Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO TERZO
MISTRESS RONCELLA, TWO ACCOUCHEMENTS
La servotta abruzzese,
che rideva sempre vedendo quel berretto da bersagliere in capo al signor Ippolito, entrò
nello studiolo ad annunziare un signore forestiere, che voleva parlare col signor
Giustino.
- AllArchivio! - le gridò il
signor Ippolito, come passando agli atti una "pratica" dufficio.
- Se poteva riceverlo la signora, dice.
- Pollo dIndia, e non lo sai che la
signora è... (e disse con le mani comera).
Quindi soggiunse:
- Fallo passare. Parlerà con me.
La servotta uscì, comera entrata,
ridendo. E il signor Ippolito borbottò tra sé, stropicciandosi le mani:
- Ora laccomodo io.
Entrò poco dopo nello studiolo un
signore biondissimo, dalla faccia rosea, da bamboccione ingenuo, con certi occhi azzurri,
chiari come di vetro e ridenti.
Il signor Ippolito accennò di levarsi
con grandissima cura il berretto.
- Prego, segga pure. Qua, qua, sulla
poltrona. Permette chio tenga in capo? Mi raffredderei.
Prese il biglietto che quel signore tra
smarrito e sconcertato gli porgeva e vi lesse: C. NATHAN CROWELL.
- Inglese?
- No, signor, americano, - rispose il
Crowell, quasi incidendo con la pronunzia le sillabe. - Corrispondente giornale americano
The Nation, New York. Signor Bòggiolo...
- No, Boggiòlo, scusi.
- Ah! Boggiòlo, grazie. Signor Boggiòlo
- accordato - intervista - su nuova - grande - opera - grande - scrittrice italiana
- Silvia - Roncella.
- Per questa mattina? - domandò il
signor Ippolito, parando le mani. (Ah che vellicazione al ventre gli producevano lo stile
telegrafico e lo stento della pronunzia di quel forestiere!)
Il signor Crowell salzò, trasse di
tasca un taccuino e mostrò in una paginetta lappunto scritto a lapis: Mr
Boggiolo, thursday, 27 (morning).
- Benissimo. Non capisco; ma fa lo
stesso, - disse il signor Ippolito. Saccomodi. Mio nipote, come vede, non
cè.
- Ni-pote?
- Sissignore. Giustino Boggiòlo, mio
ni-po-te... Nipote, sa? sarebbe... nepos, in latino; neveu, in francese.
Linglese non lo so... Lei capisce litaliano?
- Sí, poco, - rispose, sempre più
smarrito e sconcertato, il signor Crowell.
- Meno male, - riprese il signor
Ippolito. - Ma nipote, intanto, eh?... Veramente, mio nipote, non lo capisco
neanche io. Lasciamo andare. Cè stato un contrattempo, veda.
Il signor Crowell sagitò un poco
sulla seggiola, come se certe parole gli facessero proprio male e credesse di non
meritarsele.
- Ecco, le spiego, - disse il signor
Ippolito, agitandosi un poco anche lui. - Giustino è andato allufficio...
uffi-uf-fi-cio, allufficio, sissignore (Archivio Notarile). È andato per domandare
il permesso... - ancora, già! e perderà limpiego, glielo dico io! - il permesso
dassentarsi, perché jersera noi abbiamo avuto una bella consolazione.
A questannunzio il signor Crowell
rimase dapprima un po perplesso, poi tutta un tratto ebbe un prorompimento di
vivissima ilarità, come se finalmente gli si fosse fatta la luce.
- Conciolescione? - ripeté con gli occhi
pieni di lagrime. - Veramente, conciolescione?
Questa volta ci restò brutto il signor
Ippolito, invece.
- Ma no, sa! - disse irritato. - Che
diavolo ha capito? Abbiamo ricevuto da Cargiore un telegramma con cui la signora Velia
Boggiòlo, che sarebbe la mamma di Giustino, sissignore, ci annunzia per oggi la sua
venuta; e non cè mica da stare allegri, perché viene per assistere Silvia, mia
nipote, la quale finalmente... siamo lí lí: tra pochi giorni, o maschio o femmina. E
speriamo tutti che sia maschio, perché, se nasce femmina e si mette a scrivere anche lei,
Dio ne liberi e scampi, caro signore! Ha capito?
("Scommetto che non ha capito un
corno!" borbottò tra sé, guardandolo.)
Il signor Crowell gli sorrise.
Il signor Ippolito, allora, sorrise anche
lui al signor Crowell. E tutti e due, cosí sorridenti, si guardarono un pezzo. Che bella
cosa, eh? Sicuro... sicuro...
