arrivato da Palermo il deputato Corrado Selmi, con un altro signore,
che si diceva famoso spadaccino. Roberto Auriti, intanto, non potendo battersi col Prèola
e non volendo che altri vendicasse della turpe offesa la memoria del padre, aveva preteso
di battersi lui per primo col Capolino. I padrini di questo, il Verònica stesso, si erano
opposti a tale pretesa. A nome del Capolino quelli avevano lealmente dichiarato di
deplorar l'articolo del Prèola, pubblicato di furto nel giornale. Squalificato cosí dai
suoi stessi partigiani il vero autore dell'offesa, peraltro riconosciuto indegno di
scendere sul terreno e ormai cacciato via da Girgenti, l'Auriti non aveva piú da
domandare altra soddisfazione; e un solo duello doveva aver luogo, perché l'affare si
terminasse lodevolmente: tra il Veronica e il Capolino, per l'aggressione da questo patita
sulla pubblica via. Troppo giusto!
La vertenza tanto dibattuta aveva
appassionato vivamente la cittadinanza, tra la quale d'improvviso serano scoperti
tanti calorosi dilettanti di cavalleria; e la passione sopra tutto sera accesa per
l'intervento d'un uomo cosí noto come il Selmi e per le arie spagnolesche e provocanti
dell'altro testimonio del Verònica, spadaccino.
Ma, dal canto suo, il campione paesano,
Ignazio Capolino sera affidato anche lui in buone mani: a un certo D'Ambrosio
lontano parente della moglie, che sapeva tener bene la spada in pugno e non si sarebbe
lasciato imporre né dal prestigio di Corrado Selmi né dalla spocchia di quell'altro
messere. E lui solo, ohé! perché l'altro testimonio di Capolino faceva ridere: Niní De
Vincentis, figurarsi!
Povero Niní, vi era stato tirato proprio
pei capelli! Sciabole, sangue lui che era una damigella, un San Luigi col giglio in mano.
Sarebbe svenuto certamente, assistendo allo scontro! Che idea, quel Capolino, andare a
scegliere proprio Niní, come se non ci fossero stati altri piú adatti in paese! Ma forse
lo aveva scelto il D'Ambrosio, apposta, per una bravata, per rispondere ironicamente alla
chiamata dello spadaccino dalla parte avversaria.
Niní ignorava ancora il rifiuto reciso
opposto dal Salvo alla domanda di matrimonio che - costretto dal fratello Vincente gli
aveva fatto rivolgere da monsignor Montoro. Il Capolino lo aveva forzato ad accettar
quell'ufficio per lui terribile di secondo testimonio al duello, dandogli a intendere che
il Salvo lo avrebbe molto gradito. Perbacco, doveva sí o no sfatare una buona volta la
fama di verginale timidezza che sera fatta in paese? Uomo! uomo! bisognava che si
dimostrasse uomo! Del resto, pancia e presenza: non si voleva altro da lui. Che pancia?
Dove aveva la pancia Niní? Fino e diritto come un bastoncino... Via, era un modo di dire,
pancia e presenza.
Composto, elegantissimo come un vero
zerbinotto di Parigi, avrebbe fatto una splendida figura.
Tutti e quattro i padrini serano
recati nella mattinata alla villa del principe di Laurentano, a Colimbètra, dove il
duello avrebbe avuto luogo, per i concerti opportuni e la scelta del terreno. Nessuno lí
si sarebbe attentato a disturbare lo scontro. Il principe, la mattina seguente, si sarebbe
recato a Valsanía per la presentazione con la sposa, com'era già convenuto; subito dopo
la partenza del principe, si sarebbe fatto il duello.
Gli sfaccendati peripatetici assistettero
dal viale della Passeggiata al ritorno in carrozza dei quattro padrini da Colimbètra.
Ignazio Capolino, intanto, aspettava i
suoi, passeggiando coi maggiorenti del partito su l'ampia terrazza marmorea, davanti al
Circolo che, come tant'altre cose, aveva anchesso nome da Empedocle.
Quel duello, proprio alla vigilia delle
elezioni, gli aveva accresciuto importanza e simpatia. Mostrava di non curarsene affatto,
e questa noncuranza per nulla ostentata destava ammirazione e compiacimento negli amici
che gli passeggiavano accanto. Aveva già intrapreso il giro elettorale, e ora descriveva
le festose accoglienze ricevute il giorno avanti nel vicino borgo di Favara. Avrebbe
voluto recarsi quel giorno stesso nell'altro borgo di Siculiana, dove gli elettori lo
attendevano impazienti; ma il D'Ambrosio, suo padrone, suo tiranno in quel momento,
gliel'aveva assolutamente proibito, per paura che si strapazzasse troppo.
Gli dispiaceva per gli amici di Siculiana,
ecco. (Gli avevano preparato anchessi una gran festa. La vittoria era sicura, non
ostanti le minacce e le prepotenze del Governo e gli ordini del Prefetto e le persecuzioni
della polizia. Roberto Auriti avrebbe avuto, sí e no, una maggioranza di pochi voti
soltanto nel borgo di Comitini, dove Pompeo Agrò contava molti amici.
Capolino dava queste notizie con sincero
rammarico per il suo avversario, e sinceramente questo rammarico era condiviso da quanti
lo ascoltavano. Perché si sapeva che l'Auriti non aveva mai cavato alcun profitto dai
principii liberali, per cui da giovine aveva combattuto, né dalla fedeltà che sempre
aveva serbato ad essi; certamente non per cavarne profitto adesso era venuto a chiedere il
suffragio dei suoi concittadini, bensí quasi per un dovere impostogli, o forse per
l'ingenua illusione che potesse bastargli a chiederlo il rispetto che si doveva alla sua
onestà. Nessuno gli negava questo rispetto, e tutti si sentivano anche disposti a
rendergli qualche onore consentaneo ai suoi meriti. Quello della deputazione, no, via: non
era, né poteva essere per lui; e la prova piú evidente era appunto nell'ingenuità di
quella sua illusione.
Venuti i padrini, Capolino sappartò
con essi in un angolo dell'ampio salone del Circolo.
Niní De Vincentis pareva imbalordito, col
viso chiazzato, come se gli avessero dato qua e là tanti pizzichi, e gli occhi lustri,
assenti e scontrosi. Il D'Ambrosio, alto e biondo, miope, irrequieto, dalla faccia equina,
le spalle in capo, il torace enorme e le gambe secche e lunghe, parlava arruffato,
ruzzolando le parole. Era sguajatissimo, e tutti tolleravano le sue sguajataggini, non
solo perché lo sapevano manesco, ma anche perché spesso faceva ridere. Le sue ingiurie
si spuntavano e perdevano il fiele nelle risate da cui erano accolte, e cosí egli poteva
ingiuriar tutti e scagliare in faccia le villanie piú crude senza che nessuno se ne
sentisse offeso o ferito.
"Fammi il santissimo piacere,"
cominciò, "di dire a mia cugina Nicoletta che questa sera si stia quieta, perché tu
devi combattere per i santi diavoli. Voglio dire per i santi ideali. Sei vecchio, Gnazio,
lo vuoi capire? Stendi il braccio fammi vedere se ti trema.
Capolino, sorridendo, stese il braccio.
"Va bene," riprese il
D'Ambrosio. "Gli daremo le palle, caro mio. Sul serio! Prima, alla pistola. Scambio
di tre palle, a venticinque passi. (Raccomandazione a Niní di non turarsi gli orecchi, al
botto). Poi, alla sciabola. Quanto alla sciabola, siamo a cavallo; ma per la pistola,
Gnazio mio, sei vecchio, e ho paura che... Basta; vieni con me, a casa mia. C'è il
cortile. Voglio vedere come tiri.
Capolino tentò d'opporsi; ma non ci fu
verso: dovette andare, e anche Niní, per esercitarsi gli orecchi al botto.
Presero per l'erta via di Lena, dove
pareva fosse un tumulto attorno a qualcuno che cantava. Niente! Erano pescivendoli che
arrivati or ora dalla marina, scavalcati dalle mule cariche, gridavano tra la folla il
pesce fresco, con lunga e gaja cantilena. I tre proseguirono per la salita sempre piú
erta di Bac Bac, finché non giunsero presso la porta piú alta della città, a
settentrione, il cui nome, arabo anchesso, Bâb-er-rijah (Porta dei venti),
era divenuto Bibería.
Il D'Ambrosio stava lassú, in una casa
antica, col baglio (vasto cortile acciottolato) e un cisternone in mezzo, insieme
con la madre vecchissima, per cui aveva una devozione piú che religiosa. La povera
vecchina era sorda, e viveva in continua ansia, in continui palpiti per quel suo figliuolo
impetuoso. Sempre con la calza in collo, stava a guardare dai vetri duna finestra.
Vedeva il colle, su cui sta Girgenti, scoscendere in ripido pendío su la Val Sollano,
tutta intersecata di polverosi stradoni. Il panorama, di fronte, era profondo e montuoso.
