Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO SESTO
LA CRISALIDE E IL BRUCO
Disingannati, sempre;
ma che si possa per giunta rimanere con avvilimento di rimorso anche dopo essere stati
intesi e assorti in unopera da cui ci aspettavamo lode e gratitudine, par troppo.
Eppure...
Voleva che volassero, Giustino, volassero
le due carrozzelle per giungere presto a casa, ritornando dalla stazione ove, insieme con
Dora Barmis e Attilio Raceni, era andato ad accogliere Silvia.
Laspetto della moglie,
allarrivo, lo aveva sconcertato; più che più, poi, le poche parole e gli sguardi e
i modi, nel breve tratto dallinterno della stazione alluscita, finché non
sera messa con la Barmis in una vettura, e lui col Raceni non era saltato in
unaltra.
- Il viaggio... Sarà stanca... Poi,
cosí sola... - disse a Giustino il Raceni, impressionato anche lui dal torbido volto e
dal gelido tratto della Roncella.
- Eh già... - riconobbe subito Giustino.
- Capisco. Dovevo andar io lassù, a prenderla. Ma come facevo? Qua, con la casa addosso,
sossopra. E poi, sa? La morte dello zio. Cè anche questo. Lha sentita. Eh,
lha sentita, lha sentita troppo, quella morte...
Questa volta fu il Raceni a riconoscer
subito:
- Ah già... ah già...
- Capisce? - riprese Giustino.
Nellandar sù, era con lui; ora è ritornata sola... Lha lasciato là... E
mica lo zio solo! Ma già, sí! dovevo dovevo dovevo proprio andar io a prenderla a
Cargiore... Cè stato anche il distacco dal bambino, per dio! Lei capisce?
E il Raceni, di nuovo:
- Ah già... ah già... Sicuro...
sicuro...
A quante cose non avevano pensato,
infervorati tutti e tre nei lavori daddobbo della nuova casa!
Erano andati alla stazione festanti, con
la soddisfazione di esser riusciti a costo dincredibili fatiche a farle trovar tutto
in ordine; ed ecco qua, dun tratto ora saccorgevano che, non solo non
meritavano né ringraziamenti né gratitudine per tutto quello che avevano fatto, ma
dovevano per giunta pentirsi di non aver pensato, non diciamo al lutto di quella morte
recente, ma nemmeno allo strazio della madre nel distaccarsi dal suo bambino.
Ogni minuto a Giustino, adesso, sapeva
unora. Sperava che Silvia, appena entrata nella nuova casa, non avrebbe pensato più
a nulla, dallo stupore... Non glienaveva fatto apposta alcun cenno, nelle lettere.
Prodigi - ecco, questa era la parola -
prodigi aveva operato, col consiglio e lajuto assiduo della Barmis e anche... sí,
anche del Raceni, poverino!
Diceva casa, ma cosí, tanto per dire.
Che casa! Non era casa. Era... - ma, zitti, per carità, che Silvia ancora non lo sappia!
un villino era - zitti! - un villino in quella via nuova, tutta di villini, di là da
ponte Margherita, ai Prati, in via Plinio; uno dei primi, con giardinetto attorno,
cancellata e tutto. Fuorimano? Che fuorimano! Due passi e si era al Corso. Via signorile,
silenziosa; la meglio che si potesse scegliere per una che doveva scrivere! Ma cera
di più. Non laveva mica preso in affitto, quel villino. - zitti, per carità! - Lo
aveva comperato. Sissignori, comperato, per novantamila lire. Sessantamila pagate là, sul
tamburo; le altre trenta da pagare a respiro, in tre anni. E - zitti! - circa venti altre
mila lire aveva speso finora per larredo. Meraviglioso! Con la sapienza della Barmis
in materia... Tutto arredo nuovo e di stile: semplice, sobrio, snello e solido: mobili del
Ducrot! Bisognava vedere il salotto, a sinistra, subito come sentrava; e poi
laltro salotto accanto; e poi la sala da pranzo che dava sul giardino. Lo studio era
sù, al piano di sopra, a cui si accedeva per unampia bella scala di marmo, dalla
ringhiera a pilastrini, che cominciava poco più oltre luscio del salotto. Lo studio
- sù - e le camere, due belle camere accanto, gemelle. Veramente Giustino, non sapendo
come Silvia la pensasse su questo punto, ma anche dal canto suo, ecco, avrebbe voluto una
camera sola. Dora Barmis se nera mostrata indignata, inorridita:
- Ma per carità! Non lo dite neppure...
Volete guastar tutto? Divisi, divisi, divisi... Imparate a vivere, caro! Mi avete detto
che dora in poi prenderete sempre il tè...
Due camere. E poi lo stanzino da bagno, e
il lavabo, e il guardaroba... Meraviglie! O pazzie? Ecco, a dir vero, pareva avesse
perduto quel suo famoso taccuino il Boggiòlo in questa occasione. Sera sbilanciato,
e come! Ma aveva tanto denaro in mano! E la tentazione... Per ogni oggetto che gli era
stato presentato in parecchi esemplari di vario prezzo, aveva veduto soltanto quel pochino
pochino che avrebbe speso di più a scegliere il più bello; e, sissignori, alla fine
tutti quei pochini pochini di più, sommati insieme, avevano arrotondato quella bellissima
pancia di zeri alla spesa per larredo.
Della compera del villino, invece, non
era pentito. Che! Potendolo fare, avendo cioè tanto in mano da liberarsi della prepotente
usura dei padroni di casa, sarebbe stata una pazzia non comperare, seguitare a buttar via
da due a trecento lire al mese per un appartamentino appena appena decente. Il villino
rimaneva, e quei denari della pigione sarebbero invece volati in tasca dei padroni di
casa. È vero che, a non comperare il villino, anche il capitale sarebbe rimasto.
Daccordo! bisognava ora dunque fare il calcolo se col frutto dun capitale di
novantamila si sarebbe pagata una pigione mensile di trecento lire. Non si sarebbe pagata!
E intanto, invece dun appartamentino appena appena decente, con novantamila lire si
aveva quel villino là, quella reggia! Ma, e i pesi? Sí, è vero, le tasse, e poi tante
altre spese in più. Manutenzione, illuminazione, servizio... Con una casa messa sù a
quel modo, certo non poteva bastare più una servotta abruzzese; ci volevano a dir poco
tre servi. Giustino, per il momento, ne aveva presi due in prova; anzi, uno e mezzo; o
piuttosto, due mezzi: ecco: una mezza cuoca e un mezzo camerlere (valet de chambre,
valet de chambre, come gli suggeriva di chiamarlo la Barmis): ragazzo svelto, con
la sua brava livrea, per la pulizia, per servire in tavola e aprir la torta.
Ecco, ora, subito appena le due
carrozzelle arrivavano al cancello, Èmere (si chiamava Èmere)...
- Ohé, Èmere!... Èmere!...- gridò
Giustino, nella notte, smontando; e poi, rivolto al Raceni:- Ha visto?... Non si trova al
posto... Che gli avevo detto?
Ah, eccolo: sta ad aprir la luce, prima
sù, poi giù: ecco, tutto il villino appare dalle finestre illuminato, splendido, sotto
il cielo stellato; sembra un incanto! Ma a Silvia, già smontata con la Barmis, tocca di
aspettare dietro il cancello chiuso, e tocca al Raceni di tirar giù da cassetta le
valige, mentre un cane abbaja da un villino accanto e Giustino paga in fretta i vetturini
e corre subito alla moglie per mostrarle su uno dei pilastri che reggono il cancello la
targa di marmo con liscrizione: Villa Silvia.
Le guardò gli occhi, prima. Durante la
corsa aveva supposto chella, parlando nellaltra vettura con la Barmis dello
zio morto e del bambino abbandonato, avesse pianto. Purtroppo, no, non aveva pianto.
Conservava lo stesso aspetto che allarrivo: torbido, rigido, gelido.
- Vedi? Nostro! - le disse. - Tuo...
tuo... Villa Silvia, vedi? Tuo... Lho comperato!
Silvia aggrottò le ciglia, guardò il
marito; guardò le finestre illuminate.
- Un villino?
- Vedrà che bellezza, signora Silvia! -
esclamò il Raceni.
Èmere accorse ad aprire il cancello e
simpostò, cavandosi e reggendo col braccio allaltezza del capo il berretto
gallonato, senza scomporsi minimamente al rimprovero che gli gridò in faccia Giustino:
- Bella prontezza! bella puntualità!
Lirritazione di Giustino era
accresciuta dalla mutria della Barmis. Certo Silvia, in vettura, non si era mostrata
gentile con lei. E aveva faticato tanto, sera affannata tanto con lui quella povera
donna! Bel modo di ringraziar la gente!
- Vedi? - riprese, rivolto alla moglie,
appena entrato nel vestibolo. - Vedi, eh? Non sono venuto a Cargiore... a prenderti, ma...
eh?... vedi, eh? per prepararti qua questa sorpresa, eh, con lajuto di... come dici?
eh? che vestibolo! con lajuto di questa nostra cara amica e del Raceni...
- Ma no! ma che dite! statevi zitto! -
cercò dinterromperlo subito la Barmis.
Protestò anche il Raceni.
- Ma nientaffatto! - insisté
Giustino. - Se non fosse stato per voi! Sí, infatti... io solo... Adesso - questo è
niente! - adesso vedrai... Abbiamo motivo, non solo di ringraziarvi, ma di restarvi grati
eternamente...
- Oh Dio, comesagerate! - sorrise
la Barmis. - Lasciate stare. Badate piuttosto alla vostra signora che devessere
molto stanca...
- Sí, ecco, proprio stanca... - disse
allora Silvia, con un sorriso dolce e freddo a un tempo. - E chiedo scusa se non ringrazio
come dovrei... Questo viaggio interminabile...
- Già devessere a ordine la cena,
- saffrettò a dire il Raceni, tutto commosso da quel sorriso (finalmente!) e da
quelle buone parole (ah che voce sera fatta la Roncella! che dolcezza! Unaltra
voce... Già, tutta gli pareva unaltra!). - Un piccolo ristoro; poi, subito il
riposo!
- Ma prima, - disse Giustino, aprendo
luscio del salotto, - prima... come! almeno cosí, sopra sopra, bisogna che veda...
Avanti, avanti... O meglio, ecco, faccio strada io...
E cominciò la spiegazione, interrotto di
tratto in tratto dalla Barmis con tanti: "ma sí,... ma andate innanzi... ma
questo poi lo vedrà", per ogni minuzia su cui lo vedeva indugiare ripetendo
goffamente, con orribili stonature, tutto ciò che già gli aveva detto lei per
spiegargliene la proprietà, la finezza, la convenienza, il gusto.
- Vedi? Di porcellana... Sono del... Di
chi sono, signora? ah, già, del Lerche... Lerche, norvegese... Pajono niente; eppure,
cara mia... costano! costano! Ma che finezza, eh?... questo gattino, eh? che amore! Sí,
andiamo innanzi, andiamo innanzi... Tutta roba del Ducrot!... È il primo, sai? Adesso è
il primo, è vero, signora? Non cè che lui... Mobili del Ducrot! tutti mobili del
Ducrot... Anche questo... E guarda qua questa poltrona... come la chiamano? tutta di pelle
fina... non so che pelle... Ne hai due compagne sù nello studio... pure del Ducrot!
Vedrai che studio!
Se Silvia avesse detto una parola, o
almeno avesse con lo sguardo, con un cenno anche lieve dimostrato curiosità, gradimento
meraviglia, Dora Barmis avrebbe preso a parlar lei, a far lei brevemente e col debito
tatto, il debito rilievo, le debite sfumature, lillustrazione di tutte quelle
squisitezze; tanto soffriva a quelle grottesche spiegazioni del Boggiòlo, che le pareva
gualcissero, azzoppassero, spiegazzassero ogni cosa.
Ma Silvia soffriva più di lei a vedere,
a sentir parlare il marito cosí; per sé e per lui soffriva: e simmaginava in quel
momento quanto spasso doveva essersene preso quella donna, se non il Raceni,
nellarredar quella casa a suo modo coi denari di lui; e ne provava sdegno dispetto
onta, per cui a mano a mano, procedendo, sirrigidiva vieppiù; e pur tuttavia non
troncava quel supplizio, rattenuta dalla curiosità, che si forzava a non mostrare, di
veder quella casa, che non le pareva sua, ma estranea, fatta non più per viverci come
finora ella aveva vissuto, ma per rappresentarvi dora in poi, sempre e per forza,
una commedia; anche davanti a se stessa; obbligata a trattar coi dovuti riguardi tutti
quegli oggetti di squisita eleganza, che la avrebbero tenuta in continua suggezione;
obbligata a ricordarsi sempre ella parte che doveva recitar tra loro. E pensava che ormai,
come non aveva più il bambino, cosí neanche la casa - ecco - aveva più, qualessa
la aveva finora intesa e amata. Ma doveva esser cosí, purtroppo. E dunque presto, via, da
brava attrice, si sarebbe impadronita di quelle stanze, di quei mobili là, da
palcoscenico, donde ogni intimità familiare doveva esser bandita.