Bisognava riprendere daccapo la
conversazione, adesso.
- Mi pare che lei tanto tanto non lo...
non lo... mastichi, ecco, litaliano, - disse bonariamente il signor Ippolito: -
Scusi, part... par-to-ri-re, almeno...
- Oh, si, partorire, benissimo, -
affermò il Crowell.
- Sia lodato Dio! - esclamò il Roncella.
- Ora, mia nipote... faccia conto che ci siamo.
- Grande opera? dramma?
- Nossignore: figliuolo. Figliuolo di
carne. Ih, comè duro lei dintendere certe cose! Io che voglio parlare con
creanza. Il dramma è già partorito. Sono cominciate le prove laltro jeri, a
teatro. E forse, sa? verranno alla luce tutte due insieme, dramma e figliuolo. Due
parti... cioè , parti, sí, plurale di parto... parti nel senso di... di... partori...
là, partorizioni, capisce?
Il signor Crowell diventò molto serio;
seresse sulla vita; impallidí; disse:
- Molto interessante.
E, tratto di tasca un altro taccuino,
prese frettolosamente lappunto: Mrs Roncella two accouchements.
- Ma creda pure, - riprese il signor
Ippolito, sollevato e contento, - che questo è nulla. Cè ben altro! Lei crede che
meriti tanta considerazione mia nipote Silvia? Non dico di no; sarà una grande
scrittrice. Ma cè qualcuno molto più grande di lei in questa casa, e che merita
desser preso in maggiore considerazione dalla stampa internazionale.
- Veramente? Qua? In questa casa? -
domandò, sbarrando gli occhi, il signor Crowell.
- Sissignore, - rispose il Roncella. -
Mica io, sa! Il marito, il marito di Silvia.
- Mister Bòggiolo?
- Se lei lo vuol chiamare Bòggiolo si
serva pure, ma le ho detto che si chiama Boggiòlo. Incommensurabilmente più grande. Sí.
Guardi, Silvia stessa, mia nipote, riconosce che lei non sarebbe nulla, o ben poco, senza
di lui.
- Molto interessante, - ripeté con la
stessa aria di prima il signor Crowell, ma un po più pallido.
- Sissignore. E se lei vuole, potrei
parlarle di lui fino a domattina, - seguitò il signor Ippolito. - E lei mi
ringrazierebbe.
- Oh, sí, io molto ringraziare, signore,
- disse alzandosi e inchinandosi più volte il signor Crowell.
- No, dicevo, - riprese il signor
Ippolito, - segga, segga, per carità! Mi ringrazierebbe, dicevo, perché la sua... come
la chiama? intervista, già, già, intervista... la sua intervista riuscirebbe molto
più... più... saporita, diremo, che se riferisse notizie sul nuovo dramma di Silvia.
Già io poco potrei dargliene, perché la letteratura non è affar mio, e non ho mai letto
un rigo, che si dice un rigo, di mia nipote. Per principio, sa? e un po anche per
stabilire un certo equilibrio salutare in famiglia. Ne legge tanti lui, mio nipote! E li
leggesse soltanto... Scusi, è vero che in America i letterati sono pagati a un tanto a
parola?
Il signor Crowell saffrettò a dir
di sí e aggiunse che ogni parola degli scrittori più famosi soleva esser pagata anche
una lira, anche due e perfino due lire e cinquanta centesimi, in moneta nostrale.
- Gesù! Gesù! - esclamò il signor
Ippolito. - Scrivo, per esempio, ohibò, due lire e cinquanta? E allora,
figuriamoci, gli Americani non scriveranno mai quasi, già, scriveranno
sempre quasi quasi, già già... Ora comprendo perché quel povero
figliuolo... Ah devessere uno strazio per lui contare tutte le parole che gli
sgorbia la moglie e pensare quanto guadagnerebbe in America. Per ciò dice sempre che
lItalia è un paese di straccioni e danalfabeti... Caro signore, da noi le
parole vanno più a buon mercato; anzi si può dire che siano lunica cosa che vada a
buon mercato; e per questo ci sfoghiamo tanto a chiacchierare e si può dire che non
facciamo altro...
Chi sa dove sarebbe arrivato il signor
Ippolito quella mattina, se non fosse sopravvenuto a precipizio Giustino a levargli dalle
grinfie quella vittima innocente.
Giustino non tirava più fiato: acceso in
volto e in sudore, volse unocchiata feroce allo zio e poi, tartagliando in inglese,
si scusò del ritardo col signor Crowell e lo pregò che fosse contento di rimandare alla
sera lintervista, perché adesso egli doveva recarsi alla stazione a prendere la
madre, poi al Valle per la prova del dramma, poi...
