Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO QUINTO
LA SCIMMIA SULLELEFANTE
Limmagine della
scimmia su lelefante sorse spontanea nelle redazioni dei giornali di Roma alla
notizia dei rinnovati trionfi de Lisola nuova nelle altre città; seppure non
fu portata da qualche giornalista di Milano o di Bologna o di Torino che riferiva
limpressione che avevano avuto tutti in quelle città alla vista di
quellometto che si dava laria di guidare il colossale successo di quel dramma
della moglie.
Non si poteva negare che, senza di lui, Lisola
nuova forse non sarebbe neanche andata in iscena, né per conseguenza passata, come
ora passava, di trionfo in trionfo per tutte le città dItalia. Ma, se poteva essere
in certo qual modo scusabile, pur saltando agli occhi goffamente, tutto quel gran da fare
chegli sera dato finché la fama della moglie era ancora modesta, ora che il
trionfo era venuto, non poteva non parere ridicolissimo il veder lui solo in giro con
esso, tutto faccente messa da parte la moglie, come se veramente non centrasse per
nulla: quella moglie che pochissimi avevano appena intravveduta, di cui nessuno quasi
aveva notizia: chi fosse, co . . . . . .
[A questo punto sarresta il testo rielaborato dellA. Diamo da qui innanzi il testo della prima edizione riprendendo la narrazione dalla fine della scena tra Giustino e la Barmis, con la quale terminava non il Cap. IV ("Dopo il Trionfo"), ma il terzo dei quattro capitoletti in cui esso era suddiviso. Il seguente è dunque lultimo di questi capitoletti. (S. P.)]
Dovera?
Sí, dirimpetto, oltre il prato, di là
dal sentiero, sorgeva nello spiazzo erboso la chiesa antica, dedicata alla Vergine sidera
scandenti, col lungo campanile dalla cuspide ottagonale e le finestre bifore e
lorologio che recava una leggenda assai strana per una chiesa: OGNVNO A SVO MODO; e
accanto alla chiesa era la bianca cura con lorto solingo, e più là, recinto da
muri, il piccolo cimitero.
Allalba la voce delle campane su
quelle povere tombe.
Ma forse la voce, no: il cupo ronzo che
si propaga quando han finito di sonare, penetra in quelle tombe e desta un fremito nei
morti, dangoscioso desiderio.
Oh donne dei casali sparsi, lasciate,
donne di Villareto e di Galleana, donne di Rufinera e di Pian del Viermo, donne di Brando
e di Fornello, lasciate che a questa messa dellalba vadano per una volta tanto esse
sole le vostre antiche nonne divote, dal cimitero; e officii il loro vecchio curato da
tantanni anchesso sepolto, il quale forse, appena finita la messa, prima
dandare a riporsi sotterra, sindugerà a spiare attraverso il cancelletto
lorto solingo della Cura, per vedere se al nuovo curato esso sta tanto a cuore
quanto stette a lui.
No, ecco... Dovera? dovera?
Sapeva ormai tanti luoghi e il loro nome;
luoghi anche lontani da Cargiore. Era stata su Roccia Corba; sul colle di Bràida, a veder
tutta la Valsusa immensa. Sapeva che il viale, qua, oltre la chiesa, scende tra i castagni
e i cerri a Giaveno, overa anche stata, attraversando giù quella curiosa Via della
Buffa, larga, a bastorovescio, tutta sonora dacque scorrenti nel mezzo. Sapeva
chera la voce del Sangone quella che sudiva sempre, e più la notte, e le
impediva il sonno tra tante smanie con limmagine di tanta acqua in corsa perenne,
senza requie. Sapeva che più sù, per la vallata dellIndritto, si precipita
fragoroso il Sangonetto: era stata in mezzo al fragore, tra le rocce, e aveva visto gran
parte delle acque devolvere incanalata nei lavori di presa: lí, romorosa, libera,
vorticosa, spumante, sfrenata; qui, placida pei canali, domata, assoggettata
allindustria delluomo.
Aveva visitato tutte le frazioni di
Cargiore, quei ceppi di case sparse tra i castagni e gli ontani e i pioppi e ne sapeva il
nome. Sapeva che quella a levante, lontana lontana, alta sul colle, era la Sacra di
Superga. Sapeva i nomi dei monti attorno, già coperti di neve: Monte Luzera e Monte Uja e
la Costa del Pagliajo e il Cugno dellAlpet, Monte Brunello e Roccia Vrè. Quello di
fronte, a mezzodí, era il monte Bocciarda; quello di là, il Rubinett.
Sapeva tutto; la avevano già informata
di tutto la mamma (madama Velia, come lí la chiamavano) e la Graziella e quel caro
signor Martino Prever, il pretendente. Sí, di tutto. Ma ella... dovera?
dovera?
Si sentiva gli occhi pieni di uno
splendor vago, innaturale; aveva negli orecchi come una perenne onda musicale, chera
a un tempo voce e lume, in cui lanima si cullava serena, con una levità prodigiosa,
ma a patto che non fosse tanto indiscreta da volere intendere quella voce e fissar quel
lume.