Quando vide, sù, la sua camera divisa da
quella del marito:
- Ah, sí, ecco, - disse. - Bene, bene...
E fu la sola approvazione che le uscisse
dalle labbra quella sera.
Giustino, che si sentiva come un macigno
sul petto al pensiero di questaltra novità forse non gradita, che Silvia avrebbe
trovata nella nuova casa, e già in mente raggirava le maniere migliori per presentare e
colorir la cosa senza offendere la moglie da un canto, né dallaltro promuovere il
riso della Barmis; si sentí dun tratto alleggerito e felicissimo, non intendendo
affatto il perché del compiacimento della moglie.
- E io sto qua, vedi? qua accanto,-
saffrettò a spiegare. - Qua, proprio qua... Camere, come si chiamano? ah, gemelle,
già... camere gemelle, perché vedi? tal quale... questa è la mia! E coshai tu di
là? Il mio ritratto. E cosho io, di qua? Il tuo ritratto. Vedi? Camere gemelle. Ti
piacciono, eh? Eh già, ormai, tutti fanno cosí... E va bene! Sono proprio contento...
La Barmis e il Raceni, vedendolo, quella
sera, come un cagnolino appresso alla moglie, se ne meravigliavano, si guardavano tratto
tratto negli occhi e sorridevano.
Ma Giustino quella sera era cosí
sottomesso e desideroso dellapprovazione di Silvia non già perché, reduce da quel
giro trionfale de Lisola nuova per le principali città della penisola, fosse
cresciuta in lui la stima di lei, e questa ora glimponesse maggior rispetto e
considerazione; né già perché dallaspetto di lei indovinava, o intravvedeva
almeno, mutato verso di lui lanimo della moglie. La stima era quella stessa di
prima. Delleffettivo merito artistico di lei egli in verità non si era mai
riconosciuto buon giudice, e tuttora non se ne curava affatto, pago che questo merito
fosse riconosciuto dagli altri e sinceramente convinto che cosí fosse - almeno in quella
misura - per lopera straordinaria chegli alluopo aveva messa e seguitava
a mettere. Tutta opera sua, si sa, quel riconoscimento. Quanto poi allanimo di lei,
come avrebbe potuto dubitare che esso - ora più che mai - fosse pieno di ammirazione e di
gratitudine?
E dunque? Dunque altre ragioni dovevano
esserci che né la Barmis né il Raceni si figuravano.
Era pentito Giustino daver troppo
speso per larredo, e temeva da un canto che questo potesse farlo alcun poco
scapitare appunto in quellammirazione e in quella gratitudine; dallaltro,
desiderava lapprovazione come un balsamo che gli quietasse il rimorso. Era poi
davvero dolente daver fatto viaggiare sola per la prima volta la moglie senza aver
pensato al distacco dal figlio e alla morte dello zio (uniche ragioni, queste, per lui del
rigido contegno di Silvia). E infine... cera un altro perché, intimo,
particolarissimo, che aveva fondamento nella più rigorosa, nella più scrupolosa
osservanza de suoi doveri coniugali per sei lunghissimi mesi a un bellincirca.
Almeno questultima ragione Dora Barmis avrebbe potuto supporla. Ella sorrideva,
veramente, sotto sotto... Ma sí, via! senza dubbio la aveva supposta...
Non per essa solamente, però, quando fu
lora dandare a cena, la quale era pure, fin da prima della loro partenza per
la stazione, già ordinata e apparecchiata per quattro, non volle assolutamente cedere
alle insistenti preghiere di Giustino, e andò via. Il Raceni da un canto avvertiva che
sarebbe stato sconveniente non seguire la Barmis; ma dallaltro era rimasto come
abbagliato dalla Roncella fin dal primo rivederla; e non seppe risponder no appena ella
con un sorriso gli disse:
- Resterete almeno voi...
E seguitò di proposito Silvia ad
abbagliarlo, durante la cena, quella sera, con molto stupore e anche con molto dispetto di
Giustino, che a un certo punto non poté più reggere e sbuffò:
- Ma quella Barmis, perbacco! Quanto mi
dispiace!
- Oh Dio! - esclamò Silvia. - Se non ha
voluto rimanere... Lhai tanto pregata!
- Avresti dovuto pregarla anche tu! -
rimbeccò allora Giustino.
E Silvia, freddamente:
- Glielho detto, mi pare; come
lho detto al Raceni...
- Ma non hai affatto insistito! Potevi
insistere...
- Non insisto mai, - disse Silvia; e
aggiunse, rivolgendosi sorridente al Raceni: - Ho insistito con voi? Mi pare di no. Se la
Barmis avesse avuto piacere di star con noi...
- Piacere! piacere! E se se ne fosse
andata, - proruppe Giustino al colmo della stizza, - per non recarti disturbo dopo il
viaggio?
- Giustino! - lo richiamò subito Silvia
con tono di rimprovero, ma pur seguitando a sorridere. - Ora tu fai uno sgarbo al Raceni
che è rimasto. Povero Raceni!
- Nientaffatto! nientaffatto!
- si ribellò Giustino. - Io difendo la Barmis dal tuo sospetto. Il Raceni sa che ci reca
piacere, se labbiamo trattenuto!
Veramente non parve punto al Raceni che
ne recasse molto a lui; ma sí a lei, tanto; e non capiva più nei panni, povero giovine:
sera invermigliato come un papavero, e tutto il sangue si sentiva scorrere per le
vene come fuoco liquido, con tanta repenza, che nera addirittura stordito.
Giustino, che lo vedeva cosí e udiva a
quando a quando ripetere a Silvia tra i sorrisi: "Povero Raceni!... Povero Raceni!",
si sentiva intanto, a sua volta, divampar dentro un altro fuoco: fuoco di stizza, anzi
dira, fomentato anche dal dispetto di non scorgere ancora nella moglie alcun segno
di piacere, di meraviglia, dammirazione per quella sala da pranzo, per quella
suppellettile da tavola, per quella splendida giardiniera in mezzo, tutta piena e
fragrante di garofani bianchi, per il servizio inappuntabile di cui Èmere qua, in quella
bella livrea, e di là la cuoca, davano il primo saggio. Niente! nemmeno un segno! come se
ella fosse sempre vissuta in mezzo a quegli splendori, abituata a vedersi servita cosí, a
cenare cosí, ad aver di quei commensali a tavola; o come se, prima darrivare, fosse
già a conoscenza di tutto e saspettasse di trovar quel villino di proprietà loro e
arredato cosí, anzi come se, non lui, ma lei, lei solamente avesse pensato a tutto e
tutto preparato.
Ma come? Glielo faceva apposta? E
perché? Comera? Proprio perché lui non era andato a prenderla a Cargiore? perché
non aveva pensato al distacco dal bambino? Ma se non ne pareva afflitta né punto né
poco! Eccola là, rideva... Ma che modo di ridere era quello, adesso? E dàlli ancora con
quel "povero Raceni!".
Intronò addirittura Giustino e si sentí
strappar tutto internamente, dalle dita dei piedi sù sù alla radice dei capelli, quando
Silvia annunziò al Raceni una grande novità: che aveva scritto versi, a Cargiore, tanti
versi, e gli promise di regalargliene un saggio per Le Grazie.
- Versi? Che versi? Tu hai fatto versi? -
esplose. - Ma fa il piacere!
Silvia lo guardò come se non capisse
affatto.
- Perché? - disse. - Non potevo
scriverne? Non ne avevo mai scritti, è vero. Ma mi son venuti fatti da sé, creda Raceni.
Non so - questo sí - se siano belli o brutti. Saranno brutti magari...
- E li vorresti pubblicare su Le
Grazie? - domandò Giustino, con gli occhi più che mai inveleniti dalla stizza.
- Ma, scusate, perché no, Boggiòlo? -
si risentí il Raceni. - Credete sul serio che possano esser brutti? Figuratevi con quale
ansia saranno cercati e letti, come una nuova, inattesa manifestazione del talento di
Silvia Roncella!
- No no, per carità, non dite cosí,
Raceni, - saffrettò a protestare Silvia. - Non ve li do più, altrimenti. Sono
versucci, a cui non dovete dare alcuna importanza. Ve li do a questo patto, e soltanto per
farvi un piacere.
- Sta bene, sta bene... masticò
allora Giustino. Ma... permetti?... ti faccio osservare... non per il Raceni che...
sta bene, glielhai promessi; basta. Avevi promesso prima però al senatore Borghi
una novella, e non glielhai fatta!
- Oh Dio, gliela farò, se mi verrà...
rispose Silvia.
- Ecco... io dico... invece dei versi...
almeno avresti potuto far questa novella, a Cargiore! non seppe tenersi di
rimbrottare ancora Giustino. E intanto... se ora non puoi dar più codesti versi al
senatore, avendoli promessi al Raceni... direi di... di aspettare almeno che abbi pronta
la novella per il Borghi.
Tutto attraverso, tutto attraverso,
quella sera per guastargli la festa della presa di possesso del villino, premio di tanti
travagli! Ah, ora, anche tornare indietro voleva la moglie, ai bei tempi quando spargeva
cosí, in regalo a tutti, i suoi lavori? voleva anche mettersi a far da sé, approfittando
che lui quella sera non voleva proprio perdere del tutto quei necessarii tratti manierosi
verso di lei?
Ahimè, avvertiva che li perdeva; e anche
perciò di punto in punto sentiva crescersi lorgasmo. Ma sfido! per forza! Il
disinganno della lode mancata, della mancata meraviglia, tutto il contegno di lei, quello
sgarbo immeritato alla Barmis, ora quella promessa al Raceni...
Per sfogarsi, per farsi in certo modo
svaporar le furie, scaraventò a questo, appena andato via, una filza dimproperie e
dingiurie: - Stupido! imbecille! pulcinella!
Ma ecco qua Silvia prenderne le difese,
sorridendo:
- E la gratitudine, Giustino? Se ti ha
tanto ajutato?
- Lui? Impicciato mi ha! scattò
furente Giustino. Impicciato soltanto! come adesso! come sempre! La Barmis mi ha
ajutato davvero, capisci? lei, sí! la Barmis, che tu invece hai fatto andar via a quel
modo. E a questo qua, sorrisi, complimenti, povero Raceni, povero Raceni, e
anche... anche il regalo dei versi, perdio!
- Ma non fanno insieme, tutti e due?
disse Silvia. Lui, direttore; lei, redattrice?... Sarà meglio, credi,
dora in poi, per tutto lajuto che thanno prestato, compensarli ogni
tanto cosí, affinché non si prendano più il piacere di servirci per... non so bene
perché...
- Ah no, cara, no, cara... senti, cara...
prese allora a dire Giustino, finendo di perdere ogni dominio di sé, punto cosí
sul vivo. Mi devi fare il piacere di non immischiarti in queste cose, che sono
affar mio! Ma hai veduto, di? hai veduto tutto bene? Io non so... Tutte queste cose
qui... È tutto nostro! Ed è frutto, dico, di lavoro mio, di tanti pensieri, di tante
cure! Vuoi insegnarmi tu, ora, scusa, come si deve fare, quel che si deve dire?
Silvia troncò subito la discussione,
dichiarandosi stanca sfinita dal lungo viaggio e bisognosa di riposo.
Comprese bene chegli non avrebbe
mai ceduto su quel punto e che, a volergli impedire o anche per poco ostacolare quello che
ormai considerava il suo ufficio, la sua professione, sarebbe accaduto inevitabilmente un
tale urto tra loro da determinare una rottura insanabile.
Meglio lo comprese, allorché
respinto egli nella camera accanto, spogliandosi, cominciò a dare sfogo senza più
alcun ritegno al disinganno, alla stizza acerrima, alla rabbia, con imprecazioni e
rimbrotti e raffacci e pentimenti e scatti di maligno riso, che tanto più la sdegnavano e
la ferivano, quanto più le accrescevano innanzi agli occhi la ormai scoperta e
sfolgorante ridicolaggine di lui.
