Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
IV
In fondo al vestibolo,
tra i lauri e le palme, su lo sfondo della gran porta a vetri colorati, la preziosa statua
acefala di Venere Urania, scavata a Colimbètra nello stesso posto ove ora sorge la villa,
pareva che non per vergogna della sua nudità tenesse sollevato un braccio davanti al
volto ideale che ciascuno, ammirandola, le immaginava subito, lievemente inclinato, come
se in realtà vi fosse; ma per non vedere inginocchiati alla soglia della cappella che si
apriva a destra tutti quegli uomini cosí stranamente parati: la compagnia borbonica di
capitan Sciaralla.
La messa era per finire. Dentro la
cappella, lucida di marmi e di stucchi, stavano soltanto il principe don Ippolito,
raccolto nella preghiera su l'inginocchiatojo dorato e damascato, innanzi all'altare; piú
indietro, Lisi Prèola, il segretario; piú indietro ancora, le donne di servizio: la
governante e due giovani cameriere. La servitú mascolina doveva contentarsi d'assistere
alla messa dal vestibolo; solo a Liborio, cameriere favorito del principe, in brache corte
e calze di seta, era concesso di star su l'entrata, piú dentro che fuori; e questa pareva
a Sciaralla un'ingiustizia del Prèola, bell'e buona. In qualità di capitano, egli si
riteneva degno di sedere per lo meno accanto al Prèola stesso, se non subito dopo il
principe, ecco. Apertamente, no, non se ne lagnava, per prudenza; ma ci pigliava certe
bili! E come d'un peccato d'invidia se n'era confessato a don Lagàipa, che ogni domenica
veniva a Colimbètra a dir messa.
"Almeno davanti a Dio dovremmo
essere tutti eguali, ecco!"
Tutti, escluso il principe; non c'era
bisogno di dirlo.
Ma lui, Sciaralla, non si lagnava perché
voleva esser favorito, messo avanti agli altri, distinto dai suoi subalterni al cospetto
di Dio? Le corna aveva dunque, le corna e la coda del demonio, quella sua riflessione, che
pur sembrava giusta a prima giunta.
Cosí don Illuminato Lagàipa aveva
tappata la bocca a Sciaralla.
E Sciaralla, un sospirone.
Vera tentazione del demonio era intanto
quella statua nuda, lí davanti la cappella, per tutti quegli uomini di guardia che
dovevano star fuori. Mentre le labbra recitavano le preghiere, gli occhi eran quasi
costretti a peccare guardando senza volerlo quella nudità, che S. E. il principe, tanto
divoto, non avrebbe dovuto tenere cosí esposta! Oh maledetta! Sembrava viva, sembrava...
Le povere donne di servizio abbassavano gli occhi, ogni volta, passando; e anche don
Illuminato li abbassava, pezzo d'ipocrita!
Ridevano intanto, fiorenti, le mirabili
forme della dea decapitata, emersa dal tempo remoto, nata da uno scalpello greco, da un
artefice ignaro che la sua opera dovesse tanto sopravvivere e parlare a profana gente un
linguaggio diabolico, ornamento d'un vestibolo, tra cassoni di lauri e di palme.
Finita la messa, gli uomini della
compagnia di guardia fecero ala su l'attenti, al passaggio del principe che si recava al Museo.
Cosí eran chiamate le sale a pianterreno
dell'altro lato del vestibolo, nelle quali tra alte piante di serra erano raccolti gli
oggetti antichi, d'inestimabile valore: statue, sarcofaghi vasi, iscrizioni, scavati a
Colimbètra, e che don Ippolito aveva illustrati molti anni addietro nelle sue Memorie
d'Akragas, insieme col prezioso medagliere esposto sú, nel salone della villa.
L'antica famosa Colimbètra akragantina
era veramente molto piú giú, nel punto piú basso del pianoro, dove tre vallette si
uniscono e le rocce si dividono e la linea dell'aspro ciglione, su cui sorgono i Tempii,
è interrotta da una larga apertura. In quel luogo, ora detto dell'Abbadia bassa, gli
Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la
pescheria, gran bacino d'acqua che si estendeva fino all'Hypsas e la cui diga concorreva
col fiume alla fortificazione della città.
Colimbètra aveva chiamato don Ippolito
la sua tenuta, perché anchegli lassú, nella parte occidentale di essa, aveva
raccolto un bacino d'acqua, alimentato d'inverno dal torrentello che scorreva sotto
Bonamorone e d'estate da una nòria, la cui ruota stridula era da mane a sera girata da
una giumenta cieca. Tutt'intorno a quel bacino sorgeva un boschetto delizioso d'aranci e
melograni.
Nel museo don Ippolito soleva passare
tutta la mattinata, intento allo studio appassionato e non mai interrotto delle antichità
akragantine. Attendeva ora a tracciare, in una nuova opera, la topografia storica
dell'antichissima città, col sussidio delle lunghe minuziose investigazioni sui luoghi,
giacché la sua Colimbètra si estendeva appunto dov'era prima il cuore della greca
Akragante.
Presso una delle ampie finestre della
seconda sala, guarnite di lievi tende rosee, era la scrivania massiccia, intagliata; ma
don Ippolito componeva quasi sempre a memoria, passeggiando per le sale; architettava
all'antica due, tre periodoni gravi di laonde e di conciossiaché, e poi
andava a trascriverli su i grandi fogli preparati su la scrivania, spesso senza neppur
sedere. Tenendosi con una mano sul mento la barba maestosa, che serbava tuttavia un ultimo
vestigio, quasi un'aria del primo color biondo d'oro, egli, alto, aitante, bellissimo
ancora, non ostanti l'età e la calvizie, si fermava davanti a questo o a quel monumento,
e pareva che con gli occhi ceruli, limpidi sotto le ciglia contratte, fosse intento a
interpretare una iscrizione o le figure simboliche d'un vaso arcaico. Talvolta anche
gestiva o apriva a un lieve sorriso di soddisfazione le labbra perfette, giovanilmente
fresche, se gli pareva d'aver trovato un argomento decisivo, vittorioso, contro i
precedenti topografi.
Su la scrivania era quel giorno aperto un
volume delle storie di Polibio, nel testo greco, Lib. IX, Cap. 27, alla pagina ov'è un
accenno all'acropoli akragantina.
Un gravissimo problema travagliava da
parecchi mesi don Ippolito circa alla destinazione di questa acropoli.
"Disturbo?" domandò,
inchinandosi su la soglia di quella seconda sala, don Illuminato Lagàipa, che già si era
spogliato degli arredi sacri e aveva fatto la solita colazione di cioccolato e biscottini.
