Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
I
La pioggia, caduta a
diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto
a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendíi meno ripidi. Il
guasto dell'intemperie appariva tanto piú triste, in quanto, qua e là, già era evidente
il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per
facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi con gomiti e giravolte e opere or di
sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a
dirupate scorciatoje. Piovigginava ancora a scosse nell'alba livida tra il vento che
spirava gelido a raffiche da ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente
or ora, appena, cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva
scorresse un brivido, dalla città, alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai
piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiú, torbido e rabbuffato. Pioggia
e vento parevano un'ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge
estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima
vita raccolti lassú, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo
senza vicende, nell'abbandono d'una miseria senza riparo. Le alte spalliere di
fichidindia, ispide, carnute e stravolte, o le siepi di rovi secchi e di agavi, le muricce
qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente che
reggeva un cancello scontorto e arrugginito o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali,
nella solitudine immobile, guardati dagl'ispidi rami degli alberi gocciolanti, anziché
conforto ispiravano un certo sgomento, posti com'eran lí a ricordare la fede a viandanti
(per la maggior parte campagnuoli e carrettieri) che troppo spesso, con aperta o nascosta
ferocia, dimostravano di non ricordarsene. Qualche triste uccelletto sperduto veniva, col
timido volo delle penne bagnate, a posarsi su essi; spiava, e non ardiva mettere neppure
un lamento in mezzo a tanto squallore. Vi strillava, al contrario (almeno a prima vista),
una giumenta bianca montata da un fantoccio in calzoni rossi e cappotto turchino. Se non
che, a guardar bene, quella giumenta bianca si scopriva anchessa compassionevole:
vecchia e stanca, sbruffava ogni tanto dimenando la testa bassa, come se non ne potesse
piú di sfangare per quello stradone; e il cavaliere, che la esortava amorevolmente, pur
in quella vivace uniforme di soldato borbonico, non appariva meno avvilito della sua
bestia, le mani paonazze, gronchie dal freddo, e tutto ristretto in sé contro il vento e
la pioggia.
"Coraggio, Titina!"
E intanto il fiocco del berretto a barca,
di bassa tenuta, pendulo sul davanti, gli andava in qua e in là, quasi battendo la solfa
al trotto stracco della povera giumenta.
Dei rari passanti a piedi o su pigri
asinelli qualcuno che ignorava come qualmente il principe don Ippolito Laurentano tenesse
una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica nel suo feudo di Colimbètra,
dove fin dal 1860 si era esiliato per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo
delle Due Sicilie, si voltava stupito e si fermava un pezzo a mirare quel buffo fantasma
emerso dai velarii strappati di quell'incerto crepuscolo, e non sapeva che pensarne.
Passando innanzi allo stupore di questi
ignoranti, Placido Sciaralla, capitano di quella guardia, non ostanti il freddo e la
pioggia ond'era tutto abbrezzato e inzuppato, Si drizzava sulla vita per assumere un
contegno marziale; marzialmente, se capitava, porgeva con la mano il saluto a qualcuno dl
quei tabernacoli; poi, chinando gli occhi per guardarsi le punte tirate sú a forza e
insegate dei radi baffetti neri (indegni baffi!) sotto il robusto naso aquilino, cangiava
l'amorevole esortazione alla bestia in un: "Sú! sú!" imperioso, seguito da una
stratta alla briglia e da un colpetto di sproni giunti, a cui talvolta Titina - mannaggia!
- sforzata cosí nella lenta vecchiezza, soleva rispondere dalla parte di dietro con poco
decoro.
Ma questi incontri, tanto graditi al
capitano, avvenivano molto di rado. Tutti ormai sapevano di quel corpo di guardia a
Colimbètra, e ne ridevano o se n'indignavano.
Il Papa in Vaticano con gli Svizzeri; don
Ippolito Laurentano, nel suo fèudo con Sciaralla e compagnia!
E Sciaralla, che dentro la cinta di
Colimbètra si sentiva a posto, capitano sul serio, fuori non sapeva piú qual contegno
darsi per sfuggire alle beffe e alle ingiurie.
Già cominciamo che tutti lo degradavano,
chiamandolo caporale. Stupidaggine! indegnità! Perché lui comandava ben venticinque
uomini (ohé, venticinque!) e bisognava vedere come li istruiva in tutti gli esercizii
militari e come li faceva trottare. E poi, del resto, scusate, tutti i signoroni non
tengono forse nelle loro terre una scorta di campieri in divisa? Veramente, dichiararsi
campiere soltanto, scottava un po' al povero Sciaralla, che "nasceva bene" e
aveva la patente di maestro elementare e di ginnastica. Tuttavia, a colorar cosí la cosa
sera piegato talvolta a malincuore, per non essere qualificato peggio. Campiere,
sí. Campiere capo.
"Caporale?"
"Capo! capo! Che c'entra caporale?
Ammettete allora che sia milizia?"
Di chi? come? e perché vestita a quel
modo? Sciaralla si stringeva nelle spalle, socchiudeva gli occhi:
"Un'uniforme come un'altra.
Capriccio di Sua Eccellenza, che volete farci?"
Con alcuni piú crèduli, tal'altra, si
lasciava andare a confidenze misteriose: che il principe cioè, mal visto per le sue idee
dal governo italiano, il quale - figurarsi! - avrebbe alzato il fianco a saperlo morto
assassinato o derubato senza pietà avesse davvero bisogno nella solitudine della campagna
di quella scorta, di cui egli, Sciaralla, indegnamente era capo. Restava però sempre da
spiegare perché quella scorta dovesse andar vestita di quell'uniforme odiosa.
"Boja, piuttosto!" sera
sentito piú volte rispondere il povero Sciaralla, il quale allora pensava con un po' di
fiele quanto fosse facile al principe il serbare con tanta dignità e tanta costanza quel
fiero atteggiamento di protesta, rimanendo sempre chiuso entro i confini di Colimbètra,
mentre a lui e ai suoi subalterni toccava d'arrischiarsi fuori a risponderne.
Invano, a quattr'occhi, giurava e
spergiurava, che mai e poi mai, al tempo dei Borboni, avrebbe indossato quell'uniforme,
simbolo di tirannide allora, simbolo dell'oppressione della patria; e soggiungeva scotendo
le mani:
"Ma ora, signori miei, via! Ora che
siete voi i padroni Lasciatemi stare! È pane. Dite sul serio?"
Gli volevano amareggiare il sangue a ogni
costo, fingendo di non comprendere che egli poi non era tutto nell'abito che indossava;
che sotto quell'abito c'era un uomo come tutti gli altri costretto a guadagnarsi da vivere
in qualche porca maniera. Con gli sguardi, coi sorrisi, componendo il volto a un'aria di
vivo interessamento ai casi altrui, cercava in tutti i modi di stornar l'attenzione da
quell'abito; poi, di tutte quelle arti che usava, di tutte quelle smorfie che faceva, si
stizziva fieramente con se stesso, perché, a guardar quell'abito senza alcuna idea, gli
pareva bello, santo Dio! e che gli stésse proprio bene; e quasi quasi gli cagionava
rimorso il dover fingersi afflitto di portarlo.
Aveva sentito dire che sú a Girgenti un
certo "funzionario" continentale, barbuto e bilioso, aveva pubblicamente
dichiarato con furiosi gesti, che una tale sconcezza, una siffatta tracotanza, un cosí
patente oltraggio alla gloria della rivoluzione, al governo, alla patria, alla civiltà,
non sarebbero stati tollerati in alcun'altra parte d'Italia, né forse in alcun'altra
provincia della stessa Sicilia, che non fosse questa di Girgenti, cosí... cosí... - e
non aveva voluto dir come, a parole; con le mani aveva fatto un certo atto.
Oh Dio, ma proprio per lui, per
quell'uniforme borbonica dei venticinque uomini di guardia, tanto sdegno, tanto schifo? O
perché non badavan piuttosto codesti indignati al signor sindaco, ai signori assessori e
consiglieri comunali e provinciali e ai piú cospicui cittadini, che venivano a gara,
tutti parati e impettiti, a fare ossequio a S. E. il principe di Laurentano, che li
accoglieva nella villa come un re nella reggia? E Sciaralla non diceva dell'alto clero con
monsignor vescovo alla testa, il quale, si sa, per un legittimista come Sua Eccellenza,
poteva considerarsi naturale alleato.
Sciaralla gongolava e gonfiava per tutte
queste visite; e nulla gli era piú gradito che impostarsi ogni volta su l'attenti e
presentar le armi. Se veniva monsignore, se veniva il sindaco, la sentinella chiamava dal
cancello il drappelletto dal posto di guardia vicino, e un primo saluto, là, in piena
regola, con un bel fracasso d'armi, levate e appiedate di scatto; un altro saluto poi,
sotto le colonne del vestibolo esterno della villa, al richiamo dell'altra sentinella del
portone. Rispetto al salario, era cosí poco il da fare, che tanto lui quanto i suoi
uomini se ne davano apposta, cercandone qua e là il pretesto; e una delle faccende piú
serie erano appunto questi saluti alla militare, i quali servivano a meraviglia a toglier
loro l'avvilenza di vedersi, cosí ben vestiti com'erano, inutili affatto.
