Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO OTTAVO
LUME SPENTO
- E l
giudisi? douva t las l giudisi, martuf?
Il bimbo, a cavalcioni su le gambe di
nonno Prever, lo guardava con gli occhioni intenti e ridenti, frenandosi; poi subito
alzava una manina e con lindice teso si toccava la fronte.
- Bel e si.
- Lè nen vera! - gli
gridava allora il vecchione, afferrandogli con le grosse mani e fingendo di volergli
strappar la pancina: - T las anvece sí, sí, sí...
E il bimbo, a questo scherzo tante
volte ripetuto, si buttava via dalle risa.
La nonna, allo scatto di quelle
fresche risa infantili, si voltava a guardare la testolina rovesciata del nipotino. Non
rideva troppo? E cera una maledetta mosca che ronzava, cosí urtante, malaugurosa,
nella camera. La cercava nel vano; quindi tornava con occhi dolenti a rimirare il
figliuolo che se ne stava presso la finestra a guardar fuori, col capo insaccato nelle
spalle e le mani in tasca, taciturno e scuro.
Già da circa nove mesi le era
ritornato da Roma, cosí, quasi ignudo, con quegli abiti che aveva indosso e la poca
biancheria. Ma avesse perduto soltanto la roba e limpiego! Il cuore, il cervello, la
vita, tutto, tutto aveva perduto, dietro a quella donna là, che per forza doveva esser
cattiva.
Sessanta e più anni aveva ella
vissuto, la signora Velia, e non aveva mai veduto alcun uomo ridursi in quello stato per
una donna onesta e buona.
Dio, non più neanche un filo
damore per quel piccino, per lei! Eccolo là: non voleva pensare più a niente;
guardava e pareva non vedesse e non udisse, alienato da ogni senso, vuoto, distrutto,
spento.
Solo per qualche traccia rimasta del
soggiorno di colei nella casa accennava di rianimarsi un po, e come un cane che si
sdraj su le vestigia del padrone morto, quasi a covarne lultimo sentore, che non se
ne vada via anche quello, stava lí e non cera verso di mandarlo fuori a distrarsi.
Già più volte il Prever gli aveva
proposto di andare con la Graziella, per qualche mese, per una settimana, per un giorno
almeno, alla villa sul colle di Bràida; e poi, che lo ajutasse un po - essendo egli
ormai vecchio nellamministrazione dei beni. A questultima proposta,
sera un po scosso, ma come per il peso di un obbligo, col quale gli si volesse
rendere crudelmente più grave linfelicità. Tanto che il Prever, subito, lo aveva
esonerato, non ostante che don Buti, il curato, sostenesse che bisognava persistere, anche
lasciandogli credere che gli si facesse quel carico per obbligo e con crudeltà.
Meisiña, -
diceva, - avei nen paura cha la treuva amera.
Medicina il signor Prever non voleva
essere; o, se mai, dolce; cosí amara, no.
- Grazious! - diceva a madama
Velia, appena don Buti se nandava. - Chiel a ven con so canucial për meisiña, e
mi i dovria I vení sí con i me count d cassa...
Don Buti, infatti, visto che Giustino
non sera voluto arrendere a fargli una visitina lí nella canonica a due passi, una
sera aveva portato con sé sotto il tabarro il suo vecchio famoso cannocchiale per fargli
ammirare la gran potensa d Nosgnour come quandera piccolino e per tener
chiuso locchio manco faceva tante smorfie con la bocca:
- Ratoujin, cosí!
Ma Giustino non sera commosso
alla vista del vecchio cannocchiale; per non far dispiacere al bravuomo aveva
guardato con esso "le gran montagne" della Luna e aveva scosso appena appena il
capo, con gli occhi aggrondati, quando don Buti aveva ripetuto col solito gesto il solito
ritornello:
- La gran potensa d
Nosgnour, eh? la gran potensa d Nosgnour!
Al ritornello era seguíto un lungo
predicozzo pieno di oh! e di eh! perché da quel tentennar del capo con gli
occhi aggrondati la gran potenza di Dio era parsa a don Buti, se non propriamente messa in
dubbio, riconosciuta però anche capace di permettere che si facesse tanto male a un
povero innocente. Ma al predicozzo Giustino era rimasto impassibile, come per una cosa che
don Buti, nella sua qualità di sacerdote, dovesse fare, e nella quale lui non avesse
nulla da vedere, fuori comera di quel dovere sacerdotale e padrone di pensarla a
suo modo, come stava scritto sul campanile della chiesa.
Da quel cupo torpore di spirito lo
aveva un po scosso, invece, il nuovo medico condotto, venuto da poco a Cargiore con
una signora che non si sapeva ancor bene se gli fosse moglie oppur no. Doveva esser ricca madama,
perché il dottor Lais aveva preso in affitto un bel villinetto di certi signori di Torino
e diceva di volerlo comperare. Alto, asciutto, rigido e preciso come un inglese, coi
baffetti ancora biondi e i capelli già canuti, fitti, corti corti, si dava laria di
esercitar la professione tanto per fare qualche cosa; vestiva con ricca e semplice
eleganza e portava sempre un pajo di splendidi gambali di cuojo, di cui pareva ogni volta
si dimenticasse apposta a casa daffibbiar qualche stringa, per affibbiarsela fuori,
per istrada o nelle visite, e richiamar cosí su essi lattenzione. Si dilettava
molto di letteratura, il dottor Lais. Chiamato per un lieve disturbo del bimbo e saputo
che il Boggiòlo era marito della celebre scrittrice Silvia Roncella e per tanti anni era
stato in mezzo alla letteratura, lo aveva assediato di domande e invitato al suo villino,
ove la sua signora avrebbe avuto certamente tanto piacere di sentirlo parlare, amante
appassionata comera anchella delle belle lettere e insaziabile divoratrice di
libri.
- Se lei non viene, badi! - gli aveva
detto. - Son capace di portarla io qua, la mia signora.
E laveva portata, difatti. E
tutti e due, egli che pareva un inglese, ella che pareva una spagnuola (era venezianina),
tutta fiocchi e nastri, tutta cascante di vezzi, bruna, con due occhietti vivaci neri neri
e due labbra carnute rosse rosse, il nasino ritto fiero e impertinente, avevano fatto
parlar Giustino per una intera serata, ammirati da un canto, dallaltro irritati da
certe notizie, da certi giudizii contrarii alle loro sviscerate simpatie di dilettanti
ammiratori di provincia. - Me schiopa el fiel! - protestava lei. - Ma come? la
Morlacchi... Flavia Morlacchi!... nessuno davvero la calcolava a Roma? Ma il suo romanzo La
vittima... tanto bello!... Ma Fiocchi di neve... versi meravigliosi!... E il
dramma... comera intitolato?... Discordia, già già, no, La Discordia...
perdio, applauditissimo a Como, quattranni fa!
Il signor Martino e don Buti stavano
a sentire e a guardare con occhi spalancati, a bocca aperta, e la signora Velia mirava
costernata il suo Giustino che, pur senza volerlo, tirato da quei due, ecco ricascava a
parlar di quelle cose e si riscaldava, si riscaldava... Oh Dio, no: preferiva vederlo
scuro taciturno, sprofondato nel cordoglio, la signora Velia, anziché rianimato cosí,
per quei discorsi. Via, via, quella tentazione! E si sentí più tranquilla quando, alcuni
giorni dopo, a quei due che ebbero la sfrontatezza di mandargli a chiedere per la servetta
un certo libro della moglie e dinvitarlo a colezione, Giustino rispose che non aveva
il libro e che non poteva andare.
Se li era levati, cosí,
dattorno.
- Che avrà intanto, questoggi?
- pensava la piccola signora Velia, seguitando a mirare il figliuolo innanzi alla vetrata
della finestra, mentre Vittorino faceva il diavoletto su le ginocchia del Prever.
Forse quel giorno era più
raffagottato del solito perché la mattina - per una disattenzione di quella stolida di
Graziella - aveva scoperto una lettera arrivata parecchi giorni addietro e non distrutta
come tutte le altre, quando si poteva, di nascosto a lui.
Tante e tante lettere gli arrivavano
ancora, respinte da Roma, anche dalla Francia, anche dalla Germania... E la signora Velia,
allarrivo di esse, tentennava il capo, come se dalla distanza da cui arrivavano
misurasse lestensione del male che colei aveva fatto al suo figliuolo.
Egli si buttava su quelle lettere
come un affamato; andava a chiudersi in camera e si metteva a rispondere. Ma non rimandava
poi quelle lettere con la risposta direttamente alla moglie. Per mezzo del signor Martino
la signora Velia aveva saputo da monsù Gariola, il quale aveva in appalto
lufficio postale, che il figliuolo le indirizzava a un tal Raceni, a Roma. Forse per
il tramite di questo amico consigliava alla moglie come avrebbe dovuto regolarsi.
Era veramente cosí.
Dalla Barmis e dal Raceni, dopo il
suo ritorno a Cargiore, Giustino aveva ricevuto fino a pochi mesi addietro frequenti
lettere, dalle quali con strazio indicibile aveva saputo in quale disordine vivesse a Roma
la moglie.
Ora egli era più che mai convinto
che tra Silvia e il Gueli non fosse avvenuto nulla di male; e credeva daverne la
prova nel fatto che il Gueli, quasi miracolosamente guarito dalle due ferite, sebbene col
braccio destro amputato, era ritornato a vivere con la Frezzi, liberata come incosciente
dopo circa cinque mesi di carcere preventivo, appunto per le aderenze e le brighe del
Gueli stesso.
Ah, se egli allora, nel primo
momento, non si fosse lasciato sopraffare dallo scandalo e fosse corso a Ostia a rilevar
la moglie ancora senzaltra colpa che quella daver voluto fuggire da lui! No,
no, no: egli non doveva credere, non ostante quellinganno della gita a Orvieto, non
doveva credere che ella si fosse potuta mettere col Gueli. Avrebbe dovuto correre a Ostia
e ricondurre con sé la moglie, la quale certamente, allora, non si sarebbe cosí
perduta... Con chi viveva ella ora? La Barmis diceva col Baldani; il Raceni invece
sospettava una relazione col Luna. Viveva sola, in apparenza. Il villino, tutti i mobili
venduti. E nelle ultime lettere il Raceni lasciava intendere che ella dovesse trovarsi in
qualche imbarazzo finanziario. Ma sfido! Senza di lui... Chi sa come la rubavano tutti!
