Luigi Pirandello

Giustino Roncella nato Boggiòlo

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CAPITOLO QUARTO

IL PADRONE DELL’ISOLA

         I giornali avevano divulgato la notizia che la Roncella, per miracolo scampata alla morte proprio nel momento del trionfo del suo dramma, finalmente in grado di sopportare lo strapazzo d’un lungo viaggio, partiva quella mattina, ancora convalescente, per andare a recuperare le forze e la salute in Piemonte, nel paesello nativo del marito.
         Giornalisti e letterati, ammiratori e ammiratrici erano accorsi alla stazione per vederla, per salutarla, e s’affollavano davanti la porta della sala d’aspetto, poiché il medico che la assisteva e che l’avrebbe accompagnata fino a Torino, non permetteva che molti le facessero ressa attorno.
         - Cargiore? Dov’è Cargiore?
         - Uhm! Presso Torino, dicono.
         - Ci farà freddo!
         - Eh, altro... Mah!
         Quelli intanto che erano ammessi a stringerle la mano, a congratularsi, non ostanti le proteste del medico, le preghiere del marito, non sapevano più staccarsene per dar passo agli altri; e, seppur si allontanavano un poco dal divano ov’ella stava seduta tra la suocera e la bàlia, rimanevano nella sala a spiare con occhi intenti ogni minimo atto, ogni sguardo, ogni sorriso di lei.
         Quelli di fuori picchiavano ai vetri, chiamavano, facevano cenni d’impazienza e d’irritazione; ma nessuno se ne dava per inteso; anzi qualcuno pareva si compiacesse di mostrarsi sfrontato fino al punto di guardare con dispettoso sorriso canzonatorio quello spettacolo d’impazienza e d’irritazione.

         L’isola nuova aveva avuto veramente un trionfo. La notizia della morte dell’autrice, diffusasi in un baleno nel teatro, durante la prima rappresentazione, alla fine del secondo atto, quando già tutto il pubblico era preso e affascinato dalla prepotente originalità del dramma, aveva suscitato una cosí nuova e solenne manifestazione di lutto e d’entusiasmo insieme, che ancora, dopo circa due mesi, ne durava un fremito di commozione in tutti coloro che avevano avuto la ventura di parteciparvi.
         La mattina appresso tutti i giornali avevano descritto con colori cosí straordinarii quella serata memorabile che in tutte le città d’Italia s’era subito acceso il desiderio più impaziente di vedere al più presto rappresentato il dramma e d’avere intanto altre notizie dell’autrice e del suo stato, altre notizie del lavoro.
         Bastava guardare Giustino Boggiòlo per farsi un’idea dell’enormità dell’avvenimento, della febbre di curiosità per tutto divampata. Non la moglie, ma lui pareva uscito or ora dalle strette della morte.
         Strappato, quella sera, dalle braccia dei comici che lo tenevano per le spalle, per le falde della giacca, a impedire che si presentasse, o piuttosto, si precipitasse alla ribalta, ad annunziare come un pazzo al pubblico l’imminente morte della moglie, era stato trascinato via, a casa, piangente, convulso da Attilio Raceni.
         Balzato da una violenta, terribile emozione a un’altra opposta non meno terribile e violenta, ah Dio che nottata, che nottata aveva passato, là accanto alla moglie; e poi che giornate! che giornate!
         Ora la moglie - bene o male - eccola là, s’era liberata di tutti i suoi affanni; quel che doveva fare, lo aveva fatto: eccolo là, tra i veli, quel caro gracile roseo cosino in braccio alla bàlia; e andava lontano, a riposarsi, a ristorarsi nella pace e nell’ozio. Mentre lui...
         Già prima di tutto, altro che quel cosino là, lui! Un gigante, un gigante aveva messo sù, lui; un gigante che ora, subito, voleva darsi a camminare a grandi gambate per tutta Italia, per tutta Europa e fors’anche poi per le Americhe, a mietere allori, a insaccar danari; e toccava a lui d’andargli dietro, a lui già stremato di forze, esausto per il parto gigantesco.
         Perché veramente per Giustino Boggiòlo il gigante non era il dramma composto da sua moglie; il gigante era quel trionfo, di cui lui solamente si riconosceva autore.
         Ma sí! se non ci fosse stato lui, se lui non avesse operato miracoli in tutti quei mesi di preparazione, ora difatti tanta gente sarebbe accorsa lí, alla stazione, a ossequiare la moglie, a felicitarla, ad augurarle il buon viaggio!