In fondo, con tali e tanti protettori,
Sciaralla avrebbe potuto ridersi della baja che gli dava la gente minuta, se, come tutti i
vani, non fosse stato desideroso d'esser veduto e accolto da ognuno con grazia e favore.
Non sapeva ridersene poi, e anzi da un pezzo in qua ne era anche piú d'un po' costernato,
per un'altra ragione.
C'era una chiacchiera in paese, la quale
di giorno in giorno si veniva sempre piú raffermando, che tutti gli operaj delle città
maggiori dell'isola, e le contadinanze e, piú da presso nei grossi borghi dell'interno, i
lavoratori delle zolfare si volessero raccogliere in corporazioni o, come li chiamavano in
fasci, per ribellarsi non pure ai signori, ma a ogni legge, dicevano, e far man
bassa di tutto.
Piú volte, essendo di servizio
nell'anticamera, ne aveva sentito discutere nel salone. Il principe ne dava colpa,
sintende, al governo usurpatore che prima aveva gabbato le popolazioni dell'isola
col lustro della libertà e poi le aveva affamate con imposte e manomissioni inique; gli
altri gli facevano coro; ma monsignor vescovo pareva a Sciaralla che meglio di tutti
sapesse scoprir la piaga.
Il vero male, il piú gran male fatto dal
nuovo governo non consisteva tanto nell'usurpazione che faceva ancora e giustamente
sanguinare il cuore di S. E. il principe di Laurentano. Monarchie, istituzioni civili e
sociali: cose temporanee; passano; si farà male a cambiarle agli uomini o a toglierle di
mezzo, se giuste e sante; sarà un male però possibilmente rimediabile. Ma se togliete od
oscurate agli uomini ciò che dovrebbe splendere eterno nel loro spirito: la fede, la
religione? Orbene, questo aveva fatto il nuovo governo! E come poteva piú il popolo
starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita, se piú la fede non gliele faceva
accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in
un'altra vita? La vita è una sola? questa? le tribolazioni non avranno un compenso di
là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione piú accettarle e
sopportarle? Prorompa allora l'istinto bestiale di soddisfare quaggiú tutti i bassi
appetiti del corpo!
Parlava proprio bene, Monsignore. La vera
ragione di tutto il male era questa. Insieme però con Monsignore che veramente, ricco
com'era, sentiva poco le tribolazioni della vita, Sciaralla avrebbe voluto che tutti i
poveri la riconoscessero, questa ragione. Ma non riusciva a levarsi dal capo un
vecchierello mendico, presentatosi un giorno al cancello della villa col rosario in mano,
il quale, stando ad aspettar l'elemosina e sentendo un lungo brontolio nel suo stomaco,
gli aveva fatto notare con un mesto sorriso:
"Senti? Non te lo dico io; te lo
dice lui che ha fame..."
La costernazione di Sciaralla, per quel
grave pericolo che sovrastava a tutti i signori, proveniva piú che altro dalla sicurezza
con cui il principe, là nel salone, pareva lo sfidasse. Riposava certo su lui e sul
valore e la devozione dei suoi uomini quella sicurezza del principe, al quale poteva
bastare che dicesse di non aver paura, lasciando poi agli altri il pensiero del rimanente.
Fortuna che finora lí a Girgenti nessuno
si moveva, né accennava di volersi muovere! Paese morto. Tanto vero - dicevano i maligni
- che vi regnavano i corvi, cioè i preti. L'accidia, tanto di far bene quanto di far
male, era radicata nella piú profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla
potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l'abbandono desolato, in
cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose. E a Sciaralla parve di
averne la prova nel triste spettacolo che gli offriva, quella mattina, la campagna intorno
e quello stradone.
Aveva già
attraversato il tratto incassato nel taglio perpendicolare del lungo ciglione su cui
sorgono aerei e maestosi gli avanzi degli antichi Tempii akragantini. Si apriva là, un
tempo, la Porta Aurea dell'antichissima città scomparsa. Ora egli ranchettava giú per il
pendío che conduce alla vallata di Sant'Anna, per la quale scorre, intoppando qua e là,
un fiumicello di povere acque: l'Hypsas antico, ora Drago, secco d'estate e
cagione di malaria in tutte le terre prossime, per le trosce stagnanti tra glispidi
ciuffi del greto. Impetuoso e torbido per la grande acquata della notte scorsa, investiva
laggiú, quella mattina, il basso ponticello uso, d'estate, ad accavalciare i ciottoli e
la rena.
Veramente da quella triste contrada
maledetta dai contadini, costretti a dimorarvi dalla necessità, macilenti, ingialliti,
febbricitanti, pareva spirasse nello squallore dell'alba un'angosciosa oppressione di cui
anche i rari alberi che vi sorgevano fossero compenetrati: qualche centenario olivo
saraceno dal tronco stravolto, qualche mandorlo ischeletrito dalle prime ventate
d'autunno.
"Che acqua, eh?"
saffrettava a dire capitan Sciaralla, imbattendosi lungo quel tratto nella gente di
campagna o nei carrettieri che lo conoscevano, per prevenire beffe e ingiurie, e dava di
sprone alla povera Titina.
Non a caso però, quel giorno, metteva
avanti la pioggia della notte scorsa. Trottando e guardando nel cielo la nera nuvolaglia
sbrendolata e raminga, pensava proprio a essa per trovarvi una scusa che gli quietasse la
coscienza, avendo trasgredito a un ordine positivo ricevuto la sera avanti dal segretario
del principe: l'ordine di recare sul tamburo una lettera a don Cosmo Laurentano, fratello
di don Ippolito, che viveva segregato anche lui nell'altro fèudo di Valsanía, a circa
quattro miglia da Colimbètra. Sciaralla non se l'era sentita d'avventurarsi a quell'ora,
con quel tempo da lupi, fin laggiú; aveva pensato che Lisi Prèola, il vecchio
segretario, avendo una forca di figliuolo che aspirava a diventar capitano della guardia,
non cercava di meglio che mandar lui Sciaralla all'altro mondo; che però forse quella
lettera non richiedeva tale urgenza chegli rischiasse di rompersi il collo per una
via scellerata, al bujo, sotto la pioggia furiosa, tra lampi e tuoni; e che infine avrebbe
potuto aspettar l'alba e partir di nascosto, senza rinunziare per quella sera alla
briscola nella casermuccia sul greppo dello Sperone, dove si riduceva coi tre compagni
graduati a passar la notte, dandosi il cambio ogni tre ore nella guardia.
L'uscir di Colimbètra era sempre penoso
per capitan Sciaralla, ma una vera spedizione allorché doveva recarsi a Valsanía, dove
ogni volta gli toccava d'affrontar paziente l'odio d'un vecchio energumeno, terrore di
tutte le contrade circonvicine, chiamato Mauro Mortara, il quale, approfittando della
dabbenaggine di don Cosmo. a cui certo i libracci di filosofia avevano sconcertato il
cervello, vi stava da padrone, né sopra di lui riconosceva altra signoria.
"Coraggio, coraggio, Titina!"
sospirava pertanto Sciaralla, ogni qual volta gli si presentava alla mente la figura di
quel vecchio: basso di statura, un po' curvo, senza giacca, con una ruvida camicia
d'albagio di color violaceo a quadri rossi aperta sul petto irsuto, un enorme berretto
villoso in capo, chegli da se stesso sera fatto dal cuojo d'un agnello, la cui
concia col sudore gli aveva tinti di giallo i lunghi cernecchi e, ai lati, l'incolta barba
bianca: comico e feroce, con due grosse pistole sempre alla cintola, anche di notte,
poiché si buttava a dormir vestito su uno strapunto di paglia per poche ore soltanto: a
settantasette anni sveglio ancora e robusto, piú che un giovanotto di venti.
" E non morrà mai" - sbuffava
Sciaralla. "Sfido! che gli manca? Dopo tant'anni è considerato come parte della
famiglia anche da don Ippolito, che è tutto dire. Con don Cosmo per poco non si dànno
del tu.
E ripensava, proseguendo la via, alle
straordinarie avventure di quell'uomo che, al Quarantotto, aveva seguito nell'esilio a
Malta il principe padre, don Gerlando Laurentano, il quale gli sera affezionato fin
da quando, privato del grado di gentiluomo di camera, chiave d'oro, per uno
scandalo di corte a Napoli, sera ritirato a Valsanía, dove il Mortara era nato,
figlio di poveri contadini, contadinotto anche lui, anzi guardiano di pecore, allora.