Era veramente cosí pieno di fremiti,
come a lei pareva, il silenzio di quelle verdi alture? trapunto, quasi pinzato a tratti da
zighi lunghi, esilissimi, da acuti fili di suono, da fritinníi? Era quel fremito perenne
il riso dei tanti rivoli scorrenti per borri, per zane, per botri scoscesi e cupi
allombra di bassi ontani; rivoli che saffrettano, in cascatelle garrule
spumose, dopo avere irrigato un prato, benedetti, a far del bene altrove, a un altro campo
che li aspetta, dove par che tutte le foglie li chiamino, ballando festose?
No, no, attorno a tutto - luoghi e cose e
persone - ella vedeva soffusa come una vaporosa aria di sogno, per cui anche gli aspetti
più vicini le sembravan lontani e quasi irreali.
Certe volte, è vero, quellaria di
sogno le si squarciava dun tratto, e allora certi aspetti pareva le si avventassero
agli occhi diversi, nella loro nuda realtà. Turbata, urtata da quella dura fredda
impassibile stupidità inanimata, che la assaltava con precisa violenza, chiudeva gli
occhi e si premeva forte le mani su le tempie. Era davvero cosí quella tal cosa? No, non
era forse neanche cosí! Forse, chi sa come la vedevano gli altri... se pur la vedevano! E
quellaria di sogno le si ricomponeva.
Una sera, la mamma sera ritirata
nella sua cameretta, perché le faceva male il capo. Ella era entrata con Graziella a
sentir come stésse. Nella cameretta linda e modesta ardeva solo un lampadino votivo su
una mensola innanzi a un antico crocefisso davorio; ma il plenilunio la inalbava
tutta, dolcemente. Graziella, appena entrata, sera messa a guardar dietro i vetri
della finestra i prati verdi inondati di lume, e a un tratto aveva sospirato:
- Che luna, madama! Dio, par che faccia
giorno di nuovo.
La mamma allora aveva voluto chella
aprisse la mezza imposta.
Ah che solennità dattonito
incanto! In qual sogno erano assorti quegli alti pioppi sorgenti dai prati, che la luna
inondava di limpido silenzio? E a Silvia era parso che quel silenzio si raffondasse nel
tempo, e aveva pensato a notti assai remote, vegliate come questa dalla Luna, e tutta
quella pace attorno aveva allora acquistato agli occhi suoi un senso arcano. Da lungi,
continuo, profondo, come un cupo ammonimento, il borboglío del Sangone, ne la valle. Là
presso, di tratto in tratto, un curioso stridore.
- Che stride cosí, Graziella? - aveva
domandato la mamma.
E Graziella, affacciata alla finestra,
nellaria chiara, aveva risposto lietamente:
- Un contadino. Falcia il suo fieno,
sotto la luna. Sta a raffilare la falce.
Donde aveva parlato Graziella? A Silvia
era parso chella avesse parlato dalla Luna.
Poco dopo, da un lontano ceppo di case
sera levato un canto dolcissimo di donne. E Graziella, parlando ancor quasi dalla
Luna, aveva annunziato:
- Cantano a Rufinera...
Non una parola aveva potuto ella
proferire.
Dacché sera mossa da Roma e, con
quel viaggio, tante e tante immagini nuove le avevano invaso in tumulto lo spirito, da cui
già appena appena si diradavano le tenebre della morte, ella notava in sé con sgomento
un distacco irreparabile da tutta la sua prima vita. Non poteva più parlare né comunicar
con gli altri, con tutti quelli che volevano seguitare ad aver con lei le relazioni solite
finora. Le sentiva spezzate irrimediabilmente da quel distacco. Sentiva che ormai ella non
apparteneva più a se stessa.
Quel che doveva avvenire, era avvenuto.
Forse perché lassù, dove lavevano
portata, le eran mancate attorno quelle umili cose consuete, alle quali ella prima si
aggrappava, nelle quali soleva trovar rifugio?
Sera trovata come sperduta lassù,
e il suo dèmone ne aveva profittato. Le veniva da lui quella specie debbrezza
sonora n cui vaneggiava, accesa e stupita, poiché le trasformava con quei vapori di sogno
tutte le cose.
E lui, lui faceva sí che di tratto in
tratto la stupidità di esse le savventasse agli occhi, squarciando quei vapori.
Era un dispetto atroce. Specialmente di
tutte quelle cose chella aveva voluto e avrebbe ancora voluto aver più care e
sacre, esso si divertiva ad avventarle agli occhi la stupidità e non rispettava neppure
il suo bambino, la sua maternità! Le suggeriva che stupidi luna e laltro non
sarebbero più stati solo a patto chella, mercé lui, ne facesse una bella
creazione. E che cosí era di quelle cose, come di tutte le altre. E che soltanto per
creare ella era nata, e non già per produrre materialmente stupide cose, né per
impacciarsi e perdersi tra esse.