Forse ella ora riconosceva che cosa volesse dire avere accanto un uomo come lui! Tutto
venduto... Peccato!... Quel villino... quei mobili del Ducrot...
Da circa due mesi né la Barmis né
il Raceni gli scrivevano più, né alcun altro amico da Roma. Che era accaduto? Forse non
avevano veduto più la ragione di seguitare ancora la corrispondenza con uno ormai quasi
sparito dalla vita. Sera prima stancata la Barmis, ora non rispondeva più neanche
il Raceni.
Ma quel giorno egli non era né per
questo silenzio né per la ragione supposta dalla madre più fosco del solito.
In casa, dacché era ritornato, non
entravano più giornali per la promessa da lui fatta alla madre di non leggerne più.
Sera poi pentito, e come! di questa promessa; ma non aveva osato manifestare il
desiderio di leggere almeno quelli di Torino per timore che la madre non lo credesse ancor
fisso col pensiero a quella donna. Finché la Barmis e il Raceni gli scrivevano, non aveva
sofferto tanto di quella privazione; ma ora...
Ebbene, quella mattina, in un
giornale vecchio duna ventina di giorni, nel quale Graziella gli aveva portati
avvolti in camera i colletti e i polsini stirati, aveva letto due notizie sotto la rubrica
dei teatri, che lo avevano tutto sconvolto.
Una era di Roma: limminente
rappresentazione al teatro Argentina del nuovo dramma della moglie, quello, quello stesso
chegli aveva lasciato incompiuto, Se non cosí... Laltra che a Torino,
allAlfieri, recitava la Compagnia Carmi-Revelli.
Divorato dalla brama di saper
lesito di quel nuovo dramma a Roma e forse in altre città, forsanche a
Torino, se cera la Compagnia Carmi-Revelli; e di parlarne o con la signora Laura o
col Grimi, con qualcuno insomma; non sapeva come dire alla madre che la mattina appresso
desiderava di scendere a Torino. Temeva che il signor Prever lo volesse accompagnare.
Sapeva in quale costernazione viveva la madre per lui. A dirle che voleva andar solo cosí
lontano, allimprovviso, quando sera rifiutato fino al giorno addietro anche di
far due passi fuor di casa, chi sa che pensieri ella avrebbe fatto... E poi, non aveva
più che pochi soldi con sé, residuo dello stretto costo del viaggio prelevato dai denari
recati da Parigi; si vergognava a dirlo quasi a se stesso, figuriamoci poi a chiederne per
quella ragione alla madre, la quale non aveva altro che quel po di pensioncina
lasciatale dal marito, e ora, con addosso anche il peso di lui, stentava più che mai a
tirare avanti, poveretta. Il signor Prever, sí, porgeva qualche soccorso di tanto in
tanto, sottomano, or con una scusa, or con unaltra. Ma se in quel momento la madre
era agli sgoccioli e doveva chiedere ajuto al signor Martino, ecco che questi avrebbe
saputo e certamente si sarebbe profferto daccompagnarlo.
Aspettò che il Prever, dopo cena, se
nandasse al suo villino e, per provocare un nuovo e più pressante invito della
madre a procacciarsi qualche distrazione, si lamentò duna enorme gravezza al capo.
Sollecito, come saspettava, venne linvito:
- Va a Bràida, domani...
- No, piuttosto vorrei... vorrei
veder gente ecco. Questa solitudine, forse, mi fa male...
- Vuoi andare a Torino?
- Ecco, piuttosto...
- Ma sí, subito, domani stesso!
saffrettò a dire la madre. - Mando Graziella a fissarti un posto in vettura
da monsù Gariola.
- No no, - disse Giustino. - Lascia.
Scendo a piedi fino a Giaveno.
- Ma perché?
- Perché... Lascia! Mi farà bene
camminare... sto in casa da tanto tempo. Piuttosto... per il tram a vapore da Giaveno...
mamma, io...
La signora Velia capí a volo, e
subito alzò una mano verso la fronte e chiuse gli occhi, come per dire: - Non ci pensare!
Quando entrò nella sua camera,
accompagnato dalla mamma che gli faceva lume, saccorse che questa sul piano del
cassettone aveva posato tre carte da dieci lire.
- Oh, no! - esclamò. - Che vuoi che
me ne faccia di tante? Prendi, prendi... Basterà una!
La vecchia mamma si scostò parando
le mani, e con un sorriso a un tempo mesto e maliziosetto su le labbra e negli occhi:
- Ma credi davvero, - gli disse, -
che la tua vita sia finita, figliuolo mio?... Tu sei ancor quasi ragazzo... Va!
Va!
E richiuse luscio.
Sceso dalla
tramvia a vapore, la prima impressione che provò nel rimetter piede in città dopo nove
mesi doscuro e profondo silenzio interiore, di seppellimento nel cordoglio, fu
quella di non saper più camminare tra il rumore e la confusione. Nebbe subito un
intronamento quasi di greve e cupa ubriachezza, quellirritazione, quelluggia,
quellastio che prova un malato costretto a muoversi col ronzo della medicina negli
orecchi in mezzo a sani àlacri e indifferenti.
Volgeva di qua, di là rapide
occhiate oblique, per timore che qualcuno dei conoscenti antichi, non letterati, lo
riconoscesse, e per un altro timore opposto, che fingesse cioè di non riconoscerlo
qualcuno dei conoscenti nuovi, giornalisti e letterati. Assai più crudele della
commiserazione derisoria di quelli gli sarebbe stata la noncuranza sdegnosa di questi, ora
che egli non era più neanche lombra di quel che era stato.
Ah, se un giornalista amico,
passando, gli avesse introdotto un braccio sotto il braccio, festosamente, come a bei
tempi, e gli avesse detto:
- Oh, caro Boggiòlo, ebbene, che
notizie?
E gli avesse fatto raccontare il
trionfo di Parigi, che non aveva potuto raccontare a nessuno e gli era rimasto in gola,
nodo dangoscia che non si sarebbe sciolto mai più!
- E la vostra signora? A che lavori
attendiamo? Un nuovo dramma, eh? Sù, ditemi qualche cosa...
Non sapeva neppure se fosse stato
rappresentato il nuovo dramma, lui, e che esito avesse avuto...
Andò a unedicola e comperò i
giornali di Roma, di Milano e quelli cittadini.
Non se ne parlava.
Ma negli annunzii degli spettacoli
nei giornali di Roma, ecco, al teatro Argentina: Se non cosí...
Ah, dunque, era stato rappresentato!
Dunque aveva avuto un buon successo! Se si replicava... Chi sa da quante sere? Buon
successo...
E si diede a immaginare che, questa
volta, doveva essere andata lei, Silvia, a metterlo in iscena. Vide subito col pensiero il
palcoscenico, di giorno, durante le prove; simmaginò limpressione che aveva
dovuto provarne Silvia che non vi era mai stata e si vide lí con lei, sua guida, tra i
comici, ella incerta, smarrita; lui invece ormai pratico, sicuro; ed ecco le dimostrava
tutta la sua sicurezza, la padronanza che aveva del luogo e dogni cosa, e la
esortava a non disperarsi della svogliatezza e della cascaggine di quelli, dei tagli che
si facevano al copione, delle sfuriate del direttore capocomico... Eh non era mica facile
combattere con quei tipi! Bisognava prenderli per il loro verso e aver pazienza se fino
allultimo mostravano di non saper la parte...
A un tratto, sinfoscò in
volto. Pensò che forse ella si era fatta ajutare, accompagnare a quelle prove da
qualcuno, forse dal Baldani, forse dal Luna o dal Betti... Chi era in quel momento il suo
amante? E a questo pensiero, diventò subito una cosa facilissima mettere in iscena quel
dramma, assistere alle prove, combattere con gli attori. Ma sí, certo, bella forza, ora
che ella, mercé lui, sera fatto tanto nome e tutte le porte le erano aperte e tutti
gli attori pendevano dalle labbra di lei, tra ossequii e sorrisi; bella forza!
- Ai conti però ti voglio! ai conti!
ai conti! - esclamò tra sé. - Ossequii, sorrisi... sfido! una donna... e poi, ora...
senza marito... Ma ai conti, chi ci bada? Ci baderà lei? Con la bella pratica che ne ha!
Ci baderà lui, il bello... Se la mangeranno viva! Sí sí, va che potrai arrivare a
rifarti un villino adesso, come quello! Aspetta, aspetta...
Aprí un giornale di Torino e vide
che al teatro Alfieri la Compagnia Carmi-Revelli era alle ultime recite.
Rimase un pezzo col giornale aperto
innanzi agli occhi, perplesso se andare o no. La brama di saper notizie del dramma di
parlar di lei, di sentirne parlare, lo spingeva; lo tratteneva il pensiero
daffrontar la vista, le domande di tutti quegli attori. Come lo avrebbero accolto?
Si burlavano di lui un tempo; ma egli allora aveva il cappio in mano, con cui, dopo aver
permesso che essi braveggiassero un pezzo come tanti cavallini scapati attorno a lui,
poteva in un momento dare una stratta e legarli addomesticati al carro del trionfo. Ora,
invece...
Si mosse, immerso nei ricordi
cherano ormai tutta la sua vita, e dopo un lungo giro si ritrovò, guidato
inconsciamente da essi, innanzi al teatro Alfieri.
Forse a quellora cera
prova. Sappressò titubante allentrata e finse di leggere nel manifesto il
titolo del dramma che si rappresentava quella sera, poi lelenco dei personaggi; alla
fine, facendosi animo, come un autor novellino chiese rispettosamente a uno lí di
guardia, che non conosceva, se la signora Carmi era in teatro.
- Non ancora, - gli rispose quello.
E Giustino rimase innanzi al
manifesto senzardire di chieder altro. In altri tempi sarebbe entrato da padrone nel
teatro, senza neppur degnare duno sguardo quel cerbero là!
- E il cavalier Revelli? - chiese
dopo un pezzo.
- È entrato or ora.
- Cè prova, è vero?
- Prova, prova...
- Sapeva che il Revelli era
rigorosissimo nel concedere lentrata a estranei durante la prova. Certo, se avesse
porto a quelluomo un biglietto da visita da presentare al Revelli, questi lo avrebbe
fatto entrare; ma si sarebbe allora trovato esposto alla curiosità indiscreta e
irriverente di tutti. Non volle. Meglio rimaner lí come un mendico ad attendere la Carmi,
che non poteva tardar molto, se gli altri erano già venuti.