- Ma se lo stavo servendo io! - gli disse
il signor Ippolito.
- Lei dovrebbe almeno farmi il piacere di
non immischiarsi in queste faccende, non poté tenersi di rispondergli Giustino. - Pare
che me lo faccia apposta, scusi!
Si volse di nuovo allAmericano; lo
pregò di attenderlo un istante perché voleva vedere di là come stésse la moglie;
sarebbero poi andati via insieme.
- Perde limpiego, perde
limpiego, comè vero Dio! - ripeté il signor Ippolito, stropicciandosi di
nuovo le mani, contentone, appena Giustino varcò la soglia.
- Ha perduto la testa - ora perde
limpiego.
Il signor Crowell, per significargli che
non capiva proprio nulla, seguitava a sorridergli simpaticamente.
Non rivedeva la madre
da più di quattro anni, da quando cioè lo avevano sbalestrato là a Taranto.
Quante cose erano avvenute in quei
quattro anni, e come si sentiva cambiato, ora che limminente arrivo della madre lo
richiamava alla vita che aveva vissuto con lei, agli umili e santi affetti rigorosamente
custoditi, ai modesti pensieri, da cui per tante vicende imprevedute sera staccato e
poi, anche dentro se stesso, a poco a poco allontanato!
Quella vita quieta e romita, tra le nevi
e il verde dei prati sonori dacqua, tra i castagni del suo Cargiore lassù vegliato
dal borboglío perenne del Sangone, quegli affetti, quei pensieri avrebbe riabbracciato
tra breve in sua madre, ma con un penoso disagio interno, con non tranquilla coscienza.
Sposando, aveva nascosto alla madre che
Silvia fosse una letterata; le aveva parlato a lungo, invece, nelle sue lettere, delle
qualità di lei che alla madre sarebbero riuscite più accette; vere, pertanto; ma appunto
per ciò sentiva ora più spinoso il disagio: ché proprio lui aveva indotto la moglie a
trascurare quelle qualità; e se ora Silvia dal libro spiccava un salto sul palcoscenico,
a questo salto la aveva spinta lui. E se ne sarebbe accorta bene la madre in quel momento,
trovando Silvia derelitta e bisognosa soltanto di cure materne, lontanissima da ogni
pensiero che non si riferisse al suo stato; e trovando lui invece, là, tra i comici, in
mezzo alle brighe duna prima rappresentazione.
Non era più un ragazzo, è vero; doveva
ormai regolarsi con la propria testa; e non vedeva nulla di male, del resto, in ciò che
faceva; tuttavia da buon figliuolo comera sempre stato, obbediente e sottomesso alla
volontà e incline ai desiderii, al modo di pensare e di sentire della sua buona mamma si
turbava al pensiero di non avere lapprovazione di lei, di far cosa che a lei, anzi,
certamente doveva dispiacere. Tanto più se ne turbava, in quanto prevedeva che la sua
santa vecchierella, venuta per amor suo da cosí lontano a soffrire con la nuora, non gli
avrebbe in alcun modo manifestato la sua riprovazione, né mosso il minimo rimprovero.
Molta gente attendeva con lui il treno da
Torino, già in ritardo. Per stornarsi da quei pensieri molesti, si sforzava
dattendere alla grammatica inglese, che portava sempre con sé, per mettere a
profitto ogni ritaglio di tempo; e si mise ad andare sù e giù per la banchina. A ogni
fischio di treno, si voltava o si fermava.
Fu dato finalmente il segnale
darrivo. I numerosi aspettanti si affollarono, con gli occhi al convoglio che
entrava sbuffante e strepitoso nella stazione. Si schiusero i primi sportelli; la gente
accorse, cercando da una vettura allaltra.
- Eccola! - disse Giustino, cacciandosi
anche lui tra la ressa per raggiungere una delle ultime vetture di seconda classe, da cui
sera sporta con aria smarrita la testa duna vecchina pallida, vestita di nero.
- Mamma! Mamma!
Questa si volse, alzò una mano e gli
sorrise con gli occhi, la cui vivacità contrastava col pallore del volto già appassito
dagli anni.
Nella gioja di rivedere il figliuolo la
piccola signora Velia cercò quasi un rifugio dallo sbalordimento che la aveva oppressa
durante tutto il lunghissimo viaggio. Ma pur rimaneva come intronata; rispondeva a
monosillabi, e guardava, guardava il figliuolo che le pareva diventato un altro, tra tanta
gente e tanta confusione. Anche il suono della voce, anche lo sguardo, Dio mio!