Era un prete di mezz'età, tondo di
corpo, dal volto bruciato dal sole, nel quale gli occhi cilestri, troppo chiari, pareva
vaneggiassero smarriti. Buon uomo, in fondo, pacifico e noncurante, lí, in presenza del
principe, che ogni domenica lo tratteneva a colazione, si dava, per fargli piacere, arie
di rigida e battagliera intransigenza, di cui rideva poi, discorrendo filosoficamente con
la sua vecchia e fedele Fifa, l'asina mansueta, che lo riconduceva al campicello presso il
camposanto di Bonamorone, pochi ettari di terra, che se sapevano il rapido passar della
vita - pure, sotto questo o quel re, gli producevano ogni anno quel tanto che modestamente
gli bisognava.
"Domenica, oggi, e non si
lavora!" soggiunse, levando le mani e sorridendo.
"Non è lavoro, il mio,
propriamente," gli disse con un sobrio gesto garbato don Ippolito.
"Già, già! otia, otia,
secondo Cicerone!" si corresse don Lagàipa. "Ha ragione. Venivo per dirle che
jeri mattina, prima che mi recassi al mio campicello, Monsignore mi fece l'onore
d'incaricarmi d'un'ambasciata per Vostra Eccellenza."
"Monsignor Montoro?"
"Già. Mi disse di avvertir Vostra Eccellenza che oggi, nel
pomeriggio, con l'ajuto di Dio, verrà qua, per parlare, suppongo, delle prossime
elezioni. Eh," sospirò, intrecciando le dita e scotendo le mani cosí giunte,
"pare che il diavolaccio maledetto si senta prudere le corna... Guerra, guerra...
tempesta! Ho sentito che son arrivate da Palermo, per richiamo, dicono, del canonico
Agrò, due certe gallinelle d'acqua... già! due famosi galoppini al comando dell'alta
mafia e della famigerata banda massonica. un tal Mattina, un tal Verònica...
"LAgrò?" disse cupo don
Ippolito Laurentano, che sera impuntato a quel nome, senza piú badare al resto.
Dunque l'Agrò vuole proprio scendere in piazza, senza alcun ritegno, senza alcun
riguardo, nemmeno per l'abito che indossa?"
"Eh!" tornò a sospirare don
Lagàipa. "Superiore mio... superiore... ma dico ciò che si dice... relata refero...
non manda giú, dicono, che non l'abbiano fatto vescovo al posto del nostro
Eccellentissimo monsignor Montoro. Crede di salvare le apparenze con... con la scusa
dell'antica amicizia che lo lega all'Auriti, ecco..."
"Bell'amicizia, da
gloriarsene!"- brontolò il Laurentano. "Per un sacerdote!"
"Ma l'Agrò..." osservò don
Illuminato. E non aggiunse altro. Chiuse gli occhi, tentennò il capo, emise un terzo
sospiro: " Eh, si complica... la faccenda si complica... sí, dico... si fa molto
delicata..."
"Per me?" salto sú a dire don
Ippolito (e il lucido cranio gli sinfiammò). "Delicata per me? Sappia
monsignor Montoro... già dovrebbe saperlo; io non riconosco, non ho mai riconosciuto per
nipote codesto Roberto Auriti garibaldesco. Non lo conosco neppur di vista: qua non è mai
venuto, né io del resto gli avrei fatto oltrepassar la soglia del mio cancello. Per
ordine del suo Governo, non invitato dalla cittadinanza, viene con la folle speranza di
prendere il posto di Giacinto Fazello? Bene. Avrà ciò che si merita. Senza alcuna
considerazione per la mia sciagurata parentela in-vo-lon-ta-ria, si lotti e si
vinca!"
"Ah, lottare, lottare, sicuro!
bisogna lottare! disse don Illuminato, aggrottando fieramente le ciglia su quegli occhi
vani. "Anche se non si dovesse vincere."
"E perché no?" domandò severo
don Ippolito. "Che probabilità di vittoria può aver l'Auriti? Che conta
l'Agrò?"
"Ma... dicono... la
prefettura..." e don Illuminato si grattò la guancia raschiosa.
"Non è base!" ribatté subito
il principe. " L'abbiamo veduto nelle elezioni comunali."
"Già, già..." si rimise don
Lagàipa. "Però... la mafia in campo, adesso... la polizia favoreggiatrice... tutte
le male arti... dicono... e deve arrivare... non so, un pezzo grosso... un deputato...
Selmi, mi par d'avere inteso..."
Don Ippolito rimase in silenzio per un
pezzo, col volto atteggiato di nausea; poi, scotendo un pugno, proruppe:
"Filangieri! Filangieri!"
Il Lagàipa scrollò il capo, sospirando
a questa esclamazione, frequente su le labbra del principe e accompagnata sempre da quel
gesto di rabbioso rammarico:
" Filangieri!"
Sapeva quanta venerazione don Ippolito
Laurentano serbasse ancora alla memoria del Satriano, repressore benedetto della
rivoluzione siciliana del 1848, provvido, energico restauratore dell'ordine sociale dopo i
sedici mesi dell'oscena baldoria rivoluzionaria. Di quei sedici mesi era
rimasto vivo di raccapriccio nel principe il ricordo, sopra tutto per la minaccia brutale
del volgo ai privilegi nobiliari e alla credenza religiosa. Satriano era stato per lui il
sole trionfatore di quella bufera sovvertitrice; e come un sole, ritornata la calma, aveva
brillato sú nel cielo di Sicilia dalla reggia normanna di Palermo, riaperta alle
splendide feste per circondare di prestigio napoleonico il suo potere. Lí, nella reggia,
don Ippolito aveva conosciuto donna Teresa Montalto, giovinetta, a cui poi il Satriano
stesso aveva voluto far da padrino nelle nozze, ottenendo a lui, sposo, con sommo stento
dal Re l'ordine di cavaliere di San Gennaro, di cui già il padre era stato insignito. La
bufera sera scatenata di nuovo nel 1860: dal ritiro di Colimbètra egli ne udiva il
rombo lontano: lottava di là con tutte le forze, nel piccolo àmbito della città natale:
la causa dei Borboni era per il momento perduta; bisognava lottare per il trionfo del
potere ecclesiastico; restituita Roma al Pontefice, chi sa! Intanto si doveva a ogni costo
impedire che la rappresentanza di Giacinto Fazello fosse usurpata da Roberto Auriti.
"Del resto," riprese,
"l'Auriti non ha piú alcun prestigio nel paese. Ne manca da circa vent'anni..."
"Simpatie, però..." oppose
reticente il Lagàipa, "ecco, sí... qualche simpatia forse la gode..."
"Non contano nulla, oggi, le
simpatie," rispose don Ippolito recisamente. "Di fronte aglinteressi,
nulla!"