         - Prego, prego... Mi facciano la grazia, siano buoni... Il medico, hanno sentito?... E poi, guardino, ci sono tant’altri di là... Sí, grazie, grazie... Prego, per carità... A turno, a turno, dice il medico... Grazie, prego, per carità...- si rivolgeva intanto a questo e a quello, con le mani avanti, cercando di tenerne quanti più poteva discosti dalla moglie, per regolare anche quel servizio nel modo più lodevole, cosí che la stampa poi, quella sera stessa, ne potesse parlare come d’un altro avvenimento. - Grazie, oh prego, per carità... Oh signora Marchesa, quanta degnazione... Sí, sí, vada, grazie... Venga, venga avanti, Zago, ecco, le faccio stringere la mano, e poi via, mi raccomando. Un po’ di largo, prego, signori... Grazie, grazie... Oh signora Barmis, signora Barmis, mi dia ajuto, per carità... Guardi, Raceni, se viene il senatore Borghi... Largo, largo, per favore... Sissignore, parte senz’avere assistito neanche a una rappresentazione del suo dramma... Come dice? Ah sí... purtroppo, sí, neanche una volta, neanche alle prove... Eh, come si fa? deve partire, perché io... Grazie, Centanni!... Deve partire... Ciao, Mola, ciao! E mi raccomando, sai?... Deve partire, perché... Come dice? Sissignora, quella è la Carmi, la prima attrice... La Spera, sissignora! Perché io... mi lasci stare, ah, mi lasci stare... Non me ne parli! A Napoli, a Bologna, a Firenze, a Milano, a Torino, a Venezia... non so come spartirmi... sette, sette compagnie in giro, sissignore...
         Cosí, una parola a questo, una a quello, per lasciar tutti contenti; e occhiatine e sorrisi d’intelligenza ai giornalisti; e tutte quelle notizie distribuite cosí, quasi per incidenza; e ora questo ora quel nome pronunziato forte a bella posta, perché i giornalisti ne prendessero nota.
         - Meravigliosa! meravigliosa! - non rifiniva intanto di esclamare la Barmis tra il crocchio dei comici venuti anch’essi, come tanti altri, a vedere per la prima volta e a conoscere l’autrice del dramma.
         Quelli, per non parere imbronciati, assentivano col capo. Erano venuti, sicuri d’una calorosissima accoglienza da parte della Roncella al cospetto di tutti, d’una accoglienza quale si conveniva, se non proprio agli artefici primi di tanto trionfo, ai più efficaci cooperatori di lei, non facilmente surrogabili o superabili, via! Erano stati accolti invece, come tutti gli altri, e subito allora s’erano immelensite le arie con cui erano entrati, e raggelati i modi.
         - Sí, ma soffre, - osservava il Grimi, facendo boccacce con gravità baritonale. - È chiaro che soffre, guardatela! Ve lo dico io che soffre quella poverina là...
         - Tanto di donnetta, che forza! - diceva invece la Carmi, mordicchiandosi il labbro. - Chi lo direbbe? Me la immaginavo tutt’altra! Negli occhi, sí... forse negli occhi qualcosa c’è. Certi lampi, sí... Perché il grande della sua arte, non saprei, è in certi guizzi improvvisi, in certi bruschi arresti, che vi scuotono e vi stònano. Noi siamo abituati a un solo tono; a quelli che ci dicono: la vita è questa; ad altri che ci dicono: la vita è quest’altra. Ora la Roncella vi dipinge un lato, anch’essa della vita, ma poi tutta un tratto si volta e vi presenta anche l’altro lato, subito. Ecco, questo mi pare!
         E la Carmi volse gli occhi in giro come a raccogliere gli applausi, o almeno i segni del consenso di chi stava a sentirla, e vendicarsi cosí, cioè con vera superiorità, della freddezza e della ingratitudine della Roncella. Non raccolse neanche il consenso del suo crocchio, perché tanto la Barmis quanto i suoi compagni di palcoscenico s’accorsero bene ch’essa più che per loro aveva parlato per essere intesa dagli altri, e sopra tutto dalla Roncella.
         Due soli, rincantucciati in un angolo, la vecchia signorina Ely Facelli e Cosimo Zago appoggiato alla stampella, approvarono col capo, e Laura Carmi li guatò con sdegno, come se essi con la loro approvazione la avessero insultata.
         A un tratto, un vivo movimento di curiosità si propagò nella sala e molti, levandosi il cappello, inchinandosi, s’affrettarono a trarsi da canto per lasciare passare uno, cui evidentemente l’insospettata presenza di tanta gente cagionava, più che fastidio e imbarazzo, un vero e profondo turbamento, quasi ira, stizza e vergogna insieme; un turbamento che saltava agli occhi di tutti e che non poteva affatto spiegarsi col solo sdegno ben noto in quell’uomo di darsi in pascolo alla gente.