La stessa impressione aveva Giustino
della vista della madre.
Sentivano entrambi che qualcosa tra loro
sera come allentata, disgiunta. Quellintimità naturale, che prima impediva
loro di vedersi cosí come si vedevano adesso; non più come un essere solo, ma due; non
già diversi, ma staccati. E non sera egli difatti nutrito, lontano da lei - pensava
la madre duna vita che le era ignota? non aveva egli adesso unaltra donna
accanto, chella non conosceva e che certo doveva essergli cara più di lei?
Tuttavia, quando si vide sola,
finalmente, con lui in vettura, e vide salvi la valigia e il sacchetto che aveva portati
con sé, si sentí sollevata e confortata.
- Tua moglie? - domandò, dando a vedere
nel tono della voce e nello sguardo, che ne aveva una gran soggezione.
- Taspetta, - le rispose Giustino.
- Soffre molto!
- Eh, poverina... - sospirò la signora
Velia, socchiudendo gli occhi. - Ho paura però, che poco io potrò fare... perché forse
per lei... non sarò... non sarò buona, ecco...
- Ma che! - la interruppe Giustino. - Non
ti mettere in capo codeste prevenzioni, mamma! Tu vedrai quanto la stimerai...
- Lo credo, lo so bene, -
saffrettò a dire la signora Velia. - Dicevo per me...
- Perché ti figuri che una che scrive, -
soggiunse Giustino, - debba essere per forza una smorfiosa? Nientaffatto. Vedrai.
Troppo... troppo modesta, anzi... È la mia disperazione! E poi, sí, in quello stato...
Via, via, mammina, è come te, sai? Senza differenza.
La vecchietta approvò col capo. Le
ferirono il cuore quelle parole. Era la mamma, lei; e unaltra donna, adesso, per il
figliuolo era come lei, senza differenza. Ma approvò, approvò col capo.
- Faccio tutto io! - seguitò Giustino. -
Gli affari li tratto io. Del resto, ohé, a Roma, cara mamma, tutto il doppio, sai? Non te
ne puoi fare neanche unidea! E se non ci sajuta in tutti i modi! Lei lavora a
casa; io faccio fruttare il suo lavoro fuori.
- E... frutta, frutta? - domandò
timidamente la madre, cercando di smorzare lacume degli occhi.
- Perché ci sono io, che lo faccio
fruttare! - rispose Giustino. - Opera mia, non ti figurare! Sono io... tutta opera mia...
Quello che fa lei sarebbe come niente, perché la cosa... la... la letteratura, capisci?
è una cosa che... puoi farla e puoi anche non farla, secondo i giorni. Oggi ti viene
unidea; sai scriverla; la scrivi. Che ti costa? Non ti costa niente! Per se stessa,
la letteratura, è niente; non dà, non darebbe frutto, se non ci fosse chi la fa
fruttare. Io, ecco! E se lei ora è cosí conosciuta in Italia...
- Anche dalle nostre parti, conosciuta? -
arrischiò la signora Velia.
- Ma anche fuori dItalia! -
esclamò Giustino. - Tratto con la Francia, io! Con la Francia, con la Germania, con la
Spagna. Ora comincio con lInghilterra! Vedi? Studio linglese. Ma è un affar
serio, lInghilterra! Basta; lanno scorso, sai quanto? Quasi sessantacinque
mila lire, tra originali e traduzioni. Più, con le traduzioni.
- Oh Dio quanto! - esclamò la signora
Velia, ricadendo nella costernazione.
- E che cosa sono? - sogghignò Giustino.
- Mi fai ridere... Sapessi quanto si guadagna in America, in Inghilterra! Milioni, come
niente. Ma questanno, chi sa!
Invece dattenuare, si sentiva ora
spinto a esagerare da unirritazione che, di fronte a se stesso, fingeva gli fosse
cagionata dallangustia mentale della madre, mentre gli era in fondo cagionata da
quel disagio interno, da quel rimorso.
La madre lo guardò e abbassò subito gli
occhi.
Ah, comera tutto preso, infatuato,
povero figliuolo, dalle idee della moglie! Che guadagni sognava! E non le aveva domandato
nulla del loro paese; appena appena a lei della salute e se aveva viaggiato bene.
Sospirò, come tornando di lontano; disse:
- Ti saluta tanto la Graziella, sai?
- Ah, brava! - esclamò Giustino. - Sta
bene la Graziella?
- Comincia a essere stolida, come me, -
gli rispose la madre. - Ma, tu sai, è fidata. Anche il Prever ti saluta.