Prese dalla scrivania, cosí dicendo, il
volume delle storie di Polibio che vi stava aperto e istintivamente se l'appressò agli
occhi. Subito questi gli andarono sul passo, tante volte riletto e tormentato, della
controversia su quella benedetta acropoli. Si distrasse dal discorso; rilesse ancora una
volta il passo, con la mente già piena di nuovo della controversia che l'agitava;
sospirò; chiuse il libro, lasciandovi l'indice in mezzo e, ponendoselo dietro il dorso:
"Insomma," disse, "bisogna
vincere, don Illuminato! Io, guardi, in questo momento ho contro me un esercito di eruditi
tedeschi; di topografi; di storici antichi e nuovi d'ogni nazione; la tradizione popolare;
eppure non mi do per vinto. Il campo di battaglia è qua. Qua li aspetto!"
Gli mostrò il libro, picchiando con le
nocche delle dita su la pagina, e soggiunse:
"Come tradurrebbe lei queste parole:
cat au\taèv taèv derinaèv a\natolaèv?"
Investito da quei quattro às, às, às,
às, come da quattro schiaffi improvvisi, il povero don Illuminato Lagàipa restò quasi
basito. Credeva di non meritarsi un simile trattamento.
Don Ippolito sorrise; poi, introducendo
il braccio sotto il braccio di lui, soggiunse:
"Venga con me. Le spiegherò in due
parole di che si tratta.
Uscirono sul vasto spiazzo innanzi alla
villa; se ne scostarono un tratto a destra; quindi, voltando le spalle, il principe
mostrò al prete l'ampia zona di terreno, dietro la villa, in scosceso pendío, coronata
in cima da un greppo isolato, ferrigno, da un cocuzzolo tutt'intorno tagliato a scarpa.
"Questa, è vero? la collina
akrea," disse. "Quella lassú, la nostra famosa Rupe Atenèa. Bene. Polibio
dice: "La parte alta (l'arce, la cosí detta acropoli, insomma) sovrasta la
città, noti bene!, in corrispondenza a gli orienti estivi". Ora, dica un
po' lei: donde sorge il sole, d'estate? Forse dal colle dove sta Girgenti? No! Sorge di
là, dalla Rupe. E dunque lassú se mai, era l'Acropoli, e non su l'odierna Girgenti, come
vogliono questi dottoroni tedeschi. Il colle di Girgenti restava oltre il perimetro delle
antiche mura. Lo dimostrerò... lo dimostrerò! Mettano lassú Camíco... la reggia di
Còcale... Omfàce... quello che vogliono... l'Acropoli, no."
E scartò con la mano Girgenti, che si
vedeva per un tratto, lassú, a sinistra della Rupe, piú bassa.
"Lí," riprese, additando di
nuovo la Rupe Atenèa e ispirandosi, "lí, sublime vedetta e sacrario soltanto, non
acropoli, sacrario dei numi protettori, Gellia ascese, fremebondo d'ira e di sdegno, al
tempio della diva Athena dedicato anche a Giove Atabirio, e vi appiccò il fuoco per
impedirne la profanazione. Dopo otto mesi d'assedio stremati dalla fame, gli Akragantini,
cacciati dal terrore e dalla morte, abbandonano vecchi, fanciulli e infermi e fuggono,
protetti dal siracusano Dafnèo, da porta Gela. Gli ottocento Campani si sono ritirati dal
colle; il vile Desippo sè messo in salvo; ogni resistenza è ormai inutile. Solo Gellia
non fugge! Spera d'avere incolume la vita mercé la fede, e si riduce al santuario
d'Athena. Smantellate le mura, minati i meravigliosi edifizii, brucia qua sotto la città
intera; e lui dall'alto, mirando l'incendio spaventoso che innalza una funerea cortina di
fiamme e di fumo su la vista del mare, vuol ardere nel fuoco della Dea.
"Stupenda, stupenda
descrizione!" esclamò il Lagàipa con gli occhi sbarrati.
Giú, nel secondo dei tre ampii ripiani
fioriti, degradanti innanzi alla villa, come tre enormi gradini d'una scalea colossale,
Placido Sciaralla e Lisi Prèola, appoggiati alla balaustrata marmorea, avevano interrotto
la conversazione e ora tentennavano il capo, ammirati anchessi del calore con cui il
principe aveva parlato, sebbene per la distanza non ne avessero colto una parola.
Don Ippolito Laurentano restò acceso a
mirare con gli occhi intensi il magnifico panorama. Dov'egli aveva rappresentato
l'incendio formidabile e la distruzione, ora sabbandonava la pace inconsapevole
della campagna; dov'era il cuore dell'antica città sorgeva ora un bosco di mandorli e
d'olivi, il bosco detto perciò ancora della Cìvita. Le chiome dei mandorli
serano con l'autunno diradate e, tra quelle perenni degli olivi cinerulei, parevano
aeree, assumevano sotto il sole una tinta roseo-dorata.
Oltre il bosco, sul lungo ciglione,
sorgevano i famosi Tempii superstiti, che parevano collocati apposta, a distanza, per
accrescere la meravigliosa vista della villa principesca. Oltre il ciglione, il pianoro,
ove stette splendida e potente l'antica città, strapiombava aspro e roccioso a precipizio
sul piano dell'Akragas, tranquillo piano luminoso, che spaziava fino a terminare laggiú
laggiú, nel mare.
"Non posso soffrire questi
Tèutoni," disse il principe, rientrando con don Illuminato Lagàipa nel Museo,
"questi Tèutoni che, non potendo piú con le armi, invadono coi libri e vengono a
dire spropositi in casa nostra, dove già tanti se ne fanno e se ne dicono."
Sintese in quel punto il rotolío
d'una vettura per la strada incassata, dietro la villa, e don Ippolito contrasse le
ciglia. Entrò poco dopo, turbato, smarrito nella sorpresa, Liborio, il cameriere.
"Pe... perdoni, eccellenza,"
balbettò. "È arrivata da Girgenti la... la signora..."
"Che signora?" domandò il
principe.
"Sua sorella... donna
Caterina..."
Don Ippolito restò dapprima come
stordito da un improvviso colpo alla testa. Arricciò il naso, impallidí. Poi, d'un
subito, il sangue gli balzò al capo. Chiuse gli occhi, impallidí di nuovo, aggrottò le
ciglia, serrò le pugna e, col cuore che gli martellava in petto, domandò:
"Qua? Dov'è?"
" Su, eccellenza... nel
salone," rispose Liborio; e, poco dopo, vedendo che il principe restava perplesso,
chiese: "Ho fatto male?"
Don Ippolito si voltò a guardarlo per un
pezzo, come se non avesse inteso; poi disse:
"No..."