         Altro doveva esserci sotto; e altro c’era. Lo diceva piano, in un orecchio del Raceni, Dora Barmis, con gioja feroce:
         - Teme che i giornalisti questa sera, nel resoconto, facciano il suo nome! E sicuro che lo faranno! sfido io, se lo faranno! in prima! capolista! Chi sa, caro mio, dove avrà detto alla Frezzi che sarebbe andato; e invece, eccolo qua; è venuto qua... E questa sera Livia Frezzi leggerà i giornali; leggerà in prima il nome di lui, e figuratevi che scenata gli farà! Gelosa pazza, ve l’ho già detto! gelosa pazza; ma - siamo giusti - con ragione, mi sembra... Per me, via, non c’è più dubbio!
         - Ma statevi zitta! - le diede su la voce il Raceni. - Che dite! Se le può esser padre!
         - Bambino! - esclamò allora la Barmis con un sorriso di commiserazione.
         Non poté aggiunger altro, perché, imminente ormai la partenza, la Roncella tra Maurizio Gueli e il senatore Romualdo Borghi, col marito davanti, battistrada, si disponeva a uscire dalla sala per prendere posto sul treno.
         Tutti si scoprirono il capo; si levò qua e là qualche grido d’evviva, a cui rispose tutta un tratto un lungo scroscio di applausi, e Giustino Boggiòlo, già preparato, in attesa, guardando di qua e di là, sorridente, raggiante, con gli occhi lustri e i pomelli accesi, s’inchinò a ringraziare più volte, invece della moglie.
         Nella sala, dietro la porta vetrata, rimase sola a singhiozzare dentro il moccichino profumato la signorina Ely Facelli, dimenticata e inconsolabile. Guardando cauto, obliquo, lo zoppetto Cosimo Zago balzò con la stampella a quel posto del divano ove poc’anzi stava seduta la Roncella, ghermí una piccola piuma che s’era staccata dai boa di lei e se la cacciò in tasca appena in tempo da non essere scoperto dal romanziere napoletano Raimondo Jàcono, il quale riattraversava sbuffante la sala per andar via, stomacato.
         - Ohé, tu? che fai? Mi sembri un cane sperduto, caro mio... Senti, senti che grida? Gli osanna! È la santa del giorno! Buffoni, peggio di quel suo marito! Sù, sù, coraggio, figlio mio! È la cosa più facile del mondo, non t’avvilire. Quella ha preso Medea e l’ha rifatta stracciona di Taranto; tu piglia Ulisse e rifallo gondoliere veneziano. Un trionfo! Te l’assicuro io! E vedrai che quella mo’ si fa ricca, oh! Seicento, settecento mila lire, come niente! Balla, comare, che fortuna suona!

         Ritornando a casa in vettura con la signorina Facelli (la poverina non sapeva staccarsi i fazzoletto dagli occhi, ma ormai non tanto più per il cordoglio della partenza di Silvia, quanto per non scoprire i guasti che le lagrime avevano cagionato, lunghi e profondi, alla sua chimica), Giustino Boggiòlo scoteva le spalle, arricciava il naso, friggeva, pareva che ce l’avesse proprio con lei. Ma no, povera signorina Ely, no; lei non c’entrava per nulla.
         Tre minuti prima della partenza del treno, s’era attaccato a Giustino un nuovo fastidio; ne aveva pochi! quasi un pezzo di carta, uno straccio, un vilucchio, che s’attacchi al piede d’un corridore tutto compreso della gara in una pista assiepata di popolo. Il senatore Borghi, parlando con Silvia affacciata al finestrino della vettura, le aveva chiesto nientemeno il copione de L’isola nuova per pubblicarlo nella sua rassegna. Per fortuna aveva fatto in tempo a intromettersi, a dimostrargli che non era possibile: già tre editori, tra i primi, gli avevano fatto ricchissime profferte e ancora egli li teneva a bada tutti e tre, temendo che la diffusione del libro potesse scemare la curiosità del pubblico in tutte quelle città che aspettavano con febbrile impazienza la rappresentazione del dramma. Ebbene, il Borghi allora, in cambio, s’era fatto promettere da Silvia una novella - lunghetta, lunghetta - per la Vita Italiana.
         - Ma a quali patti, scusi? - cominciò a dire Giustino, come se avesse accanto nella vettura il senatore direttore e già ministro, e non quella sconsolata signorina Ely. - A quali patti? Bisogna vedere; bisogna intenderci, ora... Non sono più i tempi della Casa dei nani, caro signor senatore! Gratitudine, va bene! Ma la gratitudine, prima di tutto, non bisogna sfruttarla, ecco! Come dice?