A un'avventura segnatamente, tra le
tante, si fermava il pensiero di Placido Sciaralla: a quella che aveva procurato al
Mortara il nomignolo di Monaco; avventura dei primi tempi, avanti al Quarantotto,
quando a Valsanía, attorno al vecchio principe di Laurentano, acceso di vendetta dopo
quello scandalo di corte a Napoli, si radunavano di nascosto, venendo da Girgenti, i
caporioni del comitato rivoluzionario. Mauro Mortara faceva la guardia ai congiurati a
piè della villa. Ora una volta un frate francescano ebbe la cattiva ispirazione di
avventurarsi fin là per la questua. Il Mortara, chi sa perché, lo prese per una spia; e
senza tante cerimonie lo afferrò, lo legò, lo tenne appeso a un albero per tutto un
giorno; alla notte lo sciolse e lo mandò via; ma tanta era stata la paura, che il frate
non poté piú riaversene e ne morí poco dopo.
Quest'avventura era piú viva delle altre
nella memoria di Sciaralla, non solo perché in essa Mauro Mortara si mostrava, come a lui
piaceva crederlo, feroce, ma anche perché l'albero, a cui il francescano era stato
appeso, era ancora in piedi presso la villa, e Mauro non tralasciava mai d'indicarglielo,
accompagnando il cenno con un muto ghigno e un lieve tentennar del capo, atteggiato il
volto di schifo nel vedergli addosso quell'uniforme borbonica.
"Coraggio, coraggio, Titina!"
Conveniva soffrirseli in pace gli sgarbi
e i raffacci di quel vecchio. Il quale, sí, guaj e rischi d'ogni sorta ne aveva toccati e
affrontati in vita sua, senza fine; ma che fortuna, adesso, servire sotto don Cosmo che
non si curava mai di nulla, fuori di quei suoi libracci che lo tenevano tutto il giorno
vagante come in un sogno per i viali di Valsanía!
Che differenza tra il principe suo
padrone e questo don Cosmo! che differenza poi tra entrambi questi fratelli e la sorella
donna Caterina Auriti, che viveva - vedova e povera - a Girgenti!
Da anni e anni tutti e tre erano in rotta
tra loro.
Donna Caterina Laurentano aveva seguito
lei sola le nuove idee del padre; e poi si diceva che, da giovinetta, aveva recato onta
alla famiglia, fuggendo di casa con Stefano Auriti, morto poi nel Sessanta, garibaldino,
nella battaglia di Milazzo, mentre combatteva accanto al Mortara e al figlio don Roberto,
che ora viveva a Roma e che allora era ragazzo di appena dodici anni, il piú piccolo dei
Mille. Figurarsi, dunque, se il principe poteva andar d'accordo con quella sorella! Ma con
Cosmo, intanto, perché no? Questi, almeno apparentemente, non aveva mai parteggiato per
alcuno. Ma forse non approvava la protesta del fratello maggiore contro il nuovo Governo.
Chi aveva però ragione di loro due? Il padre, prima che liberale, era stato borbonico,
gentiluomo di camera e chiave d'oro: che meraviglia, dunque, se il figlio, stimando
fedifrago il padre, sera serbato fedele al passato Governo? Meritava anzi rispetto
per tanta costanza: rispetto e venerazione; e non c'era nulla da ridire, se voleva che
tutti sapessero com'egli la pensava, anche dal modo con cui vestiva i Suoi dipendenti.
Sissignori, sono borbonico! ho il coraggio delle mie opinioni!
Un toffo di terra arrivò a questo punto
alle spalle di capitan Sciaralla, seguíto da una sghignazzata.
Il capitano dié un balzo sulla sella e
si voltò, furente. Non vide nessuno. Da una siepe sopra l'arginello venne fuori però
questa strofetta, declamata con tono derisorio, lento lento:
Sciarallino,
Sciarallino,
dove vai con tanta boria
sul ventoso tuo ronzino?
Sei scappato dalla storia,
Sciarallino, Sciarallino?
Capitan Sciaralla
riconobbe alla voce Marco Prèola, il figlio scapestrato del segretario del principe, e
sentí rimescolarsi tutto il sangue. Ma, subito dopo, il Prèola gli apparve in tale
stato, che le ciglia aggrottate gli balzarono fino al berretto e la bocca serrata dall'ira
gli saprí dallo stupore.
Non pareva piú un uomo, colui: salvo il
santo battesimo un porco pareva, fuori del brago, ritto in piedi, cretaceo e arruffato.
Con le gambe aperte, buttato indietro sulle reni a modo degli ubriachi, il Prèola
seguitò da lassú a declamare con ampii e stracchi gesti:
Oppur vai, don
Chisciottino,
all'assalto d'un molino
od a caccia di lumache
t'avventuri col mattino,
così rosso nelle brache,
nel giubbon così turchino,
Sciarallino, Sciarallino?
"Quanto sei
caro!" sbuffò Sciaralla, allungando una mano alle terga, ove la mota gli sera
appiastrata.
Marco Prèola si calò giú, sul sedere,
dall'arginello lubrico di fango, e gli saccostò.
"Caro? No" disse "mi vendo
a buon mercato! Ti piace la poesia? Bella! E séguita, sai? La stamperò su l'Enpedocle
domenica ventura.
Capitan Sciaralla stette ancora un pezzo
a guardarlo, col volto contratto, ora, in una smorfia tra di schifo e di compassione.
Sapeva che colui andava soggetto ad attacchi d'epilessia; che spesso vagava di notte come
un cane randagio e sparlava per due o tre giorni finché non lo ritrovavano come una
bestia morta, con la faccia a terra e la bava alla bocca, o sú al Culmo delle Forche o su
la Serra Ferlucchia o per le campagne. Gli vide la faccia gonfia, deturpata da una livida
cicatrice su la gota destra, dall'occhio alla bocca, con pochi peli ispidi biondicci sul
labbro e sul mento; gli guardò il vecchio cappelluccio stinto e roccioso, che non
arrivava a nascondergli la laida calvizie precoce; notò che calvo era anche di ciglia; ma
non poté sostenere lo sguardo di quegli occhi chiari, verdastri, impudenti, in cui tutti
i vizii pareva vermicassero. Cacciato dalla scuola militare di Modena, il Prèola era
stato a Roma circa un anno nella redazione d'un giornalucolo di ricattatori; scontata una
condanna di otto mesi di carcere, aveva tentato di uccidersi buttandosi giú da un ponte
nel Tevere; salvato per miracolo, era stato rimpatriato dalla questura, e ora viveva alle
spalle del padre, a Girgenti.
"Che hai fatto?" gli domandò
Sciaralla.
Il Prèola si guardò l'abito cretoso
addosso, e con un ghigno frigido rispose:
"Niente. Un insultino...
Con le mani aggiunse un gesto per
significare che sera voltolato per terra. Poi, all'improvviso, cangiando aria e
tono, gli ghermí un braccio e gli gridò:
"Qua la lettera! So che l'hai!"
"Sei matto?" esclamò Sciaralla
con un soprassalto, tirandosi indietro.
Il Prèola scoppiò a ridere
sguajatamente.
"Mi serve soltanto per annusarla.
Càvala fuori. Voglio sentire se sa odor di confetti. Animale, non sai che il tuo padrone
sposa?
Sciaralla lo guardò, stordito.
"Il principe?"
" Sua Eccellenza, già! Non credi?
Scommetto che la lettera parla di questo. Il principe annunzia le prossime nozze al
fratello. Non hai visto monsignor Montoro? E lui il paraninfo!"
Veramente monsignor Montoro in quegli
ultimi giorni sera fatto vedere molto piú di frequente a Colimbètra. Che fosse
vero? Sciaralla si sforzò d'impedire che quella notizia incredibile, di un avvenimento
cosí inopinato, gli accendesse in un lampo la visione di splendide feste, di una gaja
animazione nuova in quel silenzioso, austero ritiro, la speranza di regali per la bella
comparsa che avrebbe fatto coi suoi uomini e il servizio inappuntabile che avrebbe
disimpegnato... Ma il principe, possibile? cosí serio... alla sua età? E poi, come
prestar fede al Prèola?
Cercando di nascondere la meraviglia e la
curiosità con un sorriso di diffidenza, gli domandò:
"E chi sposa?"
"Se mi dài la lettera, te lo
dico," rispose quello.
"Domani! Va' là! Ho capito."
E Sciaralla si spinse col busto per
cacciar la giumenta.
"Aspetta!" esclamò il Prèola,
trattenendo Titina per la coda. "M'importa assai delle nozze, e che tu non ci creda!
Forse... vedi? questo mi premerebbe piú di sapere... forse il principe parla al fratello
delle elezioni, della candidatura del nipote. Non sai neanche questo? Non sai che Roberto
Auriti "il dodicenne eroe", si presenta deputato?"
"So un corno io; chi se
n'impiccia?" fece Sciaralla. "Non abbiamo l'on. Fazello per deputato?"
"Non lo dico io che siete fuori
della storia, vojaltri, a Colimbètra!" ghignò il Prèola. "Abbiamo le elezioni
generali, e Fazello non si ripresenta, somaro, per la morte del figliuolo!"
"Del figliuolo? Se è scapolo!"
Il Prèola tornò a ridere sguajatamente.
"E che uno scapolo, uomo di chiesa
per giunta, non può aver figliuoli? Bestione! Avremo l'Auriti, sostenuto dal governo,
contro l'avvocato Capolino. Fiera lotta, singolar tenzone... Dammi la lettera!