E si mosse, senza neppur volgere uno
sguardo al Lagàipa. Con l'animo in tumulto, cercò di fissare un pensiero che gli
spiegasse il perché di quella visita straordinaria, non volendo, non sapendo ammettere
quel che gli era in prima balenato, che la sorella cioè, colei che in tante e tante
sciagure aveva sempre rifiutato con ostinata fierezza, anzi con disprezzo, ogni soccorso,
venisse ora a intercedere per il figlio Roberto. Ma che altro poteva voler da lui? Salí
la scala. Era tanto oppresso d'angoscia e in preda a un'agitazione cosí soffocante, che
dovette fermarsi per un momento davanti la soglia. Entrare? presentarsi a lei in quello
stato? No. Doveva prima ricomporsi. E in punta di piedi si diresse alla camera da letto.
Qua, istintivamente, sappressò allo scrigno dove erano conservati un medaglioncino
di lei in miniatura, di quand'ella era giovinetta di sedici anni, e i due biglietti che
gli aveva scritti, senza intestazione e senza firma, uno da Torino, dopo la morte violenta
del padre, l'altro da Girgenti, al ritorno dall'esilio dopo la morte del marito.
Il primo, piú ingiallito, diceva:
"I beni, confiscati a Gerlando Laurentano dal governo borbonico, furono restituiti al figlio Ippolito da Carlo Filangieri di Satriano. Nulla dunque mi spetta dell'eredità paterna. La moglie e il figlio di Stefano Auriti non mangeranno il pane d'un nemico della patria".
L'altro, piú laconico, diceva:
"Grazie. Alla vedova, agli orfani, provvedono i parenti poveri di Stefano Auriti. Da te, nulla. Grazie".
Scostò con la mano
quei due biglietti e fissò gli occhi sul medaglioncino, che egli aveva tolto dal salone
della casa paterna dopo la fuga della sorella con Stefano Auriti.
Da allora - eran già quarantacinque anni
- non l'aveva piú riveduta!
Come avrebbe riveduto, ora, dopo tanto
tempo, dopo tante vicende funeste, quella giovinetta bellissima che gli stava davanti,
rosea, ampiamente scollata, nell'antica acconciatura, con quegli occhi ardenti e pensosi?
Richiuse lo scrigno, dopo aver gettato un
altro sguardo su i due biglietti sprezzanti; e, grave, accigliato, savviò al
salone.
Sollevata la tenda dell'uscio, intravide
con gli occhi intorbidati dalla commozione la sorella in piedi, alta, vestita di nero. Si
fermò poco oltre la soglia, oppresso d'angoscioso stupore alla vista di quel volto
disfatto, irriconoscibile.
"Caterina," mormorò, sostando;
e le tese istintivamente le braccia, pur con l'impressione in contrasto, che quella era
ormai un'estranea, al tutto ignota.
Ella non si mosse: rimase lí, in mezzo
al salone, cerea tra le fitte gramaglie, col volto contratto e gli occhi chiusi, altera,
indurita nello spasimo di quell'attesa. Aspettò che egli le si accostasse e gli toccò
appena la mano con la sua, gelida, guardandolo ora con quegli occhi stanchi, velati di
cordoglio, quasi a metà nascosti dalle palpebre, uno piú, l'altro meno.
"Siedi," disse, con gli occhi
bassi, quasi intimidito, il fratello, indicando il divano e le poltrone nella parete a
sinistra.
Seduti, stettero un lungo pezzo entrambi
senza poter parlare, in un silenzio che fremeva d'intensa, violenta commozione. Don
Ippolito chiuse gli occhi. La sorella, dopo aver soffocato parecchie volte con sforzo un
singhiozzo che le faceva impeto alla gola, disse alla fine, con voce rauca:
"Roberto è qui."
Don Ippolito si scosse; riaprí gli occhi
e, senza volere, li volse in giro per la sala, come se - smarrito tra glinterni
ricordi tumultuanti - avesse temuto un'imboscata.
"Non qui," riprese donna
Caterina, con un freddo amaro, lievissimo sorriso, "nel tuo dominio straniero. A
Girgenti, da due giorni."
Don Ippolito, aggrondato, chinò piú
volte la testa per significarle che sapeva.
"E so perché è venuto,"
aggiunse con voce cupa; poi levò il capo e guardò la sorella con penosissimo sforzo.
"Che potrei..."
"Nulla... oh! nulla,"
saffrettò a rispondergli donna Caterina. "Voglio che tu lo combatta con tutte
le tue forze. Non ci mancherebbe altro, che anche tu lo sostenessi e che egli andasse su
anche coi vostri voti!"
" Sai bene..." si provò a
dirle il fratello.
" So, so," troncò recisamente
con un gesto della mano donna Caterina. "Ma combatterlo, Ippolito, non col coltello
alla mano, non andando a scavar le fosse, come le jene, a scoperchiare certe tombe sacre,
da cui i morti potrebbero levarsi e farvi morire di paura."
"Piano, piano," disse don
Ippolito tendendo le mani che gli tremavano, non tanto per protestare, quanto per placare
quell'ombra tragica della sorella cosí agitata. "Io non t'intendo..."
"Mi brucia le mani," disse
allora donna Caterina, gettando sul tavolinetto innanzi al divano una copia dell'Empedocle
tutta brancicata.
Don Ippolito prese quel foglio, lo
spiegò e cominciò a leggerlo.
"Con codeste sozze armi... Contro un
morto..." mormorò donna Caterina, accompagnando la lettura del fratello.
Ansava, seguendo quella lettura e
osservando sul volto di lui l'impressione disgustosa chegli ne riceveva.
"Roberto" riprese, "è
andato alla redazione di codesto giornale. Gli si è fatto innanzi l'autore dell'articolo,
che è figlio, m'hanno detto, d'un tuo... schiavo qui, il Prèola. L'ha preso e scagliato
contro una porta. Glielo hanno strappato dalle mani... Ora costui, armato di coltello (e
l'ha cavato fuori!) minaccia d'uccidere; e questa mattina stessa è stato visto in agguato
presso la mia casa. Ma io non temo di lui; temo che Roberto si comprometta di nuovo e
torni a insozzarsi le mani... Cosí volete combatterlo?"
Don Ippolito che, seguitando a leggere,
aveva ascoltato con animo sospeso il racconto, a quest'ultima domanda si scosse,
indignato, come se la sorella lo avesse percosso sul viso, accomunandolo con quell'abietto
che aveva scritto l'articolo.
Si levò in piedi, alteramente; ma si
frenò subito, e andò a premere un campanello. A Liborio, che subito si presentò su la
soglia:
"Il Prèola!" ordinò.
Poco dopo il vecchio segretario entrò
curvo, ossequioso, anzi strisciante, quasi cacciato lí dentro a frustate. Vestiva
un'ampia e greve napoleona. Dal colletto basso, troppo largo, la grossa testa calva,
inteschiata, sbarbata, gli usciva come quella d'un vitello scorticato.
"Eccellenza... Eccellenza..."
"Manda subito a chiamare tuo figlio
a Girgenti," comandò il principe. "Che venga subito qua! Debbo parlargli."