A destra, si levava fosco e imminente monte Caltafaraci; piú là, in fondo, il San
Benedetto; quindi sallargava il piano di Consòlida, e a mano a mano, sempre piú
verso ponente, il pian di Clerici, di là dalla montagna di Carapezza e di Montaperto piú
qua. Giú, dirimpetto, la Serra Ferlucchia, gessosa, mostrava le bocche cavernose delle
zolfare e i lividi tufi arsicci dei calcheroni spenti. In fondo in fondo, dai confini
della provincia sorgeva maestoso e invaporato Monte Gemini, tra i piú alti della Sicilia.
La grigia, arida asperità ferrigna era solo interrotta qua e là da qualche cupo carubo.
Il D'Ambrosio fece aspettare i due amici
nel cortile; andò sú e ridiscese subito con una grossa rivoltella da cavalleggere e una
scatola di cartucce; tracciò con un pezzo di carbone sul muro, presso la stalla vuota,
quattro segnacci, un uomo, Guido Verònica; poi contò dal muro venticinque passi.
" Qua, Gnazio! Batto tre volte le
mani; alla terza, fuoco! In guardia."
Capolino si prestava a quella prova come a
uno scherzo svogliato. Tuttavia, quando si vide innanzi, sul muro, quella quintana là,
che ora smorfiosamente inerte pareva aspettasse i suoi colpi ma che domani gli si sarebbe
fatta incontro staccandosi da quel muro, con gambe e braccia vive, presentandogli la bocca
d'un'altra pistola, Capolino, col sorriso rassegato sulle labbra, aggrottò le ciglia e
tirò con impegno.
Il D'Ambrosio si dichiarò molto
soddisfatto della prova. poi, per ridere, volle forzare Niní a tirare anche lui al
bersaglio. Niní recalcitrò come un mulo. Ma il D'Ambrosio tanto disse, tanto fece, che
lo costrinse a sparare; poi, subito dopo, scoppiò in una matta risata:
"Parola mia d'onore, ha chiuso gli
occhi, tutti e due! Un bicchier d'acqua! un bicchier d'acqua!"
E corse a sostenerlo, come se davvero
Niní stesse per svenire. Ma non insistette molto su quello scherzo. Prese a parlare con
molto fervore di Corrado Selmi:
"Simpaticone! Pare un giovanotto,
sai? ed è del 4 aprile della campana della Gancia... Deve avere per lo meno
cinquant'anni... Ne dimostra trentacinque, trentotto al piú... Geniale, spregiudicato,
alla mano. Dicono che ha piú debiti che capelli. Me l'immagino! E... gallo, oh! Matto per
le pollastrelle. Sua Eccellenza il ministro D'Atri pare ne debba sapere qualche
cosa..."
Presi gli accordi per la mattina seguente,
Capolino andò via con Niní De Vincentis.
"Mi raccomando per Nicoletta!
Prudenza alla vigilia!" gli gridò dietro il D'Ambrosio dall'usciolo del cortile,
facendosi portavoce delle mani; poi, come se avesse veduto un cane arrabbiato:
"Scànsati, Gnazio! scànsati! Passa là! passa là!"
Capolino e Niní De Vincentis si voltarono
a guardare, ridendo, e videro alle loro spalle Nocio Pigna, Propaganda, che
scendeva per la stessa via col lungo braccio penzoloni e l'altro pontato a leva sul
ginocchio. Propaganda si voltò anche lui, iroso, verso il D'Ambrosio, sbarrò gli
occhi lustri da matto e levando il braccio, gli scagliò la parola, chera per lui il
piú grave marchio d'infamia:
"Ignorante!
E aveva piú che mai il diritto,
adesso, di bollar con questo marchio tutti i suoi nemici, borghesi e preti e titolati,
Propaganda: il Fascio, a dispetto della Prefettura e del Municipio della Polizia e
del Comando militare, era riuscito finalmente a metterlo sú.
Sissignori, anche a Girgenti, nel paese
dei corvi e delle campane a morto, un Fascio, con tutti i sagramenti.
Guardava lassú, gonfio d'orgoglio e con
aria di protezione, quelle vecchie casupole del quartiere di San Michele, tane di miseria;
quelle anguste viuzze storte sudice, affossate, piene tutte di quel tanfo che suol
lasciare la spazzatura marcita; gli occhi gli sfavillavano. Piú che con gli uomini, se la
intendeva per ora con le pietre corrose e annerite di quelle casupole, coi ciottoli mal
connessi di quelle viuzze fetide e dirupate; parlava con esse in cuor suo; diceva loro:
"Bai bai!". Sopra tutto per l'onore del paese, infatti, aveva lottato e
lottava, perché non si dicesse che Girgenti sola, quando tutta l'isola era in fermento,
restava muta e come morta. Presto in quelle case, presto per quelle vie una nuova vita
avrebbe tripudiato.
Era un gran dire però, che gli dovesse
costar tanta fatica il persuadere agli altri di fare il proprio bene; e che tutti lo
dovessero costringere ad affannarsi, a incalorirsi in quell'opera di persuasione cosí,
che quasi quasi si poteva sospettare ci avesse qualche tornaconto!
Chi glielo faceva fare? Oh bella! Era
stato messo da parte, espulso dalla società, reso nella sua stessa casa superfluo. Con le
buone e con le cattive gli avevano detto e dimostrato che se ne poteva pure andare; che
non si aveva piú alcun bisogno di lui. Dopo averlo spremuto come un limone, avergli
disonorato una figlia, o, come lui diceva, "inzaccherata di fango la canizie",
averlo calunniato e infamato, volevano buttarlo via? Ah, no! Queste cose al Pigna non si
facevano. Non solo non era superfluo, ma anzi necessario, perdio, voleva essere:
necessario, a dispetto di tutti! E presto se ne sarebbero accorti gli ignoranti che non
volevano riconoscerlo. Se altri lavorava per il suo mantenimento, egli non ne profittava
che per lavorare a sua volta per gli altri; con questo per giunta, che l'ajuto dato a lui
era misero, in fondo, e per meschine, infime necessità, mentre l'ajuto chegli dava
agli altri, l'opera chegli metteva, era grande e per necessità superiori. Facile,
comoda, quest'opera? Ah, sì, tutta rose, difatti! Ma scalmanarsi da mane a sera, correr
di qua e di là con quelle belle cianche che Dio gli aveva date, perderci la voce,
sprecarci il fiato, ognuno poteva immaginare che bel piacere dovesse essere!
Come una rocca assediata, che di tutto
ciò che aveva dentro si fosse fatto arma e puntello per resistere agli assalti di fuori,
e dentro fosse rimasta vuota, Nocio Pigna aveva posto davanti e dietro e tutt'intorno a
sé ragioni e sentimenti, tutte le sue disgrazie, com'armi di difesa contro a quelli che
lavoravano accanitamente per levargli ogni credito. Piú parlava e piú le sue stesse
parole accrescevano la sua persuasione e la sua passione. Ma a furia di ripetere sempre le
medesime cose, col medesimo giro, queste alla fine gli serano fissate in una forma
che aveva perduto ogni efficacia; gli serano, per dir cosí, impostate su le labbra,
come bocche di fuoco che non mandavano piú fuori se non botto, fumo e stoppaccio. Dentro,
non aveva piú nulla. Era un uomo che parlava, e nient'altro.
Il Fascio, intanto, lo aveva messo sú.
Che fosse proprio tutto di lavoratori, si poteva dubitare. Neanchegli, Propaganda,
forse avrebbe avuto il coraggio d'affermare che quegli stessi non lavoratori iscritti
fossero molti per ora. Ma il forte era cominciare; e cosí, a poco a poco, si comincia.
Certo, una bella retata, un'entratura solenne con qualche migliajo di socii raccolti in un
sol giorno sarebbe stata possibile a Porto Empedocle soltanto, tra gli uomini di mare,
i carrettieri, i mozzi delle spigonare, i giovani di magazzino, i pesatori e gli
scaricatori. Ma a Porto Empedocle... Piano, per amor di Dio! non poteva piú sentirlo
nominare, Nocio Pigna: la memoria della baja che gli avevano data laggiú era come una
piaga sempre aperta nel cuore di lui e, a toccargliela appena appena, non avrebbe finito
piú di strillare. Figli di cane, ributto d'ogni civiltà! avere il mare, signori miei,
lí sempre davanti agli occhi; che si scherza? il mare, l'immensità! aver posto le
proprie case su la spiaggia in attesa delle navi di lontani paesi, cioè la propria vita
alla mercé delle genti; e, sissignori, nessuno spirito di fratellanza umana! di tutto
quel mare non sapevano veder altro che la spiaggia, anzi le immondizie soltanto della
spiaggia, le loro fecce scorrenti lungo le fogne scoperte. Quel mare, ah quel mare avrebbe
dovuto gonfiarsi d'ira, di sdegno, alzare un'ondata e sommergerlo, ingojarselo, quel paese
dl carognoni!