- Ma sí! aveva ragione quella! Ajutatela,
Boggiòlo, ajutatela a vendicarsi! Stupido io che non lho fatto! Ecco il premio!
ecco la ricompensa! Stupido... stupido... stupido... Centomila occasioni... E va bene!
Questo è niente, signori! Non siamo ancora a niente! Quello che si vedrà adesso!...
Regaliamo, regaliamo... Facciamo versi, e regaliamo... La poesia, adesso!... Scappa fuori
la poesia... Ma sí! cominciamo a vivere tra le nuvole, senza più occhi per vedere qua
tutte queste spese... Prosa, prosa, questa da non calcolare... Tante pene, tanto lavoro,
tanti denari: ecco il ringraziamento! Lo sapevamo... Ma sí, cose da niente... Un villino?
Buh, che cosè? Mobili del Ducrot? Buh! li sapevamo... Ah, eccoci a letto! Che bel
letto di rose!... Che delizia incignarlo cosí, caro signor Ducrot! Corri di qua, stupido!
scappa di là! rómpiti il collo! pèrdici il fiato! pèrdici limpiego! prega,
minaccia, briga! Ecco il premio, signori! ecco il premio!
E seguitò cosí, al bujo, per più di
unora rigirandosi tra le smanie su per il letto, tossendo, sbuffando, sghignando...
Ella intanto di là, tutta ristretta in
sé sotto le coperte, con la faccia affondata nel guanciale per non sentirlo, malediceva
la fama, a cui con lajuto di lui, cioè a prezzo di tante risa e di tante beffe
della gente, era salita. Da tutte quelle risa, ora, da tutte quelle beffe si sentiva
assalita, frustata, avviluppata, con la romba che le era rimasta negli orecchi per il
frastuono del treno. Ah come non se nera accorta prima? Soltanto adesso, ecco, tutti
gli spettacoli che egli aveva dato di sé, uno più dellaltro ridicolo, le saltavano
agli occhi, le si rappresentavano con tal cruda vivezza, che era uno strazio: tutti gli
spettacoli, da quello primo del banchetto, quando al brindisi del Borghi sera levato
in piedi insieme con lei, come se quel brindisi dovesse riferirsi anche a lui perché suo
marito; allultimo cui ella aveva assistito, là, alla stazione, prima della partenza
per Cargiore, allorché, facendo da battistrada, sera inchinato per conto di lei
agli applausi cherano scoppiati nella sala di aspetto.
Ah, poter tornare indietro, rinchiudersi
nel suo guscio a lavorar quieta e ignorata! Ma egli non avrebbe mai permesso che andasse
cosí frustrata lopera sua di tanti anni, ove riponeva ormai tutta la sua
compiacenza. Con quel villino, che riteneva, e forse a ragione, soltanto frutto del suo
lavoro, sera inteso di edificare quasi un tempio alla Fama, per officiarvi, per
pontificarvi! Follia sperare che ora volesse rinunziarci! Vi aveva fitto il capo e là,
là sarebbe rimasto per sempre e per forza attaccato a quella fama, di cui si riconosceva
lartefice! E sempre più grande avrebbe cercato di renderla per apparirvi in mezzo
sempre più ridicolo.
Era il suo fato, ed era inevitabile.
Ma come avrebbe fatto ella a resistere a
quel supplizio, ora che la benda le era caduta dagli occhi?
Pochi giorni dopo,
Giustino volle dar principio con solennità allistituzione dei "lunedí
letterarii di Villa Silvia", come la Barmis gli aveva suggerito.
Per quel primo, estese glinviti a
tutti i più noti maestri di musica e critici musicali di Roma, perché pretesto
allinaugurazione era la lettura a pianoforte di alcune parti dellopera Lisola
nuova già compiuta dal giovine maestro Aldo di Marco.
Il nome del maestro era a tutti ignoto.
Si sapeva soltanto che questo di Marco era veneziano israelita e ricchissimo, e che per
musicar Lisola nuova aveva fatto tali profferte, che Boggiòlo sera
affrettato a rompere le trattative già bene avviate con uno tra i più insigni
compositori.
Benché a Giustino non premesse tanto né
poco il buon esito dellopera, che anzi desiderava modesto perché non désse
alcunombra al dramma, aveva tuttavia fatto annunziare dagli amici giornalisti che
quellopera avrebbe tra poco rivelato allItalia, ecc. ecc.; e aveva anche fatto
riprodurre nei giornali lesile e, ahimè, non ben chiomata immagine del giovine
maestro veneziano, il quale ecc. ecc.
Lannunzio gli era sembrato doveroso
e opportuno, non solo in considerazione dellingente somma sborsata dal maestro per
musicare il dramma fortunato (ridotto in versi da Cosimo Zago), ma anche per accrescer
solennità allinaugurazione.
Avrebbe potuto farne a meno.
Quella lettura a pianoforte e quel
giovine maestro ignoto, dallaspetto cosí poco promettente, rappresentavan per tutti
un fastidio e un ingombro. Era invece vivissima la curiosità di veder la Roncella in casa
sua, donna, dopo il trionfo.
Silvia se laspettava; e,
nellorgasmo che le suscitava il pensiero di dover tra poco affrontare questa
curiosità, vedendo il marito in grandi ambasce per i preparativi e pur con laria di
chi sa tutto e non ha bisogno di nessuno, avrebbe voluto gridargli:
"Basta! Lascia star tutto; non
affannarti più! Vengono per me, per me soltanto! Tu non centri più; tu non hai
più da far nulla, altro che da starti zitto, quieto, in un canto!".
Lorgasmo non era soltanto per la
curiosità da affrontare; era anche per lui, anzi sopra tutto per lui.
Ricorse finanche allastuzia di
fingersi gelosa della Barmis e glimpedí con ciò di ricorrere a costei per quei
preparativi, con la speranza che, mancandogli questo ajuto, egli non si désse più tanto
da fare e si lasciasse persuadere che aveva già fatto abbastanza e non occorreva più
altra sua opera.
Giustino, allidea che la moglie -
venuta (fosse pure per lui) in tanta celebrità - cominciava a essere, quantunque a torto,
un po gelosa, provò un certo piacere, che gli fece manifestare come avvolta tutta
in un roseo sorrisetto fatuo lirritazione che questa gelosia gli cagionava in quel
momento.
Lajuto della Barmis gli era
indispensabile. Ma Silvia tenne duro.
- No, quella no! quella no!
- Ma, Dio... Silvia, dici sul serio? Se
io...
Silvia scosse il capo con rabbia e si
nascose il volto tra le mani, per interromperlo.
Di quella sua finzione ebbe
allimprovviso onta e ribrezzo, vedendo che egli in fondo se ne compiaceva: onta e
ribrezzo, perché le parve che anche lei, ora, cominciasse a beffarsi di lui come tutti
gli altri, per lo spettacolo anche di questa fatuità.
Subito, credendo di dargli uno scrollo
poderoso, per salvarlo e salvarsi, facendo cadere anche a lui la benda dagli occhi,
proruppe:
- Ma perché, perché vuoi far ridere? di
te e di me? ancora? Non ti accorgi che la Barmis ride di te; ne ha sempre riso? e tutti
con lei, tutti! Non te naccorgi?
Giustino non tentennò minimamente a
questimpeto di rabbia della moglie; la guardò con un sorriso quasi di compassione e
alzò una mano a un gesto, più che di sdegno, di filosofica noncuranza.
- Ridono? Eh, da tanto...- disse. - Ma
tira la somma cara mia, e vedi se sono sciocchi quelli che ridono o io che... ecco qua, ho
fatto tutto questo e tho messa alla testa! Lasciali ridere. Vedi? Essi ridono, e io
me ne servo e ottengo da loro tutto quello che voglio. Eccole qua, eccole qua, tutte le
loro risa...
E agitò le mani guardando in giro la
stanza, come per dire: "Vedi in quante belle cose si sono convertite?".
Silvia sentí cascarsi
le braccia; restò a mirarlo a bocca aperta. Ah, dunque, egli sapeva? se nera già
accorto? e aveva seguitato, senza curarsene, e voleva ancor seguitare? non gli importava
affatto che tutti ridessero di lui e di lei? Oh Dio ma dunque... - se era sicuro,
sicurissimo che la fama di lei era opera sua unicamente, e che tutta questopera sua,
in fondo, non era consistita in altro che nel far ridere di sé, per poi convertire queste
risa in lauti guadagni, in quel villino là, ne bei mobili che lo adornavano - che voleva
dire? voleva dir forse che per lui era tutta una cosa da ridere la letteratura, una cosa
di cui un uomo di sano criterio, sagace e accorto, non avrebbe potuto impacciarsi se non
cosí, cioè a patto di trar profitto delle risa degli sciocchi che la prendevano sul
serio?
Questo voleva dire? Ma no!
Seguitando a guardare il marito, Silvia
riconobbe subito che ella, supponendo cosí, gli prestava una veduta che non era da lui.
No, no! Non poteva esser voluto da lui stesso il ridicolo di cui sera valso. Fin da
quando, laggiù a Taranto, erano arrivati quei trecento marchi per la traduzione delle Procellarie,
aveva cominciato a prender tanto sul serio la letteratura, che sciocchezza per lui era
soltanto il non curarsi dei frutti chessa, come ogni altro lavoro - se amministrato
bene - può rendere... E sera messo ad amministrare, ad amministrare con tal
fervore, anzi con tanto accanimento da tirarsi addosso le risa di tutti. Non le aveva
provocate lui con intenzione, quelle risa, per farci sù bottega; ma era stato costretto a
sopportarle; e le stimava ora da sciocchi solo perché egli, pur tra esse e con esse, era
riuscito nellintento. Ma la saviezza sua aveva per piedistallo quelle risa e tutta
da quelle risa era composta: non avrebbe dovuto più muoversi ora: al minimo movimento, lo
squarcio duna risata! Quanto più serio voleva ora apparire, tanto più ridicolo
sarebbe sembrato.
Ah quella serata dellinaugurazione!
Fin nel fruscío degli abiti, nel lieve sgrigliolío delle scarpe attutito dalla spessezza
dei tappeti, in ogni rumore, fosse duna seggiola smossa, dun uscio aperto,
dun cucchiaino agitato nella tazza; e poi nel frastuono del pianoforte allorché il
di Marco cominciò a sonare; sorrisetti, risatine, sghigni, scrosci di risa fragorose,
sbardellate, squacquerate parve a Silvia davvertire, e le sembrò dileggio ogni
sorriso di deferenza o di compiacimento per lei; il dileggio credette di scorgere in ogni
sguardo, in ogni gesto, sotto ogni parola dei tanti convitati.
Si sforzò di non badare al marito; ma
come, se lo aveva sempre davanti, là, piccolo, tutto aggiustato, irrequieto, raggiante, e
sentiva che tutti da ogni parte lo chiamavano? Ecco, ora il Luna se lo prendeva a braccio,
e altri quattro, cinque giornalisti gli correvano attorno, in frotta; ora lo chiamava la
Lampugnani di là tra il crocchio delle più spiritose signore.
Ella avrebbe voluto esser per tutto o
trattener tutti attorno a sé; non potendo, nel ribollimento dello sdegno, aveva a quando
a quando la tentazione di dire o far qualcosa inaudita, non mai veduta, da far passare a
ognuno la voglia di ridere, di venir lí per mettere in burla il marito, e col marito, per
conseguenza, anche lei.
Le toccava, invece, di sopportar la corte
quasi sfacciata che tutti quei giovani letterati e giornalisti si permettevano di farle,
come se ella, avendo per fortuna un marito di quella fatta, cosí felicemente disposto a
esibirla a tutti, un marito che tanto sadoperava a farla entrare nelle grazie
dognuno, un marito che, via, non avrebbe potuto neanche lei in nessun modo prendere
sul serio, non potesse, non dovesse rifiutarla, quella corte, anche per non dare a lui
questo dispiacere.
E difatti, ecco, non le si accostava egli
di tanto in tanto per raccomandarle di far buon viso ora alluno, ora allaltro,
e proprio ai più sfrontati, a quelli che ella aveva allontanato da sé con duro e freddo
sprezzo? Il Betti, il Betti, colui che aveva finora colto ogni occasione per scriver male
di lei in parecchi giornali, e quel Paolo Baldani venuto da poco da Bologna, bellissimo
giovine e critico eruditissimo, facitor di versi e giornalista, il quale con incredibile
tracotanza le aveva bisbigliato una dichiarazione damore in piena regola?