"Eccellenza, mi conceda,"
sarrischiò a dire il Prèola, storcendosi e curvandosi vieppiú, con una mano sul
petto, mentre la trama delle vene gli si gonfiava sul cranio paonazzo, "mi conceda
che all'eccellentissima sua signora sorella io, umilmente..."
"Basta, basta, basta!" gridò
seccamente il principe. "So io quel che debbo dire a tuo figlio. Anzi, ascolta! Mi fa
troppo schifo, e non voglio né vederlo, né parlargli. Gli dirai tu che se si arrischia
ancora a mostrare la sua laida grinta per le vie di Girgenti, tu sei messo alla strada: ti
caccio via su due piedi! Inteso?"
Il Prèola cavò un fazzoletto dalla
tasca posteriore della napoleona e approvò, approvò piú volte, asciugandosi il cranio;
poi si portò il fazzoletto agli occhi e si scosse tutto per un impeto di singhiozzi:
"Sforcato... sforcato..." gemette. "Mi disonora, eccellenza... Lo manderò
via, a Tunisi... Ho già fatto le pratiche... Intanto subito, lo faccio venire qua. Mi
perdoni, mi compatisca, eccellenza."
E uscí, rinculando, ossequiando, col
fazzoletto su la bocca.
Donna Caterina si alzò.
"Con questo," le disse don
Ippolito, "non intendo affatto di derogare a me stesso, alla lotta per i miei
principii, contro tuo figlio."
Donna Caterina alzò gli occhi a un
grande ritratto a olio di Francesco II, a un altro del Re Bomba, che troneggiavano nel
magnifico salone, da una parete: chinò il capo e disse:
" Sta bene. Non desidero
altro."
E si mosse per uscire.
"Caterina!" chiamò don
Ippolito, quand'ella era già presso l'uscio. "Te ne vai cosí? Forse non ci
rivedremo mai piú... Tu sei venuta qua..."
"Come dall'altro mondo..."
dissella, crollando il capo.
"E non t'avrei riconosciuta,"
soggiunse il fratello. "Perché... attendi un po' qua: ti farò vedere come io ti
ricordavo, Caterina."
Corse a prendere dallo scrigno nella
camera da letto il medaglioncino in miniatura, e glielo mostrò:
"Guarda... Ti ricordi?"
Donna Caterina provò dapprima come un
urto violento alla vista della sua immagine giovanile, e ritrasse il capo; poi prese dalle
mani di lui il medaglioncino, si appressò al balcone e si mise a contemplarlo. Da un
pezzo quegli occhi quasi spenti non avevano piú lacrime, e l'ebbero. Pianse
silenziosamente anche lui, il fratello.
"Lo vuoi?" le disse infine.
Ella negò col capo, asciugandosi gli
occhi col fazzoletto listato di nero, e gli porse in fretta il medaglioncino.
"Morta," disse.
"Addio."
Don Ippolito l'accompagnò a piè della
villa; l'ajutò a montare in vettura; le baciò lungamente la mano; poi la seguí con gli
occhi, finché la vettura non svoltò dal breve viale a manca per uscire dal cancello. Là
uno della compagnia, in divisa borbonica, pensò bene d'impostarsi militarmente per
presentar le armi. Don Ippolito se n'accorse e si scrollò rabbiosamente.
"Codeste pagliacciate!" muggí
fulminando con gli occhi capitan Sciaralla, che si trovava presso il vestibolo.
Risalí alla villa, si chiuse in camera,
e di lí mandò a far le scuse a don Illuminato, se per quel giorno non lo tratteneva a
desinare con lui.
Monsignor Montoro
arrivò alle quattro del pomeriggio con la sua vettura silenziosa, tirata da un pajo di
vispi muletti accappucciati.
Lo accompagnava Vincente De Vincentis,
l'arabista, che aveva lasciato quel giorno la biblioteca di Itria per il vicino palazzo
vescovile e sera sfogato a parlare per tutti i giorni e i mesi, in cui, quasi avesse
lasciato la lingua per segnalibro tra un foglio e l'altro di quei benedetti codici arabi,
restava muto come un pesce.
Aveva parlato anche in vettura, durante
il tragitto, con certi scatti e schizzi e sbruffi che gli scotevano tutto il corpicciuolo
ossuto, sparuto, convulso. Gli occhi duri, dietro le lenti fortissime da miope, nel volto
scavato, sanguigno, avevano la fissità della pazzia.
Parecchie volte il vescovo con le mani
molli feminee e la voce melata, dalle inflessioni misurate e quasi soffuse di pura
autorità protettrice, gli aveva consigliato calma, calma; gli consigliò adesso, piano,
prudenza, prudenza, oltrepassando il cancello della villa tra il riverente ossequio degli
uomini di guardia; e, di nuovo, col gesto, prudenza, prima di smontare dalla vettura.
I due ospiti furono subito introdotti da
Liborio nel salone; ma confidenzialmente il vescovo si permise d'uscire sul terrazzo
marmoreo aggettato su le colonne del vestibolo esterno, per godere del grandioso
spettacolo della campagna e del mare.
Si delineava tutta di lassú la lontana
riviera su l'aspro azzurro del mare sconfinato, da Punta Bianca, a levante, che pareva uno
sprone d'argento, via via, con insenature e lunate piú o meno lievi fino a Monte Rossello
a ponente, di cui soltanto nella notte si vedeva il faro sanguigno. Solo per breve tratto,
quasi nel mezzo della dolce amplissima curva, la riviera era interrotta dalla foce
dell'Hypsas.
Don Ippolito sopravvenne poco dopo,
premuroso, non ancor ben rimesso dal grave turbamento che la visita della sorella gli
aveva cagionato.
"Ho condotto con me il nostro De
Vincentis," disse subito monsignor Montoro, "perché vorrebbe vedere non so che
cosa nel vostro Museo, caro principe. Lo farete accompagnare, e noi resteremo qua,
su questo pergamo di delizia: non saprei staccarmene. Ma prima il De Vincentis vorrebbe
rivolgervi una preghiera."
"Sí," scattò questi, come se
avesse ricevuto una scossa elettrica. "Volevo venire da solo, questa mattina stessa.
Monsignore, invece, no, dice, meglio che vieni con me. È una cosa molto seria, molto
seria...
"Sentiamo," disse il principe,
invitandolo col gesto a rimettersi a sedere sulla seggiola di giunco del terrazzo.
Il De Vincentis si curvò goffamente per
vedere dove fosse la seggiola; poi, sedendo e afferrando i bracciuoli con le piccole mani
secche e adunche, proruppe:
"Don Ippolito, rovinati!
rovinati!"
"Ma no... ma no..." si provò a
correggere Monsignore, protendendo la mano gravata dall'anello vescovile.