Sciaralla diede una spronata a Titina e
con uno sfaglio si liberò del Prèola. Questi allora gli tirò dietro una e due sassate;
stava per tirargli la terza, quando dalla svoltata si levò una voce rabbiosa:
"Ohé, corpo di... Chi tira?"
E un'altra voce, rivolta evidentemente a
Sciaralla che fuggiva:
"Vergògnati! Fantoccio! Ignorante!
Buffone!"
E dalla svoltata apparvero sotto un
ombrellaccio verde sforacchiato, stanchi e inzaccherati, i due inseparabili Luca Lizio e
Nócio Pigna, o, come tutti da un pezzo li chiamavano Propaganda e Conpagnia:
quegli, uno spilungone ispido e scialbo, con un pajo di lenti che gli scivolavano di
traverso sul naso, stretto nelle spalle per il freddo e col bavero della giacchettina
d'estate tirato sú; questi, tozzo, deforme, dal groppone sbilenco, con un braccio
penzolante quasi fino a terra e l'altro pontato a leva sul ginocchio, per reggersi alla
meglio.
Erano i due rivoluzionarii del paese.
Capitan Sciaralla credeva a torto che
nessuno si movesse a Girgenti.
Si movevano loro, Lizio e Pigna.
E vero che, l'uno e l'altro, quella
mattina, cosí bagnati e intirizziti, sotto quell'ombrello sforacchiato, non davano a
vedere che potessero esser molto temibili le loro imprese rivoluzionarie.Nessuno poteva
vederlo meglio di Marco Prèola, il quale avendo già da un pezzo abbandonato al caso la
propria vita, tenuta per niente da lui stesso piú che dagli altri e senza piú né
affetti né fede in nulla, sciolta non pur d'ogni regola, ma anche d'ogni abitudine e
gettata in preda a ogni capriccio improvviso e violento, tutto vedeva buffo e vano e tutto
e tutti derideva, sfogando in questa derisione le scomposte energie non comuni dell'animo
esacerbato.
Sapeva che, tre giorni addietro, quei due
si erano recati alla marina di Porto Empedocle a catechizzare i facchini addetti
all'imbarco dello zolfo, gli scaricatori, gli stivatori, i marinaj delle spigonare, i
carrettieri, i pesatori, per raccoglierli in fascio. Vedendoli di ritorno a quell'ora, in
quello stato, arricciò il naso, si fermò in mezzo allo stradone ad aspettarli per
accompagnarsi con loro fino a Girgenti; quando gli furon vicini, aprí le braccia, quasi
per reggere un fiasco, di que' grossi, e disse loro:
"Andiamo; niente: lo porto io."
Il Pigna si fermò e, sforzandosi di
dirizzarsi meglio sul braccio, squadrò con disprezzo il Prèola. Il corpo, tutto groppi e
nodi; ma una faccia da bambolone aveva, senza un pelo, arrossata sulle gote dal salso che
gli aveva dato fuori alla pelle, e un pajo d'occhi neri, smaltati e mobilissimi da matto,
sotto un cappellaccio tutto sbertucciato, che lo faceva somigliare a uno di quei fantocci
che schizzan sú dalle scàtole a scatto.
Marco Prèola lo chiamò con un
vezzeggiativo dispettosamente bonario, e gli disse ammiccando:
"Nociarè, non te n'avere a
male! Mondaccio laido è questo, d'ingrati. Marinaj, piedi piatti. Oh, e chiudi il
paracqua, Luca! Dio ci manda l'acqua, e non te ne vuoi profittare? Laviamoci il visino,
cosí..."
E levò la faccia fangosa verso il cielo.
Spruzzolava ancora dalle nuvole che simporporavano negli orli frastagliati, correndo
incontro al sole che stava per levarsi, un'acquerugiola gelida e pungente.
"Che son aghi?" gridò,
sbruffando come un cavallo, squassando la testa e buttandosi apposta addosso al Pigna.
Sozzo com'era già da capo a piedi e
tutto fradicio di pioggia, si sentiva ormai libero da ogni angustia di guardarsi
dall'acqua e dalla zàcchera, e provava la voluttà, sguazzando nel fango senza piú
impaccio né ritegno, di potere insozzarne gli altri impunemente.
"Scànsati!" gli gridò il
Pigna. "Chi ti cerca? chi ti vuole? chi ti ha dato mai confidenza?"
Il Prèola, senza scomporsi, gli rispose:
"Quanto mi piaci arrabbiato! Creta
madre, caro mio. Te ne volevo attaccare un po'... Mi scansi? Poi ti lagni degli altri, che
sono ingrati.
"Ci vuole una faccia..."
brontolò il Pigna, rivolto al Lizio.
Ma questi andava chiuso in sé,
noncurante e accigliato. Diede una spallata, come per dire che non voleva esser
frastornato dai suoi pensieri, e avanti.
Il Prèola li seguí un pezzo in
silenzio, un po' discosto, guardando ora l'uno ora l'altro. Aveva nelle viscere la smania
di fare qualche cosa, quella mattina; non sapeva quale. Si sarebbe messo a urlare come un
lupo. Per non urlare, apriva la bocca, si cacciava una mano sui denti e tirava fin quasi a
slogarsi la mascella; poi sospirava o si scrollava tutto in un fremito animalesco. Poteva
solo sfogarsi con quei due; ma, a stuzzicare il Lizio, che gusto c'era? Disperatonaccio
come lui e, per giunta, con la testa piena di fumo. Due disgrazie, una sopra l'altra, il
suicidio del padre, bravo avvocato ma di cervello balzano, poi quello del fratello, gli
avevano cattivato in paese una certa simpatia, mista di costernazione, e anche un certo
rispetto. Studiava molto e parlava poco, anzi non parlava quasi mai. La ragione c'era,
veramente: gli mancava quasi mezzo alfabeto. Di lui si poteva ridere soltanto per questo:
che aveva trovato nel Pigna il suo organetto; e organetto e sonatore, ogni volta, ai
comizii, comparivano insieme. Se il Pigna stonava, egli lo rimetteva in tono, serio serio,
tirandolo per la manica. Rivoluzione sociale... fratellanza dei popoli... rivendicazione
dei diritti degli oppressi... parole grandi, insomma! E forse perciò, distratto,
sera attaccato intanto a un tozzo di pane faticato da altri per lui. Faceva benone,
oh! Solo che, con questo po' po' di freddo...
"Una caffettierina, volesse
Iddio!" invocò con improvviso scatto il Prèola, levando le braccia. "Tre
pezzetti di zucchero, un vasetto di panna, quattro fettine di pane abbruscato. Oh animucce
sante del Purgatorio!"
Luca Lizio si voltò, brusco, a guatarlo.
Proprio a una tazzina di caffè pensava in quel momento, cosí accigliato; e la vedeva, e
se ne inebriava quasi in sogno, aspirandone il fumante aroma; e stringeva in tasca, nel
desiderio che lo struggeva, il pugno intirizzito. Partito a bujo, e sconfitto, da Porto
Empedocle, sentiva un freddo da morire; non gli pareva l'ora d'arrivare. Avvilito da quel
bisogno meschino, si vedeva misero, degno di conforto, d'un conforto che sapeva di non
poter trovare in nessuno.
Poc'anzi, tra quel fantoccio fuggito di
là su la giumenta bianca e il Prèola fermo piú sú ad aspettare con un ghigno rassegato
sulle labbra, aveva avuto lui stesso un'improvvisa strana impressione di sé, che gli era
penetrata fino a toccare e sommuovere dal fondo del suo essere un sentimento finora
sconosciuto, quasi di stupore per tutti i suoi sdegni, per tutte le sue furie ardenti, le
quali a un tratto gli serano scoperte, come da lontano, folli e vane, là in mezzo a
quella scena di desolato squallore. Nella magrezza miserabile del suo corpo tremante di
freddo e pur madido di un sudorino vischioso, sera veduto simile a quegli alberi che
saffacciavano dalle muricce, stecchiti e gocciolanti. Gocciolavano anche a lui per
il freddo la punta del naso e gli occhi miopi dietro le lenti. Sera ristretto in
sé; e, quasi quell'impressione, toccato il fondo del suo essere e vanita in quello
stupore, gli si fosse ora serrata attorno come un'irta angustia, sera sentito tutto
dolere: doler le tempie schiacciate, le aguzze sporgenze delle scapole, su cui la stoffa
della giacchettina d'estate aveva preso il lustro, e i polsi scoperti dalle maniche troppo
corte e i piedi bagnati entro le scarpe rotte. E tutto ora gli pareva un di piú, una
soperchieria crudele: ogni nuova pettata di quello stradone divenuto una fiumara di creta;
la cruda luce dell'alba che, non ostante la cupezza di quelle nuvole, si rifletteva su la
motriglia e lo abbagliava; ma sopra tutto la compagnia di quel tristo, da capo a piedi
imbrattato di fango, fango fuori, fango dentro, che stuzzicava il Pigna a parlare. Avvezzo
ormai da anni a star zitto, provava uno stordimento a mano a mano piú confuso per quel
suo silenzio che, all'insaputa di tutti, si nutriva e saccresceva dentro di lui di
certe stravaganti impressioni, come quella di poc'anzi, che non avrebbe potuto esprimere
neppure a se stesso, se non a costo di togliere ogni credito e ogni fiducia all'opera sua.