Ah, non solamente le risa e le beffe, ma
- pur di riuscire anche questo? - si domandava Silvia, a quelle brevi, furtive
raccomandazioni del marito, che non potevano parere a lei, comeran per lui,
innocenti. - Anche questo?
E gelava di ribrezzo e avvampava sempre
più di sdegno.
Le più strane idee le guizzavano intanto
per la mente, incutendo a lei stessa sgomento, poiché le scoprivano sempre più nel fondo
dellessere quelle parti di sé ancora inesplorate, tutto ciò che di sé ella finora
non aveva voluto conoscere, ma di cui aveva già il presentimento che, se un giorno il suo
dèmone se ne fosse impossessato, chi sa dove lavrebbe trascinata.
Finiva di scomporsi nella sua coscienza
ogni concetto che ella finora sera sforzata di tener fermo, e intravvedeva che
abbandonata a quella nuova sua sorte, o piuttosto, allestro del caso, e ormai cosí
senza più alcuna voluta consistenza interiore, lanimo suo poteva cambiarsi in un
punto, rivelarsi da un istante allaltro capace di tutto, delle più impensate,
inattese risoluzioni.
- Mi pare che... dico... mi pare che...
tutto bene, eh? benissimo, mi pare... saffrettò a dirle Giustino, quando gli
ultimi invitati se ne furono andati, per scuoterla dallatteggiamento in cui era
rimasta: rigida in piedi, con gli occhi acuti, intenti, e la bocca serrata.
Si sentiva ancora nella mano gelida la
stretta di fuoco che le aveva dato il Baldani or ora, nellaccomiatarsi.
- Tutto bene, no?... - ripeté Giustino.
- E, sai, passando di qua e di là, ho sentito che dicevano di te tante... buone, buone
cose... sí...
Silvia si scosse e lo guardò con tali
occhi, chegli restò un pezzo come smarrito, con su le labbra quel sorriso vano di
chi saccorge che uno sta a scoprirci unaltra faccia che ancora noi non ci
conosciamo.
- Non credi? - poi chiese. - Tutto bene,
ti dico... Soltanto quella musica del di Marco mi pare che... hai sentito? dotta, sí...
sarà musica dotta, ma...
- Dobbiamo seguitare cosí?- domandò
dun tratto Silvia, con voce strana, come se la voce sola fosse lí, e tutta lei
assente, in una lontananza infinita. - Ti avverto che cosí io non posso fare più nulla.
- Come... perché?... anzi, ora che... ma
come! - fece Giustino quasi a un tempo colpito da più parti alla sprovvista. - Con quello
studio lassù...
Silvia strizzò gli occhi, contrasse
tutto il volto e squassò la testa.
- Ma come? - ripeté Giustino. - Puoi
chiuderti lí... Chi ti disturba?... Con tanto silenzio... Ecco, anzi ti volevo dire...
Tutti domandano che cosa prepari di nuovo. Ho risposto: niente, per ora. Nessuno ci vuol
credere. Certo un nuovo dramma, dicono. Pagherebbero chi sa che cosa per un cenno, una
notizia, un titolo... Dovresti pensarci, ecco, rimetterti al lavoro adesso...
- Come? come? come? - gridò Silvia,
scotendo le pugna, smaniosa, esasperata. - Non posso pensare, non posso far più nulla io!
Per me, è finita! Potevo lavorare ignorata, quando non mi sapevo neanche io stessa! Ora
non posso più nulla! è finita! Non sono più quella! non mi ritrovo più in me! è
finita! è finita!
Giustino la seguí con gli occhi in
quelle smanie; poi, con una mossa del capo:
- Andiamo bene! - esclamò. - Ora che si
comincia, è finita? Ma che dici? Scusa, quando si lavora, perché si lavora? Per
raggiungere un fine, mi pare! Tu volevi lavorare e restare ignorata? Lavorare, allora,
perché? per niente?
- Per niente! per niente! per niente!-
rispose Silvia con foga. - Ecco, proprio cosí, per niente! Lavorare per lavorare, e
nientaltro! senza sapere né come né quando, di nascosto a tutti e quasi di
nascosto a me stessa!
- Ma codeste sono pazzie che ti vengono
ora! - gridò Giustino, cominciando ad alterarsi anche lui. - E allora io he ho fatto? ho
fatto male a far valere il tuo lavoro, è vero? vuoi dir questo?
Silvia con le mani di nuovo sul volto
accennò di sí, col capo, più volte.
- Ah sí? - riprese Giustino. - E allora
perché mi hai lasciato fare sinora? Me lo dici per ringraziamento, adesso che ne raccogli
il frutto a cui aspirano quanti lavorano come te: la gloria e lagiatezza? Te ne
lagni... E non è pazzia? Ma va là, cara; saranno i nervi! Del resto, scusa, che
centri tu? chi ti dice dimmischiarti in cose che non ti riguardano?
Silvia lo guardò sbalordita.
- Non mi riguardano?
- No, cara, che non ti riguardano! -
replicò subito Giustino. - Tu lavora per nulla, come prima; ritorna a lavorare come ti
pare e piace; e lascia il pensiero a me del rimanente. Eh, lo so bene... che novità!...
lo so bene che, se fosse per te.. Ma, scusa, se il sugo ce lo cavo io, con lopera
mia, tu che nhai da fare? che faccio carico a te anche di questo? Questo è affar
mio! Tu mi dài carta scritta; scrivi per niente, come vuoi; bùttala; io la prendo e te
la cambio in denari ballanti e sonanti. Me lo puoi impedire? È affar mio, e tu non
centri. Tu lavora comhai lavorato fin adesso; lavora per lavorare... ma lavora!
Perché se tu non lavori più, io... io... che faccio più io? me lo dici? Io ho perduto
limpiego, cara mia, per attendere ai tuoi lavori. Bisogna che a questo, ohé, tu ci
pensi! La responsabilità ora è mia... dico, del tuo lavoro. Abbiamo guadagnato molto, è
vero, e ancora ce ne sarà, con Lisola nuova. Ma tu vedi qua come sono
cresciute tutte le spese... Ora è un altro piede di casa. Trentamila lire si devono
ancora pagare per il villino. Potevo pagarle; ma ho pensato di tenere qualche cosa da
parte, perché tu avessi un certo respiro... Adesso ti raccoglierai. È stata una scossa
troppo forte, un cangiamento troppo repentino... Ti abituerai presto; ritroverai la
calma... Il più è fatto, cara mia. Abbiamo la casa... la ho voluta apposta cosí; ho
speso, ma... per lapparenza, sai?... tutto fa! La tua firma vale, adesso, vale
molto, per se stessa... Senza regalare niente a nessuno! Se Raceni aspetta i versi che gli
hai promessi per la sua rassegna, può star fresco! Io non glieli do. Povero Raceni,
povero Raceni, vedrai quanto frutteranno adesso quei versi... Lascia fare a me! Basta
che tu ti rimetta a scrivere... Scrivi, e non pensare a nulla. Lassù, perbacco, in quello
studio magnifico...
Silvia non vide in questo lungo discorso
di Giustino la buona intenzione di ricondurla alla calma e alla ragione, al riconoscimento
e alla gratitudine di quanto aveva fatto e voleva ancor fare per lei; vide soltanto ciò
che poteva, in quel momento desasperazione, porglielo di fronte, nemico e tiranno:
che egli cioè le faceva ora un obbligo perentorio di lavorare, avendo perduto
limpiego: lavorare per dare ancora a lui una professione, la quale adesso, oltre che
ridicola, sarebbe forse sembrata a tutti odiosa. Non voleva egli vivere sul lavoro e del
lavoro di lei, attribuendosi poi tutto il merito dei guadagni? Finché il lavoro a lei non
era costato alcuno sforzo, ella poteva anche riconoscere che il merito di quei guadagni
insperati fosse tutto o quasi tutto di lui; non più ora che egli le faceva cosí espresso
e preciso obbligo di lavorare; ora che il lavoro le costava un supplizio al solo pensiero
di doverlo affidare a lui, tutto, senza poterne disporre neanche duna minima parte a
piacer suo; tutto, tutto, perché ancora tra le beffe e ora anche con la disistima degli
altri ne facesse mercato, ecco; un capo dentrata di tutto, pur di quei poveri,
intimi e schivi versucci là... Mercato, anche a costo della dignità di lei! Lo avvertiva
egli, questo? Era mai possibile che il furore lo accecasse fino al punto da non farglielo
vedere?
Insonne tutta la notte, Silvia stette a
pensare, e a un certo punto, col favore del bujo e del silenzio, sorprese in sé, nel
fondo del suo essere, come un rimescolío strano di sentimenti chera sicura di aver
mai avuti: sentimenti remotissimi, da cui le saliva alla gola unangoscia inattesa,
quasi di nostalgia. Ecco, vedeva sorgere chiare e precise le case della sua Taranto;
vedeva entro quelle le sue buone, mansuete compaesane, le quali, use a vedersi custodite
dalluomo gelosamente e con lo scrupolo più rigoroso, perché nessun sospetto
potesse arrivar fino a loro; use a veder luomo rientrare ogni volta nella propria
casa come in un tempio da tener chiuso a tutti gli estranei e anche ai parenti che non
fossero i più intimi, si turbavano, si offendevano come per una irriverenza al loro
pudore, se luomo cominciava ad aprir quel tempio, quasi più non importandogli della
loro buona reputazione.
No no: ella non aveva mai avuto questi
sentimenti: suo padre, laggiù, era stato sempre ospitale specialmente verso
glimpiegati subalterni, forestieri: ella anzi li aveva sdegnati questi sentimenti,
sapendo che molti mormoravano su quellospitalità del padre, la quale senza dubbio
avrebbe reso difficile un matrimonio di lei con qualcuno del paese. Le pareva allora che
la donna dovesse anzi offendersi di quella gelosa cura degli uomini come duna
mancanza di stima e di fiducia.
Come mai anche ella ora si offendeva del
contrario, scopriva in sé quei sentimenti insospettati, simili in tutto a quelli delle
donne di laggiù?
La ragione le apparve chiara a un tratto.
Quasi tutte le donne di laggiù erano
sposate senzamore, per calcoli di convenienza, per prendere uno stato; ed entravan
soggette e obbedienti nella casa del marito, chera il padrone. La loro obbedienza,
la loro devozione non eran mosse da affetto, ma solo dalla stima per luomo che
lavora e che mantiene; stima che poteva reggersi solo a patto che questuomo, con la
laboriosità, se non in tutto con la buona condotta, certo a ogni modo col rigore sapesse
conservare a sé il rispetto che si deve al padrone. Ora, un uomo che allentava il rigore
fino ad aprire agli altri la propria casa, scadeva subito nella stima anche di quei
medesimi cherano ammessi, e la donna sentiva una vera e propria offesa al suo pudore
perché si vedeva scoperta in quella sua intimità senzamore, in quel suo stato di
soggezione a un uomo che non se lo meritava più per il solo fatto che permetteva una cosa
che gli altri non avrebbero mai permessa.
Ebbene, anchella aveva sposato
senzamore, mossa dalla necessità di prendere uno stato e persuasa da un sentimento
di stima e di gratitudine per colui che la toglieva in moglie senza adombrarsi di
unaltra grave colpa, che avrebbe dato ombra ai compaesani, oltre
allospitalità del padre: la sua letteratura. Ma ecco, ora egli sera messo a
far bottega di quel segreto su cui era edificata la stima, la gratitudine di lei;
sera messo a vendere e a gridare con tanto baccano la merce, perché tutti
entrassero nel vivo segreto di lei e vedessero e toccassero. Qual rispetto potevano aver
gli altri dun tal uomo? Ne ridevano tutti, ed egli non se ne curava! Quale stima
più poteva averne lei e qual gratitudine, se egli ora, invertendo le parti, la
costringeva anche al lavoro e voleva viver di esso?
Più di tutto in quel momento la
offendeva che gli altri potessero credere che ella amasse ancora un tal uomo o gli fosse
peraltro devota.
Forse credeva questo anche lui? O la
sicurezza sua riposava su la fiducia nellonestà di lei? Ah, sí; ma onesta per se
medesima; non già per lui! La sicurezza sua non poteva aver su lei altro effetto che
quello di irritarla come una sfida, e offenderla e colmarla di sdegno.
No no: cosí non poteva più seguitare a
vivere, ella: lo vedeva.
Due giorni appresso,
comera da aspettarsi dopo quella stretta di mano, tornò al villino Paolo Baldani.
Giustino Boggiòlo lo accolse a braccia
aperte.