         Approvò, approvò più volte col capo, dentro il moccichino, la signorina Ely; ma per Giustino fu come se avesse invece disapprovato. Difatti incalzò:
         - Sicuro! Perché al mio paese, chi sfrutta la gratitudine non solo perde ogni merito del beneficio, ma si regola... no, che dico? peggio! si regola peggio di chi nega con crudeltà un ajuto che potrebbe prestare. Questo me lo conservo, guardi! proprio per il primo album che mi manderà lui, il signor senatore. Ah, signorina mia, - seguitò. - Cento teste dovrei avere, cento, e sarebbero poche! Se penso a tutto quello che devo fare, mi prende la vertigine! Ora vado all’ufficio e domando sei mesi d’aspettativa. Non posso farne a meno. E se non me l’accordano? Mi dica lei... Se non me l’accordano? Sarà un affar serio; mi vedrò costretto a... a... Come dice?
         Nulla. Oh santo Dio, perché insistere cosí, se proprio non fiatava la signorina Ely! Alzò un dito per far segno di no, che non aveva parlato. E allora Giustino:
         - Ma veda, per forza... Vedrà che per forza mi costringeranno a dare un calcio all’ufficio! E poi cominceranno a dire, uh, ne sono sicuro!, cominceranno a dire che vivo alle spalle di mia moglie. Io, già! alle spalle di mia moglie! Come se mia moglie senza di me... roba da ridere, via! Già si vede: eccola là: dove se n’è andata? In villeggiatura. E chi resta qua, a lavorare, a far la guerra? Guerra, sa? guerra davvero, guerra... Si entra ora in campo! Sette eserciti e cento città! Se ci resisto... Andate a pensare all’ufficio! Se domani lo perdo, per chi lo perdo? Io perdo per lei... Bah, non ci pensiamo più!
         Aveva tante cose per il capo, che più di qualche minuto di sfogo non poteva concedere al dispiacere anche grave che qualcuna gli cagionava. Tuttavia non poté fare a meno di ripensare, prima d’arrivare a casa, a quella tal richiesta a tradimento del senatore Borghi.
         Gli aveva fatto troppa stizza, ecco; anche perché, se mai, gli pareva che non alla moglie, ma a lui avrebbe dovuto rivolgersi il signor senatore.
         Ma, poi, Cristo santo! un po’ di discrezione! Quella poverina partiva per rimettersi in salute, per riposarsi. Se a qualche cosa poi, là a Cargiore, le fosse venuto voglia di pensare, ma avrebbe pensato a un nuovo dramma, perbacco! non a cosettine che portan via tanto tempo, e non fruttano nulla.
         Un po’ di discrezione, Cristo santo!

         Appena arrivato a casa - paf! un altro inciampo, un altro grattacapo, un’altra ragione di stizza.
         Ma questa, assai più grave!
         Trovò nello studiolo un giovinotto lungo lungo, smilzo smilzo, con una selva di capelli riccioluti indiavolati, pizzo ad uncino, baffi all’erta, un vecchio fazzoletto verde di seta al collo, che forse nascondeva la mancanza della camicia, un farsettino nero inverdito, le cui maniche, sdrucite ai gomiti, gli lasciavano scoperti i polsi ossuti e pelosi e gli facevano apparire sperticate le braccia e le mani.
         Lo trovò come padrone del campo, in mezzo a una mostra di venticinque pastelli disposti giro giro per la stanza, sulle seggiole, sulle poltrone, sulla scrivania, da per tutto: venticinque pastelli tratti dalle scene culminanti de L’isola nuova.
         - E scusi... e scusi... e scusi... - si mise a dire Giustino Boggiòlo, entrando, stordito e sperduto, tra tutto quell’apparato. - Chi è lei, scusi?
         - Io? - disse il giovinotto, sorridendo con aria di trionfo. - Chi sono io? Nino Pirino. Sono Nino Pirino, pittorino tarentino, dunque compatriottino di Silvia Roncella. Lei è il marito, è vero? Piacere! Ecco, io ho fatto questa roba qua, e sono venuto a mostrarla a Silvia Roncella, mia celebre compatriota.
         - E dov’è? - fece Giustino.
         Il giovinotto lo guardò, stordito.
         - Dov’è? chi? come?
         - Ma se è partita, caro signore! Se è partita poco fa!
         - Partita? La Roncella?
         - Ma se lo sa tutta Roma, perbacco! C’era tutta Roma alla stazione, e lei non lo sa! Ho tanto poco tempo da perdere, io, scusi... Ma già... aspetti un momento... Scusi, queste sono scene de L’isola nuova, se non sbaglio?
         - Sissignore.
         - E che è, roba di tutti L’isola nuova, scusi? Lei prende cosí le scene e... e se le appropria... Come? con qual diritto?
         - Io? che dice? ma no! - fece il giovinotto. - Io sono un artista! Io ho veduto e...
         - Ma nossignore! - esclamò con forza Giustino. - Che ha veduto? Lei non ha veduto niente. Lei ha veduto L’isola nuova.. .
         - Sissignore.
         - E questa è l’isola abbandonata, è vero?
         - Sissignore.