Qua, a Girgenti, bisognava lavorare come
le formiche, pazienza! Aveva cominciato a trattare con qualche presidente delle maestranze
locali: ma quelle due mani afferrate, simbolo delle società di mutuo soccorso, mani
tagliate, senza sangue, cioè senza colore politico, o mani col santo rosario e la rametta
d'olivo di qualche circolo cattolico, stentavano a staccarsi, stentavano a tendersi
fraternamente ai lavoratori d'altre arti e d'altri mestieri, come avevano fatto a Catania,
a Palermo, per comporre un piú ampio circolo, l'unione di tutte le forze proletarie, il
Fascio dei Fasci, insomma. Luca Lizio aveva già scritto a Roma a don Lando Laurentano
(chera dei loro, vivaddio, principe e socialista!), perché désse lui la spinta a
tutti i perplessi e i titubanti: una sola parola di lui, un cenno sarebbe bastato. Si
aspettava di giorno in giorno la risposta, la quale forse tardava per il dispiacere che
quel buffo matrimonio del padre doveva cagionare al giovine principe. Intanto lui, Nocio
Pigna, non perdeva tempo e non savviliva tra gli ostacoli. Comprendeva che sarebbe
stata ingenuità far troppo assegnamento su quelle maestranze: in un paese morto come
Girgenti, privo d'ogni industria, ove da anni non si fabbricavan piú case e tutto
deperiva in lento silenzioso abbandono; ove non solo non si cercavano mai svaghi costosi,
ma ciascuno si sforzava di restringere i piú modesti bisogni; muratori e fabbri-ferraj,
sarti e calzolaj dipendevano troppo dai pochi cosí detti signori; e il segreto
malcontento non avrebbe trovato certo in loro il coraggio d'affermarsi apertamente,
all'occasione. Domani avrebbero votato tutti per quel farabutto di Capolino, a un cenno di
don Flaminio Salvo. Ma pure, entrando, iscrivendosi al Partito, gli operaj potevano
servire d'esempio ai contadini; tirarseli dietro, ecco. Come le pecore questi - poveretti!
- Pecore però, che sapevan la crudeltà delle mani rapaci che le tosavano e le mungevano;
pecore che, se riuscivano ad acquistar coscienza dei loro diritti, a compenetrarsi
minimamente di quella famosa "virtú della loro forza", sarebbero diventate lupi
in un punto. Parte di essi, intanto, dimorava sparsa nelle campagne e non saliva alla
città, alta sul colle, se non le domeniche e le feste. Quelli tra loro che si chiamavano garzoni,
i meno imbecilliti dalla miseria, perché riscotevano tutto l'anno un meschino salario,
temevan troppo i castaldi, o curàtoli, o soprastanti, feroci aguzzini a
servizio dei padroni. Restavano i braccianti a giornata, quelli che, dopo sedici ore di
fatica (quando avevan la fortuna di trovar lavoro), si riducevano la sera in città con la
Zappa in collo, la schiena rotta e quindici soldi in tasca, sí e no. A questi mirava
Nocio Pigna; erano i piú; ma creta, creta, creta, su cui Dio non aveva soffiato, o la
miseria aveva da tempo spento quel soffio; creta indurita, che destava pena e stupore se,
guardando, moveva gli occhi e, parlando, le labbra.
Aveva preso in affitto il vasto magazzino
d'un pastificio abbandonato al Piano di Gamez, accanto alla sua casa: capace di
cinquecento e piú socii. Umido e bujo, di giorno, senza l'ajuto di due o tre candele non
ci si vedeva; ma con quelle candele accese e certi vecchi paramenti sacri di finto damasco
appesi alle pareti, aveva l'aria d'un funerale. Quei paramenti avevano ornato, un tempo,
nelle feste solenni, la chiesa di San Pietro di cui Nocio Pigna era stato sagrestano; li
aveva avuti in dono dal padre beneficiale d'allora, quando serano fatti i nuovi; e
li aveva conservati con la canfora e col pepe in una vecchia cassapanca, tesoro ormai
screditato. Ora, con le dieci tabelle sopra, cinque di qua e cinque di là, coi motti
sacramentali del Partito, Luca Lizio poteva pur dire di no, ma agli occhi di Pigna
facevano una magnifica figura. Del resto, per attirare i contadini, non vedeva male che il
Fascio avesse quell'aria di chiesa; e su la tavola della presidenza aveva posto anche un
Crocefisso. Dietro la tavola troneggiava lo stendardo rosso ricamato da sua figlia Rita,
la compagna di Luca. E Luca stava lí, dalla mattina alla sera, a studiare Marx (Marchis,
diceva il Pigna), a prendere appunti, a corrispondere coi presidenti degli altri Fasci
della provincia e con quelli di tutta l'isola e con Milano e con Roma. Qualcuno, passando
davanti al portone del Fascio, talvolta lo poteva vedere magari intento a cavarsi qualche
caccoletta dal naso; quand'uno è assorto e perduto nei suoi pensieri, un dito nel naso è
niente, le maleducazioni a cui, senza saperlo, può lasciarsi andare, sono senza fine e
imprevedibili; in quei momenti Luca non avvertiva neppur le strombettate dei cinque fratelli
addetti alla fanfara; i quali, per dire la verità, erano un'ira di Dio. Ma non conveniva
raffreddare l'entusiasmo giovanile. Cinque tra gli studenti dell'Istituto Tecnico accorsi
tra i primi a iscriversi al Partito: Rocco Ventura, che aveva preso quell'anno il diploma
di ragioniere, Mondino Miccichè, Bernardo Raddusa, Totò Licasi ed Emanuele Garofalo
ajutavno Luca nella corrispondenza. Avevan trovato un galoppino che sera assunto
l'ufficio della polizia segreta, un certo Pìspisa, che bazzicava tutto il giorno
con quelli della questura. I quaranta socii, che presto sarebbero diventati quattrocento,
quattromila, avevano già eletto i loro decurioni, ciascuno con la sua brava fascia rossa
a tracolla. In previsione di qualche arresto del presidente, cioè di Luca Lizio, era
stato eletto dal Consiglio presidente segreto Rocco Ventura. Perché già, tanto lui
Pigna, quanto il Lizio erano stati chiamati insieme ad audiendum verbum dal
cavalier Franco, commissario di polizia. Uh, garbatissimo, biondo e sorridente, strizzando
i begli occhi languidi o carezzandosi con le bianche mani di dama l'aurea barbetta
spartita sul mento, il cavalier Franco aveva tenuto loro un discorsetto che Pigna non si
stancava di ripetere a tutti, imitando i gesti e la voce. Il rosso, il rosso del gonfalone
e delle fasce aveva urtato sopra tutto il signor commissario. Eh già come i tori, la
sbirraglia davanti al rosso perdeva il lume degli occhi. Ma non sera mica infuriato
il cavalier Franco: tutt'altro; aveva voluto sapere perché rosso, ecco, quando c'erano
tant'altri bei colori. E un'altra cosa aveva voluto sapere: perché proprio loro due,
Lizio e Pigna, serano messi a quell'impresa. Che speravano? che se n'aspettavano? Un
seggio al Consiglio comunale, o anche piú sú, al Parlamento? Niente di tutto questo? E
allora perché? Per disinteressata carità di prossimo? Oh guarda! Ma erano poi certi di
rendere al popolo un servizio rialzandolo dalle condizioni in cui si trovava? Chi sta al
bujo non spende per il lume; e il lume costa, e fa veder certe cose che prima non si
vedevano; e piú se ne vedono e piú se ne vogliono. Ora, in che consiste la vera
ricchezza, la vera felicità? Nell'aver pochi bisogni. E dunque... e dunque... - Insomma,
uno squarcio di filosofia e questa conclusione:
"Cari signori, io non vi faccio
arrestare, neanche se voi voleste. Voi dite che l'urto avverrà per forza, se non migliora
la sorte dei vostri protetti? Bene. Io vi prego di ricordarvi della brocca che tanto andò
al pozzo... E non aggiungo altro!"
Era rimasto un po' tra indispettito e
sconcertato il cavalier Franco dal silenzio di Luca; parlando, sera rivolto sempre a
lui, e a stento aveva nascosto la stizza nel sentirsi invece rispondere dal Pigna. Ma
avrebbe potuto dirgli, questi, la ragione di quel silenzio? Povero Luca, che supplizio!
Sarebbe stato meno da compiangere, se cieco. Oratore nato, nato per arringar le folle,
vero tipo dell'uomo pubblico, tutto per gli altri, niente per sé - bollato nella lingua
dal destino buffone! Scriveva, si sfogava a scrivere, e schizzava fuoco dalla penna
schegge d'inferno; poi sarrabbiava, poveretto, si mangiava le mani, mugolava, quando
sentiva leggere la roba sua senza il giusto tono, il giusto rilievo, la fiamma che ci
aveva messo lui dentro, nello scriverla. Nessuno lo contentava, neanche Celsina, quella
tra le figliuole del Pigna, che sola sera tutta accesa delle nuove idee. Anche Rita,
sí, un poco, prima che le nascesse il bambino... Ma che cosera Rita a confronto di
Celsina? Altra spina, questa, che faceva sanguinare il cuore di Nocio Pigna: non poter
mandare all'Università questa figliuola, che aveva preso la licenza d'onore all'Istituto
Tecnico, sbalordendo tutti, preside, professori e condiscepoli. A tanti scemi, figli di
ricchi signori, la via aperta e piana; a Celsina, troncata ogni via; condannata Celsina a
funghir lí in quel paese marcio, d'ignoranti. Ecco la giustizia sociale! Intanto, quella
sera, vigilia delle elezioni, Celsina avrebbe fatto la sua prima comparsa in pubblico:
avrebbe tenuto una conferenza nella sede del Fascio. Era in giro dalla mattina, Nocio
Pigna, per questo solenne avvenimento.