Difatti, la Carmi arrivò poco dopo,
in carrozza. Non saspettava di trovar lui lí innanzi alla porta e, nel vedersi
salutata, chinò appena il capo e passò oltre, senza riconoscerlo.
- Signora... - chiamò allora
Giustino, trafitto.
La Carmi si volse, strizzando un
po gli occhi miopi, e subito allungò il viso in un oooh di meraviglia.
- Voi, Boggiòlo? E come mai qui?
come mai?
- Eh... - fece Giustino, aprendo
appena appena le braccia.
- Ho saputo, ho saputo, - riprese la
Carmi con ansia pietosa. - Povero amico mio! Che azionaccia vile! Non me la sarei mai
aspettata, credete. Non per lei, badiamo! Ah, ne so qualche cosa io,
dellingratitudine di quella donna! Ma per voi, caro. Sù, sù, venite con me. Sono
in ritardo!
Giustino esitò, poi disse con voce
tremante e gli occhi invetrati di lagrime:
- La prego, signora, non... non
vorrei farmi vedere...
- Avete ragione, - riconobbe la
Carmi. - Aspettate; prendiamo di qua.
Entrarono nel teatro quasi bujo;
attraversarono i! corridojo del primo ordine dei palchi; là in fondo la Carmi aprí
lusciolino dellultimo palco e disse al Boggiòlo, sotto voce:
- Ecco, aspettatemi qua. Vado sù in
palcoscenico e ritorno subito.
Giustino si rannicchiò in fondo al
palco, nel bujo con le spalle alla parete attigua al palcoscenico, per non farsi scorgere
dagli attori, di cui rimbombavano le voci nel teatro vuoto.
- Oh signora, oh signora, -
baritoneggiava al solito suo il Grimi, coprendo la voce fastidiosa del suggeritore, - e
vi par troppa grazia codesta?
- Ma no, nessuna grazia, caro
signore, - sorrideva la piccola Grassi con la sua vocetta tenera.
E il Revelli gridava:
- Più strascicato! più strascicato!
Ma nooo, ma nessuna grazia, amico...
- Il secondo ma non cè!
- E lei ce lo metta, oh perdio! È
naturale!
Giustino stava a udire quelle voci
note che, pur senza volere, si alteravano nel dar vita al personaggio della scena;
guardava lampia vacuità sonora del teatro in ombra; ne aspirava quel particolare
odor misto dumido, di polvere e di fiati umani ristagnati, e si sentiva a mano a
mano crescer langoscia, come se lo assaltasse alla gola il ricordo preciso
duna vita che non poteva più esser sua, a cui non poteva accostarsi più, se non
cosí, nascosto, quasi di furto, o commiserato come dianzi. La Carmi aveva riconosciuto, e
tutti con lei, certo avrebbero riconosciuto chegli non meritava desser
trattato a quel modo; e questa pietà degli altri, se da un canto gli faceva sentire più
profonda e più amara la sua miseria, gliela rendeva dallaltro più cara, perché
era quasi lombra superstite di ciò che egli era stato.
Aspettò un bel pezzo la Carmi, che
doveva provare una lunga scena col Revelli. Quando alla fine ella venne, lo trovò che
piangeva, seduto, coi gomiti su le ginocchia e la faccia tra le mani. In silenzio
piangeva, ma con calde lagrime abbondanti e sussulti di singhiozzi raffrenati.
- Sù, sù, - gli disse, posandogli
una mano su la spalla. - Capisco, sí, povero amico; ma via, sù! Cosí non mi sembrate
più voi, caro Boggiòlo! Lo so, consacrato tutto, anima e corpo a quella donna; ora...
- La rovina, capisce? - proruppe,
soffocando la voce e le lagrime, Giustino, - la rovina, la rovina di tutto un edificio,
signora, messo sù da me, a pietra a pietra! da me, da me soltanto! Sul più bello, quando
già tutto era a posto, e mi toccava di goder la soddisfazione di quanto avevo fatto, una
ventata a tradimento, una ventata di pazzia, creda, di pazzia, con quel vecchio là, con
quel vecchio pazzo, che si è prestato vilmente, forse per vendicarsi, distruggendo
unaltra vita comera stata distrutta la sua; giù tutto, giù tutto, giù
tutto!
- Piano, sí, piano, calmatevi! - lo
esortava anche col gesto la Carmi.
- Mi lasci sfogare, per carità! Non
parlo e non piango da nove mesi! Mi hanno distrutto, signora mia! Io non sono più niente,
ora! Mi ero messo tutto in quellopera che potevo fare io solo, io solo, lo dico con
orgoglio, signora mia, io solo perché non badavo a tutte le sciocchezze, a tutte le
fisime, a tutti i grilli che saltano in mente a questi letterati; non mi scaldavo mai la
testa, io, e li lasciavo ridere, se volevano ridere; ha riso anche lei di me, è vero?
tutti hanno riso di me; ma che me nimportava? io dovevo edificare! E cero
riuscito! E ora... e ora, capisce?
Mentre il Boggiòlo qua, nel bujo del
palchetto, parlava e piangeva cosí, strozzato dallangoscia, seguitava di là, sul
palcoscenico, la prova. La Carmi notò a un tratto, con un brivido, la strana
contemporaneità di quei due drammi, uno vero, qua, dun uomo che si struggeva in
lagrime, con le spalle addossate alla parete verso il palcoscenico, donde sonavan false le
voci dellaltro dramma finto, che al paragone immediato stancava e nauseava come un
vano petulante irriverente giuoco. Ebbe la tentazione di sporgersi dal palchetto e di far
cenno agli attori che smettessero e venissero qui, qui, a vedere, ad assistere a
questaltro dramma vero. Saccostò invece al Boggiòlo e di nuovo lo pregò di
calmarsi con buone parole e battendogli ancora la mano su la spalla.
- Sí, sí, grazie, signora... mi
calmo, mi calmo, - disse Giustino, tranghiottendo le lagrime e asciugandosi gli occhi.
- Mi perdoni, signora. Avevo bisogno,
proprio bisogno di questo sfogo. Mi perdoni. Ecco, ora sono calmo. Dica un po,
questo dramma... questo dramma nuovo, Se non cosí... è andato, eh?... comè
andato?
- Ah, non me ne parlate! - protestò
la Carmi. - È la stessa azione, caro, la stessa azionaccia che ha fatto a voi! Non me ne
parlate, lasciamo andare...
- Volevo saper lesito... -
insisté, con timidezza, Giustino, avvilito della sua stessa pena.
- Silvia Roncella, amico mio, è
lingratitudine fatta persona! - sentenziò allora la Carmi.- Chi la portò al
trionfo? Ditelo voi, Boggiòlo! Non credetti io sola, io sola, mentre tutti ridevano o
dubitavano, nella potenza del suo ingegno e del suo lavoro? Ebbene, ecco qua: ha pensato a
tutte le altre, tranne che a me, per il nuovo dramma! Badate, questo lo dico a voi,
perché so ciò che anche voi ne avete ricevuto. Agli altri - ah, perbacco, io tengo alla
mia dignità - agli altri dico che sono stata io a non volerne sapere. E non recito più
neanche Lisola nuova, adesso. Per grazia di Dio, la gente viene a teatro per
me, a sentir me, qualunque cosa io faccia: non ho bisogno di lei! Ne parlo soltanto
perché lingratitudine, si sa, fa sdegno a tutti, e voi potete comprendermi.
Giustino rimase un pezzo in silenzio
a tentennare il capo; poi disse:
- Tutti, sa? tutti gli amici che
majutarono, furono trattati cosí da lei... Ricordo la Barmis, anchessa...
Dunque, questo nuovo dramma... cosí... comè andato?
- Mah! - fece la Carmi. - Pare che...
niente di straordinario... Quel che si dice un successo di stima. Qualche scena, qua e
là, pare che sia buona... il finale dellultimo atto, specialmente, sí, quello...
quello ha salvato il lavoro... Non avete letto i giornali?
- Nossignora. Da nove mesi. Sono
stato chiuso in casa... Scendo ora per la prima volta a Torino. Io sto qua, sopra Giaveno,
nel mio paesello, con mia madre e il mio bambino...
- Ah, ve lo siete
tenuto con voi, il figliuolo?
- Certo! Con me.. È stato sempre
qua, veramente, con mia madre.
- Bravo, bravo, - approvò la Carmi.
- E cosí, voi non ne avete più notizia dunque?
- No, nessuna più. Per caso ho
saputo che il nuovo dramma è stato rappresentato. Ho comperato i giornali, oggi, e ho
visto che a Roma si replica...
Anche a Milano, per questo... - disse
la Carmi.
- Ah, si è dato anche a Milano?
- Sí sí, con lo stesso successo.
- Al Manzoni?
- Al Manzoni, già. E tra
poco... aspettate, fra tre giorni, da Milano verrà la Compagnia Fresi a metterlo in
iscena qua, in questo teatro. E lei, la Roncella, è a Milano adesso, e verrà qua ad
assistere alla rappresentazione.
Giustino alla notizia balzò in
piedi, anelante.
- Lo sa sicuro?
- Ma sí, mi par davere inteso
cosi... Che?... Vi fa... vi fa un certo effetto, eh? Capisco...
La Carmi sera alzata anche lei
e lo guardava pietosamente.
- Verrà?
- Dicono! E io lo credo. La sua
presenza, dopo tanto chiasso che si è fatto attorno a lei, può giovar molto, essendo il
dramma anche un po scadente. Il pubblico poi non la conosce ancora e vuol
conoscerla.
- Già già... - disse Giustino,
smanioso. - È naturale... questo è come il primo lavoro per lei... Forse
glielavranno anche imposto... Verrà fra tre giorni la Compagnia Fresi?
- Sí, fra tre giorni. Cè giù
nellatrio il cartello, non lavete veduto?
Giustino non poté più stare alle
mosse; ringraziò la Carmi dellaffettuosa accoglienza e andò via, sentendosi già
soffocare in quellombra fitta del teatro, tutto stravolto comera dalla
tremenda notizia che quella gli aveva dato.
Silvia, a Torino! La avrebbero
chiamata fuori, lí, a teatro, ed egli la avrebbe riveduta!