Marco Prèola, intanto, seguitava a dire,
quasi tra sé:
"Io, va bene; che sono io? un
vagabondo; mi merito questo e altro. Ma vedete Domineddio che tempo pensa di fare, quando
sono in cammino per una santa missione due poveri umanitarii che una turba irriverente ha
cacciato via, di notte, a nerbate!"
Il Pigna accennò di fermarsi, fremente;
ma Luca Lizio lo tirò via con uno strappo alla manica e un grugnito rabbioso.
"Nerbate... ma bada, sai!"
masticò quello tra i denti. "Gliele darei io, le nerbate..."
"E da te me le piglierei, Nociarè,"
saffrettò a dirgli il Prèola con un inchino, "perché tu, non sembri, ma sei
un eroe. Puzzi, mannaggia, ma sei un eroe; e quando te lo dico io ci puoi credere. Il
popolo non ti può capire. Non può capire la tua idea, perché per disgrazia l'idea non
ha occhi, non ha gambe, e non ha bocca. Parla e si muove per bocca e con le gambe degli
uomini. Se dici, poniamo: "Popolo, l'umanità cammina! T'insegnerò io a
camminare!" - son capaci di guardarti le cianche, come le butti: "Ma guarda un
po', chi vuole insegnarci a camminare!".
"Pezzo d'asino!" sbottò
Propaganda, non potendo piú tenersi. "E non si chiama ragionare coi piedi,
codesto?"
"Io? Il popolo!" rimbeccò il
Prèola.
"Il Popolo, per tua norma,"
ribatté il Pigna, roteando gli occhi da matto; ma subito si trattenne. "Non lo
nominare, il Popolo; non sei degno neanche di nominarlo, tu, il Popolo! Troppe cose ha
capito il Popolo, caro mio, per tua norma; e prima di tutte questa: che i tuoi patrioti lo
ingannarono..."
"I miei?" fece il Prèola,
ridendo."
"I tuoi, quelli che lo spinsero a
fare la rivoluzione del Sessanta, promettendo l'età dell'oro! I patrioti e i preti. Noi,
caro mio, per tua norma, gli dimostriamo, quattr'e quattr'otto e con le prove alla mano,
che... capisci? per virtú della sua stessa forza, capisci? per virtú, dico bene, della
sua stessa forza, non per concessione d'altri, esso può, se vuole, migliorare le sue
condizioni."
"Meglio sarebbe per forza della sua
virtú," osservò, placido, il Prèola.
Il Pigna lo guardò, stordito. Ma subito
quello saffrettò a tranquillarlo:
"Niente, non ci badare. Giuoco di
parole!
"Per virtú... per virtú della sua
stessa forza," ribatté a bassa voce, non piú ben sicuro il Pigna, rivolgendosi al
Lizio per consigliarsi con gli occhi di lui se aveva detto bene; e seguitò, un po'
sconcertato: "Migliorare, sissignore, questo iniquo ordinamento economico, dove
uomini vivono... cioè, no... oppure, sí... uomini vivono senza lavorare, e uomini, pur
lavorando, non vivono! Capisci? Noi diciamo al Popolo: "Tu sei tutto! Tu puoi tutto!
Unísciti e detta la tua legge e il tuo diritto!".
"Bravissimo!" esclamò il
Prèola. "Permetti che parli io, adesso?"
"La tua legge e il tuo
diritto!" ripeté ancora una volta il Pigna, furioso. "Parla, parla."
"E non t'offendi?"
"Non m'offendo: parla."
"Fosti, sí o no, sagrestano fino a
poco tempo fa?"
Propaganda si voltò di nuovo a
guardarlo, stordito.
"Che c'entra questo?"
E il Prèola, placido:
"Hai promesso di non offenderti!
Rispondi."
"Sagrestano, sissignore,"
riconobbe il Pigna, coraggiosamente. "Ebbene? Che vuoi dire con ciò? Che ho cambiato
colore?"
"No, che colore! Lascia stare. Al
massimo, casacca."
"Ho imparato a conoscere i preti,
ecco tutto!"
"E a far figliuoli," raffibbiò
il Prèola: "sette figlie femmine, tutte di fila; lo puoi negare?"
Nòcio Pigna si fermò per la terza volta
a guatarlo. Aveva promesso di non offendersi. Ma dove voleva andare a parare con
quell'interrogatorio? Aveva perduto il posto alla chiesa, perché una delle figliuole, la
maggiore, e un certo canonico Landolina...
"Col patto, oh, di non toccare certi
tasti," lo prevenne, scombujandosi e abbassando gli occhi.
"No no no," disse
precipitosamente il Prèola, con una mano al petto. "Senti, Nocio, io sono, a
giudizio de' savi universale, quel che si dice un farabutto. Va bene? Sono stato otto
mesi dentro... figúrati! E vedi qua?" soggiunse, indicando la cicatrice sulla
gota. "Quando mi buttai a fiume, come dicono a Roma... Già!... Figúrati
dunque se certe cose mi possono fare impressione! Sai, anzi, che mi fa impressione? Che
tu, a quella disgraziata..."
"Non tocchiamo, t'ho detto, certi
tasti."
"Caro mio!" sospirò il
Préola, socchiudendo gli occhi. "Ti faccio una confidenza. Quelli che combatto sono
i soli per cui abbia una certa stima. Ma questi tali, per le mie... diciamo disgrazie, non
vogliono averne di me, e non mi vorrebbero lasciar vivere. Qui sbagliano. Vivere debbo! E
per vivere, sto coi preti. Gli uomini non perdonano; Dio invece, a detta dei preti, m'ha
da un pezzo perdonato; e con questa scusa si servono di me. Guarda, oh, che piazza,
Nocio!" aggiunse, buttandosi indietro il cappelluccio per mostrare la fronte. "E
ce n'ho, dentro, sai! Se le cose mi fossero andate per il loro verso... Basta, lasciamo
stare. Io, voi... tutto... ma guardate! Fango. Ci stiamo tutti e tre, coi piedi affondati;
ebbene, parliamoci chiaro, in nome di Dio, diciamoci le cose come sono, senza vestirle di
frasi, nude; pigliamoci questo piacere! Io sono un porco, sí, ma tu che sei, Nociarè?
che lavoro è il tuo, me lo dici? Pàssati una mano sulla coscienza: tu non lavori!"
"Io?" esclamò il Pigna,
stupito piú che offeso dell'ingiustizia, allungando il braccio e ripiegandolo sul petto
con l'indice teso.
"Lavori per la causa? Frase!"
ribatté il Prèola, pronto. "T'ho pregato: la verità nuda! Poi te la vesti a casa
come vuoi, per quietarti la coscienza. Lavoravi... ti cacciarono via dalla chiesa; poi, da
un banco di lotto... Calunnia, lo so! Ma pure, se davvero ti fossi messo in tasca i
bajocchi dei gonzi che venivano a giocare al botteghino, credi che per me avresti fatto
male? Benone avresti fatto! Ma ora che fai? Lavorano le tue figliuole, e tu mangi e
predichi. E qua, quest'altro San Luca evangelista... Come lo chiamate? Amore libero. Va
bene: frase! Il fatto è che sè messo con un'altra delle tue figliuole, e..."
Luca Lizio, a questo punto, livido e
scontraffatto, si avventò con le braccia protese alla gola del Prèola. Ma questi si
trasse indietro, ridendo, finché poté ghermirgli i polsi e respingerlo senza furia.
"Ma va'!"gli gridò, con un
lustro di gioja maligna negli occhi e nei denti. "Io sto dicendo la verità."
"Lascialo perdere!"
sinterpose il Pigna, a sua volta trattenendo Luca Lizio e riavviandosi." Non
vedi che fa professione di mosca canina?"
"Canina, già: gli ho punzecchiato
la nudità," sghignò il Prèola. "E con questo freddo... Sí sí, meglio
nasconderla! Volevo spiegarti soltanto, caro Nocio, senza offenderti, perché non puoi
fare effetto."
"Perché questo è un paese di
carogne!" gridò il Pigna, voltandosi a fulminarlo con tanto d'occhi."
"D'accordo!" approvò subito il
Prèola. "E io, piú carogna di tutti. D'accordo! Ma tu non lavori: le tue figliuole
lavorano, e Luca mangia e studia, e tu mangi e predichi. Studiare, predicare: parole. La
sostanza è il boccone che si mangia. Vorrei sapere come non vi strozza, pensando che le
tue figliuole sgobbano a cucire e non dormono la notte per procurarvelo."