Mancavano le seggiole.
Se ogni socio si fosse portata la sua con
sé, e l'avesse poi lasciata lí... Per ora, egli non pretendeva neppure che pagassero con
la dovuta puntualità la misera quota settimanale. Ma avessero almeno regalato una
seggiola, santo Dio, da servire per loro stessi! Niente. Sí e no, aveva potuto metterne
insieme una ventina. Pensava a tutte le seggiole delle chiese, a quelle cherano
sotto la sua custodia, un tempo, a San Pietro; pensava alle carrettate che ogni domenica
sera se ne trasportavano all'emiciclo in fondo al viale della Passeggiata, ove sonava la
banda militare. Seggiole d'avanzo, là per le bigotte, qua per le civette! e nel Fascio,
niente! Colpa dei socii, però, alla fin fine; e dunque, peggio per loro! Sarebbero
rimasti in piedi.
Stava per rincasare, quando da un
vicoletto che sboccava nella piazza sentí chiamarsi piano da qualcuno in agguato lí ad
aspettarlo, incappucciato.
"Ps, ps..."
Un contadino! Il cuore gli diede un balzo
in petto. Gli saccostò premuroso.
"Serv'a Voscenza. Posso dirle
una parolina?"
"Come dici?" gli domandò Nocio
Pigna, facendoglisi piú presso, costernato dall'aria di sospetto e di mistero con cui
quell'uomo gli stava davanti, parlando dentro il cappuccio che gli lasciava scoperti
appena gli occhi soltanto. "Vuoi parlare con me?"
" Sissignore," rispose quegli
piú col cenno che con la voce.
"Eccomi, figlio mio,"
saffrettò a dir Pigna. "Vieni qua... entriamo qua..."
E glindicò il portone del Fascio.
Ma quegli negò col capo e subito si
trasse piú indietro nel vicoletto. Pigna lo seguí.
"Non aver paura. Non c'è nessuno.
Che vuoi dirmi?"
L'uomo incappucciato esitò ancora un po',
prima di rispondere; volse intorno gli occhi sospettosi, poi mormorò, sempre dentro il
cappuccio:
"M'hanno parlato a quattr'occhi...
Persona fidata... Dice che..."
E sinterruppe di nuovo.
"Parla, parla, figlio mio," lo
esortò il Pigna. "Siamo qua soli... Che t'hanno detto?"
Gli occhi sospettosi sotto il cappuccio
espressero lo sforzo penoso che colui faceva su se stesso per vincere il ritegno di
parlare. Alla fine, stringendosi piú al muro e stendendo appena fuor del cappotto una
mano sul braccio del Pigna, domandò a bassissima voce:
"E qua che si spartiscono le
terre?"
Nocio Pigna, mezzo imbalordito per tutto
quel mistero, restò a guardarlo un pezzo di traverso, a bocca aperta.
"Le terre?" disse. "Le
terre, no, figlio mio."
Quegli allora alzò il mento e chiuse gli
occhi, per un cenno d'intesa. Sospirò:
"Ho capito. Mi pareva assai! Mi hanno
burlato."
E si mosse per andar via. Nocio Pigna lo
trattenne.
"Perché burlato? No, figlio mio...
Senti..."
"Mi scusi Voscenza,"disse
quegli, fermandosi per farsi dar passo. "È inutile. Ho capito. Mi lasci
andare..."
"E aspetta, caro mio, se non mi dài
il tempo di spiegarmi..." saffrettò a soggiungere il Pigna. "Le terre,
sissignore, verranno anche quelle... Basta volere! Se noi vogliamo... Sta tutto qui!"
Quegli seguitò a scuotere il capo con
amara e cupa incredulità; poi disse:
"Ma che dobbiamo volere, noi
poveretti? che possiamo volere?"
Pigna si scrollò, urtato:
"E allora, scusa, tie', ti do le
terre, è vero? Prima di tutto dev'esserci la volontà, in te e in tutti, senza paura,
capisci? Non c'è bisogno di guerra, mettiti bene in mente questo! Noi vogliamo anzi
cantare inni di pace, caro mio. Il Fascio è come una chiesa! E chi entra nel
Fascio.."
"Voscenza mi lasci
andare..."
"Aspetta, ti voglio dir questo
soltanto: chi entra nel Fascio, entra a far parte d'una corporazione che abbraccia, puoi
calcolare, i quattro quinti dell'umanità, capisci? i quattro quinti non ti dico altro.
E agitò innanzi a quegli occhi le quattro
dita d'una mano:
Poi riprese:
"Unione, corpo di Dio, e siamo tutto,
possiamo tutto! La legge la detteremo noi: debbono per forza venire a patti con noi. Chi
lavora? chi zappa? chi semina? chi miete? O date tanto, o niente! Questo per il momento.
Il nostro programma... Vieni, ti spiego tutto."
"Voscenza mi lasci andare... Non è
per me..."
"Come non è per te, pezzo d'asino?
se si tratta proprio di te, della tua vita, del tuo diritto? Pensaci, figlio! Guarda: il
Fascio è qua. Mi trovi sempre."
"Sissignore, bacio le mani... Per
carità, come se non le avessi detto niente..."
E, voltate le spalle, se n'andò randa
randa, guardingo. Nocio Pigna lo seguí per un pezzo con gli occhi, scrollando il capo.
Trambusto, a casa, piú del solito. Si
progrediva notevolmente, di giorno in giorno, verso la rivoluzione sociale. C'erano e
sindovinava subito fin dalla strada - i cinque studenti, già condiscepoli di
Celsina. C'era anche, ma ingrugnato e tutto aggruppato in un angolo, Antonio Del Re, il
nipote di donna Caterina Laurentano e di Roberto Auriti. Parlavano tutti insieme a voce
alta. Il gigante, cioè Emanuele Garofalo, e quel piccolo Miccichè che friggeva in ogni
membro e scattava e schizzava come un saltamartino, e il recalmutese atticciato e violento
Bernardo Raddusa gridavano, non si capiva bene che cosa, attorno a sua figlia Mita, la
maggiore delle sei rimaste in casa, quella che lavorava tutto il giorno e talvolta anche
la notte insieme con Annicchia, chera la terza. Attorno a questa strillavano le
sorelle Tina e Lilla con Totò Licasi e Rocco Ventura; Rita cercava di quietare il bimbo
che piangeva, spaventato; Celsina, accesa di stizza, litigava con Antonio Del Re; e, come
se tutto quel badanai fosse poco, Nzulu il vecchio barbone nero baffuto e
mezzo cieco, acculato su una seggiola, levando alto il muso, si esercitava in lunghi e
modulati guaiti di protesta.
Luca Lizio, appartato, si teneva il capo
con tutt'e due le mani, quasi per paura che quegli strilli glielo portassero via.
"Signori miei, che cosè? dove
siamo?" gridò Nocio Pigna, entrando.
Tutti si voltarono, gli corsero incontro
e, accalorati, presero a rispondergli a coro. Nocio Pigna si turò gli orecchi.
"Piano! Mi stordite! Parli uno!"
"Mita e Annicchia, al solito!"
strillò Tina.
" Smorfie" aggiunse Lilla.
Ed Emanuele Garofalo, il gigante, scotendo
le braccia levate, con voce da cannone:
"Tutti giú! tutti giú!"
"Simponga l'autorità
paterna!" saltò a dire Mondino Miccichè, facendo il mulinello in aria col
bastoncino.
" Non capisco nulla! Zitti!"
urlò Nocio Pigna.
Tacquero tutti; ma subito, nel silenzio
sopravvenuto, sonò un: "Mammalucco!" rivolto da Celsina ad Antonio Del Re con
tale espressione di rabbia concentrata, che le risa si levarono fragorose.
Celsina si fece avanti, snella su i
fianchi procaci, col seno colmo in sussulto, il bruno volto in fiamme e gli occhi
sfavillanti. In mezzo a tutte quelle risa, l'espressione di fierissima stizza accennò in
un baleno di scomporsi, le labbra di fuoco le si atteggiarono per un momento a un riso
involontario, ma subito si riprese e gridò imperiosamente e con sprezzo:
"Andiamo! andiamo! andiamo! Chi vuol
sentire, senta! Chi non vuol sentire... me n'importa un corno!"
"Insomma," gemette Nocio Pigna,
raggruppando le dita delle due mani e giungendole per le punte, "posso sapere che
diavolo è avvenuto?" E subito aggiunse, sbarrando gli occhi: "Ma parli
uno!"
Parlò Rocco Ventura, piccolo e tondo, col
naso a pallottola in sú e due baffetti spelati che gli cominciavano agli angoli della
bocca e subito finivano lí, come due virgolette:
"Niente," disse,
"proponevamo semplicemente di scendere tutti giú, nella stanza a pianterreno, per
assistere alla prova generale della conferenza di Celsina, ecco.