- Disturbare, lei? Ma che dice! Onore,
piacere...
- Piano, piano... - disse sorridendo,
ponendosi un dito su le labbra, il Baldani. - La vostra signora è sù? Non vorrei farmi
sentire. Ho bisogno di voi.
- Di me? Eccomi... Che posso?... Entriamo
qua, in salotto... o se vuole, andiamo in giardino... o nel salottino qui accanto. Silvia
è sù, nel suo studio.
- Grazie, basterà qui, - disse il
Baldani, sedendo nel salotto; poi, protendendosi verso il Boggiòlo, aggiunse a bassa
voce: - Debbo essere per forza indiscreto.
- Lei? ma no... perché? anzi...
- È necessario, amico mio. Ma quando
lindiscrezione è a fin di bene, un gentiluomo non deve ritrarsene. Ecco, vi dirò.
Ho pronto uno studio esauriente su la personalità artistica di Silvia Roncella...
- Oh gra...
- Piano, aspettate! Son venuto per
rivolgervi alcune domande... dirò, intime, specialissime, a cui voi solamente siete in
grado di rispondere. Vorrei da voi, caro Boggiòlo, certi lumi... dirò fisiologici.
Giustino dal tono basso, misterioso con
cui il Baldani seguitava a parlare era quasi tirato per la punta del naso ad ascoltare a
capo chino, con gli occhi intenti c la bocca aperta.
- Fisio?
- logici. Mi spiego. La critica, amico
mio, ha oggi ben altri bisogni dindagine, che non sentiva per lo innanzi. Per
lintelligenza compiuta duna personalità è necessaria la conoscenza profonda
e precisa anche de più oscuri bisogni, dei bisogni più segreti e più riposti
dellorganismo. Sono indagini molto delicate. Un uomo, capirete, vi si sottopone
senza tanti scrupoli; ma una donna... eh, una donna... dico, una donna come la vostra
signora, intendiamoci! ne conosco tante che si sottoporrebbero a queste indagini
senzalcuno scrupolo, anche più apertamente degli uomini; per esempio... là, non
facciamo nomi! Ora, avventare un giudizio, come tanti fanno, fondato solamente su i tratti
fisionomici apparenti, è da ciarlatani. La forma dun naso, Dio mio, può benissimo
non corrispondere alla vera natura di colui che lo porta in faccia. Il nasino cosí
grazioso della vostra signora, ad esempio, ha tutti i caratteri della sensualità...
- Ah, sí? - domandò Giustino,
meravigliato.
- Sí, sí, certo, - raffermò con gran
serietà il Baldani. - Eppure, forse... Ecco, per compire il mio studio, io avrei bisogno
da voi, caro Boggiòlo, di alcune notizie... ripeto, intime, imprescindibili per la
intelligenza compiuta della personalità della Roncella. Se permettete, vi rivolgo una o
due domande, non più. Ecco, vorrei sapere se la vostra signora...
E il Baldani, accostandoglisi ancor più,
ancor più piano, con garbo e sempre serio, fece la prima domanda. Giustino, curvo con gli
occhi più che mai intenti, diventò rosso rosso, ascoltando, alla fine, ponendosi le due
mani sul petto e raddrizzandosi:
- Ah, nossignore! nossignore! - negò con
vivacità. - Questo glielo posso giurare!
- Proprio? - disse il Baldani,
scrutandolo negli occhi.
- Glielo posso giurare! - ripeté con
solennità Giustino.
- E allora, - riprese il Baldani, -
abbiate la compiacenza di dirmi, se...
E pian piano, come prima, con garbo,
sempre serio, fece la seconda domanda. Questa volta Giustino, ascoltando, aggrottò un
po le ciglia, poi espresse una gran meraviglia, domandò:
- E perché?
- Come siete ingenuo! - sorrise il
Baldani; e gli spiegò quel perché.
Giustino allora, diventando di nuovo
rosso rosso come un papavero, dapprima appuntí le labbra come se volesse soffiare, poi le
schiuse a un risolino vano e rispose, esitante:
- Questo... ecco... sí, qualche volta...
ma creda che...
- Per carità! - lo interruppe il
Baldani. - Non cè bisogno che me lo diciate. Chi può mai pensare che Silvia
Roncella... ma per carità! Basta, basta cosí. Erano questi i due punti che più mi
premeva di chiarire. Grazie di cuore, caro Boggiòlo, grazie!
Giustino, un po sconcertato ma pur
sorridente, si grattò un orecchio e domandò:
- Ma scusi, che forse
nellarticolo?...
Paolo Baldani lo interruppe, negando col
dito; poi disse:
- Prima di tutto non è un articolo; è
uno studio, vho detto. Vedrete! Le indagini restano segrete; servono a me, per farmi
lume nella critica. Poi, poi vedrete. Se voleste ora aver la bontà dannunziarmi
alla vostra signora...
- Subito! - disse Giustino. - Abbia la
pazienza dattendere un momentino...
E corse sù allo studio di Silvia, ad
annunziarglielo. Era sicurissimo daverla convinta col suo ultimo discorso, e non
saspettava perciò che ella si rifiutasse fieramente di vedere il Baldani.
- Ma perché? - le domandò, restando.
Silvia ebbe la tentazione di gettargli in
faccia la risposta vera, per scomporlo da quellatteggiamento di attonita, dolente
meraviglia; ma temette che egli le rifacesse quel gesto di filosofica noncuranza, come
allorché gli aveva rinfacciato le risa e le beffe della gente.
- Perché non voglio! - gli disse. -
Perché mi secca! Vedi che sto qui a rompermi la testa!
- Eh via, cinque minuti... - insistette
Giustino. - Ha pronto uno studio su tutta lopera tua, sai! Oggi, una critica del
Baldani, bada... è il critico di moda... critica, aspetta! come la chiamano? non so...
una critica nuova, che se ne parla tanto, adesso, cara mia! Cinque minuti... Ti studia, e
basta. Lo faccio passare?
- Bella cosa, bella cosa, - diceva, poco
dopo, Paolo Baldani lí nello studio, battendo lievemente la mano feminea sul bracciuolo
della poltrona e rimirando con occhi un po strizzati Giustino Boggiòlo.- Bella
cosa, signora, vedere un uomo cosí sollecito della vostra fama e del vostro lavoro, cosí
interamente devoto a voi. Mimmagino come ne dovete esser lieta!
- Ma sa?... perché... se io... - tentò
subito dinterloquire Giustino, temendo che Silvia non gli volesse rispondere.
Il Baldani lo fermò con la mano. Non
aveva finito.
- Permettete? - disse; e seguitò: - Lo
noto, perché tanta sollecitudine e tanta devozione debbono aver pure il loro peso nella
valutazione dellopera vostra, in quanto che, mercé di esse, voi certamente potete,
senza veruna estranea cura, abbandonarvi tutta alla divina gioja di creare.
Pareva che parlasse cosí, ora, per
ischerzo; che di quel suo parlar dipinto egli per il primo avvertisse laffettazione
e la accompagnasse con un lievissimo, appena percettibile risolino ironico, non già per
attenuarla però, ma anzi per armarla del fascino duna inquietante ambiguità. -
"Quello che ho dentro, lo so io solo" - pareva dicesse. - "Per voi, per
tutti, ho questo lusso di parole, ecco, e me ne vesto con signorile sprezzatura; ma posso
anche, alloccorrenza, buttarlo via e spogliarmene, per mostrarmi a un tratto bello e
forte nella mia nuda animalità".
Questa animalità Silvia gli scorgeva
chiaramente nel fondo degli occhi: ne aveva avuto una prova nella sfrontata dichiarazione
dellaltra sera; era certa che ne avrebbe avuto un nuovo e più sfrontato assalto, se
per poco il marito si fosse allontanato dallo scrittojo. Intanto - oh schifo! - egli
lodava e ammirava innanzi a lei Giustino, per farselo amico e, dopo averlo guardato, ecco,
rivolgeva gli occhi a lei con incredibile impudenza. Il Baldani, difatti, col suo sguardo
le diceva: "Tu non ti sogni neppure di sospettare quel che so di te..."
- Gioja di creare? - proruppe Silvia. -
Non lho mai provata. E sono proprio dolente di non poter più attendere ora, come
prima, a quelle che lei chiama cure estranee. Erano le sole tra cui mi ritrovassi; che mi
déssero qualche sicurezza. Tutta la mia sapienza era in esse! Perché io non so nulla,
proprio. Non capisco nulla, io. Se lei mi parla darte, io non capisco nulla di
nulla.
Giustino si agitò, tutto scombussolato,
su la seggiola. Il Baldani lo notò, si voltò a guardarlo, sorrise e disse:
- Ma questa è una confessione
preziosa... preziosa.
- Vuol sapere, se le serve, che cosa
stavo a fare io, - seguitò Silvia, - messa qua di proposito a scrivere? Ho contato sul
mio braccio le righette bianche e nere di questo mio abito di mezzo lutto:
centosettantatre nere e centosettantadue bianche, dal polso allattaccatura della
spalla. E cosí soltanto so che ho un braccio e questa veste. Altrimenti, non so nulla;
nulla, nulla, proprio nulla.
- E questo spiega
tutto! - esclamò allora il Baldani, come se proprio lí la aspettasse. - Tutta la vostra
arte è qui, signora mia.
- Nelle righette bianche e nere? -
domandò Silvia, fingendo quasi sgomento.
- No, - sorrise il Baldani. - Nella
vostra meravigliosa incoscienza, la quale spiega la non meno meravigliosa natività
spontanea dellopera vostra. Voi siete una vera forza della natura; dirò meglio,
siete la natura stessa che si serve dello strumento della vostra fantasia per creare opere
sopra le comuni. La vostra logica, intanto, è quella della vita, e voi non potete averne
coscienza, perché logica ingenita, logica mobile e complessa. Vedete, signora mia: gli
elementi che costituiscono il vostro spirito sono straordinariamente numerosi, e voi li
ignorate; essi si aggregano, si disgregano con una facilità, con una rapidità
prodigiosa, e questo non dipende dalla vostra volontà; essi non si lasciano fissar da voi
in alcuna forma stabile: si mantengono, dirò cosí, in uno stato di perpetua fusione,
senza mai rapprendersi; duttili, plastici, fluidi; e voi potete assumere tutte le forme
senza che lo sappiate, senza che lo vogliate per riflessione.
- Ecco! ecco! ecco! - cominciò a dire
Giustino, scattando, tutto esultante e gongolante. - Questo è! questo è! Glielo dica,
glielo ripeta, glielo faccia entrar bene in mente, caro Baldani! Lei sta facendo in questo
momento opera di vero amico. È un po confusetta, veda... un po incerta, dopo
questo trionfo.
- Ma no! - gridò Silvia su le brage,
cercando dinterromperlo.
- Sí, sí, sí! - incalzò invece
Giustino, levandosi in piedi e facendosi in mezzo, quasi per impedire che gli sfuggisse
quelloccasione propizia, ora che la teneva acciuffata. - Santo Dio, te lha
spiegato cosí bene, qua, il Baldani! È proprio cosí comha detto lei, Baldani! Non
trova, non trova largomento del nuovo dramma, e...
- Non trova? Ma se già ce lha! -
esclamò il Baldani sorridendo. - Posso permettermi un suggerimento per laffetto che
vi porto? Il dramma ce lavete già! Credono gli sciocchi (e lo van dicendo) che sia
più agevole creare fuori delle esperienze quotidiane, ponendo cose e persone in luoghi
immaginarii, in tempi indeterminati, quasi che larte abbia da impacciarsi della
cosí detta realtà comune, e non crei essa una realtà sua propria e superiore. Ma io so
le vostre forze e so che voi potete confondere questi beoti e ridurli al silenzio e
costringerli allammirazione, affrontando e dominando una materia affatto diversa da
quella de Lisola nuova. Un dramma danime, e nel mezzo nostro,
cittadino. Voi avete nel vostro volume delle Procellarie una novella, la terza, se
ben ricordo, intitolata Se non cosí... Ecco il dramma nuovo! Pensateci. Io mi
stimerò felice di avervelo additato; se potrò dire un giorno: Questo dramma ella lo ha
scritto per me; ho insinuato io nella matrice della sua fantasia, per la fecondazione,
questo nuovo germe vitale!
Si alzò; disse a Giustino quasi con
solennità:
- Lasciamola sola.
Le si fece innanzi; le prese la mano,
inchinandosi; vi depose un bacio; uscí.