Il Pigna finse di non udire; scrollò
piú volte il capo e brontolò tra sé, di nuovo:
"Paese di carogne! Va' ad Aragona, a
due passi da Girgenti; va' a Favara, a Grotte, a Casteltermini, a Campobello... Paesi di
contadini e solfaraj, poveri analfabeti. Quattromila, soltanto a Casteltermini! Ci sono
stato la settimana scorsa; ho assistito all'inaugurazione del Fascio."
"Col lumino acceso davanti alla
Madonna?" domandò il Prèola.
"Altro è Dio, altro il prete,
imbecille!" rispose alteramente il Pigna.
"E le trombe che suonano la fanfara
reale?"
"Disciplina! Disciplina!"
esclamò il Pigna. "Fanno bene! Bisognava vederli... Tutti pronti e serii...
quattromila... compatti... parevano la terra stessa, la terra viva, capisci? che si muove
e pensa... ottomila occhi che sanno e che ti guardano... ottomila braccia... E il cuore mi
si voltava in petto pensando che soltanto da noi, qua a Girgenti, capoluogo, a Porto
Empedocle, paese di mare, aperto al commercio, niente! niente! non si può far niente!
Come i bruti! Peggio! Ma sai come vivono giú a Porto Empedocle? Come si fa ancora
l'imbarco dello zolfo? Lo sai?"
Marco Prèola era stanco: crollò il
capo, mormorò:
"Porto Empedocle..."
E a tutti e tre si rappresentò
l'immagine di quella borgata di mare cresciuta in poco tempo a spese della vecchia
Girgenti e divenuta ora comune autonomo. Una ventina di casupole prima, là sulla
spiaggia, battute dal vento tra la spuma e la rena, con un breve ponitojo da legni
sottili, detto ora Molo Vecchio, e un castello a mare, quadrato e fosco dove si tenevano
ai lavori forzati i galeotti, quelli che poi, cresciuto il traffico dello zolfo avevano
gettato le due ampie scogliere del nuovo porto, lasciando in mezzo quel piccolo Molo, al
quale in grazia della banchina, è stato serbato l'onore di tener la sede della
capitaneria del porto e la bianca torre del faro principale. Non potendo allargarsi per
l'imminenza d'un altipiano marnoso alle sue spalle, il paese sè allungato sulla stretta
spiaggia, e fino all'orlo di quell'altipiano le case si sono addossate, fitte, oppresse,
quasi l'una sull'altra. I depositi di zolfo saccatastano lungo la spiaggia; e da
mane a sera è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione
ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolío senza fine
d'uomini scalzi e di bestie, ciattío di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti,
bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d'un treno che attraversa la spiaggia,
diretto ora all'una ora all'altra delle due scogliere sempre in riparazione. Oltre il
braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonare con la vela ammainata a metà su
l'albero; a piè delle cataste simpiantano le stadere su le quali 1o zolfo è pesato
e quindi caricato su le spalle dei facchini, detti uomini di mare, i quali, scalzi,
in calzoni di tela, con un sacco su le spalle rimboccato sulla fronte e attorto dietro la
nuca, immergendosi nell'acqua fino all'anca, recano il carico alle spigonare, che poi,
sciolta la vela, vanno a scaricar lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto, o
fuori.
"Lavoro da schiavi," disse il
Pigna, "che stringe il cuore certi giorni d'inverno. Schiacciati sotto il carico, con
l'acqua fino alle reni. Uomini? bestie! E se dici loro che potrebbero diventar uomini,
aprono la bocca a un riso scemo o t'ingiuriano. Sai perché non si costruiscono le
banchine sulle scogliere del nuovo porto, da cui l'imbarco si potrebbe far piú presto e
comodamente coi carri o i vagoncini? Perché i pezzi grossi del paese sono i proprietarii
delle spigonare! E intanto, con tutti i tesori che si ricavano da quel commercio, le fogne
sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lí
davanti, manca l'acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne
lagna. Pajono tutti pazzi, là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e
feroce!"
"Ma sai che parli bene
davvero?" concluse il Prèola, approvando. Ma sai che ti giovarono sul serio le
prediche che sentisti da sagrestano?"
"Baibai, baibai, dice
l'Inglese!" soggiunse Nocio Pigna, stendendo minacciosamente il lunghissimo braccio.
"Trecentomila siamo, caro mio, oggi come oggi. E presto ci sentirete."
Superata l'erta dello
stradone, appoggiato di là all'altro versante della vallata, Placido Sciaralla seguitava
intanto a trotterellare su Titina per Valsanía, immerso in nuove e piú complicate
considerazioni, dopo quelle notizie del Prèola. A un certo punto se ne stancò, scrollò
le spalle e si mise a guardare intorno.
Gli si svolgeva ora, a sinistra, la
campagna lieta della vicinanza del mare, tutta a mandorli, a olivi e a vigneti. Era già
in vista della Seta, casale d'una cinquantina d'abituri allineati sullo stradone, fondachi
e taverne per i carrettieri, la maggior parte, da cui esalava un tanfo acuto e acre di
mosto, un tepor grasso di letame, e botteghe di maniscalchi, di magnani, di carraj, con
una stamberguccia in mezzo, ridotta a chiesuola per le funzioni sacre della domenica. Per
schivare la vista di quei borghigiani zotici che lo conoscevano tutti, Sciaralla imboccò
un sentieruolo tra i campi e in breve sinternò nelle terre di Valsanía.
Tranne il vigneto, cura appassionata e
orgoglio di Mauro Mortara, e l'antico oliveto saraceno, il mandorleto e alcuni ettari di
campo sativo e, giú nell'ampio burrone, l'agrumeto, che costituivano la parte di mezzo
riservata a don Cosmo tutto il resto era ceduto in piccoli lotti a mezzadría a poveri
contadini, non dal principe don Ippolito direttamente, a cui anche quel fèudo
apparteneva, ma da fittavoli di fittavoli, i quali non contenti di vivere in città da
signori sulla fatica di quei poveri disgraziati, li vessavano con l'usura piú spietata e
con un raggiro intricato di patti esosi. L'usura si esercitava sulla semente e su i
soccorsi anticipati durante l'annata, l'angheria piú iniqua, nei prelevamenti al tempo
del raccolto. Dopo aver faticato un anno, il cosí detto mezzadro si vedeva portar via
dall'aja a tumulo a tumulo quasi tutto il raccolto: i tumuli per la semente, i tumuli per
la pastura, e questo per la lampada e quello per il campiere e quest'altro per la
Madonna Addolorata, e poi per San Francesco di Paola, e per San Calògero, e insomma per
quasi tutti i santi del calendario ecclesiastico; sicché talvolta, si e no, gli restava
il solame, cioè quel po' di grano misto alla paglia e alla polvere, che nella
trebbiatura rimaneva sull'aje.
Il sole sera già levato, e capitan
Sciaralla vedeva qua e là nella distesa delle terre, sprazzar di luce qualche pozza
d'acqua piovana o forse qualche piccolo rottame smaltato. Tutta la campagna vaporava,
quasi un velo di brina vi tremolasse. Di tratto in tratto, qualche tugurio screpolato e
affumicato, che i contadini chiamavano roba, stalla e casa insieme, e usciva da questo la
moglie d'uno dei mezzadri per legare all'aperto il porchetto grufolante, e tre, quattro
gallinelle la seguivano; innanzi alla porta rossigna e imporrita di quello, un'altra donna
pettinava una ragazzetta che piagnucolava; mentre gli uomini, con vecchi aratri primitivi,
tirati da una mula stecchita e da un lento asinello che si sfiancava nello sforzo,
grattavano a mala pena la terra, dopo quella prim'acquata della notte. Tutta questa povera
gente, vedendo passare Sciaralla su la giumenta bianca, sospendeva il lavoro per salutarlo
con riverenza, come se passasse il principe in persona. Capitan Sciaralla rispondeva pieno
di dignità, alzando la mano al berretto, militarmente, e accoglieva quelle dimostrazioni
di rispetto come un anticipato compenso all'umiliazione che andava a patire da quella
vecchia bestia feroce del Mortara. Una costernazione tuttavia gli guastava il piacere di
quei saluti: tra breve, entrando nei dominii di colui, sarebbe stato assaltato dai cani,
da quei tre mastini piú feroci del padrone, il quale certo aveva loro insegnato a fargli
ogni volta quell'accoglienza. E aveva un bel gridare Sciaralla, mentre quelli gli
saltavano addosso, di qua e di là, fino all'altezza di Titina, la quale a sua volta
traeva salti da montone, spaventata: Mauro o il curàtolo Vanni di Ninfa si
presentavano col loro comodo a richiamarli, quando il malcapitato aveva già veduto piú
volte la morte con gli occhi.
Con quei tre mastini Mauro Mortara
conversava proprio come se fossero creature ragionevoli. Diceva che gli uomini non san
capire i cani; ma questi sí, gli uomini. Il male è diceva - che, poveretti, non ce lo
sanno esprimere; e noi crediamo che non ci capiscano e non sentano. Sciaralla però se lo
spiegava altrimenti, il fenomeno. Quei cani intendevano cosí bene il padrone, perché
questo era piú cane di loro. E gli parve d'averne una riprova quella mattina stessa.