"E Mita e Annicchia, al
solito..." aggiunse Tina, tutta scarmigliata.
"Smorfie!" ripeté Lilla.
"Non vogliono scendere? e lasciatele
stare!" disse Celsina, dalla soglia. "Loro sono le formiche, si sa, io la
cicala. Andiamo, andiamo giú, e basta!"
Pigna guardò le due figlie Mita e
Annícchia rimaste sedute, tutt'e due vestite di nero, pallide in volto e con gli occhi
dolenti; poi guardò Antonio Del Re, rimasto anchegli seduto, torbido in faccia, con
un gomito appoggiato sul ginocchio e le unghie tra i denti.
"Andate, andate," disse a quelli
che già si disponevano a scendere dietro Celsina nella stanza terrena. "Ora vengo...
Debbo dire una parola a don Nino Del Re."
"Nient'affatto!" gridò Celsina,
risalendo gli scalini della scaletta di legno e ripresentandosi tutta vibrante su la
soglia. "Te lo proibisco, papà! A Nino ho parlato io, e basta! Vieni giú!"
"Va bene, va bene," disse il
Pigna. "Che furia! Debbo tenergli un altro discorsetto io... Piano piano..."
Antonio Del Re si sgruppò, scattò in
piedi per un improvviso ribollimento di sdegno; ma, subito pentito della risoluzione
d'andarsene, restò lí, cercando soltanto con gli occhi, in giro per la stanza, il
cappello.
"Uh, santo Dio, come fate presto a
pigliar ombra anche voi! Non vi precipitate!" esclamò Nocio Pigna.
"Ma no! ma lascialo andare, se vuole
andarsene!" soggiunse aizzosa Celsina. "Mi fa un gran piacere, se va via; già
gliel'ho detto! Anzi, aspetta..."
Corse nel camerino accanto, in cui
dormiva; trasse da un cassetto del canterano una vecchia bambola, la sua ultima bambola di
tant'anni fa, ritrovata per caso alcuni giorni addietro e a cui quel bestione di Emanuele
Garofalo, senz'intendere la pena che le avrebbe cagionato, aveva fatto di nascosto con la
penna un pajo di baffoni da brigadiere; e venne a posarla sul petto d'Antonio Del Re; gli
tirò sú un braccio, perché se la tenesse lí stretta, dicendo:
"Tieni; questa è per te! questa tu
puoi amare!" E di corsa scomparve per la scaletta.
Antonio Del Re buttò la bambola nel
grosso canestro da lavoro, che stava tra Mita e Annicchia. Nocio Pigna rimase un po' a
guardarla, accigliato; si curvò a osservarla davvicino; domandò:
"Che sono, baffi?"
Per tutta risposta, Nino riprese la
bambola e se la ficcò in tasca a capo all'ingiú. Le due gambette, una calzata e l'altra
no, rimasero fuori.
"E cosí il sangue le andrà alla
testa! "disse allora Nocio Pigna." Calma, calma, don Niní! Ragioniamo.
Veramente sarebbe meglio che voi ve n'andaste. La vostra condizione, in questo momento,
con vostro zio a Girgenti, in ballo... Noi qua dobbiamo lavorare. Si comincia adesso; poco
possiamo fare; ma una voce almeno dobbiamo levarla, di protesta. Ora, io entro nel vostro
cuore di nipote, e comprendo. Siete ancora ragazzo, figlio di famiglia: so come la
pensate; certe cose non vi possono far piacere. Dovreste però entrare anche voi un poco
nel mio cuore di padre, comprendere la mia responsabilità, mi spiego? e anche... Don
Niní, sono un uomo esposto, voi lo sapete; un pover'uomo lapidato di calunnie da tutte le
parti: me ne rido; ma quanto a voi e ai vostri parenti, anche per riguardo a... - come
sarebbe di voi don Landino Laurentano? zio? cugino? zio, è vero? già... cugino carnale
di vostra madre - anche per un riguardo a lui, dicevo, non vorrei che si sospettasse...
Parlo bene, Mitina?
Mita alzò gli occhi appena appena dal
lavoro e li riabbassò subito, seguitando a cucire. Antonio Del Re era andato presso la
vetrata del balconcino e guardava fuori, nel Piano di Gamez deserto, seguitando a rodersi
le unghie.
"Sentite," riprese il Pigna.
"E la verità sacrosanta: non ha fatto tanto male a sé, a tutta la sua famiglia e a
voi, vostra nonna..."
A questo punto il Del Re si voltò di
scatto, gli venne incontro, scotendo le pugna, e gridò:
"Basta! basta! basta!"
Nocio Pigna lo guardò un pezzo,
sbalordito, poi disse:
"Ma sapete che mi sembrate pazzi
tutti quanti, oggi, qua? Sto dicendo che il piú gran male lo fece al paese, lasciando
tutto il ben di Dio che Le spettava nelle mani di quel fratello che... Ma poi, ohé don
Niní, lasciamo svaporar le smanie e parliamoci chiaro! Di che colore siete? Cosí non
facciamo niente! Io non vi sforzo. Ma è tempo di risolvervi, caro mio: o qua con noi,
dico col Partito, a viso scoperto; o ve ne state coi vostri. Se non sapete neanche voi
stesso..."
"Ma giusto lei? giusto lei?"
proruppe Antonio Del Re, quasi piangendo dalla rabbia, facendoglisi di nuovo incontro, con
le dita artigliate (alludeva a Celsina). "Perché lei? Non c'eravate voi? non c'erano
quegli stupidi là, Raddusa o Garofalo?"
"Che, lei?" fece il Pigna,
stordito.
"La conferenza," spiegò, a
bassa voce, Annicchia.
"Ah, la conferenza? E che fa?... Ah,
già... Ma scusate tanto, don Nino mio! A voi non brucia! Voi ora ve n'andate a Roma con
vostro zio, a seguitare gli studii, nella bella città; andate a sedere a tavola a pappa
scodellata; tasse, libri, tutto pagato... Ma pensate, Cristo di Dio, che anche mia figlia
qua... Ve l'immaginate come le deve ribollire il sangue, povera figlia mia, pensando che
ha fatto tanto, stentato tanto, per niente? che deve finire cosí tutto il suo amore per
lo studio, tutta la sua smania di riuscire? Lasciatela sfogare! Dovrebbe dar fuoco a tutto
il paese! Vorreste metterle la museruola, per giunta? E con quale diritto, scusate? Che
potete far voi per lei? Se non me ne vado, schiatto..."
Scappò via, anche lui, infuriato, per la
scaletta di legno.
Antonio Del Re era ritornato presso la
vetrata a guardar fuori.
Mita e Annicchia seguitarono a lavorare in
silenzio, a testa bassa. In quel silenzio tutti e tre avvertirono l'affanno del proprio
respiro, che palesava a loro stessi l'interno cordoglio esasperato dal pensiero di non
poter opporsi a quello stato di cose contrario alla loro natura, ai loro affetti, alle
loro aspirazioni.
Il piú combattuto era Antonio Del Re.
Tutta la cupa amarezza della nonna gli sera trasfusa, sin dall'infanzia, nel sangue,
e glielo aveva avvelenato; la tenerezza quasi morbosa, piena di palpiti e di sgomento,
della madre gli dava pena e fastidio, un'angustia che lo avviliva; la remissione dello
zio, sopraffatto dalle tristi vicende, rimasto indietro, pur avendo corso da giovinetto
con tanta fiamma e tanto ardire, e che tuttavia non voleva parer vinto e sorrideva per
mostrar fiducia ancora in un ideale che tanti torti, tanti errori, avevano offeso e
offuscato, gli cagionava dispetto. Sentiva, sapeva che quel sorriso avrebbe voluto
nascondere un marcio insanabile, per una pietà mal intesa. Ma perché, invece di
nasconderlo, non lo scopriva zio Roberto quel marcio, come la nonna, come qua in casa del
Pigna, i suoi compagni, tutti giovani? In un modo, però, questi lo scoprivano, che gli
faceva nausea e stizza. Quelli che avevano operato, combattuto e sofferto, quelli sí
avrebbero dovuto gridar forte contro tante colpe e tante miserie e domandar giustizia e
vendetta in nome dell'opera loro e del loro sangue e delle loro sofferenze; non questi che
nulla avevano fatto, che nulla dimostravano di saper fare, altro che chiacchiere per
passatempo, e metter tutti in un fascio gli onesti e i disonesti, suo zio coi mestatori e
glintriganti, coi tanti patrioti per burla o per tornaconto!
Non questa ingiustizia soltanto, però,
rendeva avverso Antonio Del Re ai suoi compagni. Educato alla scuola di un dolor cupo e
fiero che sdegnava di sfogarsi a parole, d'una rinunzia ancor piú fiera che sdegnava ogni
bassa invidia, se egli si fosse gettato nella lotta, spezzando ogni legame ideale coi
suoi, non avrebbe né proferito una parola né cercato compagni: a testa bassa, coi denti
serrati e la mano armata, subito all'atto si sarebbe avventato. Quelli invece eran lí per
ciarlare, lí per spassarsi con le figlie del Pigna.