Là, nella vallata dellIndritto,
che cera? Lacqua incanalata, saggia, buona massaja, e lacqua libera,
fragorosa, spumante. Ella doveva esser questa, e non già quella.
Ecco: sonava lora... Come diceva
lorologio del campanile? OGNVNO A SVO MODO.
Verrà tra poco, senza fin, la neve,
e case e prati, tutto sarà bianco,
il tetto, il campanil di quella pieve,
donde ora, allalba, qual dal chiuso un branco
di pecorelle, escono per due porte
le borghigiane, ed hanno il damo a fianco.
Hanno pensato allanima, alla morte
(qua presso è il cimiter pieno di croci),
le riprende or la vita, e parlan forte
liete di riudir le loro voci
nellaria nuova del festivo giorno,
tra i rivoli che corrono veloci,
tra i prato che verdeggiano dintorno.
Ecco ecco, cosí! A
SUO MODO. Ma no! Ma che! Ella finora non aveva mai scritto un verso! Non sapeva neppure
come si facesse a scriverne... - Come? Oh bella! Ma cosí, come aveva fatto! Cosí come
cantavano dentro... Non i versi, le cose.
Veramente le cantavano dentro tutte le
cose, e tutte le si trasfiguravano, le si rivelavano in nuovi improvvisi aspetti
fantastici. Ed ella godeva duna gioja quasi divina.
Quelle nuvole e quei monti... Spesso i
monti parevano nuvoloni lontani impietrati, e le nuvole montagne daria nere grevi
cupe. Avevano le nuvole verso quei monti un gran da fare! Ora tonando e lampeggiando li
assalivano con furibondi impeti di rabbia; ora languide, morbide si sdrajavano su i loro
fianchi e li avvolgevano carezzose. Ma né di quelle furie né di questi languori pareva
che essi si curassero levati, con le azzurre fronti al cielo, assorti nel mistero dei più
remoti evi racchiuso in loro. Femmine, e nuvole! I monti amavano la neve.
E quel prato lassù, di quella stagione,
coperto di margherite? Sera sognato? O aveva voluto la terra fare uno scherzo al
cielo, imbiancando di fiori quel lembo, prima che esso di neve? No, no: in certi profondi,
umidi recessi del bosco ancora spuntavano fiori; e di tanta vita recondita ella aveva
provato quasi uno strano stupor religioso... Ah, luomo che prende tutto alla terra e
tutto crede sia fatto per lui! Anche quella vita? No. Lí, ecco, era signore assoluto un
grosso calabrone ronzante, che sarrestava a bere con vorace violenza nei teneri e
delicati calici dei fiori, che si piegavano sotto di lui. E la brutalità di quella bestia
bruna, rombante, vellutata e striata doro offendeva come alcunché dosceno, e faceva
quasi dispetto la sommissione con cui quelle campanule tremule gracili subivan
loltraggio di essa e restavano poi a tentennar lievi un tratto sul gambo, dopo che
quella, sazia e ingorda tuttavia, se nera oziando allontanata.
Di ritorno alla quieta casetta, soffriva
di non poter più essere o almeno apparire a quella cara vecchina della suocera
qualera prima. In verità, forse perché non era mai riuscita a tenersi, a comporsi,
a fissarsi in un solido e stabile concetto di sé, ella aveva sempre avvertito con viva
inquietudine la straordinaria disordinata mobilità del suo essere interiore, e spesso con
una meraviglia subito cancellata in sé come una vergogna, aveva sorpreso tanti moti
incoscienti, spontanei cosí del suo spirito, come del suo corpo, strani, curiosissimi,
quasi di guizzante bestiola incorreggibile; sempre aveva avuto una certa paura di sé e
insieme una certa curiosità quasi nata dal sospetto non ci fosse in lei anche
unestranea che potesse far cose chella non sapeva e non voleva, smorfie, atti
anche illeciti, e altre pensarne, che non stavano proprio né in cielo né in terra; ma
sí! cose orride, talvolta, addirittura incredibili, che la riempivano di stupore e di
raccapriccio. Lei! lei cosí desiderosa di non prender mai troppo posto e di non farsi
notare, anche per non avere il fastidio di molti occhi addosso! Temeva ora che la suocera
non le scorgesse negli occhi quel riso che si sentiva fremere dentro ogni qualvolta nella
saletta da pranzo trovava aggrondato e con le ciglia irsute, gonfio di cupa ferocia quel
bravo, innocuo signor Martino Prever, geloso come un tigre dello zio Ippolito, il quale,
seguitando quietamente a lisciarsi anche lí il fiocco del berretto da bersagliere e a
fumar da mane a sera la lunghissima pipa, si divertiva un mondo a farlo arrabbiare.