Si sentí mancare le gambe uscendo
allaperto; ebbe come una vertigine e si portò le mani al volto. Tutto il sangue gli
era balzato alla testa e il cuore gli martellava in petto. La avrebbe riveduta! Ah, chi sa
come sera fatta, adesso, in quel disordine di vita, sbattuta da quella tempesta! Chi
sa comera cangiata! Forse non sussisteva più nulla in lei di quella Silvia
chegli aveva conosciuta!
Ma no: forse non sarebbe venuta,
sapendo che lui poteva scendere da Cargiore a Torino, e... E se veniva appunto per questo?
per riaccostarsi a lui? Oh Dio, oh Dio... E come poteva più perdonarla, lui, dopo tanto
scandalo? come riprendere a vivere con lei, ora? No, no... Egli non aveva più alcuno
stato; si sarebbe coperto di vergogna; tutti avrebbero creduto chegli si riuniva con
lei per viver di lei, su lei, ancora, turpemente. No, no! Non era più possibile, ormai...
Ella doveva intenderlo. Ma non le aveva lasciato tutto, partendo? Anche gli altri da
questo suo atto avevano potuto argomentare chegli non era un vile sfruttatore. Aveva
dato a tutti la prova che non era capace di vivere con vergogna, lui, dun denaro
chera pur suo in gran parte, frutto del suo lavoro, sangue suo; e glielo aveva
lasciato! Chi poteva accusarlo?
Questa protesta di fierezza, in cui
sindugiava con crescente soddisfazione, era la scusa con cui, tergiversando, la sua
coscienza accoglieva la segreta speranza che Silvia venisse a Torino per farsi riprendere
da lui.
Ma se ella veniva, invece, perché
non poteva farne a meno, per impegno contratto con la Compagnia Fresi? E forse... chi
sa?... non era sola; forse qualcuno la accompagnava, la sosteneva in quel viaggio
penoso...
No, no: egli non poteva, non doveva
far nulla. Solo, a ogni costo, voleva ritornare a Torino fra poche sere per assistere, di
nascosto, alla rappresentazione del dramma, per rivederla da lontano unultima
volta...
Di nascosto! da
lontano!
Un fiume di gente, in quella
dolcissima sera di maggio entrava nel teatro illuminato a festa, le vetture accorrevano
rombanti e facevan ressa lí innanzi alle porte, fra il contrasto delle luci, il brusío
della folla agitata.
Di nascosto, da lontano, egli
assisteva a quello spettacolo. Ma non era ancor lopera sua, quella, che aveva preso
corpo e seguitava ora ad andare da sé, senza più curarsi di lui?
Sí, era lopera sua,
lopera che gli aveva assorbito, succhiato tutta la vita, fino a lasciarlo cosí,
vuoto, spento. E gli toccava di vederla proseguire, là, ecco, in quella fiumana di gente
ansiosa, a cui non poteva più neanche accostarsi, mescolarsi; espulso, respinto, egli,
egli per cui la prima volta quella fiumana sera mossa, egli che primo la aveva
raccolta e guidata, in quella serata memorabile al teatro Valle di Roma! Ora doveva
aspettare cosí, di nascosto, da lontano, chessa, fragorosa, impaziente, invadesse e
riempisse tutto il teatro, dovegli si sarebbe cacciato furtivamente e per ultimo,
vergognoso.
Straziato da questo esilio,
chera dun passo e infinito, dalla sua stessa vita, la quale, ecco, viveva là,
fuori di lui, innanzi a lui, e lo lasciava spettatore inerte della sua propria miseria,
della sua nullità adesso, Giustino ebbe un impeto dorgoglio e pensò che - sí -
seguitava ad andare da sé lopera sua; ma come? non certo come se ci fosse lui
ancora, a dirigerla, a sorvegliarla, a governarla, a sorreggerla da tutte le parti!
Davvicino avrebbe voluto vedere comessa seguitava ad andare senza di lui! Che
preparazione aveva avuto quella prima del nuovo dramma? Appena appena ne avevano
parlato i giornali della sera avanti e della mattina... Se ci fosse stato lui, invece!
Sí, affluiva, seguitava ad affluire la gente; ma perché? per la memoria dellIsola
nuova, del trionfo procurato da lui; e per vedere, per conoscere lautrice,
quella timida, scontrosa, inesperta ragazzetta di Taranto chegli, con lopera
sua, aveva messo avanti a tutti e reso celebre: egli che se ne stava qui, ora,
abbandonato, nascosto nel bujo, mentrella di là, nella luce della gloria, era
circondata dallammirazione di tutti.
Doveva esser là, certo, sul
palcoscenico, a quellora. Chi sa comera! Che diceva? Possibile che non
pensasse chegli da Cargiore, cosí vicino, sarebbe venuto ad assistere alla
rappresentazione del dramma? Oh Dio, oh Dio... lo riassaliva, a farlo tremar tutto, il
pensiero che gli era sorto al primo annunzio chella sarebbe venuta a Torino: che
fosse venuta appunto per riaccostarsi a lui; che si aspettasse, dopo i primi applausi, una
furiosa irruzione di lui sul palcoscenico e un abbraccio frenetico innanzi a tutti gli
attori commossi; e poi, e poi... oh Dio - si sentiva aprir le reni dai brividi, un
formicolío per tutta la persona - ecco, si scostava da una parte e dallaltra la
tenda, e tutti e due, lei e lui, presi per mano si mostravano, sinchinavano,
riconciliati e felici, a tutto il popolo acclamante in delirio.
Follie! follie! Ma, daltra
parte, non passava anche ogni limite limprontitudine di lei, di venir là a Torino,
fin sotto gli occhi di lui?
Si struggeva di sapere, di vedere...
Ma come poteva da quel palchetto dultima fila, nel centro, che era riuscito ad
accaparrarsi dal giorno avanti?
Vi era entrato or ora, di furia,
salendo a quattro a quattro le scale.
Si teneva in fondo, per non farsi
scorgere. Sul suo capo già la piccionaja strepitava; veniva dal basso, dai palchi, dalla
platea, il fragorìo, il fermento delle grandi serate. Il teatro doveva esser pieno e
splendido.
Ancora anelante, più
dallemozione che dalla corsa, egli guardava il telone e avrebbe voluto trapanarlo
con gli occhi. Ah che avrebbe pagato per riudire il suono della voce di lei! Credeva di
non ricordarselo più! Come parlava ella adesso? come vestiva? che diceva?
Sobbalzò a uno squillo prolungato
dun campanello, che rispondeva al chiasso cresciuto nel loggione. Ed ecco
sapriva la tela!
Istintivamente, nellimprovviso
silenzio, egli si fece innanzi, guardò la scena, che fingeva la sala di redazione
dun giornale. Conosceva il primo atto e anche il secondo del dramma, e sapeva che
ella non ne era contenta. Forse li aveva rifatti, o forse, se il successo del dramma era
stato mediocre, li aveva lasciati cosí comerano, costretta a metter subito in
iscena il lavoro per provvedere a difficoltà finanziarie.
La prima scena, tra Ersilia
Arciani e il direttore del giornale Cesare DAlbis, era tal quale. Ma la
Fresi non rappresentava la parte dErsilia con quella rigidezza che Silvia aveva dato
al carattere della protagonista. Forse ella stessa, Silvia, aveva attenuato quella
rigidezza per rendere il personaggio men duro e più simpatico. Ma, evidentemente, non
bastava. In tutto il teatro sera già, fin dalle prime battute, diffuso il gelo
duna disillusione.
Giustino lo avvertiva, e da tutto
quel gelo si sentiva venire un gran caldo alla testa, e sudava e sagitava, smanioso.
Per Dio! esporsi cosí al cimento terribile dun nuovo dramma, dopo il trionfo
clamoroso del primo, senza unadeguata preparazione alla stampa, senza prevenire il
pubblico che quel nuovo dramma sarebbe stato diverso in tutto dal primo, la rivelazione
dun nuovo aspetto dellingegno di Silvia Roncella. Ecco qua le conseguenze: il
pubblico saspettava la poesia selvaggia dellIsola nuova, la
rappresentazione di strani costumi, di personaggi insoliti; si trovava invece davanti
aspetti consueti della vita, prosa, prosa, e restava freddo, disingannato, scontento.
Avrebbe dovuto goderne, egli; ma no,
no! perché quantera ancora di vivo in lui era tutto in quellopera che vedeva
cascare, e sentiva chera un peccato chegli non ci potesse più metter le mani
per sorreggerla, rialzarla, farla di nuovo trionfare; un peccato per lopera e una
crudeltà feroce per sé!
Scattò in piedi a uno zittío
prolungato che si levò a un tratto dalla platea, come un vento ad agitare tutto il
teatro, e arretrò fino in fondo al palchetto con le mani sul volto in fiamme, quasi
glielavessero sferzato.
Lostinazione con cui Leonardo
Arciani si rifiutava di ragionare col suocero urtava gli spettatori. Ma forse infine
il grido di Ersilia, che spiegava quellostinazione: - Babbo, ha la figlia,
la figlia: non può ragionare! - avrebbe salvato latto. Ecco, entrava la Fresi.
Si faceva silenzio. Guglielmo Groa e il genero venivano quasi alle mani. Il
pubblico, non comprendendo ancora, sagitava vieppiù. E Giustino, fremente, avrebbe
voluto gridar lui dal suo palchetto dultima fila:
- Idioti, non può ragionare! ha la
figlia!
Ma ecco, ecco, lo gridava la Fresi...
brava! cosí... forte, con tutta lanima, come una scudisciata... Il pubblico rompeva
in un aaahhh prolungato... Come?... non piaceva? No... Molti applaudivano... Ecco,
il sipario calava fra gli applausi; ma erano applausi contrastati; molti anche
zittivano... Oh Dio un fischio acuto, lacerante, dalla piccionaja benedetto, benedetto
fischio! in reazione, infittivano ora gli applausi nelle poltrone, nei palchi... Giustino,
col volto inondato di lagrime, convulso, si storceva le mani, tentato dapplaudire
anche lui furiosamente, e pur non di meno impedito dallattesa angosciosa che gli
concentrava tutta lanima negli occhi. Venivano fuori gli attori... No, ella non
cera... Silvia non cera... Fuori! fuori ancora una volta! Oh Dio...