"Rovinati, Monsignore, mi lasci
dire!" ribatté il De Vincentis; e le cave gote sanguigne gli diventarono livide.
"E causa della rovina è mio fratello Niní! E andato lui dal... dal..."
Ancora una volta le mani del vescovo si
protesero; il De Vincentis le intravide a tempo e si poté tenere. Ma già il principe
aveva compreso.
"Dal Salvo," disse pacatamente.
"So che gli avete ceduto..."
"Niní! Niní!" squittí il De
Vincentis. "Primosole... Niní! Lui gliel'ha ceduto... Non so nulla io; nulla
di nulla; al bujo, cieco... E lui piú cieco di me, stupido, pazzo, innamorato... Come
dice? Transeat per Primosole... Sí! Ci ho fatto la croce... benché...
benché il podere solo, sa, è stato pagato, e in un modo che fa ridere..."
"Ma no, perché?" interruppe di
nuovo, serio, Monsignore.
"Piangere, allora!" rimbeccò
il De Vincentis, che aveva già perduto le staffe. "Va bene? Ottantacinquemila lire,
e la villa in groppa! La villa di mia madre, là..."
E con la mano accennò verso levante,
oltre il greppo dello Sperone, al colle piú alto, detto di Torre che parla,
dall'aspetto d'un leone posato, a cui faceva da giubba un folto bosco di ulivi.
"Quarantaduemila," riprese,
"erano di cambiali scadute: il resto, sfumato, volato via in meno di due anni? dove?
ora sento che si tratta di cedere al Salvo anche le terre di Milione. E che ci
resta? I debiti col Salvo... gli altri debiti... Lo so, ho saputo... Lei sposerà, dice,
la sorella... donna Adelaide..."
"E che c'entra?" domandò,
stordito, dolente, il principe, guardando monsignor Montoro.
" Mi congratulo, badi, mi
congratulo..." soggiunse subito il De Vincentis, rosso come un gambero. "Noi
però siamo rovinati!"
E si alzò per non far vedere le lagrime
sotto le lenti cerchiate d'oro.
Don Ippolito guardò di nuovo il vescovo,
senza comprendere.
"Vi dirò," disse questi con
tono grave, di risentimento per la disubbidienza del giovine e calò su gli occhi chiari,
pallidi, globulenti, le palpebre esilissime come veli di cipolla.
"Vi dirò. So che Flaminio Salvo ha
già fatto donazione alla sorella delle terre di Primosole e che è disposto a
farle donazione, quando sarà, anche di quelle del feudo di Milione. Ma sono
addolorato del modo con cui il nostro Vincente si è espresso, perché... perché non è
il modo, codesto, di parlare di persone onorandissime, da cui forse, senza saperlo,
abbiamo ricevuto qualche beneficio."
Il De Vincentis, che stava con le spalle
voltate ad asciugarsi gli occhi, si voltò a queste ultime parole del vescovo.
"Beneficio?"
"Sí, figliuolo. Tu non puoi
comprenderlo perché disgraziatamente non ti sei dato mai cura de' tuoi affari. Vedi ora
il dissesto e senti il bisogno d'incolparne qualcuno, a torto; invece di portarvi rimedio.
Non eri venuto qua per questo?"
Il De Vincentis, che non poteva ancora
parlare dalla commozione, chinò piú volte il capo.
"E meglio" riprese Monsignore,
"che tu vada giú; col vostro permesso, principe. Esporrò io il tuo desiderio."
Don Ippolito si alzò e invito il De
Vincentis a seguirlo; poi, su la scala, lo affidò a Liborio, cui diede la chiave del Museo,
e ritornò dal vescovo, che lo accolse con un sospiro, scotendo le mani intrecciate.
"Due sciagurati, lui e il fratello!
Flaminio Salvo, vi assicuro, principe, ha usato loro un trattamento da vero amico.
Senz'alcuna... non diciamo usura per carità, non se ne parla nemmeno; senz'alcun
interesse ha prestato loro dapprima somme rilevantissime; ha avuto poi offerta da loro
stessi una terra, di cui egli, banchiere, dedito ai commercii, capirete, non sa che farsi:
un altro creditore avrebbe mandato al pubblico incanto la terra, per riavere il suo
danaro. Egli invece ha fatto all'amichevole e ha continuato a tenere aperta la cassa ai
due fratelli che spendono, spendono... non so come, in che cosa... senza vizii, poverini,
bisogna dirlo, ottimi, ottimi giovani, ma di poco cervello. Il fatto è che navigano
proprio in cattive acque."
"Vorrebbero ajuto da me?"
domandò don Ippolito, con un tono che lasciava intendere che sarebbe stato dispostissimo
a darlo.
"No, no," rispose afflitto
Monsignore. "Una preghiera che, stimo, non potrà avere alcun effetto. Il De
Vincentis crede che Niní, suo fratello minore, sia innamorato della figlia di Flaminio
Salvo, e..."
" E...?" fece il principe.
Ma aveva già compreso; e il dialogo
terminò sicilianamente in uno scambio di gesti espressivi. Don Ippolito si pose le mani
sul petto e domandò con gli occhi: "Dovrei farne io la richiesta al Salvo?".
Monsignore assentí malinconicamente col capo; col capo dapprima negò l'altro, poi alzò
le spalle e una mano a un gesto vago, per significare: "Non lo faccio; ma quand'anche
lo facessi?...". Monsignore sospirò, e basta.
Stettero un pezzo in silenzio entrambi.
Don Ippolito, già da parecchi anni,
avvertiva confusamente che quel monsignor Montoro gli era non tanto davanti agli occhi,
quanto nello spirito, un grave ingombro, quasi che col peso inerte di quelle sue carni
rosee troppo curate si adagiasse a impedire che tante cose attorno a lui e per mezzo di
lui si movessero. Quali, in verità, non avrebbe saputo dire; ma certo, con quella figura
lí, con quella mollezza rosea inerte ingombrante, molte e molte colui doveva trascurarne,
che forse un altro, al posto suo, piú àlacre e men femineo, avrebbe mosse, anzi scosse e
avviate.
Dal canto suo, Monsignore avvertiva, che
tra lui e il principe c'era un sentimento non ben definibile, che spesso da una parte e
dall'altra sarricciava, si ritraeva, lasciando tra loro un vuoto impiccioso, dal
quale venisse dentro a ciascuno de' due una certa lieve acredine rodente.
Forse questo vuoto era fatto da un
argomento, che Monsignore sapeva di non poter toccare, e che pure era tanta parte della
vita del principe: cioè, i suoi studii archeologici, il suo culto per le antiche memorie.