Era anche lui, monsù Prever, un
bel vecchione con una barba anche più lunga di quella dello zio Ippolito, ma incolta e
arruffata, con un pajo docchi ceruli chiari da fanciullo, non ostante la ferma
intenzione di farli apparire spesso feroci. Portava sempre in capo un berretto bianco di
tela, con una larga visiera di cuojo. Molto ricco, cercava soltanto la compagnia della
gente più umile, e la beneficava nascostamente; aveva anche edificato e dotato un asilo
dinfanzia. Possedeva a Cargiore un bel villino, e su la vetta del Colle di Bràida
in Valgioje una grande villa solitaria, donde si scopriva tra i castagni i faggi e le
betulle tutta lampia, magnifica Valsusa, azzurra di vapori. In compenso dei tanti
beneficii ricevuti, il paesello di Cargiore non laveva rieletto sindaco; e forse
perciò egli schivava la compagnia delle poche persone cosí dette per bene. Tuttavia, non
abbandonava mai il paese, neppure dinverno.
La ragione cera, e la sapevano
tutti lí a Cargiore: quel persistente cocciuto amore per madama Velia Boggiòlo.
Non poteva stare, povero monsù Martino, non poteva vivere senza vederla, quella
sua madamina. Tutti a Cargiore conoscevano madama Velia, e però nessuno malignava,
anche sapendo che monsù Martino passava quasi tutto il giorno in casa di lei.
Egli avrebbe voluto sposarla; non voleva
lei; e non voleva perché... oh Dio, perché sarebbe stato ormai inutile, alletà
loro. Sposare per ridere? Non stava egli là, a casa sua, tutto il giorno da padrone? E
dunque! Poteva ormai bastargli... La ricchezza? Ma era noto a tutti che, essendo il Prever
senza parenti né prossimi né lontani, tutto il suo, tranne forse qualche piccolo legato
ai servi, sarebbe andato un giorno, lo stesso, a madama Velia, se fosse morta dopo
di lui.
Era una specie di fascino,
unattrazione misteriosa che monsù Martino aveva sentito tardi verso quella
donnetta, che pure era stata sempre cosí quieta, umile, timida, al suo posto. Tardi lui,
il signor Martino; ma un suo fratello, invece, troppo presto e con tanta violenza che, un
giorno, sapendo chella era già fidanzata, zitto zitto, povero ragazzo, sera
ucciso.
Eran passati più di quarantanni, e
ancora nel cuore di madama Velia ne durava, se non il rimorso, uno sbigottimento
doloroso; e anche perciò, forse, pur sentendosi qualche volta imbarazzata - ecco - non
diceva proprio infastidita dalla continua presenza del Prever in casa, la sopportava con
rassegnazione. Graziella anzi aveva detto a Silvia in un orecchio che madama la sopportava
per timore che anche lui, monsù Martino - se ella niente niente si fosse provata
ad allontanarlo un po - non facesse, Dio liberi, come quel suo fratellino. Ma sí,
ma sí, perché... - rideva? oh non cera mica da ridere: un filettino di pazzia
dovevano proprio averlo quei Prever là, lo dicevano tutti a Cargiore, un filettino di
pazzia. Bisognava sentire come parlava solo, forte, per ore e ore, Monsù forse lo
zio, il signor Ippolito, ecco, avrebbe fatto bene a non insister tanto su quello scherzo
di volerla sposar lui Madama. E Graziella aveva consigliato a Silvia dindurre
lo zio a dar la baja invece a don Buti, il curato, che veniva qualche volta in casa anche
lui.
- Ecco, a chiel là sí a chiel là!
Ah, quel Don Buti, che disillusione! In
quella bianca canonica, con quellorto accanto, Silvia sera immaginato un ben
altro uomo di Dio. Vi aveva trovato invece un lungo prete magro e curvo, tutto aguzzo, nel
naso, negli zigomi, nel mento, e con un pajo docchietti tondi, sempre fissi e
spaventati. Disillusione, da un canto; ma, dallaltro, che gusto aveva provato nel
sentir parlare quel bravuomo dei prodigi dun suo vecchio cannocchiale
adoperato come strumento efficacissimo di religione e però sacro a lui quasi quanto il
calice dellaltar maggiore.
Gli uomini, pensava Don Buti, sono
peccatori perché vedon bene e belle grandi le cose vicine, quelle della terra; le cose
del cielo, a cui dovrebbero pensare sopra tutto, le stelle, le vedono male, invece, e
piccoline, perché Dio le volle mettere troppo alte e lontane. La gente ignorante le
guarda, e sí, a dis magara cha son bele; ma cosí piccoline come pajono, non
le calcola, non le sa calcolare, ed ecco che tanta parte della potenza di Dio resta loro
sconosciuta. Bisogna far vedere agli ignoranti che la vera grandezza è lassù. Onde, il canucial.
E nelle belle serate don Buti lo armava
sul sagrato, quel suo cannocchiale, e chiamava attorno ad esso tutti i suoi parrocchiani
che scendevano anche da Rufinera e da Pian del Viermo le giovani cantando, i vecchi
appoggiati al bastone, i bimbi trascinati dalle mamme, a vedere le "gran
montagne" della Luna. Che risate ne facevan le rane in fondo ai botri! E pareva che
anche le stelle avessero guizzi dilarità in cielo. Allungando, accorciando lo
strumento per adattarlo alla vista di chi si chinava a guardare, don Buti regolava il
turno, e si udivano da lontano, tra la confusione, i suoi strilli:
- Con un euj soul! con un euj soul!