Cera? No... neanche questa volta... Gli applausi cadevano, e con gli applausi cadeva
anche Giustino su una seggiola del palchetto, sfinito, ansimante, come se avesse fatto una
corsa dunora. Dal fuoco che gli bruciava la fronte venivano fuori gocce di
sudore grosse come lagrime. Tutto ristretto in sé, cercava di dar requie alle viscere
contratte, al cuore tumultuante, e un gemito gli usciva dalla gola tra lansito, come
per la crudeltà dun tormento che non si possa più sopportare. Ma non poteva star
fermo un istante; salzava, sappoggiava alla parete del palchetto con le
braccia abbandonate, il fazzoletto in mano, il capo ciondoloni... guardava
lusciolino... si portava il fazzoletto alla bocca e lo strappava... Era prigioniero
lí... Non poteva farsi vedere... Avrebbe voluto udire almeno i commenti che si facevano
su quel primo atto; accostarsi al palcoscenico, vedere quelli che vi entravano a confortar
lautrice... Ah, in quel momento ella di certo non pensava a lui; non esisteva egli
per lei: era uno lí della folla, confuso con tutti... eh no, no, neppure questo: neanche
della folla egli poteva più far parte: egli non doveva esserci, ecco; e non cera,
difatti: chiuso, nascosto lí in un palchetto che tutti dovevano creder vuoto,
lunico vuoto, perché cera uno che non doveva esserci... Che tentazione,
intanto, di correre al palcoscenico, farsi largo, da padrone, riprendere il suo posto, la
bacchetta del comando! Un furore eroico lo sollevava, di far cose inaudite, non mai
vedute, per cangiar di punto in bianco le sorti di quella serata, sotto gli occhi attoniti
di tutto il pubblico; dimostrare che cera lui, adesso, lui, lautore del
trionfo dellIsola nuova...
Ecco, squillavano i campanelli per il
secondo atto. Ricominciava la battaglia. Oh Dio, come avrebbe fatto ad assistervi, cosí
stremato di forze?
Il pubblico rientrava nella sala
agitato, turbolento. Se la prima scena del secondo atto, tra il padre e la figlia, non
piaceva, il lavoro sarebbe caduto irreparabilmente.
Si alzò la tela.
La scena rappresentava lo studio di Leonardo
Arciani. Era giorno, e il lume rimasto acceso tutta la notte, ardeva ancora su la
scrivania. Guglielmo Groa dormiva, sdrajato su una poltrona, con un giornale su la
faccia. Entrava Ersilia, spegneva il lume, svegliava il padre e gli annunziava che
il marito non era rincasato; alle domande aspre e recise di quello, come martellate su la
roccia, si rompeva la durezza di Ersilia, e la sua passione chiusa cominciava a
fluire; ella parlava con languida calma accorata e difendeva il marito, il quale, posto
tra lei e la figlia, se nera andato da questa: - "Dove sono i figli è la
casa!".
Giustino, preso, affascinato anche
lui dalla profonda bellezza di quella scena rappresentata con arte mirabile dalla Fresi,
non avvertiva che il pubblico sera fatto, ora, attentissimo. Quando, alla fine,
scoppiò un applauso caldo, lungo, unanime, sentí tutto il sangue dun tratto
piombargli al cuore e dun tratto rimontargli alla testa. La battaglia era vinta; ma
lui, lui si vide perduto; se Silvia a quegli applausi insistenti si presentava a
ringraziare il pubblico, non la avrebbe veduta: gli era calato come un velo davanti agli
occhi. No, no, per fortuna! La rappresentazione seguitava. Egli però non poté più
prestare attenzione. Lansia, langoscia, la smania gli crebbero di punto in
punto, progredendo latto, approssimandosi alla fine, alla scena stupenda tra il
marito e la moglie, allorché Ersilia, perdonando a Leonardo, lo allontana
da sé: - "Tu non puoi più rimanere qua, ora. Due case, no; io qua e tua figlia
là, no. Non è più possibile, vattene! So quello che tu desideri!". - Ah, come
lo diceva la Fresi! Ecco, Leonardo andava via; ella rompeva in un pianto di gioja,
e calava la tela tra applausi fragorosi.
- Lautrice! lautrice!
Giustino con le braccia strette,
incrociate sul petto e le mani aggrappate agli omeri, quasi a impedire che il cuore gli
balzasse fuori, aspettò mugolando che Silvia comparisse alla ribalta. Lo spasimo
dellattesa gli rendeva quasi feroce il viso.
Eccola! No. Erano gli attori. Gli
applausi seguitavano scroscianti.
- Lautrice! Fuori
lautrice!
Eccola! Eccola!
Quella? Sí, eccola là tra i due attori. Ma si distingueva appena, cosí dallalto:
la distanza era troppa e troppo la commozione glintorbidava la vista! Ma ecco, la
chiamavano ancora una volta fuori; eccola, eccola di nuovo: i due attori si traevano
indietro e la lasciavano sola alla ribalta, là, esposta, a lungo, a lungo, alla
dimostrazione solenne del pubblico acclamante in piedi. Questa volta Giustino la poté
scorgere bene: stava diritta, pallida, e non sorrideva; inchinava appena il capo,
lentamente, con una dignità non fredda, ma piena duna invincibile tristezza.
Non pensò più a nascondersi,
Giustino, appena ella si ritrasse dalla ribalta, scappò fuori del palchetto come un
forsennato; si precipitò giù per le scale, incontro alla folla che usciva dalla sala e
ingombrava i corridoi; si fece largo con gesti furiosi, tra lo stupore di quanti si videro
strappati indietro; udí grida e risa alle sue spalle; trovò luscita del teatro, e
via, via quasi di corsa, con una sola sensazione in sé nella tenebra vorticosa che gli
occupava il cervello, tutta trafitta da sprazzi di luce; quella dun fuoco che gli
divorasse le viscere e gli désse alla gola unarsura atroce.
Come un cane battuto, si cacciò
dalla piazza nella prima via che gli saprí davanti, lunga, diritta, deserta; e
prese ad andare senza saper dove, con gli occhi chiusi, grattandosi con ambo le mani i
capelli su le tempie e dicendosi senza voce entro la bocca arida, come di sughero:
- È finita... è finita... è
finita...
Questo, dalla vista di lei, gli era
penetrato, gli sera imposto come una convinzione assoluta: che tutto per lui era
finito, perché quella non era più Silvia, no, no, quella non era più Silvia; era
unaltra, a cui egli non poteva più accostarsi, lontana, irraggiungibilmente
lontana, sopra di lui, sopra di tutti, per quella tristezza ondera tutta avvolta,
isolata, inalzata, cosí diritta e austera, comera uscita dalla tempesta
attraversata; unaltra, per cui egli non aveva più alcuna ragione desistere.
Dove andava? Dove sera
cacciato? Guardò smarrito le case tacite, buje; guardò i fanali veglianti tristi nel
silenzio; si fermò; fu per cascare; sappoggiò al muro, con gli occhi a uno di quei
fanali; osservò come un insensato la fiamma immota, poi, sotto, il cerchio di luce sul
marciapiede; allungò lo sguardo nella via; ma perché cercare di raccapezzarsi, se tutto
era finito? Dove doveva andare? a casa? e perché? doveva seguitare a vivere, è vero? e
perché? Lí, nel vuoto, in ozio, a Cargiore, per anni e anni e anni... Che gli restava
più, che potesse dare un qualche senso, un qualche valore alla sua vita? Nessun affetto,
che non rappresentasse ormai un dovere insopportabile: quello per il figlio, quello per la
madre. Egli non ne sentiva più bisogno, di questi affetti; ne sentivano il bisogno gli
altri, il figlio, la madre; ma che poteva più fare per loro? Vivere, è vero? Vivere per
non far morire di dolore la sua vecchia mamma... Quanto al figlio, se egli fosse morto e
morta la nonna, restava la madre, e sarebbe stato meglio per lui e meglio anche per lei.
Col bambino accanto, ella avrebbe dovuto per forza pensare a lui, al padre, a quello
chera stato suo marito, e cosí egli avrebbe seguitato a esistere per lei, col
figlio, nel figlio.
Ah, come ridursi a piedi, cosí
sfinito, da Giaveno a Cargiore? Certo sua madre stava ad aspettarlo, chi sa fra quali
tristi pensieri per quella sua scomparsa... Era stato come pazzo tutti quei giorni, da che
aveva saputo che Silvia sarebbe venuta a Torino. Lo aveva saputo anche la madre per mezzo
del Prever, a cui forse qualcuno lo aveva detto in paese, il dottor Lais probabilmente,
che aveva letto la notizia nei giornali. E gli era entrata in camera, la madre, a
scongiurarlo di non scendere più in città in quei giorni. Ah, poverina! poverina! che
spettacolo le aveva dato! Sera messo a gridare, proprio come un pazzo, che voleva
essere lasciato stare, che non aveva bisogno della tutela dalcuno, che non voleva
essere soffocato da tutte quelle premure e paure, né accoppato da tutti quei consigli. E
per tre giorni non era più sceso neanche a desinare e a cenare, tappato in camera, senza
voler vedere nessuno né sentir nulla.
Basta, ora. La aveva riveduta,
sera tolta ogni speranza, che più gli restava da fare? Ritornare al suo figliuolo,
alla sua mamma, e basta... basta per sempre!
Savviò, si raccapezzò, si
diresse alla stazione della tramvia a vapore che doveva condurlo a Giaveno; vi giunse
appena in tempo per lultima corsa.
Sceso a Giaveno circa a mezzanotte,
si mise in via per Cargiore. Tutto era silenzio, sotto la luna, nella fresca dolcissima
notte di maggio. Provò, più che sgomento della solitudine attonita e quasi stupefatta
nel blando chiaror lunare, una guardinga ambascia della misteriosa affascinante bellezza
della notte tutta pezzata dombre di luna e sonora di trilli argentini. A tratti,
certi segreti mormoríi dacque e di fronde gli rendevano più cupa e più vigile
lambascia. Gli pareva che quei mormoríi non volessero essere uditi né udire il
suono dei suoi passi; ed egli camminava più lieve. Allimprovviso, dietro un
cancello un cane gli abbajò ferocemente e lo fece sobbalzare e tremare e gelar di
spavento. Subito, tantaltri cani presero ad abbajare da presso, da lontano,
protestando contro quel suo passare a quellora. Cessato il tremito, avvertí
maggiormente lestrema stanchezza che gli aggravava le membra; pensò a che doveva
quella stanchezza, pensò alla via interminabile che aveva davanti, e subito gli
soscurò la bellezza della notte, gli svaní il fascino di essa, e si sprofondò nel
vuoto tenebroso del suo dolore. Andò, andò per più di unora, senza voler sostare
un momento a riprender fiato; alla fine non ne poté più e sedette sul ciglio del viale:
proprio cascava a pezzi; non aveva neanche più forza di reggere il capo. Gli si fece
distinto, a poco a poco, il fragorío profondo del Sangone giù nella valle, poi anche il
fruscio delle foglie nuove dei castagni e la frescura densa della vallata boscosa, infine
il riso dun rivoletto di là, e risentí larsura della bocca. Si lagnò per
far pietà a se stesso, al suo animo cupo e incrudelito; si vide cosí solo, per via,
nella notte e cosí stanco e disperato, e provò un cocente bisogno di conforto. Si
rialzò per giunger più presto a colei che sola ormai poteva darglielo. Ma dovette andare
per unaltra ora buona, prima di scorgere la cuspide ottagonale della chiesa,
appuntata come un dito minaccioso al cielo. Quando vi giunse e volse gli occhi alla sua
casa, vi vide con stupore accesi i lumi a tre finestre. Uno, sí, se lo aspettava; ma
tanti perché?