Silvia, appena sola, fu assalita da
quella fiera stizza che si prova allorché, dibattuti in una tempesta da cui non
scorgevamo più né quasi più speravamo salvezza, dun tratto e con tranquillo gesto
ci vediamo offrire da chi meno avremmo voluto - ecco qua, una tavola, una fune. Vorremmo
piuttosto affogare, che servircene, per non riconoscere di dover la nostra salvezza a uno
che con tanta facilità ce lha offerta. Questa facilità, che vuol quasi dmostrarci
sciocca e vana la disperazione nostra di pocanzi, ci sembra un insulto, e vorremmo
subito dimostrare invece a nostra volta sciocco e vano lajuto cosí facilmente
offerto; ma avvertiamo intanto che, contro la nostra volontà, già ci siamo aggrappati ad
esso.
Silvia smaniava di rimettersi al lavoro,
a un lavoro che la prendesse tutta e le impedisse di vedere, di pensare a se stessa e di
sentirsi. Ma cercava e non trovava; e si struggeva nella smania, sempre più convincendosi
che veramente ormai ella non poteva più far nulla.
Ora, non volle andare a prendere dallo
scaffale il libro delle Procellarie; ma già vi era dentro con lo spirito, già si
sforzava di vedere il dramma in quella terza novella indicata dal Baldani.
Cera? Sí, cera veramente. Il
dramma duna moglie sterile. Ersilia Groa, ricca provinciale, non bella, di cuore
ardente e profondo, ma rigida e dura daspetto e di maniere, ha sposato da sei anni
Leonardo Arciani, letterato senza più voglia dopo le nozze - né di scrivere né
dattendere a libri, pur avendo destato con un suo romanzo grandi speranze e viva
attesa nel pubblico. Quegli anni di matrimonio son passati in apparenza tranquilli.
Ersilia non sa offrire da sé quel tesoro daffetti che chiude in cuore; forse teme
che esso non abbia alcun valore per il marito. Poco egli le chiede e poco ella gli dà;
gli darebbe tutto se egli volesse. Sotto quella apparente tranquillità, dunque, il vuoto.
Solo un figlio potrebbe riempirlo; ma ormai, dopo sei anni, ella dispera daverne.
Arriva un giorno al marito una lettera. Leonardo non ha segreti per lei: leggono quella
lettera insieme. È di una cugina di lui, Elena Orgera, che un tempo gli fu fidanzata: le
è morto il marito; è rimasta povera e senza assegnamenti, con un figliuolo che vorrebbe
fosse ammesso in un collegio di orfani; gli chiede un soccorso. Leonardo se ne sdegna; ma
Ersilia stessa lo persuade a mandare quel soccorso. Ivi a poco, improvvisamente, egli
ritorna al lavoro. Ersilia non ha mai veduto lavorare il marito; ignara affatto di
lettere, non sa spiegarsi quel nuovo improvviso fervore; vede chegli deperisce di
giorno in giorno); teme che si ammali; vorrebbe almeno che non si affannasse tanto. Ma
egli le dice che lestro gli si è ridestato, che ella non può comprendere che sia.
E cosí, per circa un anno, riesce a ingannarla. Quando Ersilia alla fine scopre il
tradimento, il marito ha già una bambina da Elena Orgera. Duplice tradimento: ed Ersilia
non sa se più le sanguini il cuore per il marito che colei le ha tolto o per la figlia
che ha potuto dargli. Veramente la coscienza ha curiosi pudori: Leonardo Arciani strappa
il cuore alla moglie, le ruba lamore, la pace: si fa scrupolo del denaro. Eh! col
denaro della moglie, no, da galantuomo non vuol mantenere un nido fuori della casa. Ma gli
scarsi e incerti proventi del suo lavoro affannato non possono bastare a sopperire ai
bisogni, che presto cominciano a riempir di spine quel nido. Ersilia, appena scoperto il
tradimento, sè chiusa in sé ermeticamente, senza lasciar trapelare al marito né
lo sdegno né il cordoglio: ha solo preteso che egli seguitasse a vivere in casa, per non
dare scandalo; ma separato affatto da lei. E non gli rivolge più né uno sguardo né una
parola. Leonardo, oppresso da un peso che non può sopportare, resta profondamente
ammirato del dignitoso, austero contegno della moglie, la quale forse comprende che, oltre
e sopra ogni suo diritto, cè per lui ormai un dovere più imperioso: quello verso
la figlia. Sí, difatti, Ersilia comprende questo dovere: lo comprende perché sa quel che
le manca; lo comprende tanto che, se egli ora, stremato e avvilito comè, ritornasse
a lei, abbandonando con lamante la figlia, ella ne avrebbe orrore. Di questo tacito
sublime compatimento di lei egli ha una prova nel silenzio, nella pace, in tante cure
pudicamente dissimulate che ritrova in casa. E lammirazione diviene a mano a mano
gratitudine; la gratitudine, amore. Lí, in quel nido di spine, egli non va più, ora, che
per la figlia. Ed Ersilia lo sa. Che aspetta? Lo ignora ella stessa; e intanto si nutre in
segreto dellamore che già sente nato in lui. Sopravviene, a rompere questo stato di
cose, il padre di lei, Guglielmo Groa, grosso mercante di campagna, ruvido, inculto, ma
pieno darguto buon senso.
Ecco, il dramma poteva aver principio
qui, con larrivo del padre. Ersilia, che da tre anni non rivolge la parola al
marito, si reca a trovarlo nella sede dun giornale quotidiano, dovegli è
sopportato come redattore artistico, per prevenirlo che il padre, a cui ella ha tutto
nascosto, è già in sospetto e verrà quella mattina stessa a provocare una spiegazione.
Vuole che gli sappia fingere per risparmiare almeno al padre quel cordoglio. È una scusa;
teme in realtà che il padre, per venire a una soluzione impossibile, infranga
irrimediabilmente quel tacito accordo di sentimenti chella ha penato tanto a
stabilire tra lei e il marito, e che le è cagione dineffabile spasimo segreto e
insieme dineffabile segreta dolcezza. Ersilia non trova il marito nella redazione
del giornale e gli lascia un biglietto, promettendo che ritornerà presto per ajutarlo a
fingere, quando il padre, che si è recato ad assistere a una seduta mattutina della
Camera, verrà lí per parlargli. Leonardo trova il biglietto della moglie e sa
dallusciere che è venuta pocanzi a cercar di lui anche unaltra signora.
È la Orgera, da cui egli non è più andato da una settimana, sentendosi spiato dagli
occhi sospettosi del suocero. Ella ritorna difatti poco dopo, in quel momento cosí poco
opportuno, e invano Leonardo le spiega perché non è venuto e in prova le dà a leggere
quel biglietto della moglie. Ella deride labnegazione di Ersilia, che vuol
risparmiare noje e amarezze al marito, mentre lei... eh, lei rappresenta il bisogno, la
crudezza duna realtà non più sostenibile: i fornitori che vogliono esser pagati,
il padrone di casa che minaccia lo sfratto. Meglio finirla! Già tutto è finito tra loro.
Egli ama la moglie, quella sublime silenziosa: ebbene, ritorni a lei, e basta cosí!
Leonardo le risponde che se potesse la soluzione esser cosí semplice, già da un pezzo
egli ci sarebbe venuto; ma purtroppo non può esser quella la soluzione, legati come sono
luno allaltra; e dunque, via, se ne vada per ora; le promette che verrà a
trovarla appena potrà. In mal punto per Leonardo, cosí amareggiato, sopravviene il
suocero prima del tempo, seccato delle chiacchiere parlamentari. Guglielmo Groa non sa
daver di fronte nel genero un altro padre che al par di lui deve difendere la
propria figlia; crede a un traviamento del genero, riparabile con un po di tatto e
di denaro, e gli profferisce ajuto e lo invita a confidarsi a lui. Leonardo è stanco di
mentire; confessa la sua colpa, ma dice che ne ha già avuto la punizione più grave che
potesse aspettarsene, e rifiuta come inutile lajuto del suocero e anche di ragionare
con lui. Il Groa crede che la punizione di cui parla Leonardo sia quel lavoro a cui
sè condannato, e lo rimbrotta aspramente. Quando Ersilia, troppo tardi,
sopraggiunge, il padre e il marito stan quasi per venire alle mani. Vedendo Ersilia,
Leonardo, sovreccitato, fremente, saffretta a raccogliere le carte dalla scrivania e
scappa; il Groa allora fa per lanciarglisi addosso, ruggendo: "Ah, non vuoi
ragionare?", ma Ersilia lo arresta col grido: "Ha la figlia, babbo ha la figlia!
Come vuoi che ragioni?".
Con questo grido poteva esser chiuso il
primo atto. A principio del secondo, una scena tra il padre e la figlia. Tutte due hanno
atteso invano, la notte, che Leonardo rincasasse. Ora Ersilia svela al padre tutto il suo
martirio, e come fu ingannata, e come e perché sera acconciata in silenzio a quella
pena. Ella quasi difende il marito, perché - messo tra lei e la figlia - è corso da
questa. Dove sono i figli è la casa! Il padre se ne indigna; si ribella; vuole subito
ripartirsene; e, come Leonardo sopravviene per poco, a prendersi i libri e le carte, gli
va innanzi e gli dice che rimanga pur lí; andrà via lui, or ora. Leonardo resta
perplesso, non sapendo come interpretare quellimprovviso invito del suocero a
rimanere. Ma ecco Ersilia. Ella entra per dirgli che non parte da lei quellinvito e
che anzi egli, se vuole, può andare. E allora Leonardo piange e dice alla moglie il suo
tormento e il pentimento e lammirazione per lei e la gratitudine. Ersilia gli
domanda perché soffre, se ha con sé la figlia; e Leonardo le risponde che quella donna
gliela vorrebbe togliere, perché egli non basta a mantenerla e perché non vuol più
vederlo in quelle smanie. "Ah, sí?" grida Ersilia. "Questo vorrebbe? E
allora...". Il suo piano è fatto. Ella comprende che non può riavere il marito se
non cosí, cioè a patto davere insieme la figlia Non gliene dice nulla; e, poiché
egli chiede il perdono, glielo accorda, ma nello stesso tempo si svincola dalle braccia di
lui e lo costringe ad andar via: "No, no", gli dice. "Ora tu non puoi più
rimanere qui! Due case, no; qua io e là tua figlia, no! Va va: so quello che
tu desideri: va!". E lo manda via a forza, e subito comegli esce, scoppia
in un pianto di gioja.
Il terzo atto doveva svolgersi nel nido
di spine, in casa di Elena Orgera. Leonardo è venuto a trovar la bambina, ma si è
dimenticato di portarle un regaluccio che le aveva promesso. La bambina, Dinuccia, ha
pianto molto aspettandolo; ora si è addormentata di là. Leonardo dice che tornerà
presto col giocattolo e va via. La bimba, che ha ormai cinque anni, si sveglia; viene in
iscena, domanda del babbo e vuole che la mamma le parli del regalo chegli le
porterà: una campagna con tanti alberetti e le pecorelle e il cane e il pastore. Si sente
sonare alla porta. (Eccolo!) dice la madre. E la bimba vuole andar lei ad aprire. Si
ripresenta poco dopo su la soglia, tutta confusa, con una signora velata. È Ersilia
Arciani, che ha veduto andar via dalla casa il marito e non sospetta chegli debba
tra poco ritornare. Sospetta Elena, invece, una congiura tra la moglie e il marito per
portarle via la figlia; e grida, minaccia di chiamar ajuto, inveisce, smania. Invano
Ersilia tenta di calmarla, di dimostrarle che il suo sospetto è infondato, chella
non vuole né può farle alcuna violenza; che è venuta a parlare al suo cuore di madre,
per il bene della sua bambina, la quale sarebbe adottata, uscirebbe dallombra della
colpa, sarebbe ricca e felice; invano poi le grida chella non ha il diritto di
pretendere chegli abbandoni la figlia, se lei non vuol cederla. Luscio di casa
è rimasto aperto per la confusione della bambina nel vedersi innanzi quella signora
invece del babbo; e Leonardo, entrando in quel punto, si trova in mezzo alla contesa delle
due donne, stupito di veder lí la moglie. La bambina ode la voce del padre e picchia
alluscio della camera ove Elena è corsa a rinchiuderla appena Ersilia Arciani sè
svelata. Ora ella apre di furia quelluscio, si toglie in braccio la piccina e grida
ai due dandar via, subito, via! A questo scatto, Leonardo, percosso, si rivolge alla
moglie e la spinge ad abbandonare quellimpresa disumana e a ritrarsi. Ersilia se ne
va. E allora nellanimo di Elena, che ha veduto in sua presenza scacciata la moglie,
segue allorgasmo la confusione, lo smarrimento, e vorrebbe che Leonardo subito
corresse a raggiunger la moglie e andasse via per sempre con lei. Ma Leonardo, al colmo
dellesasperazione, le grida: "No!" e si prende tra le gambe la piccina e
le dà il regaluccio e comincia a disporre, nella scatola, la cascina, gli alberetti, le
pecorelle, il pastore, il cane, tra le risa, i gridi di gioja, le liete domande infantili
di Dinuccia. Elena, ascoltando quelle domande della bimba e le rispose del padre
angosciato, ripensa a tutto ciò che le ha detto colei che se nè andata, su
lavvenire della sua piccina, e tra le lagrime comincia a rivolgere a Leonardo, tutto
intento alla gioja della figliuola, qualche domanda: "Diceva, ladozione... ma
è possibile?" e Leonardo non le risponde e seguita a parlare delle pecorelle e del
cane con la bambina. Ivi a poco, unaltra domanda di Elena, o una considerazione
amara su lei o su Dinuccia, se mai ella... Leonardo non ne può più; balza in piedi;
prende in braccio la figlia e le grida: "Me la dài?" ("No! no! no!"
risponde a precipizio Elena, strappandogliela e cadendo in ginocchio innanzi alla piccina
abbracciata: "Non è possibile, no! ora non posso, ora non posso! Vattene! vattene!