- Sempre matto?
- Sempre, - fece la vecchietta,
sorridendo.
- Ti vuole sposare ancora?
La signora Velia agitò una mano, come se
cacciasse via una mosca, sorrise e ripeté:
- Matto... matto... Abbiamo già la neve
a Cargiore, sai? La neve su Roccia Vrè e sul Rubinett!
- Se tutto andrà bene, - disse Giustino,
- dopo il parto chi sa che Silvia non venga sù con te, a Cargiore, per alcuni mesi.
- Sù, con la neve? - domandò, quasi
sgomenta, la madre.
- Anzi! - esclamò Giustino. - Le
piacerà tanto: non lha mai veduta! Io dovrò muovermi per affari, forse...
Speriamo! Riparleremo poi di questo, a lungo. Tu vedrai come taccorderai subito con
Silvia che, poverina, è cresciuta senza mamma... Adesso ti presenterò. Ti lascerò con
lei, perché debbo scappar subito a teatro per le prove.
Non saccorgeva che la madre lo
guardava senza capire; come non saccorgeva del male che faceva alla moglie
parlandole in quei giorni del dramma, di ritorno da quelle prove, tutto acceso, anzi col
volto qua e là pezzato di rosso, come se gli avessero dato tanti pizzicotti. Ma non
poteva proprio farne a meno.
Era rimasto gabbato nel computo dei
giorni: aveva calcolato che per i primi di ottobre la moglie sarebbe stata libera, e
invece... invece, ecco qua, Lisola nuova andava proprio in iscena mentre
Silvia si trovava ancora in quello stato.
La compagnia Carmi-Revelli, scritturata
al teatro Valle giusto per quel mese, faceva assegnamento sopra tutto su quel
lavoro nuovo, che sera accaparrato da parecchi mesi. Non era possibile rimandarne la
rappresentazione.
Giustino era in uno stato da far pietà.
Non riusciva a intendere nulla da quelle
prove, e veniva ad annunziarlo alla moglie avvilito e pur come ubriaco.
Quel palcoscenico bujo, intanfato di
muffa e di polvere bagnata; quei macchinisti che martellavano sui telaj inchiodando le
scene per la rappresentazione della sera; tutti i pettegolezzi e le piccinerie e la
svogliatezza e la cascaggine di quei comici sparsi a gruppetti qua e là, quel suggeritore
nella buca col copione davanti, pieno di tagli e di richiami; il direttore capocomico,
sempre arcigno e sgarbato, seduto presso alla buca; quello che copiava lí su un
tavolinetto le parti; il trovarobe in faccende tra i cassoni, tutto sudato e sbuffante,
gli avevano cagionato un disinganno crudele.
Sera fatto mandare da Taranto
parecchie fotografie di marinaj e popolane di Terra dOtranto, per i figurini, e
anche vesti e scialli e berretti, per modelli. Perché il dramma si svolgeva in
unisoletta del Jonio, feracissima, già luogo di pena, abbandonata dopo un disastro
tellurico, che aveva ridotto un mucchio di rovine la cittaduzza che vi sorgeva. Sgombrata
dai pochi superstiti, era rimasta deserta per anni, destinata probabilmente a scomparire
un giorno dalle acque.
Ora la Roncella aveva immaginato che una
prima colonia di marinaj dOtranto, rozzi, primitivi, andata di nascosto ad annidarsi
tra quelle rovine, non ostante la terribile minaccia incombente su lisola, viva là,
fuori dogni legge, quasi fuori del tempo. Tra loro, una sola donna, la Spera,
donna da trivio, ma ora lí onorata come una regina, venerata come una santa, e contesa
ferocemente a colui che lha condotta con sé: un tal Currao, divenuto, per
ciò solo, capo della colonia. Ma Currao è anche il più forte e col dominio di
tutti mantiene a sé la donna, la quale in quella vita nuova, diventata unaltra, ha
riacquistato le virtù native, custodisce per tutti il fuoco, è la dispensiera
dogni conforto familiare, e ha dato a Currao un figliuolo chegli adora.
Un giorno, però, uno di quei marinaj, il
rivale più accanito di Currao, sorpreso da costui nellatto di trarre a sé
con la violenza la donna, e sopraffatto, sparisce dallisola. Si sarà forse buttato
in mare su una tavola; avrà forse raggiunto a nuoto qualche nave che passava lontana.