         - E dove l’ha mai veduta lei? esiste forse nella carta geografica, quest’isola? Lei non ha potuto vederla!
         Il giovinotto credeva propriamente che il caso fosse da ridere; e in verità a ridere aveva disposto lo spirito. Cosí investito contro ogni sua aspettazione, ora si sentiva rassegare il riso sulle labbra. Più che mai stordito, disse:
         - Eh, con gli occhi no. Con gli occhi no, di certo! non l’ho veduta. Ma l’ho immaginata, ecco!
         - Lei? Ma nossignore! - incalzò Giustino. - Mia moglie! soltanto mia moglie. L’ha immaginata soltanto mia moglie, non lei! E se mia moglie non l’avesse immaginata, lei non avrebbe dipinto lí un bel corno, glielo dico io! La proprietà...
         A questo punto Nino Pirino non riuscí a tenere più in freno la risata che gli gorgogliava dentro da un pezzo.
         - La proprietà? ah sí? quale? quella dell’isola? Oh bella! oh bella! oh bella! Vuol essere lei soltanto il proprietario dell’isola? il proprietario d’un’isola che non esiste?
         Giustino Boggiòlo, sentendo ridere cosí, s’intorbidò tutto dall’ira e gridò, fremente:
         - Ah, non esiste? Lo dice lei che non esiste! Esiste, esiste, esiste, caro signore! E glielo farò vedere io, se esiste!
         - L’isola?
         - La proprietà! Il mio diritto di proprietà letteraria! Il mio diritto, il mio diritto esiste! e lei vedrà se saprò farlo rispettare e valere! Ci sono qua io, per questo! Tutti ormai sono avvezzi a violarlo, questo diritto, che pure emana da una legge dello Stato, perdio, sacrosanta! Ma ripeto che ci sono qua io, ora; e glielo farò vedere!
         - Va bene... ma guardi... sissignore... si calmi, guardi... - gli diceva intanto il giovinotto, angustiato di vederlo in quelle furie. - Guardi, io... io non ho voluto usurpare nessun diritto, nessuna proprietà... Se lei s’arrabbia cosí, guardi, io sono pronto a lasciarle qua tutti i miei pastelli; e me ne vado. Glieli regalo e me ne vado. Mi sono inteso di fare un piacere, di fare onore alla mia illustre compaesana... Sí, volevo anche pregarla di... di... ajutarmi col prestigio del suo nome, perché credo, via, di meritarmi qualche ajuto... Sono belli, sa? Li degni almeno d’uno sguardo, questi miei pastellini... Non c’è male, creda! Glieli regalo, e me ne vado.
         Giustino Boggiòlo si trovò d’un tratto tutto disarmato e restò brutto di fronte alla generosità di quel ricchissimo straccione.
         - No, nient’affatto... grazie... scusi... dicevo, discutevo per il... la... il... diritto, la proprietà, ecco. Creda che è un affar serio... come se non esistesse... Una pirateria continua nel campo letterario... Mi sono riscaldato, perché, veda... in questo momento, mi... mi riscaldo facilmente: sono stanco, stanco da morirne; e non c’è peggio della stanchezza! Ma io devo guardarmi davanti e dietro, caro signore; devo difendere i miei interessi, lei lo capisce bene.

         - Ma certo! ma naturalmente! - esclamò Nino Pirino, rifiatando. - Però, senta... Non s’arrabbi di nuovo, per carità! Crede che io non possa fare un quadro, poniamo, sui Promessi sposi? Ecco: poniamo, leggo i Promessi sposi; ho l’impressione d’una scena; non posso dipingerla?
         Giustino Boggiòlo si concentrò con grande sforzo; rimase un po’ a stirarsi con due dita la moschetta della barba a ventaglio:
         - Eh, - poi disse. - Veramente non saprei... Forse, trattandosi dell’opera d’un autore morto, già caduta da un pezzo in pubblico dominio... Non so. Bisogna che studii la questione. Qui il suo caso, a ogni modo, è diverso. Guardi! Sta di fatto che se un musicista domani mi chiede di musicare L’isola nuova - (glielo dico perché sono già in trattative con due compositori, tra i primi) - anche facendosene cavare il libretto da altri, deve pagare a me quel che io pretendo, e non poco, sa? Ora, se non sbaglio, il suo caso è lo stesso: lei per la pittura, quello per la musica.
         - Veramente... già... - cominciò a dire Nino Pirino, uncinandosi vieppiù il pizzo; ma poi, d’un balzo, ricredendosi. - Ma no! sbaglia, sa! Veda... il caso è un altro! Il musicista paga perché, per il melodramma, prende le parole; ma se non prende più le parole, se riesprime solo musicalmente in una sinfonia, o che so io, le impressioni, i sentimenti suscitati in lui dal dramma della sua signora, non paga più, sa? ne può stare sicuro; non paga più nulla!