Non avrebbe voluto riconoscere Antonio Del
Re che la sua avversione e il suo sdegno erano in gran parte gelosia feroce.
Con lo stesso ardor chiuso con cui si
sarebbe lanciato a un'azione violenta, sera innamorato perdutamente di Celsina fin
dal primo giorno che questa, ragazzetta allora con la vestina fino al ginocchio,
sera presentata alle scuole tecniche maschili. E Celsina, pure corteggiata da tutti
i compagni, aveva risposto all'amore di lui, prima in segreto, poi lasciandolo intravedere
agli altri, dichiarandosi infine apertamente e sfidando la baja dei disillusi. Non
sera chiusa però nel suo amore, non sera accostata e stretta a lui com'egli
avrebbe voluto: era rimasta lí, in mezzo a tutti, col cuore aperto, la mente qua e là,
prodiga di parole, di sguardi e di sorrisi, inebriata dei suoi trionfi, della sua gloriola
di ribelle a tutti i pregiudizii, conscia del suo valore e smaniosa di farsi notare,
ammirare, applaudire.
Piú ella gli appariva cosí, e piú
Antonio riconosceva che non avrebbe dovuto amarla, non solo perché cosí non era secondo
il sentimento suo, ma anche perché, pensando alla madre e alla nonna, comprendeva che
l'una ne avrebbe avuto orrore e l'altra l'avrebbe stimata una fraschetta sciocca. Eppure,
no: non era né cattiva né sciocca Celsina, egli lo sapeva bene; e anzi, se avesse dovuto
ascoltar la voce piú intima e profonda della sua coscienza, voce soffocata dal rispetto,
dalla suggezione, dall'amore, anziché la ribellione aperta di Celsina avrebbe condannato
la fierezza troppo chiusa della nonna, la rassegnazione troppo ligia della madre.
"Don Niní," chiamò con dolce
voce Mita. "Volete venire un po' qua?"
Antonio si scosse, le saccostò, ma
nel vederle sollevare il capo di biancheria chella stava a cucire come per
prendergli una misura, si trasse subito indietro, urtato, scrollandosi tutto.
"No!... no, adesso..."
"Caro don Niní," sospirò Mita.
"Pazienza ci vuole! Bisogna far presto... Voi partite... Beato voi!"
Mita stava ad allestirgli, insieme con la
sorella, la biancheria che doveva portarsi a Roma.
Tutte le migliori famiglie della città, e
anche la nonna e la madre d'Antonio, davan lavoro a quelle due povere sorelle che si
recavano spesso anche a giornata qua e là. La considerazione era per esse soltanto, anzi
la pietà; ed esse lo comprendevano bene, e di giorno in giorno si facevano piú umili per
meritarsela meglio, per dimostrar la loro gratitudine e non essere abbandonate. Capivano
che a troppe cose si doveva passar sopra per ajutarle, a troppe cose che il padre e le
sorelle, anziché attenuare, facevan di tutto perché avventassero di piú, come se
apposta volessero concitarsi contro tutto il paese e stancare la pazienza e la carità del
prossimo. Ma il danno poi non sarebbe stato anche loro? Che doveva dir la gente? Noi,
estranei, dobbiamo aver considerazione per voi, dobbiamo ajutarvi, mentre il vostro sangue
stesso, quelli che voi mantenete con l'ajuto nostro, debbono farci la guerra? Disordini,
scandali, inimicizie!
Per scusare in certo qual modo il padre,
Mita e Annicchia si forzavano a credere che veramente il cervello gli avesse dato di volta
dopo la sciagura di Rosa, la sorella maggiore. Certo, da allora sera aperto
l'inferno in casa loro. Piú che del padre Mita e Annicchia si lagnavano, si crucciavano
in cuore delle sorelle. Come mai non comprendevano queste, che solamente col silenzio, con
la modestia piú umile e piú schiva si poteva, se non cancellare del tutto, render meno
evidente il marchio d'infamia di cui la loro casa era ormai segnata? Rita, quando il
bambino le lasciava un po' le mani libere, e anche Tina e Lilla, sí, le ajutavano a
cucire, a imbastire o a passare a macchina, nei giorni non frequenti che il lavoro
abbondava; ma lavoravano senz'amore, svogliate, specialmente le due ultime, perché non
rassegnate dopo quella sciagura alla rinunzia di ogni speranza e di ogni desiderio. Nel
vederle acconciarsi e rabbellirsi ogni mattina, si sentivano stringere il cuore,
intendendo che non si acconciavano, non si facevano belle per speranze e desiderii onesti:
dovevano sapere anchesse purtroppo che nessuno piú, ormai, avrebbe voluto mettersi
con loro. E da un giorno all'altro saspettavano che Tina e Lilla, con tutti quei
giovanotti lì sempre tra i piedi, avrebbero finito come Rita. Ma avessero trovato almeno
un buon giovine, come Luca! Poteva cader peggio Rita... Perché, in fondo, sí, sí,
dovevano riconoscere che Luca era buono. Solo non potevano passargli l'ostinazione di non
regolare davanti alla legge e all'altare la sua unione con Rita. Era cosí buono con
tutti, e amava tanto il bambino e non pesava nulla in casa. Certo, se non si fosse fatti
tanti nemici per quelle sue idee, e non fosse stato cosí disgraziato, avrebbe potuto
recar molto ajuto alla famiglia, ché, quanto a lavorare, lavorava sempre e doveva esser
dotto davvero, a giudicare dai tanti libri che aveva letti e leggeva!
Un po' di questo rispetto imposto
dall'ingegno e dall'istruzione, Mita e Annicchia lo estendevano anche a Celsina, perché
veramente pareva loro, per tante prove, fuori dell'ordinario, e riconoscevano col padre
che, in altro luogo, in altre condizioni, ella avrebbe fatto davvero chi sa che spicco! La
vedevano piena di sprezzo per gli uomini - e questo per un verso le rassicurava. Ah, gli
uomini ella era andata a sfidarli là, nelle loro stesse scuole; e tutti li aveva
superati! Veramente, quella sfida non avevano saputo approvarla: con maggior profitto, se
pur con minore soddisfazione, avrebbe potuto frequentare le scuole femminili e diventar
maestra. Cosí, invece, era rimasta senza professione. Ma non temevano per l'avvenire:
qualche via, certo, Celsina se la sarebbe aperta, in paese o altrove. Quel povero don
Niní, intanto, che l'amava e ne era geloso... Tanto buono, poveretto! Ma non era per lui,
Celsina. Guaj se lo avessero saputo i suoi parenti! Pareva loro mill'anni che partisse per
Roma.
Annicchia toccò pian piano un braccio a
Mita per mostrarle le due gambette della bambola, che uscivano dalla tasca di lui ancora
lí, dietro la vetrata del balconcino. Mita rispose con un mesto sorriso al sorriso della
sorella; poi sovvenendosi di una preghiera che dalla notte aveva in animo di rivolgere al
giovine, si levò in piedi, posando il lavoro nel canestro. e gli si accostò timidamente.
"Don Niní," gli disse piano,
"prima di partire per Roma, dovreste farmi per l'ultima volta quella tal grazia,
se..."
"No, per carità, no, Mita, non me ne
parlate!" la interruppe con violenza Antonio Del Re, premendosi le mani sulle tempie
e strizzando gli occhi.
"L'avete a disonore, è vero?"
disse afflitta, con gli occhi bassi, Mita.
"No, non per questo! non per
questo!" saffrettò a soggiungere Antonio. "Ma ora, in questo momento...
non posso. .. non posso sentir parlare di nulla, Mita!"
Una cosa atroce voleva da lui quella
poveretta, un ricordo atroce gli ridestava proprio in quel momento. La guardò, temendo
che l'orrore che traspariva attraverso il suo rifiuto avesse potuto farle sorgere qualche
sospetto. Ma le vide piú che mai dolenti e umili i begli occhi, che tante lagrime versate
avevano velati e quasi intorbidati per sempre. Quasi ogni notte, infatti, ella piangeva
col cuore sfranto per Rosa, la sorella sua disgraziata, la sorella sua perduta, caduta
nell'ultimo fondo dell'ignominia. Piú volte, non potendo andarla a trovare nel luogo
infame, dove ora stava chiusa, aveva pregato Antonio di andarci per lei. E Antonio,
l'ultima volta che c'era andato, trovandola mezzo brilla, era stato attratto da lei e...
Un fracasso di grida, d'applausi, misti agli strilli del bambino e agli abbajamenti del
cane, giunse in quel punto dalla stanza a terreno; e poco dopo 'Nzulu, il vecchio
barbone, cacciato via a pedate da giú, tutto tremante, piegato sulle zampe di dietro come
se volesse col fiocchetto della coda convulsa spazzare il suolo, venne ad allungare il
naso baffuto su le ginocchia di Mita, che sera rimessa a sedere. Le due sorelle, nel
veder la povera bestia implorante ajuto e riparo da loro, si misero a piangere. E allora
Antonio Del Re, non sapendo piú tenersi, si cacciò in capo il cappello, aprí la vetrata
del balconcino e, scavalcata la ringhiera di ferro, mentre Mita e Annicchia, spaventate,
gridavano: "Oh, Dio, don Niní... che fate? che fate?", si calò giú,
reggendosi prima con le mani a due bacchette della ringhiera, poi si lasciò cadere nella
piazza sottostante.