Al bujo, seduto su lo scalino innanzi
alla porta, trovò il Prever che piangeva dirottamente.
- La mamma? - gli gridò.
Il Prever si levò e con la testa
bassa gli tese le braccia:
- Rino... Rino... - gemette, tra i
singhiozzi, entro il barbone abbatuffolato.
- Rino?... Ma come?... Che ha?
E, sciogliendosi con rabbia dalle
braccia del vecchio, Giustino corse sù alla camera del bimbo gridando ancora:
- Che ha? che ha?
Restò, su la soglia, davanti allo
scompiglio della camera.
Il bimbo era stato tratto or ora da
un bagno freddo, e la nonna lo teneva su le ginocchia, avvolto nel lenzuolo. Cera il
dottor Lais. Graziella e la bàlia piangevano. Il bimbo non piangeva; tremava tutto, con
la testina ricciuta inzuppata dacqua, gli occhi serrati, il visino avvampato, quasi
paonazzo, già gonfio.
La madre alzò appena gli occhi, e
Giustino si sentí trafiggere da quello sguardo.
- Che ha? che ha? - chiese con voce
tremante al dottore. - Che è accaduto? Cosí... dun colpo?
- Eh, da due giorni... - fece il
dottore.
- Due giorni?
La madre tornò a sogguatarlo.
- Io non so... non so nulla -
balbettò allora Giustino al medico, come a scusarsi. - Ma come? Che ha, dottore! Mi dica!
Che è stato? che è stato?
Il Lais lo prese per un braccio, gli
fece un cenno col capo, e se lo portò nella stanza accanto.
- Lei viene da Torino, è vero? È
stato a teatro?
- Sí, - bisbigliò Giustino,
guardandolo, intronato.
- Ebbene, - riprese il Lais,
esitante. - Se la madre è qua...
- Che cosa?
- Penso che... sarà bene, forse,
avvertirla...
- Ma dunque, - gridò Giustino, -
dunque Rino... il mio bimbo...
Gli risposero tre scoppi di pianto
dalla stanza attigua, e un quarto alle spalle, del Prever chera risalito. Giustino
si volse, si abbandonò tra le braccia del vecchio e ruppe in pianto anche lui.Il Lais
rientrò nella stanza del bimbo, che, riposto sul letto, pure sprofondato nel letargo,
pareva désse gli ultimi tratti. Già scottava di nuovo. Sopravvenne Giustino, invano
trattenuto dal Prever.
- Voglio sapere che ha! voglio sapere
che ha! - gridò al dottore, in preda a una rabbia feroce.
Il Lais se ne irritò, e gli gridò a
sua volta:
- Che ha? Una perniciosa!
E il tono e il cipiglio dicevano: -
"Lei se ne viene dal teatro, e ha il coraggio di domandare a me a codesto modo che
cosha il suo figliuolo!".
- Ma come! In tre giorni?
- In tre giorni, sicuro! Che
meraviglia? È ben per questo una perniciosa!... Sè fatto di tutto... ho tentato...
- Rino mio... Rino mio... Oh Dio,
dottore... Rirí mio!
E Giustino si buttò in ginocchio
accanto al lettuccio, a toccare con la fronte la manina bruciante del bimbo, e tra i
singhiozzi pensò che non aveva dato mai, mai tutto il suo cuore a quellesseruccio
che se nandava, chera vissuto circa due anni quasi fuori dellanima sua,
fuori di quella della madre, povero bimbo, e aveva trovato rifugio soltanto nellamor
della nonna... Ed egli pocanzi aveva pensato di darlo alla madre! Ma non se lo
meritava neanche lei, come non se lo meritava lui! Ed ecco, perciò il bimbo se ne
andava... Non se lo meritavano nessuno dei due.
Il dottor Lais lo fece alzare da
terra e con dolce violenza se lo portò di nuovo nella camera accanto.
- Ritornerò appena sarà giorno, -
gli disse qua. - Se vuole fare il telegramma alla madre... Mi sembra giusto... Posso, se
vuole, incaricarmi io di passarlo, prima di ritornare. Ecco, scriva qua.
E gli porse un biglietto del suo
taccuino e la penna.
Egli vi scrisse: - Vieni subito.
Tuo figlio muore. - Giustino.
Tutta la cameretta era
piena di fiori; pieno di fiori il lettuccio su cui giaceva il cadaverino sotto un velo
azzurro; quattro ceri ardevano agli angoli, quasi a stento, come se le fiammelle penassero
a respirare in quellaria troppo gravata di profumi. Anche il morticino ne pareva
oppresso: cereo coi globi degli occhietti induriti sotto le pàlpebre livide.
Tutti quei fiori insieme non facevano
più odore: avevano ammorbato laria chiusa di quella cameretta; stordivano e
nauseavano. E il bimbo sotto il velo azzurro, irremovibilmente abbandonato a quel profumo
ammorbante, sprofondato in esso, prigioniero di esso, ecco, non poteva esser più guardato
se non da lontano, al lume di quei quattro ceri, il cui giallor caldo rendeva quasi
visibile e impenetrabile il graveolente ristagno di tutti quegli odori.
Soltanto Graziella stava presso
luscio a mirare con occhi disfatti dal pianto il cadaverino, allorché, verso le
undici, come in un vento improvviso sù per la scala, tra gemiti e fruscíi dabiti e
singhiozzi rinnovati giù a pianterreno, Silvia, sorretta dal dottor Lais, fece per
irrompere nella cameretta e subito sarrestò poco oltre la soglia, levando le mani,
come a ripararsi da quello spettacolo, e aprendo la bocca a un grido, a un altro, a un
altro, che non poterono romperle dalla gola. Il dottor Lais se la sentí mancare tra le
braccia, gridò:
- Una sedia!
Graziella la porse; entrambi,
sorreggendola, la fecero sedere, e subito il Lais balzò alla finestra, esclamando:
- Ma, dico, come si fa a star cosí?
Qua dentro non si respira! Aria, aria!
E ritornò sollecito a Silvia, la
quale ora, seduta, con le mani sul volto, il capo piegato come sotto una condanna, che
oltre al peso del cordoglio avesse quello del rimorso e della vergogna, piangeva scossa da
violenti singulti. Pianse cosí un pezzo; poi levò il capo, sorreggendoselo con le mani
allargate di qua e di là dagli occhi, e guardò il lettuccio; si alzò, vi
saccostò, dicendo al dottore che voleva impedirglielo:
- No... no... mi lasci... me lo lasci
vedere...
E dapprima lo mirò attraverso il
velo, poi senza il velo, soffocando i singhiozzi, rattenendo il respiro per provare in sé
la morte del figlio, che non riconosceva più; e come non poté regger più oltre a
quellarresto di vita in sé, si chinò a baciare la fronte del cadaverino e vi
gemette sopra:
- Ah, come sei freddo... come sei
freddo...
E dentro sé piangeva: -
"Perché il mio amore non ha potuto riscaldarti...".
- Freddo... freddo...
E gli carezzò sul capo, lievemente,
i riccioletti biondi.
Il dottor Lais la costrinse a
staccarsi dal lettuccio. Ella guardò Graziella che piangeva, ma le scorse dietro le
lagrime per il bimbo uno sguardo ostile per lei; non ne provò sdegno, anzi amò
lodio di quella vecchia chera un atto damore per il suo bimbo, e si
rivolse al dottore:
- Comè stato? comè
stato?
Il Lais la condusse nella stanza
attigua, in quella stessa ovella aveva dormito nei mesi del suo soggiorno là. Il
pianto, allora, che nella cameretta del bimbo le era venuto agli occhi se non propriamente
sforzato, quasi strappato dalla violenza di quella vista, qua le sgorgò spontaneo e
impetuoso: qua si sentí lacerare il cuore dai ricordi vivi della sua creaturina, qua si
risentí madre veramente, col cuore dallora, quando la bàlia ogni mattina le recava
a letto il piccino roseo ignudo levato or ora dal bagno, ed ella, stringendoselo al seno,
pensava che presto le sarebbe toccato di separarsi da lui...
Intanto il Lais le parlava della
malattia improvvisa, di quanto aveva fatto per salvarlo, e le raccontava che anche per il
padre quella sciagura era stata uno schianto inatteso, perché la sera avanti egli era a
teatro ad assistere al dramma di lei, senza sapere che il bambino fosse cosí gravemente
malato.
Silvia levò il capo, percorsa da un
brivido, a questa notizia:
- Jersera? a teatro? Ma come non
sapeva?...
- Eh, signora, - rispose il Lais. -
Con la notizia che lei sarebbe venuta a Torino...
E con la mano fece un gesto che
significava: parve si levasse di cervello.
- La madre non gliene disse nulla,
vedendolo cosí, aggiunse. - Non suppose veramente che si trattasse dun caso cosí
grave... Fa pietà, creda, fa pietà! Appena arrivato jeri notte, verso le due, a piedi da
Giaveno, trovò qua il bimbo moribondo. Sono stato io a suggerirgli di avvisar lei per
telegramma, anzi lho passato io stesso il telegramma, quando già il bimbo
purtroppo... È spirato verso le sei... Sente? sente?
Sù per la scaletta,
allimprovviso, sonarono i singhiozzi di Giustino tra uno scalpiccío confuso e le
grida di altri che forse cercavano di trattenerlo.