Ma sí! specialmente le donne e i ragazzi
aprivano tanto di bocca e storcevano in mille smorfie le labbra per riuscire a tener
chiuso locchio manco e aperto il diritto, e sbuffavano e appannavan la lente del
cannocchiale, mentre don Buti, credendo che già stessero a guardare, scoteva in aria le
mani col pollice e lindice congiunti ed esclamava:
- La gran potensa d Nosgnour,
eh? la gran potensa d Nosgnour!
Che scenette gustose quando veniva a
parlarne con lo zio Ippolito e con monsù Martino in quel caro tepido nido tra i
monti, pieno di quel sicuro conforto familiare che spirava da tutti gli oggetti ormai
quasi animati dagli antichi ricordi della casa, santificati dalle sante oneste cure
amorose; che scenette specialmente nei giorni che pioveva e non si poteva andar fuori
neanche un momento!
Ma proprio in quei giorni, appena Silvia
cominciava a riassaporar la pace della vita domestica, ecco sopravvenire il procaccia
carico di posta per lei, e ventate di gloria irrompevano allora là dentro a investirla, a
sconvolgerla tutta, da quei fasci di giornali che il marito le spediva da questa e da
quella città.
Trionfava da per tutto Lisola
nuova. E la trionfatrice, la acclamata da tutte le folle, ecco, era là, in quella
casettina ignorata, perduta in quel verde pianoro su le Prealpi.
Era lei, davvero? o non piuttosto un
momento di lei, che era stato? Un subitaneo lume nello spirito e, nello sprazzo, là, una
visione, di cui poi ella stessa provava stupore...
Davvero non sapeva più lei stessa, ora,
come e perché le fosse venuto in mente quel fatto, quellisola, con quei marinaj...
Ah che ridere! Non lo sapeva lei; ma lo sapevano bene, benissimo lo sapevano tutti i
critici drammatici e non drammatici di tutti i giornali quotidiani e non quotidiani
dItalia. Quante ne dicevano! Quante cose scoprivano in quel suo dramma, a cui ella
non si era mai neppur sognata di pensare! Oh, ma cose tutte, badiamo, che le recavano un
gran piacere, perché erano la ragione appunto delle maggiori lodi; lodi che, in verità,
più che a lei, che quelle cose non aveva mai pensate, andavano diritte diritte ai signori
critici che ve le avevano scoperte. Ma forse, chi sa! cerano veramente, se quelli
cosí in prima ve le scoprivano...
Giustino nelle sue lettere frettolose si
lasciava intravveder tra le righe soddisfatto, anzi contentissimo. Si rappresentava, è
vero, come rapito in un turbine, e non rifiniva di lamentarsi della stanchezza estrema e
delle lotte che doveva sostenere con gli amministratori delle compagnie e con
glimpresarii, delle arrabbiature che si prendeva coi comici e coi giornalisti; ma
poi parlava di teatroni rigurgitanti di spettatori, di penali a cui i capocomici si
sobbarcavano volentieri pur di trattenersi ancora per qualche settimana oltre i limiti dei
contratti in questa e in quella "piazza" a soddisfar la richiesta di nuove
repliche da parte del pubblico, che non si stancava di accorrere e di acclamare in
delirio.
Leggendo quei giornali e quelle lettere,
da cui le vampava innanzi agli occhi la visione affascinante di quei teatri, di tanta e
tanta moltitudine che la acclamava, che acclamava lei, lei lautrice - Silvia si
sentiva risollevare da quellémpito tutto pungente di brividi già avvertito nella
sala daspetto della stazione di Roma, allorché per la prima volta sera
trovata di fronte al suo trionfo, impreparata, prostrata, smarrita.
Risollevata da quellémpito, e
tutta accesa ora e vibrante, domandava a se stessa perché non doveva esser là, lei, dove
la acclamavano con tanto calore, anziché qua, nascosta, appartata, messa da canto, come
se non fosse lei!
Ma sí, se non lo diceva chiaramente, lo
lasciava pure intender bene Giustino, che lei lí non centrava, che tutto doveva far
lui, lí, lui che sapeva ormai a meraviglia come si dovesse fare ogni cosa.
Eh già, lui... Se lo immaginava, lo
vedeva or faccente, accaldato, or su le furie, ora esultante tra i comici, tra i
giornalisti; e un senso le si destava, non dinvidia, né di gelosia, ma piuttosto di
smanioso fastidio, unirritazione ancora non ben definita, tra dangustia, di
pena e di dispetto.
Che doveva pensar mai di lei e di lui
tutta quella gente? di lui in ispecie, nel vederlo cosí? ma anche di lei? che forse era
una stupida? Stupida, no, se aveva potuto scrivere quel dramma... Ma, via, una che non
sapeva forse né muoversi né parlare; impresentabile?