Mauro stava innanzi alla villa; e i tre
amiconi, vigili attorno, col muso all'aria. Ebbene, all'arrivo di lui, questa volta, essi
se ne stettero lí (uno, anzi, sbadigliò), quasi avessero compreso che il padrone avrebbe
fatto ottimamente le loro veci.
"Che vuoi tu qua, a quest'ora,
mal'ombra?" gli disse infatti Mauro, tirandosi giú dal capo il cappuccio del ruvido
cappotto, in cui era avvolto, e scoprendo la testa oppressa dall'enorme berretto villoso.
Quand'era prossima la vendemmia, Mauro
Mortara non dormiva piú, le notti: stava a guardia della vigna, passeggiando per i lunghi
filari, insieme coi tre mastini. Forse se n'era stato all'aperto anche con quella notte da
lupi: n'era ben capace!
Sciaralla lo salutò umilmente, poi,
indicando i cani, domandò:
"Posso scavalcare?"
"Scavalca," borbottò Mauro.
"Che porti?"
"Una lettera per don Cosmo"
rispose Sciaralla, smontando dalla giumenta.
E mentre si cercava nella tasca interna
del cappotto, si sentiva addosso gli occhi di Mauro pieni d'ira e di scherno.
"Eccola. La manda Sua Eccellenza di
gran fretta."
"Sta' qui,"
glintimò Mauro, prendendo la lettera. "E bada di non lasciare la
giumenta."
Sciaralla sapeva che gli era proibito di
salire alla villa, come se, con la sua uniforme, potesse sconsacrare quel vecchiume,
quella rozza cascinaccia d'un sol piano: lui che veniva dagli splendori di Colimbètra,
dove uno si poteva specchiare anche nei muri! La proibizione non partiva certo da don
Cosmo, ma dal Mortara stesso, il quale gli vietava perfino di legare la giumenta agli
anelli confitti nell'aggetto della rustica scala a collo. Doveva tener le briglie in mano
e star lí in piedi, all'aperto, ad aspettare, quasi fosse venuto per l'elemosina.
Appena Mauro si mosse, i tre cani
saccostarono pian piano a capitan Sciaralla e cominciarono a fiutarlo. Il poveretto,
fermo e con l'anima sospesa, alzò gli occhi al Mortara che saliva la scala.
"Non vi sporcate il muso con codesti
calzoni!" disse Mauro, dopo aver chiamato a sé i cani; e soggiunse, rivolto a
Sciaralla: "Adesso ti mando un sorso di caffè, per farti rimettere dalla
paura."
Pervenuto al pianerottolo, fece per
bussare al modo convenuto, battendo cioè tre volte il saliscendi sul dente del nasello
interno; ma, appena alzato il saliscendi, la porta si aprí, e Mauro entrò esclamando:
"Aperta? Di nuovo aperta?
Lavete aperta voi? - soggiunse poi dietro l'uscio della cucina, da cui per un
istante sera mostrata la testa incuffiata di donna Sara Alàimo, la casiera
(cameriera, no!) di Valsanía.
"Io?" gridò dall'interno donna
Sara. "Mi alzo adesso, io!"
E, sentendo che Mauro si allontanava,
fece le corna con una mano e le scosse piú volte in un gesto di dispetto. Cameriera, no -
lei: eh perbacco! né di lui, né di nessuno, là dentro. Aveva la ventola in mano, è
vero; stava ad accendere il fuoco in cucina, ma era vera signora, di nascita e
d'educazione, lei; lontana parente di Stefano Auriti, cognato dei Laurentano, e perciò,
via, se vogliamo, parte della famiglia anche lei.
Stava a Valsanía da molti anni a badare
a don Cosmo, che forse non avrebbe mai sentito alcun bisogno di lei se la sorella donna
Caterina non gliel'avesse mandata da Girgenti, dove da vera signora non le restava altra
consolazione che quella di morire dignitosamente di fame. A Valsanía le giornate le
passavano a strisciar la groppa a due gatti, debitamente castrati, che le andavano sempre
dietro a coda ritta; a dir corone di quindici poste, a labbreggiar senza fine altre
preghiere; ma, a starla a sentire, tutto andava bene, solo perché c'era lei; senza lei,
addio ogni cosa. Se le messi imbiondivano, se gli alberi fruttificavano, se veniva a tempo
la pioggia.. Insomma si dava l'aria di governare il mondo. Mauro non la poteva soffrire. E
donna Sara in questo lo contraccambiava cordialmente; anzi nulla le riusciva piú penoso
che il dovere apparecchiar la tavola anche per lui, poiché don Cosmo pur troppo
sera ridotto fino a tal punto, fino a dar quest'onore a un figlio di contadini e
quasi contadino zappaterra anche lui; sissignori... mentre lei, donna Sara, vera signora
di nascita e d'educazione, lí, in cucina lei, e obbligata a servirlo!
Saffacciò alla finestra e, vedendo
giú capitan Sciaralla, emise un profondo sospiro con un breve lamento nella gola:
" Ah, Placidino, Placidino!
Offriamolo al Signore in penitenza dei nostri peccati..."
Intanto Mauro era entrato nello stanzino
da bagno di don Cosmo.
Tutto era vecchio e rustico in
quell'antica villa abbandonata: rosi i mattoni dei pavimenti avvallati; le pareti e i
soffitti, anneriti, le imposte e i mobili, stinti e corrosi; e tutto era impregnato come
d'un tanfo di granaglie secche, di paglia bruciata, d'erbe appassite nell'afa delle terre
assolate.
Nello stanzino da bagno, don Cosmo, in
mutande a maglia, nudo il torso peloso, nudi i piedi nelle vecchie ciabatte, si preparava
alla consueta abluzione con una dozzina di spugne, grandi e piccole, disposte sul lavabo.
Si lavava tutto, ogni mattina, anche d'inverno, con l'acqua diaccia; e questa era l'unica
delizia della sua vita: solennissima pazzia, invece, per Mauro che, sí e no, ogni mattina
si lavava "la semplice maschera", com'egli diceva, per significare la sola
faccia.
"Avete dormito di nuovo con la porta
aperta?"
" Sí? Oh guarda!" fece don
Cosmo, come ne fosse stupito; e si grattò sul mento la corta barba grigia, ricciuta.
"Mai, eh? gli occhi non li aprirete
mai?" incalzò Mauro. "Non lo dico io? Il bamboccetto! lajo, la bàlia,
gli dobbiamo dare... Santissimo Dio, che cristiano siete? Non lo avete letto il giornale
di jeri? Di quei lacci di forca che, con la scusa della fame, vogliono mandare a gambe
all'aria tutto quello che abbiamo fatto noi, a costo del sangue nostro?"
Don Cosmo, tra i gesticolamenti furiosi
di Mauro, non sera accorto della lettera che questi teneva in mano, e quietamente
aveva cominciato a insaponarsi il capo calvo. Stizzito da quella calma, Mauro seguitò:
"E se tutti fossero come voi... Ma
ci sono anchio, qua per grazia di Dio! Vecchio come sono, avrebbero ancora da
vedersela con me!"
Don Cosmo voltò il capo tutto luccicante
di bolle di sapone e lo guardò:
"Vedi che posso dunque seguitare a
dormire anche con la porta aperta? Ci sei tu!"
I giornali, a Valsanía, capitavano di
tanto in tanto, già destinati al loro piú umile e forse piú utile uso d'involti. Mauro
se li rimetteva in sesto amorosamente ci passava sopra le mani piú volte per appianarne
le brancicature e gli strambelli; e, vincendo con una pazienza da certosino l'enorme
stento della lettura (giacché da sé assai tardi aveva imparato a compitare appena), se
ne pascolava per intere settimane, cacciandoseli a memoria dal primo all'ultimo rigo. Eran
tutte notizie nuove per lui, echi sperduti colà della vita del mondo.
Nell'ultimo giornale, venutogli cosí per
caso tra mano aveva letto, il giorno avanti, di uno sciopero di solfaraj in un paese della
provincia e della costituzione di essi in "Fascio di lavoratori".
"Rivendicazione del proletariato!"
Uhm! Si era fatte spiegare da don Cosmo
queste due parole per lui sibilline, e tutta la notte, chiuso nel boricco sotto l'acqua
furiosa, aveva ruminato e ruminato, sbuffante di sacro sdegno contro quei nemici della
patria.
Non degnò di risposta le ultime parole
di don Cosmo, il quale anche per lui non doveva avere la testa a segno, e gli porse la
lettera di don Ippolito.
"L'ha portata uno dei suoi
pagliacci: Sciarallino il capitano."
" Per me?" domandò don Cosmo
meravigliato, tenendo l'acqua nelle mani giunte. "Mi scrive Ippolito? Oh che
miracolo... Apri, leggi: ho le mani bagnate..."
" Asciugatevele!" gli disse
Mauro, brusco. "Negli affari di vostro fratello sapete bene che non voglio entrarci.
Ma non pare la sua scrittura."
"Ah, Prèola," osservò don
Cosmo, guardando la busta.