Di lí a qualche tempo, una nuova colonia
sbarca nellisola, guidata da quel fuggiasco: altri marinaj che recano però con sé
le loro donne, madri, mogli, figlie e sorelle. Quando gli uomini della prima colonia
saccorgono di questo, smettono dosteggiarne lapprodo sotto il comando di
Currao. Questi resta solo, perde dun tratto ogni potestà; la Spera
ridiventa subito per tutti quella di prima. Ma ella non tanto se ne duole per sé, quanto
per lui; savvede, sente che egli, prima cosí orgoglioso di lei, ora ne ha onta; ne
sopporta in pace il disprezzo. Alla fine la Spera saccorge che Currao,
per rialzarsi di fronte a se stesso e agli altri, medita dabbandonarla.
Dileggiandola, alcuni giovani marinaj, quelli stessi che già spasimarono tanto per lei
invano, vengono a dirle chegli non si cura più di farle la guardia perché
sè messo a farla invece a Mita, figliuola dun vecchio marinajo, Padron
Dodo, che è come il capo della nuova colonia. La Spera lo sa; e
saggrappa ora al figliuolo, con la speranza di trattenere cosí luomo che le
sfugge. Ma il vecchio Padron Dodo, per consentire alle nozze, pretende che Currao
abbia con sé il ragazzo. La Spera prega, scongiura, si rivolge ad altri perché
sinterpongano. Nessuno vuol darle ascolto. Allora si reca a supplicare il vecchio e
la sposa; ma quegli le dimostra che devessere più contenta che il figliuolo rimanga
col padre; laltra la assicura che il ragazzo sarà da lei ben trattato. Disperata,
la donna, per non abbandonare il figliuolo e per colpire nel cuore luomo che
labbandona, in un impeto di rabbia furibonda abbraccia la sua creatura e in quel
terribile abbraccio, ruggendo, la soffoca. Cade un masso, dopo quel ruggito, e un altro,
lugubremente, nel silenzio che segue al delitto; e altre grida lontane si levano
dallisola. La Spera abita in cima a un poggio, tra le rovine duna casa
crollata al tempo del primo disastro. Pare che non sia ben certa se lei stessa col suo
ruggito abbia fatto crollare quei massi, abbia suscitato quelle grida dorrore. Ma
no, no, è la terra! è la terra! Balza in piedi; sopravvengono urlanti, scontraffatti dal
terrore, alcuni fuggiaschi, scampati allestrema rovina. Sè aperta la terra!
È sprofondata la terra! La Spera sente chiamarsi, sente chiamare il figliuolo
dalla voce del marito giù dalla costa del poggio; accorre, vacillando, con gli altri, si
sporge di lassù a guardare, raccapricciata, e tra clamori che vengono dabbasso, grida: -
Ti sè aperta sotto i piedi la terra? Tha inghiottito a metà? Il figlio? Te
lavevo ucciso io con le mie mani! Muori dannato!
La Carmi, prima attrice della compagnia,
si dichiarava entusiasta della parte di Spera, e assicurava che ne avrebbe fatto
una "creazione". Ma non sapeva ancora neanche lei una parola della parte;
passava davanti alla buca del suggeritore e ripeteva meccanicamente, come tutti gli altri,
le battute che quello, vociando e dando le indicazioni secondo le didascalie, leggeva nel
copione. Solo il caratterista Adolfo Grimi cominciava a dare qualche rilievo, qualche
espressione alla parte del vecchio Padron Dodo e il Revelli a quella di Currao;
ma a Giustino pareva che cosí luno che laltro le caricassero un po
troppo; il Grimi baritoneggiava addirittura. In confidenza e con garbo Giustino glielo
aveva fatto notare; ma al Revelli non sarrischiava, e si struggeva dentro. Avrebbe
voluto domandare a questo e a quello come avrebbero fatto quel tal gesto, come avrebbero
proferita quella tal frase. Alla terza o alla quarta prova, il Revelli, piccato
dellentusiasmo ostentato dalla Carmi, sera messo a interrompere tutti, di
tratto in tratto, e sgarbatamente; interrompeva tante volte proprio per un nonnulla, sul
più bello, quando a Giustino pareva già che tutto andasse bene e la scena cominciasse a
prender calore, ad assumere vita da sé, vincendo man mano lindifferenza degli
attori e costringendoli a colorire la voce e a muovere i primi gesti. La Grassi, ad
esempio, che faceva la parte di Mita per uno sgarbo del Revelli per poco non
sera messa a piangere. Perdio! Almeno con le donne avrebbe dovuto essere un po
più gentile, colui! Giustino sera fatto in quattro per consolarla.