Silvia balzò in piedi, sconvolta, e
si ritrasse in un angolo, come se volesse nascondersi.
Sorretto da don Buti, dal Prever e
dalla madre, Giustino apparve su la soglia come smemorato, scomposto negli abiti, nei
capelli, il volto bagnato di lagrime; guardò truce il dottor Lais, disse:
- Dovè?
Appena la vide, il ventre, il petto
gli si misero a sussultare e le gambe e il mento a tremar dun lieve e fitto tremito
crescente, finché il pianto, scomponendogli a mano a mano i tratti del viso, non gli
gorgogliò in gola convulso; ma come il Prever e don Buti cercarono di trarlo via, si
strappò da loro ferocemente:
- No, qua! - gridò.
E stette un istante cosí, sciolto,
perplesso, poi, arrangolando, si precipitò su Silvia e labbracciò furiosamente.
Silvia non mosse un braccio;
sinterí per resistere allo strazio che quellimpeto disperato le cagionava,
serrò gli occhi per pietà, poi li riaprí per rassicurar la madre che non temesse di
lei, che - ecco - non abbracciava, si lasciava abbracciare per pietà, e quella pietà
avrebbe saputo contenere.
- Hai veduto? hai veduto? - le
singhiozzava intanto Giustino, sul seno, stringendola sempre più. - Se nè
andato... Rirí se nè andato, perché noi non ceravamo... tu non
ceri... e neanche io cero più... e allora il povero piccino ha detto: - E che
ci faccio più io qua? - e se nè andato... Se ti vedesse qua ora... Vieni! vieni!
Se ti vedesse qua...
E la trascinò per mano alla camera
del bimbo, come se la venuta di lei e la gioja chegli ne provava potessero fare il
miracolo di richiamare in vita il bambino...
- Rirí!... Ah, Rirí... ah, Rirí
mio...
E cadde di nuovo in ginocchio innanzi
al letto, affondando la faccia tra i fiori.
Silvia si sentí venir meno; il
dottor Lais accorse, la sorresse, la riportò nella camera attigua. Anche Giustino fu
strappato dal lettuccio da don Buti e dal Prever e ricondotto giù a pianterreno.
- Silvia! Silvia! - seguitava a
chiamare, subendo la violenza di quei due senza più coraggio di ribellarsi ora che aveva
riveduto morto il suo bambino.
Al suono del suo nome che s
allontanava, Silvia si sentí come chiamata dal fondo della vita trascorsa lí un anno
addietro: era tra la letizia dallora il presentimento oscuro di questa sciagura; e
quel presentimento ora la chiamava cosí tra il pianto: - Silvia!... Silvia!... -
da lontano. Ah, se avesse potuto sentire allora il suo nome gridato cosí, ella avrebbe
trovato la forza di resistere a ogni tentazione; sarebbe rimasta lí col suo piccino, in
quel nido di pace tra i monti, e il suo piccino non sarebbe morto, e nessuna delle cose
orrende che erano avvenute, sarebbe avvenuta. Quella più orrenda fra tutte... ah, quella!
Ancora, tra vampe di soffocanti immaginazioni, ella si sentiva bruciar le carni dalla
vergogna dun unico amplesso, tentato quasi a freddo, per unorrida necessità
ineluttabile, là a Ostia, e rimasto disperatamente incompiuto; si sentiva da esso
insozzata per sempre, più che se si fosse resa colpevole mille e mille volte con tutti
quei giovani che la voce pubblica le aveva affibbiati e le affibbiava ancora per amanti.
La memoria viscida di quellunico amplesso mancato le aveva incusso una nausea
invincibile, unabominazione, nella quale si sarebbe ormai sempre affogato ogni
desiderio damore. Era sicura che Giustino, se ella avesse voluto, si sarebbe
strappato dalle braccia della madre, da ogni ritegno damor proprio, per ritornare a
lei. Ma no: ella non voleva; per lui e per sé non doveva! Ora anche lultimo vincolo
tra loro era stato spezzato dalla morte; e invano egli laggiù si dibatteva tra le braccia
che volevano trattenerlo. Il dottor Lais era stato chiamato in ajuto. Di là giaceva tra i
fiori il suo bambino morto. Saliva gente a vederlo: donne del paese, vecchi, ragazzi, e
recavano tutti altri fiori, altri fiori...
Poco dopo il dottor Lais, tutto
accaldato e sbuffante, risalí da lei con un foglio di carta in mano, la bozza dun
telegramma, che il marito giù, gridando e dibattendosi, aveva voluto scrivere per forza.
E voleva che lui, il dottor Lais, andasse subito a passarlo, dopo averlo fatto vedere a
lei.
- Un telegramma? - domandò Silvia,
stordita.
- Già, eccolo.
E il Lais glielo porse.
Era un telegramma alla Compagnia
Fresi. Parecchie parole erano rese quasi illeggibili dalle lagrime che vi erano cadute
sopra. Vi si annunziava la morte del bambino, chiedendo che fossero sospese le repliche
del dramma, previo annunzio al pubblico del grave lutto dellautrice. Era firmato
Boggiòlo.
Silvia lo lesse e restò, sotto gli
occhi del dottore in attesa, assorta stupita e perplessa.
- Si deve passare?
Ecco: dopo labbraccio, egli si
sentiva già ridiventato suo marito.
- Cosí, no, - rispose al dottore. -
Levi lannunzio- al pubblico e, se vuole incomodarsi, lo passi pure, ma sotto il mio
nome, prego...
Il dottor Lais sinchinò.
- Comprendo bene, - disse. - Non
dubiti, sarà fatto.
E andò via.
Ma dopo circa mezzora, ecco Giustino
sù di nuovo, con unaria da folle, insieme con un giornalista, con quello stesso
giovine giornalista venuto da Torino un anno addietro alla scoperta dellautrice
dellIsola nuova.
- Eccola qua! eccola qua! - disse,
facendolo entrare nella camera; e, rivolto a Silvia: - Tu lo conosci, è vero?
Il giovine, mortificato da
quellansia scomposta, quasi ilare, del Boggiòlo, che avventava in mezzo al luttuoso
momento, benché il poveruomo mostrasse pure il volto bruciato dalle lagrime,
sinchinò e stese la mano a Silvia, dicendo:
- Mi duole, signora, di ritrovarla
qui in un animo cosí diverso dalla prima volta. Ho saputo in teatro, chella era
corsa qui... Non maspettavo, che già...
Giustino lo interruppe, afferrandolo
per un braccio:
- Mentre jersera giù a Torino si
rappresentava il dramma, - prese a dirgli con un gran tremore nella voce e nelle mani, ma
pur con gli occhi fissi in quelli di lui, come se volesse fargli la lezione, - qua il
bambino moriva, e non lo sapevamo né io né lei, capisce? E lei, - seguitò, additando
Silvia, - lei qua, la prima volta, sa perché ci venne? Per la nascita del nostro bimbo! E
sa quando nacque il nostro bimbo? La sera stessa del trionfo dellIsola nuova,
proprio la stessa sera, per cui lo chiamammo Vittorio, Vittorino... Ora è ritornata qua
per la sua morte! E quando avviene questa morte? Proprio mentre a Torino si rappresenta il
nuovo dramma! Veda un po! veda un po la fatalità... Nasce e muore cosí...
Venga, venga qua, glielo faccio vedere...
Cosí ripreso dalla foga della sua
professione, in quello stato, faceva quasi spavento. Il giovine giornalista lo guatava,
sbalordito.
- Eccolo! eccolo qua, il nostro
angioletto! Vede comè bello tra tanti fiori? Queste sono le tragedie della vita,
caro signore. Non cè mica bisogno di andarle a cercare nelle isole lontane, tra
gente selvaggia, le tragedie della vita! Lo dico per il pubblico, sa? che certe cose non
le vuole capire... Loro, loro giornalisti dovrebbero spiegarlo bene al pubblico, che se
oggi una scrittrice si può cavare una tragedia... cosí, dalla testa, una tragedia
selvaggia, che per la novità piace subito a tutti, domani lei stessa, la scrittrice, può
essere afferrata da una di queste tragedie qua, della vita, che stritolano un povero
bambino, il cuore dun padre e duna madre, capisce? Questo, questo dovrebbero
loro spiegare al pubblico che resta freddo davanti alla tragedia dun padre che ha
una figlia fuori di casa, duna moglie che sa di non poter riavere il marito se non a
patto di prendersi con sé la figlia di lui, e va là, va dallamante del
marito a farsela dare! Queste sono tragedie... le tragedie della vita, caro signore...
Questa povera donna qua, creda, non può far nulla... non... non le sa far valere, le cose
sue... Io, io ci voglio, io che so bene queste cose... ma la testa in questo momento mi...
mi fa male assai, creda... mi fa male assai... Troppe emozioni... troppe... e ho bisogno
di dormire... E la stanchezza, sa? che mi fa parlare cosí... Bisogna proprio che vada a
dormire... non mi reggo più... non mi reggo più...
E se nandò, curvo, con la
testa tra le mani, ripetendo: - Non mi reggo più... non mi reggo più...
- Oh poverino! - sospirò il
giornalista, rientrando con Silvia nellaltra camera. - In che stato si trova!...
- Per carità, - saffrettò a
pregar Silvia, - non dica, non riferisca nulla nel giornale...
- Signora mia! che crede? - la
interruppe quello, parando le mani.
- È un doppio strazio per me! -
riprese Silvia quasi soffocata. - È stato come un fulmine! E ora.. . questaltro
strazio. ..
- Fa veramente pietà!
- Sí, e proprio per
la pietà che ne sento, io voglio andarmene, voglio andarmene...
- Se vuole, signora, ho qui con me...
- No, no: domani, domani. Finché il
mio bimbo è qua, starò qua. Qua è sepolto anche mio zio. E mi faceva tanto male il
pensiero che quel mio caro vecchio fosse qua, in una tomba non sua. I morti, capisco, non
sono tra loro né amici né nemici. Ma io lo pensavo tra morti non amici. Ora avrà con
sé il nipotino e non sarà più solo nella tomba straniera. Gli darò domani il mio
piccino e, appena sarà finito tutto, me ne scenderò...
- Vuole che venga io domani a
rilevarla? Sarebbe per me una fortuna.
- Grazie,- disse Silvia. - Ma io non
so ancor quando...
- Minformerò, non dubiti. A
domani!