Non poteva toccarlo, quest'argomento, per timore che fosse pretesto a don Ippolito di
riparlargli d'una cosa, di cui egli, uomo di mondo e senza ubbie d'alcuna sorta, non
voleva sapere. Piú volte il principe aveva cercato d'indurlo a consacrare almeno una
piccola parte della sua cospicua mensa vescovile al restauro dell'antico Duomo, insigne
monumento d'arte normanna, deturpato nel Settecento da orribili costruzioni di stucco e
volgarissime dorature. Egli sera rifiutato, dicendogli che, se mai fosse riuscito a
metter da parte qualche risparmio, lo avrebbe piuttosto destinato a costituire una
rendita, per cui al convento di Sant'Alfonso, lí presso la cattedrale, potessero
ritornare i Padri Liguorini cacciati dopo il 1860.
A don Ippolito non importava nulla dei
miglioramenti arrecati alla sua città natale dalle nuove amministrazioni succedute alle
decurie e agli intendenti del suo tempo. Per quanto non si desse requie nella lotta e
mostrasse animo risoluto a raggiungerne il fine, non aveva piú fiducia, in fondo, di
potere un giorno rivedere la città, da cui sera esiliato. La vedeva col pensiero,
com'era prima di quell'anno fatale, ancora coi burgi e gli stazzoni, cioè
coi pagliaj e le fornaci nella piazza paludosa fuori Porta di Ponte; ancora coi tre
crocioni del Calvario sul declivio del colle, da cui ogni anno, il venerdí santo, si
faceva la predica a tutto il popolo lí adunato, e ancora con l'antico giardinetto che un
suo amico devoto, il colonnello Flores, comandante la guarnigione borbonica, per
ingraziarsi gli animi dei cittadini, vi aveva fatto costruire dieci anni prima della
rivoluzione. Sapeva che quel giardinetto era stato abbattuto per ingrandire il piano dalla
parte che guarda il mare; e sapeva che su la vasta piazza sorge adesso un gran palazzo,
destinato agli ufficii della Provincia e sede della Prefettura. Ma anche questa era per
lui un'usurpazione indegna, perché la prima pietra di quel palazzo era stata posta nel
1858 da un munifico vescovo, che voleva farne un grande ospizio per i poveri, onde ancora
i vecchi lo chiamavano il Palazzo della Beneficenza.
Gli sarebbe piaciuto che il Duomo fosse
restaurato da monsignor Montoro, perché le chiese... eh, quelle non erano edifizii che la
nuova gente potesse aver piacere d'abbellire; ed eran la sola cosa, di cui egli sentisse
profondo il rimpianto. Gli arrivavano lí, nel suo esilio, le voci delle campane delle
chiese piú vicine. Egli le riconosceva tutte, e diceva: "Ecco, ora suona la Badía
Grande... ora suona San Pietro... ora suona San Francesco...".
Arrivò, anche quella sera, a rompere il
lungo silenzio, in cui egli e il vescovo lí sul terrazzo eran caduti, il suono
dell'avemaria dalla chiesetta di San Pietro. Il cielo, poc'anzi d'un turchino intenso,
sera tutto soffuso di viola; e sotto, nella campagna già raccolta nella prima
ombra, spiccava tra i mandorli spogli una fila di alti cipressi notturni, come un vigile
drappello a guardia del vicino tempio della Concordia, maestoso, sul ciglione. Monsignor
Montoro si tolse lo zucchetto, si curvò un poco, chiudendo gli occhi; il principe si
segnò, e tutti e due recitarono mentalmente la preghiera.
"Avete sentito di questi
scandali," disse poi il vescovo gravemente, "che turberanno certo la nostra
tranquilla diocesi?"
Don Ippolito chinò piú volte il capo,
con gli occhi socchiusi.
"E stata qui mia sorella."
"Qui?" domandò con vivo
stupore il vescovo.
Don Ippolito allora gli parlò brevemente
della visita e della violenta scossa chegli ne aveva avuto.
"Oh comprendo! comprendo!"
esclamò Monsignore, scotendo le bianche mani intrecciate e socchiudendo gli occhi anche
lui.
"Come ridotta..." sospirò don
Ippolito profondamente.
Per cangiar tono al discorso, monsignor
Montoro, dopo aver tirato dentro aria e aria, sbuffò:
"E intanto il nostro paladino vuol
montare a ogni costo in arcione; e sarà un nuovo scandalo, che avrei voluto almeno
evitare..."
"Capolino?" domandò,
accigliandosi, don Ippolito. "Battersi?"
"Ma sí! Aggredito..."
"Lui? Il Prèola!"
"Lui, anche lui! Non sapete tutto,
dunque? Il nostro Capolino fu aggredito la mattina da un tal Verònica, che si trovava
insieme con l'Agrò, che tanto m'addolora..."
"Non me lo disse," mormorò
quasi tra sé don Ippolito.
"Perché pare," spiegò
Monsignore, "almeno a quel che si dice in paese, pare che l'Auriti non sapesse della
rissa della mattina. Basta. Bisognerà chiudere un occhio, perché lo sfregio, eh, lo
sfregio è stato molto grave: gli hanno strappato il giornale in faccia, su la pubblica
via... Sapete che il nostro Capolino è focoso, cavaliere compito... Non è stato
possibile ridurlo a ragione, all'osservanza del precetto cristiano... Ha già mandato il
cartello di sfida..."
So che tira bene di spada," disse
don Ippolito, cupo e fiero. "In fin dei conti, non sarà male dare una lezione a uno
di costoro per abbassare a tutti la cresta. Per me, Monsignore, l'ho dichiarato alla
stessa mia sorella, lotta senza quartiere!"
"Ma sí! la vittoria, la vittoria
sarà nostra senza dubbio," concluse il vescovo.
Seguí un altro silenzio; poi Monsignore
domandò, riscotendosi:
" Landino?" come se per caso
gli fosse venuto di far quella domanda, chera in fondo la vera ragione della sua
visita.
Aveva combinato lui quelle prossime nozze
di Adelaide Salvo con don Ippolito; aveva lasciato intendere a questo che solo per un
riguardo a lui Flaminio Salvo consentiva che la sorella contraesse quel matrimonio
illegittimo, almeno a giudizio della società civile; ma voleva - ed era giusto - che il
figlio del primo letto riconoscesse la seconda madre, e fosse presente alla celebrazione
religiosa: trattando con gentiluomini di quella sorte, questo solo atto di presenza gli
sarebbe bastato.
Don Ippolito sinfoscò.
Dopo una lunga lotta con se stesso, aveva
scritto al figlio che gli era cresciuto sempre lontano; prima a Palermo nella casa dei
Montalto poi a Roma, e col quale perciò non aveva alcuna confidenza. Lo sapeva d'idee e
di sentimenti al tutto opposti ai suoi, quantunque non fosse mai venuto con lui ad alcuna
discussione. Era molto malcontento del modo con cui gli aveva comunicato la decisione di
contrarre queste seconde nozze e del modo con cui gli aveva espresso il desiderio di
averlo a Colimbètra per l'avvenimento. Troppe ragioni in iscusa: la solitudine, l'età il
bisogno di cure affettuose... (Gli pareva d'essersi avvilito agli occhi del figlio. Il
disgusto però e l'avvilimento non erano soltanto per effetto d'una lettera mal riuscita:
provenivano da una causa piú intima e profonda nel cuore di lui.