         Giustino Boggiòlo parò le mani come ad arrestare subito un pericolo o una minaccia.
         - Parlo accademicamente, - s’affrettò allora a soggiungere il giovinotto. - Io le ho già detto perché sono venuto, e, ripeto, sono pronto a lasciarle qua i miei pastelli e ad andarmene.
         Un’idea balenò in quel momento a Giustino. Il dramma prima o poi, doveva andare a stampa. Farne un’edizione ricchissima, illustrata, con la riproduzione a colori di quei venticinque pastelli là... Ecco, il libro cosí non sarebbe andato per le mani di tutti; cosí egli avrebbe anche impedito lo sfruttamento dell’opera della moglie da parte di quel pittore; e avrebbe anche prestato a questo l’ajuto richiesto, morale e materiale, perché avrebbe imposto all’editore un adeguato compenso per quei pastelli là.
         Nino Pirino si dichiarò entusiasta dell’idea e per poco non baciò le mani al suo benefattore, il quale intanto aveva avuto un altro lampo e gli faceva cenno d’aspettare che la luce gli si facesse intera.
         - Ecco. Una prefazione del Gueli, al volume... Cosí, tutti i maligni che vanno gracchiando che al Gueli il dramma non è piaciuto... Egli è venuto questa mattina a ossequiare la mia signora alla stazione, sa? Ma possono ancora dire (li conosco bene, io) che è stato per mera cortesia. Se il Gueli fa la prefazione... Benissimo, sí sí, benissimo. Ci andrò oggi stesso, subito com’esco dall’ufficio. Ma vede quant’altri pensieri, quant’altro da fare mi dà lei adesso? E ho i minuti contati! Debbo partire stasera per Bologna. Basta, basta... Vedrò di pensare a tutto. Lei mi lasci qua i pastelli. Le prometto che appena passo da Milano... Dica, il suo indirizzo?
         Nino Pirino si strinse i gomiti alla vita e domandò, tirando sù il busto, impacciato:
         - Ecco... quando... quando passerà, lei, da Milano?
         - Non so, - disse il Boggiòlo. - Fra due, tre mesi al massimo...
         - E allora, - sorrise Pirino, - è inutile, sa! Di qui a tre mesi, ne avrò cangiati otto per lo meno, di indirizzi. Nino Pirino, ferma in posta: ecco, mi scriva cosí.

         Quando, sul tardi, Giustino Boggiòlo rientrò in casa (aveva appena il tempo di fare in fretta in furia le valige) era cosí stanco, in tale vana fissità di stordimento, che, appena entrato nella cupa ombra dello studiolo, trovandosi, senza saper come né perché, tra le braccia d’una donna, sul seno d’una donna che lo sorreggeva in piedi e gli carezzava la guancia pian pianino con una tepida profumata mano e gli diceva con dolce voce materna: "Poverino... poverino... ma si sa!... ma cosí voi vi distruggerete, caro!... oh poverino... poverino...", abbandonato, senza volontà, rinunziando affatto a indovinare come mai Dora Barmis fosse là, nella sua casa, al bujo, e potesse sapere ch’egli per tutte le fatiche sostenute, per i dispiaceri incontrati e la stanchezza enorme aveva quello strapotente bisogno di conforto e di riposo, la lasciava fare e si lasciava carezzare e lisciare e coccolare come un bambino malato.
         Forse era entrato nello studiolo vagellando e lamentandosi.
         Non ne poteva più, davvero! All’ufficio il capo lo aveva accolto a modo d’un cane, e gli aveva giurato che la domanda di sei mesi d’aspettativa non si sarebbe chiamato più il commendator Riccardo Ricoglia se non gliela faceva respingere, respingere, respingere. In casa del Gueli, poi... Oh Dio, che cos’era accaduto in casa del Gueli? Non sapeva raccapezzarsi più... Aveva sognato? Ma come? Non era andato il Gueli quella mattina alla stazione? Doveva essersi impazzito. O impazzito lui, o il Gueli. Ma forse, ecco, in mezzo a tutto quel tramenío vertiginoso, qualche cosa doveva essere accaduta, a cui non aveva fatto caso, e per cui ora non poteva capire più nulla; neanche perché la Barmis fosse là... Forse era giusto, era naturale che fosse là... e quel conforto pietoso era anche opportuno, sí, e meritato... ma ora... ma ora basta, ecco.
         E fece per staccarsi. Dora gli trattenne con la mano il capo sul seno:
         - No, perché? Aspettate...
         - Devo... le... le valige... - balbettò Giustino.
         - Ma no! che dite! - gli diede su la voce Dora. - Volete partire in questo stato? No, caro! no, caro! Qua, qua... Voi non potete, caro, non potete! E io ve l’impedirò.