Sí, era vero: senza di lui Lisola
nuova forse non sarebbe neanche andata in iscena. Egli aveva pensato a tutto; e di
tutto ella doveva essergli grata. Ma ecco, se stava bene o poteva almeno non saltar tanto
agli occhi tutto quel gran da fare chegli sera dato finché il nome di lei era
ancor modesto, modesta la fama, e lei poteva starsene in ombra, chiusa, in disparte ora
che il trionfo era venuto a coronare tutto quel suo fervido impegno, che figura ci faceva
lui, lui solo là, in mezzo ad esso? Poteva più ella starsene cosí in disparte, ora, e
lasciar lí lui solo, esposto, come lartefice di tutto, senza che il ridicolo
investisse e coprisse insieme lui e lei? Ora che il trionfo era venuto, ora che egli alla
fine - lei reluttante - era riuscito nel suo intento, a sospingerla, a lanciarla verso la
luce abbagliante della gloria, ella - per forza - sí, anche contro voglia e facendosi
violenza, doveva apparire, mostrarsi, farsi avanti; e lui - per forza - ritirarsi, ora,
non esser più cosí faccente, cosí accanito, sempre in mezzo: tutto lui!
La prima impressione del ridicolo, di cui
già agli occhi suoi cominciava a vestirsi il marito, Silvia laveva avuta da una
lettera della Barmis, nella quale si parlava del Gueli e della visita inconsulta che
Giustino era andato a fargli per averne la prefazione al volume dellIsola nuova.
Nelle sue lettere Giustino non gliene aveva mai fatto alcun cenno. Alcune frasi della
Barmis sul Gueli, non chiare, sinuose, la avevano spinta a strappare quella lettera con
schifo.
Pochi giorni dopo, le pervenne del Gueli
appunto una lettera, anchessa non ben chiara, che le accrebbe il malumore e il
turbamento. Il Gueli si scusava con lei di non poter fare la prefazione alla stampa del
dramma, con certi vaghi accenni a segrete ragioni che gli avevano impedito la prima sera
di assistere allintera rappresentazione di esso; parlava anche di certe miserie
(senza dir quali) tragiche e ridicole a un tempo, che avviluppan le anime e sbarrano la
via, quando non tolgano anche il respiro; e terminava con la preghiera che ella (se voleva
rispondergli) anziché a casa indirizzasse la risposta presso gli ufficii di redazione
della Vita Italiana, ovegli di tanto in tanto si recava a parlar di lei col
Borghi.
Silvia lacerò con dispetto anche questa
lettera. Quella preghiera in coda la offese. Ma già tutta la lettera le parve
unoffesa. La miseria tragica e ridicola a un tempo, di cui egli le parlava, non
doveva esser altro per lui che la Frezzi; ma egli ne parlava a lei come di cosa che ella
dovesse intendere e conoscer bene per propria esperienza. Ne resultava chiarissima,
insomma, unallusione al marito. E di tale allusione Silvia si offese tanto più, in
quanto che già veramente cominciava a scorgere il ridicolo del marito.
Linverno intanto sera
inoltrato, orribile su quelle alture. Piogge continue e vento e neve e nebbia, nebbia che
soffocava. Se ella non avesse avuto in sé tante ragioni di smania e di oppressione, quel
tempo gliele avrebbe date. Sarebbe scappata via, sola, a raggiungere il marito, se il
pensiero di lasciare il bambino prima del tempo non lavesse trattenuta.
Aveva per quella sua creaturina momenti
di tenerezza angosciosa, sentendo di non poter essere per lei una mamma quale avrebbe
voluto. E anche di questangoscia, che il pensiero del figlio le cagionava, incolpava
con rancor sordo il marito che con quel suo testardo furore laveva tantoltre
spinta e disviata dai raccolti affetti, dalle modeste cure.
Ah forse egli se lera già
belle tracciato il suo piano: farla scrivere, là, come una macchina; e perché la
macchina non avesse intoppi, via il figlio, isolarla; poi badare a tutto lui, fuori,
gestir lui quella nuova grande azienda letteraria. Ah, no! ah no! Se lei non doveva esser
più neanche madre...
Ma forse era ingiusta. Il marito nelle
ultime lettere le parlava della nuova casa che, tra poco, in primavera, avrebbero avuto a
Roma, e le diceva di prepararsi a uscir finalmente dal guscio, intendendo che il suo
salotto fosse domani il ritrovo del fior fiore dellarte, delle lettere, del
giornalismo. Anche questaltra idea però, di dover rappresentare una parte, la parte
della "gran donna" in mezzo alla insulsa vanità di tanti letterati e
giornalisti e signore cosí dette intellettuali, la sconcertava, le dava uggia e nausea in
quei momenti.
Forse meglio, forse meglio rimaner lí
nascosta, in quel nido tra i monti, accanto a quella cara vecchina e al suo bambino, lí
tra il signor Prever e lo zio Ippolito, il quale anche lui diceva di non volere andar via
mai più, mai più di lí, mai più e strizzava un occhio furbescamente ammiccando a chièl,
a monsù Martino, che si rodeva dentro nel sentirgli dir cosí.