Senza troppo volerlo da principio,
sera lasciato persuadere a ridurre a effetto un disegno stimato su le prime
inattuabile; superato l'ostacolo della sua grave pretesa, trovata la sposa stabilite le
nozze, d'un tratto sera veduto stretto da un impegno non ben ponderato avanti, e non
aveva potuto piú tirarsi indietro per nessuna ragione. La famiglia Salvo, se non aveva
titoli nobiliari, era pur d'antico sangue, conveniente l'età della sposa; nulla in fondo
da ridire su l'immagine che gli avevano mostrata di donna Adelaide in una fotografia e poi
la soddisfazione per la deferenza ai suoi principii politici e religiosi... Sí, sí; ma
la memoria venerata di donna Teresa Montalto? e l'avvilimento per la coscienza della
propria debolezza? Non aveva saputo resistere allo sgomento che glincuteva
segretamente, da qualche tempo in qua, la solitudine, la sera, quando si chiudeva in
camera e, guardandosi le mani, si dava a pensare che... sí, la morte è sempre accanto a
tutti, bimbi, giovani, vecchi, invisibile, pronta a ghermire da un momento all'altro; ma
allorché man mano si fa sempre piú prossimo il limite segnato alla vita umana e già per
tanti anni e tanto cammino si è sfuggiti comunque all'assalto di questa compagna
invisibile, scema da un canto, grado grado, l'illusione d'un probabile scampo, e cresce
dall'altro e simpone il sentimento gelido e oscuro della tremenda necessità di
incontrarla, di trovarsi a un tratto a tu per tu con essa in quella strettura del tempo
che avanza. E sentiva mancarsi il respiro; Si sentiva stringer la gola da un'angoscia
inesprimibile. Le sue mani gli facevano orrore. Soltanto le mani in lui, per ora, erano da
vecchio: ingrossate le nocche, la pelle aggrinzita. Sí, le sue mani avevano cominciato a
morire. Gli sintorpidivano spesso. E non poteva piú, la notte, stando a giacer
supino sul letto, vedersele congiunte sul ventre. Ma quella era pure la sua positura
naturale: doveva distendersi cosí per conciliare il sonno. Ebbene, no: si vedeva morto,
con quelle mani fredde come di pietra sul ventre; e subito si scomponeva, prendeva
un'altra positura, e smaniava a lungo.Per questo aveva manifestato il desiderio
d'un'intima compagnia; e il desiderio, ecco, si attuava; ma egli ne provava in segreto
stizza e avvilimento. Gli pareva che questo suo desiderio avesse acquistato su lui una
volontà che non era piú la sua. Altri infatti lo aveva assunto e lo guidava e trascinava
lui, che non poteva piú opporsi: come il cavallo, che aveva dato la prima spinta a una
vettura in discesa, ora dalla vettura stessa si sentiva premere e spingere suo malgrado.
"Nessuna risposta?" soggiunse
Monsignore, per rompere subito il fosco silenzio in cui il principe sera chiuso.
"Bene, bene; tanto per sapere. Risponderà. Intanto... ecco: abbiamo parlato con
Flaminio circa alla presentazione. Si può fare a Valsanía, è vero? Donna Adelaide
scenderà a visitar la nipote e la povera cognata; voi, di qua stesso, per lo stradone,
senza toccar la città, vi recherete a visitare il fratello e i vostri ospiti. Va bene
cosí? In settimana. Sceglierete voi il giorno."
"Subito," disse il principe,
riavendosi con una mossa energica. "Domani."
"Troppo presto..." osservò
sorridendo Monsignore. "Bisognerà avvertire... dar tempo... Doman l'altro poi, no:
è martedí. Le donne, sapete bene, badano a codeste cose. Sarà per mercoledí."
E si alzò, con stento e con riguardo per
la sua molle rosea grassezza donnescamente curata, sospirando:
"Bene eveniat! Quel povero
figliuolo..." soggiunse poi, alludendo al De Vincentis. "Si trovasse modo di
tranquillarlo... Ne sarei proprio lieto... Mah!"
A piè della scala monsignor Montoro
trattenne il principe e, indicando la porta del Museo ove era il De Vincentis,
disse piano:
"Non vi fate vedere. Lo saluterete
dal terrazzo. Buona sera."
Il principe gli baciò la mano e risalí
la scala. Poco dopo dal terrazzo sinchinò al vescovo e salutò con la mano il De
Vincentis che si scappellava, evidentemente senza scorgerlo. Rimase lí, seduto presso la
balaustrata a guardar nella campagna l'ombra che man mano sincupiva, la striscia
rossastra del crepuscolo che diveniva livida e quasi fumosa sul cerulo mare lontano, su
cui, laggiú in fondo, nereggiavano gli uliveti di Montelusa, a destra della lucida foce
dell'Hypsas. In mezzo al cielo cominciava ad accendersi la falce della luna.
Don Ippolito guardò i Tempii che si
raccoglievano austeri e solenni nell'ombra, e sentí una pena indefinita per quei
superstiti d'un altro mondo e d'un'altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città
scomparsa solo ad essi era toccato in sorte di veder quegli anni lontani: vivi essi soli
già, tra la rovina spaventevole della città; morti ora essi soli in mezzo a tanta vita
d'alberi palpitanti, nel silenzio, di foglie e d'ali. Dal prossimo poggio di Tamburello
pareva che movesse al tempio di Hera Lacinia, sospeso lassú, quasi a precipizio sul
burrone dell'Akragas, una lunga e folta teoria d'antichi chiomati olivi; e uno era là,
innanzi a tutti, curvo sul tronco ginocchiuto, come sopraffatto dalla maestà imminente
delle sacre colonne; e forse pregava pace per quei clivi abbandonati, pace da quei Tempii,
spettri d'un altro mondo e di ben altra vita.
Sonò a un tratto, nel bujo sopravvenuto,
il chiurlo lontano d'un assiolo, come un singulto.
Don Ippolito si sentí stringere
improvvisamente la gola da un nodo di pianto. Guardò le stelle che già sfavillavano nel
cielo, e gli parve che al loro lucido tremolío rispondesse dalle campagne deserte il
tremulo canto sonoro dei grilli. Poi vide oltre il burrone del fiume, a levante, vacillare
il lume di quattro lanterne cieche sú per l'aspro greppo dello Sperone.
Era Sciaralla, che si arrampicava coi tre
compagni per montar la vana guardia alla casermuccia lassú.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998