La lettera era scritta dal segretario
sotto dettatura e firmata da don Ippolito. Leggendola, don Cosmo alle prime righe
aggrottò le ciglia, poi sciolse man mano la tensione della fronte e degli occhi in uno
stupore doloroso; abbassò le pàlpebre; abbassò la mano con la lettera.
"Ah, dunque è vero..."
" Vero che cosa?" brontolò
Mauro, stizzito della sua curiosità.
Don Cosmo sporse il labbro contraendo in
giú gli angoli della bocca in un gesto d'amara e sdegnosa commiserazione, tentennando il
capo, poi disse:
"Se dà questo passo, non c'è piú
rimedio... si rovina..."
" Ditemi che cosè, santo
diavolo!" ripeté Mauro, vieppiú stizzito.
Ma don Cosmo stette a guardarlo un pezzo
prima di rispondergli .
"Mi domanda la villa" poi disse
lasciandosi cadere a una a una le parole dalle labbra, "la villa, per Fiaminio
Salvo."
"Qua?" domandò Mauro con un
soprassalto, quasi don Cosmo gli avesse dato un pugno in faccia. " Qua?"
ripeté, tirandosi indietro. "A Flaminio Salvo, la villa del generale
Laurentano?"
Ma don Cosmo non sinfuriava come
Mauro per l'immaginaria profanazione della villa: era sí oppresso di doloroso stupore per
ciò che significava quell'ospitalità offerta al Salvo dal fratello. Pochi giorni
addietro, un amico, Leonardo Costa, che veniva qualche volta a trovarlo dal vicino borgo
di mare, gli aveva riferito la voce che correva a Girgenti d'un prossimo matrimonio di don
Ippolito con la sorella nubile, zitellona del Salvo. Don Cosmo non aveva voluto crederci:
suo fratello Ippolito aveva due anni piú di lui, sessantacinque; da dieci era vedovo e
sera mostrato sempre inconsolabile, pur nella sua compostezza, della morte della
moglie, santa donna... Impossibile! - Eppure...
"Gli risponderete di no?" disse
Mauro minaccioso dopo avere atteso un momento.
Don Cosmo aprí le braccia e sospirò,
con gli occhi chiusi:
"Sarebbe inutile! E poi, del
resto..."
"Come!" lo interruppe Mauro.
"Il Salvo, quell'usurajo baciapile, qua? Ma me ne vado io, allora! E non vi
ricordate, perdio, che suo padre andò ad assistere al Te Deum quando vostro padre
fu mandato in esilio? E lui, lui stesso giovanotto, non insegnò alla sbirraglia borbonica
la casa dove sera nascosto don Stefano Auriti con vostra sorella, quando i nobili di
Palermo portarono a Satriano in Caltanissetta le chiavi della città? Ve le siete
scordate, voi, queste cose? Io le ho tutte qua in mente, come in un libro stampato! Fatelo
venire a Valsanía, ora, se n'avete il coraggio! Ma la stanza del Generale, no! quella,
no! La chiave del camerone la tengo io! Là non metterà piede, o l'ammazzo, parola
di Mauro Mortara!
Don Cosmo non si scompose affatto dal suo
penoso attonimento a quella lunga sfuriata. Parecchie volte era stato sul punto di far
intendere a Mauro che a Gerlando Laurentano suo padre non era mai passata per il capo
l'idea dell'unità italiana, e che il Parlamento siciliano del 1848, nel quale suo padre
era stato per alcuni mesi ministro della guerra, non aveva mai proposto né confederazione
italiana né annessione all'Italia, ma un chiuso regno di Sicilia, con un re di Sicilia e
basta. Questa l'aspirazione di tutti i buoni vecchi Siciliani d'allora; la quale, se di
qualche punto, all'ultimo, sera spinta piú in là, non era stato mai oltre una
specie di federazione, in cui ciascuno stato dovesse conservare la propria autonomia. Non
glien'aveva detto mai nulla; né pensò di dirglielo adesso; e lasciò che Mauro,
sbuffando di sdegno, gli voltasse le spalle e andasse a rinchiudersi in quella stanza del
principe padre, sacra per lui quanto la patria stessa, primo covo della libertà e ora
quasi tempio di essa.
Giú, intanto, innanzi alla villa, il
povero Sciaralla stava ad aspettare ancora il caffè promesso: magari un sorso, e una
bella fiammata per stirizzirsi... Aspetta, aspetta: se ne scordò anche lui e cominciò a
sentirsi tra le spine per il ritardo della risposta. Avrebbe dovuto averla con sé dalla
sera avanti, se avesse obbedito al Prèola. Pensava che a quell'ora il principe a
Colimbètra sera forse levato e domandava al segretario quella risposta. E lui,
ecco, era ancora là, ad aspettarla! Ma ci voleva tanto a legger la lettera e a buttar
giú due righi di risposta? O che il Mortara, a bella posta, non l'avesse ancora data a
don Cosmo? E capitan Sciaralla sbuffava; se la prendeva ora con Titina che non stava ferma
un momento, tormentata dalle mosche.
"Quieta! Quieta! Quieta!"
Tre strattoni di briglia. Titina chiuse
gli occhi lagrimosi con tanta pena rassegnata, che Sciaralla subito si pentí dello
sgarbo.
"Hai ragione anche tu, poveretta!
Non hanno dato neanche a te una manata di paglia..."
E lasciò andare un sospirone.
Finalmente don Cosmo saffacciò a
una finestra della villa. Al rumore delle imposte, Sciaralla si voltò di scatto. Ma don
Cosmo si mostrò meravigliato di vederlo ancora lí.
"Oh, Placido! E che fai?"
"Ma come, eccellenza! la
risposta!" gemette il Capitano, giungendo le mani.
Don Cosmo aggrottò le ciglia.
"C'è bisogno della risposta?"
"Come!" ripeté Sciaralla,
esasperato. "Se sto qui da un'ora ad aspettarla!"
Ecco, ecco appunto! Quel vecchio boja non
glien'aveva detto nulla!
"Hai ragione, sí, aspetta,
figliuolo" gli disse don Cosmo, ritirandosi dalla finestra.
Pensò che il fratello stava attento
anche alle minime formalità (minchionerie, le chiamava lui), e che avrebbe considerato
come un affronto, o un grave sgarbo per lo meno, non aver risposta; prese dunque un umile
foglietto di carta ingiallito; intinse la penna tutta aggrumata in una bottiglina
d'inchiostro rugginoso e, in piedi, lí sul piano di marmo del cassettone, si mise a
ponzar la risposta, che infine, dopo molto stento, gli uscí in questi termini:
Da Valsanía li 22 di settembre del 1892.
Caro mio Ippolito,
Tu forse non sai in quali miserevoli
condizioni sia ridotta questa decrepita stamberga, dove io solamente posso abitare, che mi
considero già fuori del mondo, e non me ne lagno! Se tu stimi, ciò non per tanto, che
non si possa fare di meno, che ci vengano a rusticare li Salvo; abbi, ti prego,
lavvertenza di prevenirli che qua difettiamo di tutto, e che però seco loro si
portino tutte quelle masserizie di casa et ogni altra suppellettile, di cui reputino aver
bisogno.
Altro vorrei dirti e direi, se vano
non mi paresse lo sperare, che potesse tornare al pro la mia ragione. Onde, senz'altro,
caramente ti abbraccio.
Cosmo
Chiuse la lettera,
sbuffando, e si recò di nuovo alla finestra. Capitan Sciaralla accorse, si levò il
berretto e vi accolse la lettera.
"Bacio le mani a Vostra
Eccellenza!"
Un salto, e in sella.
"Di volo, Titina!"
Bau! bau! bau! - i tre mastini,
svegliati di soprassalto, gli corsero dietro un lungo tratto, per dargli a modo loro
l'addio.
Don Cosmo rimase alla finestra: seguí
con gli occhi il galoppo di capitan Sciaralla fino alla voltata del viale; poi il ritorno
ringhioso e sbuffante dei tre mastini, dopo la vana corsa e il vano abbajare. Quando le
tre bestie alla fine si sdrajarono di nuovo a terra presso la scala e allungando il muso
sulle zampe anteriori chiusero gli occhi per rimettersi a dormire, egli, mirandole,
scrollò lievemente il capo e sorrise. Davanti a quel loro ricomporsi al sonno non gli
sembrarono piú vani né l'abbajare né la corsa di poc'anzi. Ecco: le tre bestie avevano
protestato contro la venuta di quell'uomo, il quale aveva loro interrotto il sonno, ora
che credevano di averlo cacciato via, tornavano saggiamente a dormire.
"Perché è saggezza del cane"
pensò, sospirando profondamente "quand'abbia mangiato e atteso agli altri bisogni
del corpo, lasciare che il tempo passi dormendo."
Guardò gli alberi, davanti alla villa:
gli parvero assorti anchessi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del
giorno, invano l'aria smovendo loro le frondi tentassero di scuoterli. Da un pezzo ormai,
nel fruscío lungo e lieve di quelle fronde egli sentiva, come da un'infinita lontananza,
la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998