Non saccorgeva che sul palcoscenico
parecchi comici e sopra tutti il Grimi, lo pigliavano in giro. Erano finanche arrivati,
quando il Revelli non cera, a fargli provare le "battute" più difficili
del dramma.
- Come direbbe lei questo?
E lui, subito! Sapeva, sapeva benissimo
che avrebbe detto male; non prendeva mica sul serio gli applausi e gli urli di ammirazione
di quei burloni scapati; ma almeno avrebbe fatto intravveder loro lintenzione della
moglie nello scrivere quelle... come si chiamavano? ah, già, battute... quelle battute,
sicuro.
Cercava in tutti i modi
dinfiammarli, daverli cooperatori amorosi a quella suprema e decisiva impresa.
Gli pareva che alcuni comici fossero un po sgomenti dellarditezza di certe
scene, della violenza di certe situazioni. Egli stesso, per dire la verità, non era
tranquillo su più dun punto, e qualche volta era assalito dallo sgomento anche lui,
guardando dal palcoscenico la sala del teatro, tutte quelle file di poltrone e di sedie
disposte lí, come in attesa, gli ordini dei palchi, tutte quelle bocche aperte in giro,
nellombra, minacciose. E poi le quinte sconnesse, le scene tirate sù a metà, il
disordine del palcoscenico, in quella mezza luce umida e polverosa, i discorsi alieni dei
comici che finivano di provare qualche scena e non prestavano ascolto ai compagni
cherano in prova, le arrabbiature del Revelli, la voce fastidiosa del suggeritore,
lo sconcertavano, gli scompigliavano lanimo, glimpedivano di costruirsi
lidea di ciò che sarebbe stato fra poche sere lo spettacolo.
Laura Carmi veniva a scuoterlo da quei
subitanei abbattimenti.
- Boggiòlo, ebbene? Non siamo contenti?
- Signora mia... - sospirava Giustino,
aprendo le braccia respirando con piacere il profumo dellelegantissima attrice,
dalle forme provocanti, dallespressione voluttuosa, quantunque avesse il volto quasi
tutto rifatto artificialmente, gli occhi allungati, le pàlpebre annerite, le labbra
invermigliate, e sotto tanta biuta le sintravvedessero i guasti delletà e la
stanchezza.
- Sù, caro! Sarà un successone,
vedrete!
- Lei crede?
- Ma senza dubbio! Novità, potenza,
poesia: cè tutto! E non cè teatro, - soggiungeva con una smorfia di
disgusto. - Né personaggi, né stile, né azione, qui sentent le "théâtre".
Voi comprendete?
Giustino si riconfortava.
- Senta, signora Carmi: lei dovrebbe
farmi un piacere: dovrebbe farmi sentire il ruggito di Spera allultimo atto,
quando soffoca il figlio.
- Ah, impossibile, caro! Quello deve
nascere lí per lí. Voi scherzate? Mi lacererebbe la gola... E poi, se lo sento una
volta, io stessa, anche fatto da me, addio! lo ricopio alla rappresentazione. Mi verrebbe
a freddo. No, no! Deve nascere lí per lí. Ah, sublime, quellamplesso. Rabbia
damore e dodio insieme. La Spera, capite? vuole quasi far rientrare in
sé, nel proprio seno, il figliuolo che le vogliono strappare dalle braccia, e lo strozza!
Vedrete! Sentirete!
- Sarà il suo figliuolo? - le domandava,
gongolante, Giustino.
- No, strozzo il figlio di Grimi, - gli
rispondeva la Carmi. - Mio figlio, caro Boggiòlo, per vostra norma, non metterà mai
piede su un palcoscenico. Che! Che!
Finita la prova, Giustino Boggiòlo
scappava nelle redazioni dei giornali, a trovare qua il Lampini, Ciceroncino, là
il Centanni o il Federici o il Mola, coi quali aveva stretto amicizia e per mezzo dei
quali aveva già fatto conoscenza con quasi tutti i giornalisti cosí detti militanti
della Capitale.
Anche costoro, è vero, se lo pigliavano
a godere, apertamente. Ma non se naveva per male. Mirava alla mèta, lui.
Casimiro Luna aveva saputo che
allArchivio Notarile gli storpiavano il nome chiamandolo Giustino Roncello.
Indegnità! Volgarità! I cognomi si rispettano, i cognomi non si storpiano! E aveva
aperto tra i colleghi una sottoscrizione a dieci centesimi per offrire al Boggiòlo cento
biglietti da visita stampati cosí:
GIUSTINO RONCELLA NATO BOGGIÒLO |
Sí, sí, benissimo.