         Giustino resisté alla pressione della mano parendogli ormai troppo quel conforto e un poco strano, benché sapesse che la Barmis spesso non si ricordava più, proprio, d’essere donna.
         - Ma... ma come?... - seguitò a balbettare, - senza... senza lume qui? Che ha fatto la serva della signorina Ely.
         - Il lume? Non l’ho voluto io, - disse Dora. – L’avevano portato. Qua, qua, sedete con me, qua. Si sta bene al bujo... qua ...
         - E le valige? Chi me le fa? - domandò Giustino pietosamente.
         - Volete partire per forza?
         - Signora mia...
         - E se io ve l’impedissi?
         Giustino, nel bujo, si sentí stringere con violenza un braccio. Più che mai sbalordito, sgomento, tremante, ripeté:
         - Signora mia...
         - Ma stupido! - scattò allora quella con un fremito di riso convulso, afferrandolo per l’altro braccio e scotendolo. - Stupido! stupido! Che fate? Non vedete? È stupido... sí, stupido che voi partiate cosi... Dove sono le valige? Saranno nella vostra camera. Dov’è la vostra camera? Sù, andiamo, v’ajuterò io!
         E Giustino si sentí trascinare, strappare. Reluttò, perduto, balbettando:
         - Ma... ma se... se non ci portano un lume...
         Una stridula risata squarciò a questo punto il bujo e parve facesse traballare tutta la casa silenziosa.
         Giustino era ormai avvezzo a quei sùbiti prorompimenti d’ilarità folle nella Barmis. Trattando con lei era sempre tra perplessità angosciose, non riuscendo mai a sapere come dovesse interpretare certi atti, certi sguardi, certi sorrisi, certe parole di lei. In quel momento, sí, in verità gli pareva chiaro che... - Già, ma se poi avesse sbagliato? E poi... ma che! A parte lo stato in cui si trovava, sarebbe stata una profanazione belle buona, una vera infamia, sul letto coniugale...
         Cosí trovò il coraggio di accendere risolutamente, e anche con un certo sdegno, un fiammifero.
         Una nuova più stridula, più folle risata assalí e scontorse la Barmis alla vista di lui con quel fiammifero acceso tra le dita.
         - Ma perché? - domandò Giustino con stizza. - Al bujo... certo che...
         Ci volle un bel pezzo prima che Dora si riavesse da quella convulsione di riso e prendesse a ricomporsi, ad asciugarsi le lagrime. Intanto egli aveva acceso una candela trovata di là su la scrivania, dopo aver fatto volare tre dei pastelli del Pirino.
         - Ah, vent’anni! vent’anni! vent’anni! - fremette Dora alla fine. - Sapete, gli uomini? stecchini mi parevano! Qua, tra i denti, spezzati, e buttati via! Sciocchezze! sciocchezze! L’anima, adesso, l’anima, l’anima... Dov’è l’anima? Dio! Dio! Ah, come fa bene respirare.. Dite, Boggiòlo: per voi dov’è? dentro o fuori? dico l’anima. Dentro di noi o fuori di noi? Sta tutto qui! Voi dite dentro? Io dico fuori. L’anima è fuori, caro. L’anima è tutto. E noi, morti, non saremo più nulla, caro. Più nulla, più nulla... Sù, fate lume! Queste valige subito... V’ajuterò io... Sul serio!
         - Troppo buona - disse Giustino, mogio mogio, sbigottito.
         Dora, seduta sul letto a due, guardò in giro i mobili della cameretta, modesti.
         - Ah, qua... - disse. - Bene, sí... Che buono odor di casa, di famiglia, di provincia... Si, sí... bene, bene... Beato voi, caro! Sempre cosí! Ma dovete far presto. A che ora parte la corsa? Ih, subito... Sù, sù, senza perder tempo...
         E prese a disporre con sveltezza e maestria nelle due valige aperte sul letto le robe che Giustino cavava dal cassettone e le porgeva. Frattanto:
         - Sapete perché sono venuta? Volevo avvertirvi che la Carmi... tutti gli attori della Compagnia... ma specialmente la Carmi, caro mio, sono feroci contro di voi!
         - E perché? - domandò Giustino, restando.
         - Ma per vostra moglie, caro! Non ve ne siete accorto? - rispose Dora, facendogli cenno con le mani di non arrestarsi. - Vostra moglie... forse, poverina, perché ancora cosí... li ha accolti male, male, male..
         Giustino, inghiottendo amaro, chinò più volte il capo, per significare che se n’era accorto e doluto tanto.
         - Bisogna riparare! - riprese la Barmis. - E dovete riparare appena da Bologna raggiungerete a Napoli la Compagnia... Ecco, la Carmi si vuole vendicare a tutti i costi. E voi dovete assolutamente ajutarla a vendicarsi.