Sudí il tonfo e quindi il rumore di
qualcosa andata in frantumi. Mita accorse a guardare e lo vide, curvo, che cercava con le
braccia protese, come un cieco, il cappello che gli era cascato lí presso.
"Don Niní, vi siete fatto
male?"
"Nulla..." rispose egli di
sotto. "Le lenti... Mi sono cascate le lenti."
E, ghermito il cappello, scappò via.
"Impazzisce!" disse Mita.
"Ma possibile?"
E accennò con la mano la stanza giú,
dove Celsina predicava.
Precipitandosi per la via di Gamez,
Antonio Del Re, che senza lenti non vedeva di qui là, inciampò in qualcuno
all'imboccatura della via Atenèa.
"Oh Nino!"
Riconobbe alla voce l'on. Corrado Selmi.
"Mi lasci andare!" gli gridò,
scrollandosi rabbiosamente.
Corrado Selmi aveva lasciato il
Verònica all'albergo in compagnia dell'altro testimonio, e si recava ora in casa di
Roberto Auriti che l'ospitava.
Da quattro giorni, appena si mostrava per
via, si vedeva tutti gli occhi addosso; parecchi curiosi si fermavano anche a mirarlo a
bocca aperta; altri sbucavano dalle botteghe e si piantavano sulla soglia, addossati gli
uni agli altri. Tanta curiosità l'obbligava a darsi un certo contegno, contro il suo
solito. Ma gli veniva da ridere. Non sapeva piú dove guardare, perché gli occhi
naturalmente gaj e l'aria aperta e fresca del volto non déssero di lui un falso concetto
di petulanza. Era davvero e si sentiva giovanissimo ancora, nel corpo e nell'anima, non
ostanti l'età, le vicende fortunose e le tante lotte sostenute. Non un pelo bianco, né
per nulla ancora appassito il color biondo dei baffi e dei capelli. Vestiva con naturale
eleganza e spirava da tutta la persona, da ogni gesto, da ogni sguardo, una freschezza e
una grazia che incantavano. Questa persistente gioventú Corrado Selmi di Rosàbia la
doveva al vivace, costante amore per la vita e, nello stesso tempo, al pochissimo peso che
sempre le aveva dato. Né di troppi ricordi, né di troppi studii, né di troppi scrupoli,
né d'aspirazioni tenaci se l'era voluta mai gravare, come fanno tanti a cui per forza
poi, sotto un tal fardello, debbono le gambe piegarsi e aggobbirsi le spalle. Viaggiatore
senza bagaglio, soleva definirsi. E sempre sera imbarcato cosí, spiccio e leggero,
per viaggi lunghi, avventurosi e difficili. Niente da perdere, e avanti! Fallita
l'insurrezione del 4 aprile, scampato per miracolo dal convento della Gancia, aveva
dapprima guerrigliato con le squadre attorno a Palermo; aveva poi fatto la campagna del
1860 con Garibaldi fino al Volturno; ma come? senza munizioni e con un fucilaccio che non
tirava, venuto da Malta per sei ducati. Alla Camera, tra tanti colleghi dalla fronte
gravida di pensieri e dalla cartella gonfia di note e d'appunti, aveva fatto parte delle
Commissioni piú difficili, senza né un lapis né un taccuino. E sempre sera dato
da fare, comunque; senza mai sforzarsi; e tutto gli era riuscito facile e agevole non
schivando mai, anzi sfidando e bravando i piú gravi pericoli, le piú difficili imprese,
le avventure piú intricate. Non ammetteva che ci potessero essere difficoltà per uno
come lui, sempre pronto a tutto. Non andava incontro alla vita; si faceva innanzi, e
passava. Passava, disarmando tutti con la sicurezza convinta e la gaja tranquillità:
d'ogni retorica ostentazione, la rigida virtú dei Catoni; d'ogni scrupolo di pudore,
l'onestà delle donne. Né sera mai fermato un momento in questa corsa della vita
per giudicare fra sé se fosse bene o male ciò che aveva fatto pur dianzi. Non bisognava
dar tempo al giudizio, come né peso ai proprii atti. Oggi, male; bene, domani. Inutile
richiamarlo indietro a considerare il mal fatto; scrollava le spalle, sorrideva, e avanti;
avanti a ogni modo, per ogni via, senza mai indugiarsi, lasciandosi purificare
dall'attività incessante e dall'amore per la vita e rimanendo sempre alacre e schietto,
largo di favori a tutti, con tutti alla mano. La vita era per lui piena di ganci che lo
tiravano di qua e di là. Fermarlo, sospenderlo a uno solo per giudicarlo sarebbe stata
un'ingiustizia crudele.
Ora Corrado Selmi temeva che la minaccia
d'una tale ingiustizia gli stesse sopra: che lo si volesse cioè agganciare per i molti
debiti chera stato costretto a contrarre, per le molte cambiali che aveva in
sofferenza presso una delle primarie banche, di cui già si cominciavano a denunziare le
magagne. Forse all'apertura della nuova Camera lo scandalo sarebbe scoppiato. Prevedeva lo
spettacolo che avrebbero offerto tutti i gelosi irsuti guardiani dell'onestà, a cui il
timore di commettere qualche atto men che corretto aveva sempre impedito di far qualche
cosa oltre alle insulse chiacchiere retoriche; egoisti meschini e miopi, diligenti
coltivatori dell'arido giardinetto del loro senso morale, cinto tutt'intorno da un'irta
siepe di scrupoli, la quale non aveva poi nulla da custodire, giacché quel loro
giardinetto non aveva mai dato altro che frutti imbozzacchiti o inutili fiori pomposi.
Debiti? Cambiali? Oh bella! Aveva firmato sempre cambiali, lui, in vita sua. A
diciott'anni, a Palermo, nei primi mesi del 1860, il Comitato rivoluzionario non sapeva
come fare: si sperava in Garibaldi, si sperava in Vittorio Emanuele e nel Piemonte, si
sperava in Mazzini; ma i mezzi mancavano e le armi e le munizioni. Ebbene, chi aveva
proposto di prendere dalla Cassa di sconto del Banco di Sicilia seimila ducati con le
firme dei signori piú facoltosi? Lui. E aveva firmato lui, capolista, per duecento
ducati, lui che non aveva neppure un carlino in tasca. Il Governo provvisorio avrebbe poi
pagato. Come sera fatta l'insurrezione del 4 aprile? Sera fatta cosí! E come
aveva compiuto, lui solo, il bonificamento dei terreni paludosi che ammorbavano gran parte
del suo collegio elettorale? Ma anche a furia di cambiali! Poi, il collegio sera
liberato della malaria, e i debiti, si sa, erano rimasti a lui, perché l'impresa della
coltivazione, affidata a certi suoi parenti inesperti, era fallita, e i frutti dell'opera
sua ora se li godevano per la maggior parte tanti altri che gli davan solo le bucce come e
quando volevano, ma che però gli facevano costantemente lonore di eleggerlo
deputato. Era vero, sí: oltre ai denari attinti alle banche per questa impresa e per
altre ugualmente vantaggiose a molti e solo disgraziate per lui, altri e non pochi ne
aveva presi per il suo mantenimento. Vivere doveva; e poveramente non sapeva, né voleva.
Da giovane, aveva interrotto gli studii per prender parte alla rivoluzione. Per undici
anni, finché Roma non era stata presa, non sera dato un momento di requie. Posate
le armi, rimasto senza professione e senza alcuno stato, dopo avere speso per gli altri i
suoi anni migliori, che doveva fare? Impiccarsi? La fortuna non aveva voluto favorirlo nei
negozii; gli aveva accordato altri favori, ma che gli eran costati cari, e qualcuno - il
maggiore e il peggiore - non alla tasca soltanto.
Corrado Selmi vietava a sé stesso ogni
rimpianto. Pure, di tratto in tratto, quello dell'amore di donna Giannetta D'Atri Montalto
gli assaltava e gli strizzava improvvisamente il cuore. Ma piú che pena per l'amore
perduto, era rabbia per il cieco abbandono di sé nelle mani di quella donna che per piú
d'un anno lo aveva reso la favola di tutta Roma, facendogli commettere vere e proprie
pazzie. Pareva che colei avesse giurato a sé stessa di compromettersi e di comprometterlo
in tutti i modi, presa da una furia di scandalo. Piú per lei che per sé, aveva cercato
prima di frenarla; ma sera poi sfrenato anche lui per timore che i suoi ritegni la
offendessero o che la sua prudenza le paresse dappocaggine. I piú grossi debiti li aveva
contratti allora, sebbene non figurassero sotto il suo nome per un riguardo alla donna che
glieli faceva contrarre. Roberto Auriti sera prestato con fraterna abnegazione a
prender denari per lui alla banca, dopo una segreta intesa però col governatore di essa.