E il giovane giornalista andò via,
tutto contento. Silvia chiuse gli occhi, con le labbra atteggiate più damarezza che
di sdegno, e scosse un pezzo il capo. Poco dopo, Graziella le recò con gli occhi bassi,
un ristoro; ma ella non volle neppur accostarvi le labbra. Sul tardi, le toccò il
supplizio duna visita; quella della moglie del dottore, più che mai cascante di
vezzi. Ma per fortuna, nella stanchezza e nello stordimento mentre colei cercava di
confortarla scioccamente, poté trovare una nuova sorgiva di pianto, volgendo gli occhi a
un angolo della camera.
Sul cassettone, come in colloquio tra
loro, erano i giocattoli di Rirí: un cavalluccio di cartapesta, fissato su una tavoletta
a quattro ruote, una trombettina di latta, una barchetta, un pagliaccetto coi cembali a
scatto. Il cavalluccio, con la coda spelata, un orecchio ammaccato e una rotellina
mancante, era il più malinconico di tutti. La barchetta con le vele stese gli voltava la
poppa e pareva lontana lontana, una grande barca in un mare lontano lontano, di sogno; e
andava cosí a vele stese in quel mare di sogno con lanimuccia di Rirí meravigliata
e smarrita... Ma che! no! il pagliaccetto, ridendo, le diceva che non era vero, che il
piano del cassettone non era mica il mare, e che lanimuccia di Rirí non navigava
più su lei.
Li aveva lasciati, Rirí, per fare
una cosa seria seria, una cosa che pareva inverosimile per un bimbo: morire! Il
cavalluccio, benché zoppo e spelato, comera sorte di tutti i giocattoli, pareva
tentennasse il capo, quasi non se ne sapesse capacitare. Se la trombetta si fosse provata
a richiamarlo da quel sonno in mezzo a tutti quei fiori di là!... Ma anchessa la
trombetta era rotta, non sonava più... Anche la bocca di Rirí non parlava più... non si
movevano più le manine... gli occhi non si riaprivano più... giocattolino rotto anche
lui, Rirí!
Che avevano veduto quegli occhiuzzi
di due anni aperti allo spettacolo di un mondo cosí grande? Chi serba memoria delle cose
vedute con occhi di due anni? Ed ecco, quegli occhiuzzi che guardavano senza serbar
memoria delle cose vedute, serano chiusi per sempre. Fuori cerano tante cose
da vedere: i prati, i monti, il cielo, la chiesa; Rirí se nera andato da quel mondo
grande che non era stato mai suo, se non in quel piccolo cavalluccio di cartapesta, che
sentiva di colla, in quella barchetta con le vele stese, in quella trombetta di latta in
quel pagliaccetto che rideva e batteva i cembali a scatto. E non aveva conosciuto il cuore
della sua mamma, Rirí...
Venne la sera; la moglie del dottore
se ne andò; ella restò sola, nel silenzio enorme di tutta la casa.
Saffacciò alla cameretta
mortuaria. Cerano Graziella e la bàlia: quella pisolava su la seggiola,
laltra recitava il rosario.
Silvia ebbe allimprovviso la
tentazione di mandar via a dormire luna e laltra, di restar sola lí col suo
bimbo, serrar bene la finestra e luscio, stendersi accanto al suo piccino, lasciarsi
prendere tutta dal suo gelo di morte e uccidere da tutti quei fiori. Con lo stordimento
del loro profumo, che le aveva reso come di piombo la testa, si era a un tratto sentita
vincere da una disperata stanchezza di tutte le cose della vita, nel tetro silenzio di
quella casa schiacciata dallincubo della morte. Affacciandosi però alla finestra,
ebbe la strana impressione che la sua anima in tutto quel tempo fosse rimasta fuori, là,
e che lei la ritrovasse ora con uno stupore e un refrigerio infinito. Era quella stessa
anima che aveva mirato lassù lo spettacolo di unaltra notte di luna simile a
questa. Ma cera nella dolcezza del refrigerio, ora, un accoramento più intenso, un
più urgente bisogno di sciogliersi da tutto, e nello stupore un più anelante risveglio a
nuove aure, ad aure più vaste, di sogni eterni. Guardò in cielo la luna che pendeva su
una di quelle grandi montagne, e nel placido purissimo lume che allargava il cielo, mirò,
bevve le pòche stelle che vi sgorgavano come polle di più vivida luce; abbassò gli
occhi alla terra e rivide le montagne in fondo con le azzurre fronti levate a respirare
nel lume, rivide gli alberi attoniti, i prati sonori dacqua sotto il limpido
silenzio della luna; e tutto le parve irreale, e che in quella irrealità la sua anima si
soffondesse divenuta albore e silenzio e rugiada.
Ma, ecco, come una tenebra enorme le
assommava a mano a mano dal fondo dello spirito, di fronte a quella limpida irrealità di
sogno: il sentimento oscuro e profondo della vita, composto da tante impressioni
inesprimibili, sbuffi e vortici e accavallamenti nella tenebra di più dense tenebre.
Fuori di tutte le cose che davan senso alla vita degli uomini, cera nella vita delle
cose un altro senso che luomo non poteva intendere: lo dicevan quegli astri col loro
lume, quelle erbe coi loro odori, quelle acque col loro murmure: un arcano senso che
sbigottiva. Bisognava andar oltre a tutte le cose che davan senso alla vita degli uomini,
per penetrare in questo arcano senso della vita delle cose. Oltre alle meschine necessità
che gli uomini si creavano, ecco altre cupe gigantesche necessità profilarsi entro il
fluir fascinoso del tempo, come quelle grandi montagne là, entro lincanto della
verde silentissima alba lunare. In esse ella doveva dora innanzi affisarsi,
infrontar con esse gli occhi inflessibili della mente, dar voce a tutte le cose inespresse
del suo spirito, a quelle che sempre finora le avevano incusso sgomento, e lasciar la
fatuità dei miseri casi dellesistenza quotidiana, la fatuità degli uomini che,
senzaccorgersene, vàgolano immersi nel vortice immenso della vita.
Tutta la notte stette lí affacciata
alla finestra, finché lalba frigida non venne a poco a poco a scomporre e a
irrigidire gli aspetti prima vaporosi di sogno. E a questo frigido irrigidirsi delle cose
toccate dalla luce del giorno, anchella sentí la divina fluidità del proprio
essere quasi rapprendersi, e avvertí lurto della realtà cruda, la terribilità
bruta e dura della materia, la possente, avida, distruttrice ferocia della natura sotto
locchio implacabile del sole che sorgeva. Questa terribilità e questa ferocia si
riprendevano ora il suo povero bimbo, a rifarlo terra sottoterra.
Ecco, portavano la cassa. La campana
della chiesa squillò a gloria nella luce del nuovo giorno.
Per un morticino che aspetta sul
letto il tempo desser sepolto, quantè lungo un giorno? quantè lungo il
ritorno della luce non più veduta fin dal giorno avanti? Questa lo ritrova già più
lontano nelle tenebre della morte, già più lontano nel dolore dei superstiti. Per poco
ora il dolore si ravvicinerà e urlerà allo spettacolo orrendo della chiusura del
cadaverino nella cassa già pronta; poi, subito dopo il seppellimento tornerà ad
allontanarsi, a rifarsi in fretta di quel breve riavvicinamento crudele, finché non
scomparirà a poco a poco nel tempo, dove di tratto in tratto soltanto la memoria, volando
saffannerà di raggiungerlo e lo scorgerà in fondo in fondo e si ritrarrà oppressa
e stanca, richiamata da un sospiro di rassegnazione...
Che cosa lesse Giustino, il quale
aveva dormito finallora dun sonno di piombo, nel volto di Silvia, in cui
pareva si fosse illividito il pallore della luna mirato dalla finestra tutta la notte?
Egli restò come sbigottito di fronte a lei; ebbe di nuovo nel ventre, nel petto un
sussulto tremendo di pianto, ma non ardí più labbraccio della prima volta; si
buttò invece a terra sul cadaverino del bimbo già composto nella bara, coperto di fiori.
Fu tratto via dal Prever; la Graziella e la bàlia trassero via la nonna. Nessuno si curò
di lei, che volle avere il cuore dassistere a tutto sino alla fine, dopo aver
baciato la morte su la piccola, dura e gelida fronte del bimbo. Quando già il coperchio
della cassa era saldato, sopravvenne il giovine giornalista, ed ella si commosse un poco
alle premure di costui le usò; ma non volle allontanarsi.
- Ormai... ormai è fatto, - gli
disse. Grazie, lasciatemi! Ormai ho visto tutto... - Non si vede più nulla... Una
cassa e lamor mio di madre, là...
Un émpito di pianto le balzò alla
gola, le sgorgò dagli occhi. Lo represse, quasi rabbiosamente, col fazzoletto.
Appena Giustino, sorretto dal Prever,
a pie della casa in mezzo alla gente accorsa per laccompagnamento funebre,
vide scendere dietro la piccola bara il giovine giornalista accanto a Silvia, comprese che
questa, dopo il seppellimento, non sarebbe più ritornata a casa. Disse allora al Prever e
alla gente che gli faceva ressa attorno:
- Aspettate, aspettate...
E corse sù, in casa. La morte per
lui non era tanto la piccola bara, quanto nellaspetto di Silvia, nella definitiva
partenza di lei. Quel chera morto di lui nel suo bimbo era ben poco a confronto di
quel che di lui moriva con lallontanamento della moglie. I due dolori erano per lui
un dolore solo, inseparabile. Deponendo il bimbo nella tomba, egli doveva deporre insieme
un altra cosa, nelle mani di lei: gli ultimi resti della sua vita, ecco.
Fu visto poco dopo ridiscendere con
un fascio di carte sotto il braccio. Con esse, appoggiato al Prever, seguí il mortorio
fino alla chiesa, fino al cimitero. Quando il mortorio si sciolse si strappò dal braccio
del Prever e si accostò vacillante a Silvia che si disponeva a montare su
lautomobile del giornalista.
- Ecco, - le disse, porgendole le
carte, - tieni... Ormai io,.. che... che me ne faccio più? A te possono servire...
Sono... sono recapiti di traduttori... note mie... appunti, calcoli... contratti...
lettere... Ti potranno servire per... per non farti ingannare... Chi sa... chi sa come ti
rubano... Tieni... e... addio! addio! addio!..
E si buttò singhiozzando tra le
braccia del Prever che sera avvicinato.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 02 September, 1998