Ah povero zio!... Mai più, mai più
davvero, povero zio! Davvero lui doveva rimanere per sempre lí a Cargiore!
Una sera, mentre si affannava a gridare
contro a Giustino, di cui pocanzi era arrivata una lettera, nella quale annunziava
che, messo alle strette, sera licenziato dallimpiego; e a gridar contro il
signor Prever, il quale misteriosamente si ostinava a dire che alla fin fine non sarebbe
stato un gran danno, perché... perché... un giorno... chi sa! (alludeva senza dubbio
alle sue disposizioni testamentarie) - tutta un tratto, aveva stravolto gli occhi, lo zio
Ippolito, e storto la bocca come per uno sbadiglio mancato; un gran sussulto delle spalle
poderose e del capo gli aveva fatto saltar su la faccia il fiocco del berretto da
bersagliere; poi giù il capo sul petto, e lestremo abbandono di tutte le membra.
Fulminato!
Quanto tempo, quante pene perdute invano
dal signor Prever per andare a scovar con quel tempaccio il medico condotto il quale alla
fine venne a dire tutto affannato quel che già si sapeva; e dalla povera Graziella per
condurre il curato con lolio santo!
"Piano! piano! Non gli guastate
cosí la bella barba!" avrebbe voluto ella dire a tutti, scostandoli, per starselo a
mirare ancora per poco lí sul letto, il suo povero zio, immobile e severo, con le braccia
in croce.
" - Che fa, signor Ippolito?"
" - Il giardiniere..."
E, mirandolo, non riusciva a levarsi
dagli occhi quel fiocco del berretto che nellorrendo sussulto gli era saltato su la
faccia, povero zio! povero zio! Tutta una pazzia per lui e quellimpegno testardo di
Giustino e la letteratura, i libri, il teatro. .. Ah sí; ma pazzia forsanche tutta
quanta la vita, ogni affanno, ogni cura, povero zio!
Voleva restar lí? Ed ecco, ci restava.
Lí, nel piccolo cimitero, presso la bianca cura. Il suo rivale, il signor Prever che non
sapeva consolarsi daver provato tanta stizza per la venuta di lui, ecco, gli dava
ricetto nella sua gentilizia, chera la più bella del cimitero di Cargiore...
I giorni che seguirono
quellimprovvisa morte dello zio Ippolito furono pieni per Silvia duna dura,
ottusa, orrida tetraggine, in cui più che mai le si rappresentò cruda la stupidità di
tutte le cose e della vita.
Giustino seguitò a mandarle, prima da
Genova, poi da Milano, poi da Venezia, fasci e fasci di giornali e lettere. Ella non li
aprí, non li toccò nemmeno.
La violenza di quella morte aveva
spezzato il lieve superficiale accordo di sentimenti tra lei e le persone e anche le cose
che la circondavano lí; accordo che si sarebbe potuto mantenere e per breve tempo, solo a
patto che nulla di grave e dinatteso fosse venuto a scoprir linterno degli
animi e la diversità degli affetti e delle nature.
Scomparso cosí dun tratto dal suo
lato colui che la confortava con la sua presenza, colui che aveva nelle vene il Suo stesso
sangue e rappresentava la sua famiglia, si sentí sola e come in esilio in quella casa, in
quei luoghi, se non proprio tra nemici, fra estranei che non potevano comprenderla, né
direttamente partecipare al suo dolore, e che, col modo onde la guardavano e seguivan
taciti e come in attesa tutti i suoi movimenti e gli atti con cui esprimeva il suo
cordoglio, le facevano intendere ancor più e quasi vedere e toccare la sua solitudine,
inasprendogliene di mano in mano la sensazione. Si vide esclusa da tutte le parti: la
suocera e la bàlia, poiché il suo bambino doveva rimaner lí affidato alle loro cure, la
escludevano già fin dora dalla sua maternità; il marito, correndo di città in
città, di teatro in teatro, la escludeva dal suo trionfo; e tutti cosí le strappavano le
cose sue più preziose e nessuno si curava di lei, lasciata lí in quel vuoto, sola. Che
doveva far lei? Non aveva più nessuno della sua famiglia, morto il padre, morto ora anche
lo zio; fuori e tanto lontana dal suo paese; distolta da tutte le sue abitudini; sbalzata
lanciata in una via che rifuggiva dal percorrere cosí, non col suo passo, liberamente, ma
quasi per violenza altrui, sospinta dietro da un altro... E la suocera forse la accusava
entro di sé daver fuorviato lei il marito, davergli riempito lanimo di
fumo e acceso la testa fino al punto da fargli perdere limpiego. Ma sí! ma sí!
aveva già scorto chiaramente questaccusa in qualche obliqua occhiata di lei, colta
allimprovviso. Quegli occhietti vivi nel pallore del volto, che si volgevano sempre
altrove, quasi a sperdere lacume degli sguardi, dimostravano bene una certa
sbigottita diffidenza di lei, un rammarico che si voleva celare, pieno dansie e di
timori per il figliuolo.