La minacciata denunzia dei disordini di questa banca costernava pertanto Corrado Selmi,
forse piú che per sé, per Roberto Auriti. Ma la grave costernazione gli era in parte
ovviata dalla fiducia che il Governo aveva interesse, per tante ragioni, a impedire che lo
scandalo scoppiasse. Sapeva bene che questo scandalo non avrebbe prodotto soltanto il
fallimento d'una banca, ma anche il fallimento di tutto un ordine di cose. L'appoggio del
Governo alla sua rielezione, non ostante che Francesco D'Atri fosse al potere, e
l'appoggio alla candidatura di Roberto Auriti lo raffermavano in questa fiducia. Prima di
partire da Roma, aveva promesso a Roberto di venire a Girgenti a sostenerlo nella lotta;
chiamato in fretta in furia dal telegramma del Verònica, era accorso, e subito sera
reso conto delle condizioni difficilissime in cui Roberto si trovava di fronte agli
avversarii, aggravate ora, per giunta, da quel duello. Avrebbe fatto di tutto per liberar
Roberto dalle tante angustie da cui lo vedeva oppresso, per tirarlo sú a respirare
un'altr'aria, per innalzarlo a quel posto di cui lo sapeva meritevole per le doti della
mente e del cuore, per tutto ciò che aveva fatto in gioventú; ma da che aveva posto il
piede nella casa di lui, a Girgenti, e conosciuto la madre e la sorella, sera
sentito cascar le braccia; d'un tratto gli era apparsa chiara la ragione per cui l'Auriti
era nella vita uno sconfitto. Un reclusorio gli era sembrata quella casa! Ma possibile che
due creature umane si fossero adattate a trascinar l'esistenza in quella cupa ombra di
tedio amaro e sdegnoso? che si fossero fatto un cosí tetro concetto della vita? Non aveva
saputo resistere alla tentazione di muoverne il discorso alla madre, con la speranza di
scuoterla un po'.
"Ma se la vita è una piuma, donna
Caterina! Un soffio, e via... Lei vuol dar peso a una piuma?"
"Voglio, caro Selmi?" gli aveva
risposto donna Caterina. "Non l'ho voluto io... Per voi la vita è una piuma; un
soffio e via; per me, è diventata di piombo, caro mio."
"Appunto questo è il male!"
aveva subito rimbeccato lui. "Farla diventar di piombo, una piuma! Dovendo vivere,
scusi, non le sembra che sia necessario mantenere l'anima nostra in uno stato... dirò
cosí, di fusione continua? Perché fermare questa fusione e far rapprendere l'anima,
fissarla irrigidirla in codesta forma triste, di piombo?"
Donna Caterina aveva tentennato un po' il
capo, con le labbra atteggiate d'amaro sorriso.
"La fusione... già! Ma per mantener
l'anima, come voi dite, in codesto stato di fusione, ci vuole il fuoco, caro amico! E
quando, dentro di voi, il fornellino è spento?"
"Non bisogna lasciarlo spegnere,
perbacco!"
"Eh, caro: quando il vento è troppo
forte; quando la morte viene e ci soffia sú; quando cercate attorno e non trovate piú un
fuscello per alimentarlo..."
" Ma dove lo cerca lei? qua? chiusa
sempre fra queste quattro mura come in una carcere? La signora Anna, scusi... possibile
che la signora Anna... io non so..."
Sera interrotto per un subito
imbarazzo, notando che la sorella di Roberto, nel vedersi tirata in ballo quando men se
l'aspettava, sera tutta invermigliata. Fin dal primo vederla, Corrado Selmi era
rimasto ammirato della pura e delicata bellezza di lei e istintivamente aveva sofferto nel
veder quella bellezza cosí mortificata da quelle ostinate gramaglie e, piú che
trascurata, sprezzata. A quel rossore improvviso, aveva temuto d'essersi spinto un po'
troppo oltre; ma poi, vincendo il momentaneo imbarazzo, aveva soggiunto:
"Non ha un figliuolo, lei? E
l'obbligo, dunque, di vivere per lui, di amar la vita per lui... no? Che so io... forse
manifesto un po' troppo vivacemente quel che penso, vedendo qua tutta questa tetraggine
che non mi par ragionevole, ecco! Che ne dice lei, signora Anna?"
Ella sera di nuovo invermigliata,
sera penosamente costretta a non abbassar gli occhi, e con la vista intorbidata e un
sorriso nervoso sulle labbra, stringendosi un po' nelle spalle, aveva risposto, alludendo
al figlio:
"È giovane, lui... La vita, se la
farà da sé...
"Ma lei, dunque... è vecchia,
lei?"
Con quest'ultima domanda, quasi
involontaria, sera chiusa quella prima conversazione.
Ora Corrado Selmi rientrava in casa di
Roberto, esilarato di quanto aveva veduto nella villa di Colimbètra. Tutti quei fantocci
là con la divisa borbonica, che gli avevano presentato le armi! Roba da matti! Ma che
splendore, quella villa! Il principe - no - non sera fatto vedere. Che peccato!
Avrebbe tanto desiderato di conoscerlo. Ecco là uno che sera fissato anche lui, nei
suoi affetti, in un tempo oltrepassato... ma che pur seguitava a vivere, fuori del tempo,
fuori della vita... in un modo curiosissimo, che bellezza! protendendo da quel suo tempo
certe immagini di vita che per forza, nella realtà dell'oggi, dovevano apparire
inconsistenti, maschere, giocattoli: tutti quei fantocci là... che bellezza!
"Eppure quei fantocci là, caro
Selmi, che vi hanno tatto ridere," gli disse donna Caterina," nelle elezioni di
domani, qua, vinceranno voi, il vostro amico Roberto, il signor Prefetto, il vostro
Governo e tutti quanti... Ridete ancora, se vi riesce. Ombre? Ma siamo noi, le ombre!
"Io no, la prego, donna
Caterina," disse allora, ridendo e toccandosi, il Selmi. "Mi lasci almeno questa
illusione! Guardi, il principe, innanzi a me, sè dileguato lui come un'ombra... Avrei
pagato non so che cosa per vedermelo venire incontro, anche per rifarmi... eh, Roberto lo
sa... per rifarmi d'un certo incontro con suo figlio a Roma, in cui toccò a me, per
forza, far la parte dell'omhra... Beh! pazienza.. Ma sí, lei dice bene, donna Caterina;
ci ostiniamo purtroppo a volere esser ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o
servili. La colpa è un po' del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca!
Guardi, non fo per dire: ho studiato bene la questione, io. La Sicilia è entrata nella
grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni di
capitale e con un lieve bilancio di circa ventidue milioni. Vi recò inoltre tutto il
tesoro dei suoi beni ecclesiastici e demaniali, accumulato da tanti secoli. Ma poi, povera
d'opere pubbliche, senza vie, senza porti, senza bonifiche, di nessun genere. Sa come fu
fatta la vendita dei beni demaniali e la censuazione di quelli ecclesiastici? Doveva esser
fatta a scopo sociale, a sollievo delle classi agricole. Ma sí! Fu fatta a scopo di lucro
e di finanza. E abbiamo dovuto ricomprare le nostre terre chiesiastiche e demaniali e
allibertar le altre proprietà immobili con la somma colossale di circa settecento
milioni, sottratta naturalmente alla bonifica delle altre terre nostre. E il famoso quarto
dei beni ecclesiastici attribuitoci dalla legge del 7 luglio 1866? Che irrisione! Già,
prima di tutto il valore di questi beni fu calcolato su le dichiarazioni vilissime del
clero siciliano, per soddisfar la tassa di manomorta, e da questo valore nominale, noti
bene, furon dedotte tutte le percentuali attribuite allo Stato e le tasse e le spese
d'amministrazione. Poi però tutte queste deduzioni furon ragionate sul valore effettivo e
furon sottratte inoltre le pensioni dovute al membri degli enti soppressi. Cosicché
nulla, quasi nulla, han percepito fin oggi i nostri Comuni. Ora, dopo tanti sacrificii
fatti e accettati per patriottismo, non avrebbe il diritto l'isola nostra d'essere
equiparata alle altre regioni d'Italia in tutti i beneficii, nei miglioramenti d'ogni
genere che queste hanno già ottenuto? Non c'è stato mai verso, per quanti sforzi io
abbia fatto, di raccogliere in un fascio operoso tutta la deputazione siciliana. Via, via,
non ne parliamo donna Caterina! Dovrei guastarmi il sangue. Io faccio quanto posso. Poi
alzo le spalle e dico: "Vuol dire che questo ci meritiamo, noi".
Si voltò verso Roberto, per cambiar
discorso, e aggiunse:
"Sai? Ho visto jeri, per via, la
moglie del tuo avversario. Caro mio, tu devi perdere per forza. Ah che bella donnina!
Scusatemi, signore mie, se parlo cosí; ma io non avrei proprio il coraggio di vincere,
neanche nel nome santo della Patria e della Libertà, per non far piangere gli occhi di
quella bella signora!"
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998