         - Io? e come?- domandò Giustino, di nuovo stordito
         - Oh Dio mio! - esclamò la Barmis, stringendosi nelle spalle. - Non pretenderete che ve l’insegni io, come! È difficile con voi! Ma quando una donna si vuole vendicare di un’altra... Guardate, la donna può essere anche buona verso un uomo, specialmente se egli le si dà come un fanciullo. Ma verso un’altra donna la donna è perfida, caro mio, capace di tutto poi, se crede d’averne ricevuto uno sgarbo, un affronto. E poi l’invidia! Sapeste quanta invidia tra le donne, e come le rende cattive! Voi siete un bravo figliuolo, un gran brav’uomo... enormemente bravo, capisco, ma, se volete fare i vostri interessi, ecco... dovete... dovete sforzarvi... farvi un po’ di violenza magari... Del resto, starete parecchi mesi lontano da vostra moglie, è vero? Ora, via, non mi darete a intendere...
         - Ma no! ma no, creda, signora mia! - esclamò candidamente Giustino. - Io non ci penso! Non ho neanche il tempo di pensarci! Per me, ho preso moglie, e basta!
         - Come dire che siete appadronato?
         - No, - fece serio serio Giustino, - è che proprio non ci penso più! Tutte le donne per me sono... sono... come se fossero uomini, ecco! Non ci faccio più differenza. Donna per me è mia moglie, e basta. Forse per le donne è un’altra cosa. Ma per gli uomini, creda pure, almeno per me... L’uomo ha tant’altre cose a cui pensare... Si figuri se io, tra tanti pensieri, con tanto da fare...
         - Oh Dio, lo so! ma io dico nel vostro stesso interesse non volete capirlo? - riprese la Barmis, trattenendosi a stento di ridere e affondando il capo nelle valige. - Se voi volete fare i vostri interessi, caro mio! Per voi, sta bene; ma dovete trattare con donne per forza: attrici, giornaliste... E se non fate come vogliono loro? Se non le seguite nel loro istinto? sia pur malvagio, d’accordo! Se queste donne invidiano vostra moglie? se vogliono vendicarsi... capite? Vendicarsi cosí, non tanto perché desiderino voi, ma per fare un dispetto a vostra moglie? Dico nel vostro stesso interesse... Sono necessità, caro, che volete farci? necessità della vita! Sù, sù, ecco fatto; chiudete e partiamo subito. Vi accompagnerò fino alla stazione.
         In vettura, istintivamente gli prese una mano; subito si ricordò; fu lí lí per lasciargliela; ma poi... tanto, dacché c’era... Giustino non si ribellò. Pensava a quel che gli era accaduto in casa del Gueli.
         - Mi spieghi un po’ lei, signora: io non so - disse a Dora. - Sono andato dal Gueli...
         - In casa? - domandò Dora, e subito esclamò: - Oh Dio, che avete fatto?
         Ma perché? - replicò Giustino. - Sono andato per... per chiedergli un favore... Bene. Lo crederebbe? Mi... mi ha accolto come se non mi avesse mai conosciuto...
         - La Frezzi era presente?- domandò la Barmis.
         - Sissignora, c’era...
         - E allora, che meraviglia? - disse Dora. - Non lo sapete?
         - Mi scusi! - riprese Giustino. – C’è da cascar dalle nuvole! Fingere finanche di non ricordarsi più che questa mattina era stato alla stazione!
         - Anche questo avete detto? lí, voi, in presenza della Frezzi? - proruppe Dora, ridendo. - Oh povero Gueli, povero Gueli! Che avete fatto, caro Boggiòlo!
         - Ma perché? - tornò a replicar Giustino. - Scusi, sa! io non posso ammettere che...
         - Voi! e già, siamo sempre lí! - esclamò la Barmis. - Volete fare i conti senza la donna, voi! Ve lo dovete levar dal capo, caro mio! Volete ottenere un favore dal Gueli? che egli abbia amicizia per la vostra signora? Provatevi a fare un po’ di corte a quella sua nemica; e allora...
         - Anche a quella?
         - Non è mica brutta, vi prego di credere, Livia Frezzi! Non sarà più una giovinetta, ma...
         - Via, non lo dica neanche per ischerzo, - fece Giustino.
         - Ma io ve lo dico proprio sul serio, caro, sul serio, sul serio, - ribatté Dora. - Se non mutate registro, non concluderete nulla!
         E ancora, fino al momento che il treno si scrollò per partire, Dora Barmis seguitò a battere su quel chiodo:
         - Ricordatevi! Sí, sí, la Carmi! la Carmi! Ajutatela a vendicarsi. Pazienza, caro... Addio! Sforzatevi... Nel vostro interesse... Fatevi un po’ di violenza... Addio, caro, buone cose! addio! addio!

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Ultimo aggiornamento: 01 September, 1998