Poi... chi sa! se ne avrò la forza, per lei! Ma ora vattene! vattene! vattene!".
Ecco, sí, poteva esser questo il dramma.
Ella lo vedeva chiaro innanzi a sé, tutto, fin nei particolari dellarchitettura
scenica. Ma che lo dovesse al suggerimento del Baldani, la irritava. E non si sentiva
attratta da esso minimamente.
Non aveva mai lavorato cosí, volendo e
costruendo la sua opera. Lopera, appena intuita, sera sempre voluta invece lei
stessa prepotentemente, senza che ella provocasse nel suo spirito alcun movimento atto a
effettuarla. Ogni opera in lei sera sempre mossa da sé, perché da sé soltanto
sera voluta; ed ella non aveva mai fatto altro che obbedire docile e con amor
seguace a questa volontà di vita, a ogni suo spontaneo movimento interiore. Or che la
voleva lei e doveva darle lei il movimento, non sapeva più come cominciare, da che parte
rifarsi. Si sentiva arida e vuota, e in quellaridità e in quel vuoto smaniava.
La vista di Giustino, il quale non osava
chiederle notizia del lavoro, a cui fingeva di saperla ritornata, e faceva di tutto
perché ella credesse che di questo egli fosse certo, appartandola, imponendo a Èmere
silenzio, allontanando da lei ogni cura della casa, le suscitava ogni volta tale stizza,
che sarebbe trascesa in escandescenze, se la nausea di altre più volgari da parte di lui
non lavesse trattenuta. Avrebbe voluto gridargli:
- Smettila! Rispàrmiati codeste
finzioni! Io non fo nulla, e tu lo sai! Non posso e non so più far nulla, cosí, già te
lho detto! Èmere può anche fischiare, in maniche di camicia, lavorando, e
rovesciar seggiole e romperti tutti codesti famosi mobili del Ducrot: io ne godrei tanto,
caro mio! Mi metterei io a romper tutto, tutto, tutto qua dentro, e anche le mura se
potessi!
Quel che aveva avvertito tanti e tanti
anni fa, a Taranto, per una causa molto minore, allorché il padre aveva voluto mandare a
stampa le prime sue novelle, che cioè il pensiero della lode, con cui queste erano state
accolte, sera interposto tra lei e le nuove cose che avrebbe voluto descrivere e
rappresentare, turbandola cosí che per circa un anno non aveva potuto più toccar la
penna, avvertiva adesso, la stessa confusione, la stessa ambascia, la stessa
costernazione, ma centuplicate. Anziché infiammarla, il recente trionfo la assiderava;
anziché sollevarla, la schiacciava, la annientava. E se cercava di riscaldarsi, sentiva
subito che il calore che si dava era artificiale; e se cercava di rilevarsi da
quellavvilimento, da quella prostrazione, sentiva nello sforzo irrigidirsi,
vanamente impettita. Quasi inevitabilmente quel trionfo la induceva a strafare. E ora, per
non strafare, ecco leccesso opposto: larido stento, la rigida nudità
scheletrica.
Cosí, come uno scheletro,
nellarido stento di quel lavoro forzato, le veniva fuori penosamente il nuovo
dramma, rigido, nudo.
- Ma no, perché? Ma se va benissimo! -
le disse il Baldani, quandella, per far tacere il marito, gli lesse il primo atto e
parte del secondo. - E del carattere di questa vostra stupenda creatura, di Ersilia
Arciani, tanta sostenutezza austera, questa che a voi sembra rigidità. Va benissimo, vi
assicuro. Lanima e i modi di Ersilia Arciani, debbono governare cosí tutta
lopera, per necessità. Seguitate, seguitate.
Daltra guida,
daltro consiglio, in difetto dellestro, Silvia sentiva bisogno in quel
momento.
Era stata notata da tutti lassenza
di Maurizio Gueli, la sera dellinaugurazione. Molti, e certo non senza malignità,
avevano domandato quella sera a Giustino:
- E il Gueli? non viene?
E Giustino di rimando:
- Ma è a Roma? Mi hanno detto che è in
villa, a Monteporzio.
Anche da Silvia, specialmente alcune
signore, cosí senza parere, avevano voluto notizie del Gueli. Silvia sapeva che, o per
gelosia o per invidia o, a ogni modo, per ferirla, donne e letterati si sarebbero messi o
prima o poi a malignar su lei.
Il marito stesso, del resto, era il primo
a dare, senza bisogno, pretesto e materia alla malignità. E con un siffatto marito ella
stessa ormai riconosceva che sarebbe stato quasi impossibile rimanere insospettata. Il suo
stesso amor proprio, irresistibilmente, lavrebbe tratta per tanti segni a far
nascere sospetti, perché ella non poteva sottostare più, innanzi agli occhi di tutti, al
ridicolo di cui egli la copriva, fingendo di non accorgersene ancora. Doveva per forza, in
qualche modo, dimostrare di provarne o dolore e dispetto, e forse avrebbe fatto peggio,
perché si sarebbe troppo avvilita e tutti allora ne avrebbero approfittato per
addolorarla e indispettirla ancor più; o lo stesso piacere degli altri, e allora, se da
un canto si sarebbe in parte salvata dallavvilimento, non poteva più lei stessa
dallaltro pretendere che si francasse dai più tristi giudizii della gente. Può,
impune, una donna deridere apertamente il proprio marito? Né ella, del resto, con
intenzione o per finzione avrebbe saputo farlo. Ma temeva lo facesse, contro la sua
volontà, per irresistibile reazione, il suo stesso amor proprio. Ed ecco inevitabili i
sospetti e le malignità. No no, davvero, ella non poteva più in alcun modo durare,
schietta e onesta, in quelle condizioni.
Fu lieta dellassenza del Gueli, la
sera dellinaugurazione. Lieta, non tanto perché veniva meno una ragione di
malignare più forte delle altre, essendo già nota a tutti la simpatia del Gueli per lei,
quanto perché, dopo quella lettera chegli le aveva inviato a Cargiore, non lo
avrebbe ella stessa veduto volentieri. Non ne sapeva ancor bene il perché. Ma il pensiero
che la simpatia del Gueli, ben nota a lei anche per via segreta e per una ragione di cui
in principio sera sdegnata, désse pretesto a malignità, la feriva molto più che
ognaltro sospetto che potesse sorgere o per il Betti o per il Luna o per il Baldani,
per chiunque altro.
Ella non avrebbe mai, con nessuno,
ingannato il marito. Per quanto si fosse franta al tumulto di tanti nuovi pensieri e
sentimenti la compagine della sua prima coscienza, per quanto lira, il dispetto, che
la condotta del marito le suscitava, potessero incitarla a vendicarsi, questo credeva
ancora di poter sicuramente affermare a se stessa: che nessuna passione, nessun impeto di
ribellione la avrebbero mai travolta fino al punto di venir meno al suo debito di lealtà.
Se domani non avesse più saputo resistere a convivere in quelle condizioni col marito;
se, non pure indifesa, ma quasi indotta e spinta, col cuore ormai non solamente vuoto
daffetto per lui, ma anche repugnante ed affogato di nausea e di tristezza, si fosse
sentita avviluppare e trascinare da qualche disperata passione, ella no, non avrebbe
ingannato a tradimento, mai. Lo avrebbe detto al marito, e a qualunque costo avrebbe
salvato la sua lealtà.
Purtroppo nulla più in quella casa aveva
potere di trattenerla con la voce degli antichi ricordi. Quella era per lei una casa quasi
estranea, da cui le poteva esser facile andar via; le destava attorno di continuo
limmagine duna vita falsa artificiale, vacua, insulsa, alla quale, non
persuasa più da alcun affetto, non riusciva ad accostumarsi, e che anzi lobbligo
ormai imprescindibile del suo lavoro le rendeva odiosa. E neppure da quel lavoro forzato
le era concesso di trar la soddisfazione chesso, se non a lei, serviva almeno a far
piacere a un altro che gliene restasse grato. Grata doveva restar lei, per giunta, al
marito che la trattava come il villano tratta il bue che tira laratro, come il
cocchiere tratta la cavalla che tira la vettura, che luno e laltro si prendono
il merito della buona aratura e della bella corsa e vogliono esser poi ringraziati del
fieno e della stalla.
Ora, della simpatia più o meno sincera
che le dimostravano i Baldani, i Luna, adesso anche il Betti, tutti quei giovani letterati
e giornalisti chiomati e vestiti di soperchio, ella poteva non fare alcun caso né
apprensionirsi affatto; paura aveva invece di quella del Gueli, che come lei sapeva
avviluppato da una miseria tragica e ridicola a un tempo, che gli toglieva il respiro
(cosí le aveva scritto); paura aveva del Gueli, perché più dogni altro poteva
leggerle in cuore; perché della presenza e del consiglio di lui ella in quel momento
infastidita, urtata dalla frigida e spavalda saccenteria del Baldani, sentiva cosí acuto
e urgente bisogno.
Chiusa lí nello studio, si sorprendeva
con gli occhi attoniti e lo spirito sospeso, tutta intenta a seguir pensieri, da cui si
riscoteva con orrore.
Erano quei pensieri come una scala
agevole, per cui ella - ecco - poteva scendere anche alla sua perdizione; erano una
sequela di scuse per tranquillare la coscienza antica, per mascherar laspetto odioso
di unazione che quella coscienza antica le rappresentava ancora come una colpa, e
attenuar la condanna della gente.
La serietà austera, letà del
Gueli non farebbero sospettare chella per basso pervertimento cercasse in lui
lamante, anziché una guida degna e quasi paterna, un nobile compagno ideale. E
parimenti forse il Gueli in lei soltanto e per lei troverebbe la forza di rompere il
tristo legame con quella donna che da tanti anni lo opprimeva.
E il figlio?
Per un momento, questo nome, gittandosi
attraverso quel torbido immaginare, lo disperdeva. Ma subito lidea del figlio le
richiamava con angoscia alla memoria un ordine di vita una castità di cure,
unintimità santa, che altri e non lei aveva voluto violentemente spezzare.
Se ella avesse potuto aggrapparsi al
figlio che le era stato strappato e non pensare né attender più a nulla, avrebbe trovato
certamente nel suo bambino la forza di chiudersi tutta nellufficio della maternità
e di non esser più altro che madre, la forza di resistere a ogni tentazione darte
per non dar più pretesto al marito doffenderla e di ridurla alla disperazione con
quel furor di guadagni e quello spettacolo di bravure.
A un solo patto avrebbe potuto seguitare
a convivere col marito, cioè a patto di rinunziare allarte. Ma poteva più ora? Non
poteva più. Egli ormai non aveva altro impiego che quello dagente del suo lavoro,
ed ella doveva lavorare per forza e non poteva più, cosí: né esser madre né lavorare
poteva più. Doveva per forza? E allora, via, via di là! via da lui. Gli avrebbe lasciato
la casa e tutto. Cosí non poteva più reggere. Ma che sarebbe avvenuto di lei?