Lo sdegno per questa ingiustizia però,
anziché contro quella vecchina ignara, si ritorceva nel cuore di Silvia contro il marito
lontano. Era egli cagione di quella ingiustizia, egli, accecato cosí dal suo furore, che
non vedeva più né il male che faceva a lei, né quello che faceva a se stesso. Bisognava
arrestarlo, gridargli che la smettesse. Ma come? era possibile ora che tantoltre
erano spinte le cose, ora che quel dramma, composto in silenzio, nellombra e nel
segreto, aveva suscitato tanto fragore e acceso tanta luce attorno al suo nome? Come
poteva giudicare ella, da quel cantuccio, senzaver veduto ancor nulla, che cosa
avrebbe dovuto o potuto fare? Avvertiva confusamente che non poteva e non doveva essere
più qualera stata finora; che doveva buttar via per sempre quel che dangusto
e di primitivo aveva voluto serbare alla sua esistenza, e dar campo invece e abbandonarsi
a quella segreta potenza che aveva in sé e che finora non aveva voluto conoscer bene.
Solo a pensarci, se ne sentiva turbare, rimescolar tutta dal profondo. E questo le si
affermava preciso innanzi agli occhi: che, cangiata lei, non poteva più il marito
restarle davanti, tra i piedi, cosí a cavallo della sua fama e con la tromba in bocca.
In che strani atteggiamenti da pazzi si
storcevano i tronchi ischeletriti degli alberi affondati giù nelle neve, con viluppi,
stracci, sbréndoli di nebbia impigliati tra glispidi rami! Guardandoli dalla
finestra, ella si passava macchinalmente la mano su la fronte e su gli occhi, quasi per
levarseli, quegli sbréndoli di nebbia, anche dai pensieri ispidi, atteggiati
pazzescamente, come quegli alberi là, nel gelo della sua anima. Fissava su lumida
imporrita ringhiera di legno del ballatojo le gocce di pioggia in fila, pendule, lucenti
su lo sfondo plumbeo del cielo. Veniva un soffio daria; urtava quelle gocce
abbrividenti; luna traboccava nellaltra, e tutte insieme in un rivoletto
scorrevano giù per la bacchetta della ringhiera. Tra una bacchetta e laltra ella
allungava lo sguardo fino alla cura che sorgeva là dirimpetto, accanto alla chiesa;
vedeva le cinque finestre verdi che guardavan lorto solingo sotto la neve, guarnite
di certe tendine, che col loro candore dicevano dessere state lavate e stirate
insieme coi mensali degli altari. Che dolcezza di pace in quella bianca cura! Lí presso,
il cimitero...
Silvia salzava allimprovviso,
savvolgeva lo scialle attorno al capo e usciva fuori, su la neve, diretta al
cimitero, per fare una visita allo zio. Dura e fredda come la morte era la tetraggine del
suo spirito.
Cominciò a rompersi questa tetraggine
col sopravvenire della primavera, allorché la suocera, che la aveva tanto pregata di non
andar tutti i giorni con quella neve, con quel vento, con quella pioggia al cimitero, si
mise invece a pregarla, or che venivano le belle giornate, ad andar con la bàlia e col
piccino giù per la via di Giaveno, al sole.
Ed ella prese ad uscire col bambino.
Mandava innanzi per quella via la bàlia, dicendole che la aspettasse al primo
tabernacolo; ed entrava nel cimitero per la visita consueta allo zio.
Una mattina, lí davanti al primo
tabernacolo, trovò con la bàlia, impostato dietro una macchina fotografica, un giovane
giornalista venuto sù da Torino proprio per lei, o, comegli disse, "alla
scoperta di Silvia Roncella e del suo romitorio".
Quanto la fece parlare e ridere quel
grazioso matto, che volle saper tutto e veder tutto e tutto fotografare e sopra tutto lei
in tutti gli atteggiamenti, con la bàlia e senza bàlia, col bambino e senza bambino,
dichiarandosi felice addirittura di aver scoperto una miniera, una miniera affatto
inesplorata, una miniera vergine, una miniera doro.
Quandegli andò via, Silvia restò
a lungo stupita di se stessa. Anche lei, anche lei si era scoperta unaltra, or ora,
di fronte a quel giornalista. Si era sentita felice anche lei di parlare di parlare... E
non sapeva più che cosa gli avesse detto. Tante cose! Sciocchezze? Forse... Ma aveva
parlato, finalmente! Era stata lei, quale ormai doveva essere.
E godé senza fine il giorno appresso nel
veder riprodotta la sua immagine in tanti diversi atteggiamenti sul giornale che quegli le
mandò e nel leggere tutte le cose che le aveva fatto dire, ma sopra tutto per le
espressioni di meraviglia e di entusiasmo che quel giornalista profondeva, più che per
lartista ormai celebre, per lei donna ancora a tutti ignota.
Una copia di quel giornale Silvia a sua
volta volle spedir subito al marito per dargli una prova che, via - a mettercisi - non lui
soltanto, ma poteva far per benino le cose anche lei.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 01 September, 1998