A questa domanda, tutto lo spirito le si
scombujava e le si arretrava con orrore. Ma qual gioja poteva darle il riconoscere di non
aver fatto altro che immaginare? Poco dopo, ricadeva in quelle torbide immaginazioni, e,
purtroppo, con minor rimorso per la stolida petulanza del marito che seguitava a
importunarla quanto più la vedeva disviata dal lavoro e smaniosa.
Per questo, quando alla fine Maurizio
Gueli, inatteso, allimprovviso, si presentò nel villino con uno strano aspetto
risoluto, con insoliti modi, e la guardò negli occhi e con evidente sdegno accolse tutti
glinchini e le cerimonie e le feste di Giustino, ella si vide a un tratto perduta.
Per fortuna, sentendo il marito sfogarsi col Gueli senza nulla comprendere, a un certo
punto ebbe cosí viva e forte limpressione desser cacciata quasi a urtoni e a
percosse e tirata per i capelli a commettere una follia, ebbe tanta vergogna del suo stato
e tale onta ne provò, che poté avere contro il Gueli uno scatto di fierezza, allorché
questi, prendendo ardire dallaspetto scombujato di lei, si rivoltò aspramente
contro il marito e per poco non lo trattò in sua presenza da volgare sfruttatore.
Allo scatto impreveduto, il Gueli restò
come percosso in capo.
- Comprendo... comprendo... comprendo...
- disse, chiudendo gli occhi, con un tono e unaria di cosí intensa profonda
disperata amarezza, che apparve subito chiaro agli occhi di Silvia che cosa egli avesse
compreso senza né sdegno né offesa.
E se ne andò.
Giustino, stordito e stizzito da un
canto, mortificato dallaltro per il modo comil Gueli era andato via, non
volendo dire né in sua difesa né contro quello, pensò bene di togliersi di perplessità
rimproverando alla moglie la violenza con cui... - ma potè appena accennare il
rimprovero: Silvia gli si fece innanzi, a petto, tutta vibrante e stravolta, gridando:
- Va via! taci! O mi butto dalla
finestra!
Comando e minaccia furon cosí fieri e
perentorii, laspetto e la voce cosí alterati, che Giustino sinsaccò nelle
spalle e uscí cucciolo cucciolo dallo studio.
Gli parve che la moglie volesse
impazzire. O che le era accaduto? Non la riconosceva più! - Mi butto dalla finestra...
taci!... va via!- Non si era mai permessa di parlargli cosí... Eh, le donne! A
far troppo per loro... Ecco qua, che ansa aveva preso! Va via! taci!...-
Come se non fosse a quel posto per lui! Se non era pazzia, qualcosaltro era, peggio,
peggio dellingratitudine...
Col naso stretto e arricciato, Giustino,
ferito nel cuore, stentava a dirlo a se stesso che cosa gli pareva che fosse. Ma sí, via,
ma sí! gli voleva far pesare ingenerosamente, adesso, la necessità del suo lavoro,
quando per lei - egli - senza mai lamentarsi, senza darsi requie un momento, sera
dato tanto da fare; e per lei, per potere attendere e dedicarsi tutto a lei, aveva
rinunziato finanche allimpiego, senza esitare! Ecco qua: non pensava più di dover
tutto a lui, lo vedeva senza impiego e in attesa del suo lavoro e ne profittava per
trattarlo come un servo: - Va via! taci!...
Ah, un annetto... no, che diceva un
annetto? - un mesetto, un mesetto solo senza di lui avrebbe voluto vederla, con un dramma
da far rappresentare o con un contratto da stabilire con qualche editore! Si sarebbe
accorta bene allora, se aveva bisogno di lui...
Ma no, via! non era possibile che non
riconoscesse questo... Altro doveva esserci! Quel mutamento, da che era ritornata da
Cargiore; quella scontentezza; quelle smanie; quelle bizze; tutta quellacerbità per
lui... O che forse sul serio supponeva che egli con la Barmis...?
Giustino stirò il collo avanti e
contrasse in giù gli angoli della bocca, a esprimere nello stupore quel dubbio, e aprí
le braccia e seguitò a pensare.
Il fatto era che, appena ritornata da
Cargiore, con la scusa daver trovato quelle due maledette camere gemelle volute
dalla Barmis, ella, come se avesse sospettato fosse pensiero suo e di questa tenerla
separata di letto, quasi quasi non voleva più sapere di lui. Forse lorgoglio non le
lasciava manifestare apertamente questo sentimento di rancore e di gelosia, e si sfogava a
quel modo...
Ma santo Dio, santo Dio, santo Dio, come
supporlo capace duna cosa simile? Se qualche volta, a tavola, aveva mostrato
dispiacere dellallontanamento cosí brusco della Barmis, questo dispiacere - avrebbe
dovuto capirlo - non era se non per la mancanza di tutti quei saggi consigli e utili
ammaestramenti che una donna di tanto gusto e di tanta esperienza avrebbe potuto dare a
lei. Perché capiva che cosí testardamente chiusa in sé, cosí sola, senzamicizie
ella non poteva stare. Di lavorare non le andava; la casa non le piaceva; di lui forse
sospettava indegnamente; non voleva veder nessuno, né uscire per distrarsi un pochino...
Che vita era quella? Laltro giorno, allarrivo duna lettera da Cargiore,
in cui la nonna parlava con tanta tenerezza del nipotino, era scoppiata in un pianto, in
un pianto...
Per parecchi giorni Giustino, tenendo il
broncio alla moglie, ruminò se non fosse il caso di far venire a Roma il bambino con la
bàlia. Era anche per lui una crudeltà tenerlo cosí lontano; non per il bambino
veramente, che in migliori mani non poteva essere affidato. Pensò che il bimbo certo
riempirebbe subito il vuoto chella sentiva in quella casa e anche nellanimo in
quel momento. Ma aveva anche da pensare a tantaltre cose lui, a tantaltre
necessità impellenti, a tanti impegni contratti in vista dei nuovi lavori a cui ella
avrebbe dovuto attendere. Ora, se stentava tanto a lavorare cosí con le mani libere,
figurarsi col bambino lí, che la assorbirebbe tutta nelle cure materne...
Dun tratto, una notizia lungamente
attesa venne a distrar Giustino da questo e da ogni altro pensiero. A Parigi lIsola
nuova, già tradotta dal Deriches, sarebbe andata in iscena su i primi dellentrante
mese. A Parigi! a Parigi! Egli doveva partire.
Ripreso dalla frenesia del lavoro
preparatorio, armato di quel telegramma del Deriches che lo chiamava a Parigi, si mise in
giro dalla redazione di un giornale allaltra. E ogni mattina, su la scrivania, nello
studio, e a mezzogiorno, a tavola, nella sala da pranzo, e la sera, sul tavolino da notte,
in camera, faceva trovare a Silvia tre o quattro giornali alla volta, non solamente di
Roma, ma anche di Milano e di Torino e di Napoli e di Firenze e di Bologna, ove quelle
prossime rappresentazioni parigine erano annunziate come un nuovo e grande avvenimento,
una nuova consacrazione trionfale dellarte italiana.
Silvia fingeva di non accorgersene. Ma
egli non dubitò minimamente, che questo suo nuovo lavoro preparatorio avesse fatto su lei
un grandissimo effetto, allorché, una di quelle notti, sentí che la moglie nella camera
accanto si levava allimprovviso dal letto e si rivestiva per andare a chiudersi
nello studio. Dapprima, per dir la verità, se ne apprensioní; ma poi, spiando per il
buco della serratura e accorgendosi chella era seduta alla scrivania
nellatteggiamento che soleva prendere ogni qual volta si metteva a scrivere
ispirata, per miracolo cosí in camicia comera, al bujo, e coi piedi scalzi non si
diede a trar salti da montone per la contentezza. Eccola lí! eccola lí! era tornata al
lavoro! come prima! al lavoro! al lavoro!
E non dormí neanche lui tutta quella
notte, in febbrile attesa; e, come fu giorno corse con le mani avanti incontro a Èmere
per impedirgli che facesse il minimo rumore, e subito lo mandò in cucina a ordinare alla
cuoca che preparasse il caffè e la colazione per la signora, subito! Appena preparati:
- Ps! Senti... Bussa, ma pian piano, e
domanda se vuole... piano però, eh? piano, mi raccomando!
Èmere tornò poco dopo, col vassojo in
mano, a dire che la signora non voleva nulla.
- E va bene! zitto... lascia... La
signora lavora... zitti tutti!
Si costernò un poco quando, anche a
mezzogiorno, Èmere, mandato con le stesse raccomandazioni ad annunziare chera in
tavola, tornò a dire che la signora non voleva nulla.
- Che fa? scrive?
- Scrive, sissignore.
- E come tha detto?
- Non voglio nulla, via!
- E scrive sempre?
- Scrive, sissignore.
- Va bene, va bene; lasciamola
scrivere... zitti tutti!
- Si porta in tavola intanto per il
signore? - domandò Èmere sottovoce.
Giustino, levato dalla notte, aveva
veramente appetito; ma sedere a tavola lui solo, mentre la moglie di là lavorava digiuna,
non gli parve ben fatto. Si struggeva di sapere a che cosa lavorasse con tanto fervore. Al
dramma? Al dramma, certamente. Ma voleva finirlo cosí tutto dun fiato? aspettar di
mangiare, che lo avesse finito? Unaltra pazzia, questa...
Verso le tre del pomeriggio Silvia,
disfatta, vacillante, uscí dallo studio e andò a buttarsi sul letto, al bujo. Subito
Giustino corse alla scrivania, a vedere: restò disingannato: vi trovò una novella, una
lunga novella. Su lultimo foglio, sotto la firma, era scritto: Per il senatore
Borghi. Senzalcun piacere si mise a leggerla; ma dopo le prime righe cominciò a
interessarsi... Oh guarda! Cargiore... don Buti col suo cannocchiale... il signor
Martino... la storia della mamma... il suicidio di quel fratellino del Prever... Una
novella strana, fantastica, piena damarezza e di dolcezza insieme, nella quale
palpitavano tutte le impressioni chella aveva avuto durante
quellindimenticabile soggiorno lassù. Aveva dovuto averne allimprovviso,
nella notte la visione...
Via, pazienza, se non era il dramma!
Qualche cosa era, intanto. E ora a lui! Le avrebbe fatto vedere che cosa saprebbe fare
anche con quel poco che gli dava in mano. Per lo meno cinquecento lire doveva pagar quella
novella il signor senatore: cinquecento lire, subito, o niente.
E andò la sera dal Borghi, alla
redazione della Vita Italiana.
Forse Maurizio Gueli era stato là da
poco e aveva detto male di lui a Romualdo Borghi. Ma della schifiltosa freddezza con cui
questi lo accolse, Giustino non si curò, anzi gli piacque, perché cosí, sottratto
allobbligo dogni riguardo per lantica riconoscenza, poté dal canto suo
con altrettanta freddezza dir chiari i patti e le condizioni. E lasciò che il Borghi
pensasse di lui quel che gli pareva, premendogli soltanto di far vedere alla moglie tutto
quel di più chella doveva unicamente a lui.
Pochi giorni dopo la pubblicazione di
quella novella su la Vita Italiana, Silvia ricevette dal Gueli un biglietto di
fervida ammirazione e di cordiale compiacimento.
Vittoria! vittoria! vittoria! Appena
scorso quel biglietto Giustino, frenetico di gioja, corse a prendere il cappello e i
bastone:
- Vado a ringraziarlo a casa! Vedi?
sinvita da sé.
Silvia gli si parò davanti.
- Dove? quando? - gli domandò fremente.
- Qua non fa altro che congratularsi. Ti proibisco di...
- Ma santo Dio! - la interruppe egli. -
Ci vuol tanto a comprendere? Dopo la partaccia che gli hai fatta, ti scrive in questo
modo... Lasciami fare, cara mia! lasciami fare! Io ho belle capito che quel Baldani
ti dà nel naso; lho belle capito, sai? e vedi che non lho fatto più
venire. Ma il Gueli è unaltra cosa! Il Gueli è un maestro, un maestro vero! Gli
leggerai il dramma; seguirai i suoi consigli; vi chiuderete qua; lavorerete insieme...
Domani io devo partire; lasciami partir tranquillo! La novella, va bene; ma a me preme il
dramma, cara mia! in questo momento ci vuole il dramma, il dramma, il dramma! Lascia fare
a me, ti prego!
E scappò via, alla casa del Gueli.
Silvia non cercò più di trattenerlo.
Contrasse il volto in una smorfia di nausea e dodio, torcendosi le mani.
Ah, il dramma voleva? Ebbene: dopo tanta
commedia, avrebbe avuto il dramma.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 01 September, 1998