Ma lui, intanto, da Casimiro Luna aveva ottenuto un brillante articolo su tutta quanta
lopera della moglie, ed era riuscito a far rilevare da tutti i giornali la
"vivissima attesa" del pubblico per il nuovo dramma Lisola nuova,
stuzzicando la curiosità con "interviste" e "indiscrezioni".
La sera rincasava stanco morto e
stralunato.
- La Carmi è grande! - annunziava. - E
quella piccola Grassi nella parte di Mita, un amore! Si sono già affissi per le
vie i primi manifesti a strisce. Stasera comincia la prenotazione dei posti. È un vero e
proprio avvenimento, sai? Dicono che verranno i maggiori critici teatrali di Milano, di
Torino e di Bologna.
La sera della vigilia ritornò a casa
comebbro addirittura. Recava tre notizie: due luminose, come il sole; laltra,
nera, viscida e velenosa come una serpe. Il teatro, tutto venduto; la prova generale,
riuscita a meraviglia; i giornalisti e qualche letterato che vi avevano assistito, rimasti
tutti quanti sbalorditi, a bocca aperta. Solo il Betti, Riccardo Betti, quel frigido
imbecille tutto leccato, aveva osato dire nientemeno che Lisola nuova era
"La Medea tradotta in tarentino".
- La Medea, capisci? - diceva a Silvia. -
La Medea! Che sarà questa Medea? Dice che è una tragedia dEuripide. Fammi il
piacere, cara! Domattina, appena arriva la signora Facelli da Catino, fattela prestare
questa benedetta Medea: stùdiale, stùdiale queste benedette cose greche, mice... non so
come le chiamino... micenàtiche... stùdiale! Vanno tanto oggi! Capisci che con una
frase, buttata cosí, ti possono stroncare? La Medea tradotta in tarentino... Sono tanti
imbecilli che non capiscono nulla, peggio di me! Li conosco adesso! Oh se li conosco! oh
se li conosco!
La sera della prima rappresentazione, fin
dalla piazzetta di SantEustachio la via del teatro era ingombra, ostruita dalle
vetture, tra le quali la gente si cacciava impaziente e agitata.
Per non stare a far lí la coda, Giustino
smontò dalla vettura e sguisciò tra i legni e la folla.
Su la meschina facciata del teatro le
grosse lampade elettriche vibravano, ronzavano, quasi partecipassero al vivo fermento di
quella serata memorabile.
Ecco Raceni su la soglia.
- Ebbene?
- Mi lasci stare! - sbuffò Giustino, con
un gesto disperato. - Ci siamo! Le doglie. Lho lasciata con le doglie!
- Santo Dio! Era da aspettarselo...
Lemozione...
- Il diavolo! dica il diavolo, mi faccia
il piacere! - E Giustino, rigirando gli occhi come un pazzo, si provò ad accostarsi al
botteghino, innanzi al quale si pigiava la gente per acquistare i biglietti
dingresso. Vide, levandosi su la punta dei piedi, il cartellino affisso su lo
sportello del botteghino: - Tutto esaurito- e nebbe un certo rinfranco,
quantunque se laspettasse.
Un signore lo urtò, di furia.
- Di niente... Ma, è inutile, sa? Glielo
dico io: non cè più posti! Torni domani sera. Si replica.
- Venga, venga, Boggiòlo! - lo chiamò
il Raceni. - Meglio che si faccia vedere sul palcoscenico.
- Due... quattro... uno... tre...
uno... tre... - gridavano intanto allingresso le maschere in livrea di gran
gala, ritirando i biglietti.
- Ma dove si vuol ficcare tutta questa
gente adesso? - domandò Giustino su le spine. - Quanti biglietti dingresso avranno
dato via? Sto in pensiero, creda, sto proprio in pensiero... Ho un brutto presentimento...
- Ma non dica cosí! - gli diede sulla
voce il Raceni.
- Per Silvia, dicevo... - soggiunse
Giustino, - per avere io il dramma... Lho lasciata, creda, molto, molto male...
Speriamo che tutto vada bene... ma ho paura che... E poi, guardi, tutta questa gente...
dove si ficcherà? Starà scomoda, sarà impaziente, turbolenta... Ohé, paga, e vorrà
godere... Ma poteva venire la seconda sera, perdio! Si replica... Andiamo, andiamo...
Tutto il teatro risonava dun
fragorío sommesso di gigantesco alveare. Come saziare la brama di godimento, la
curiosità, i gusti, laspettativa di tutto quel popolo, già per il suo stesso
assembramento sollevato a una vita diversa dalla comune, più vasta, più calda, più
fusa?
Avvertí come uno smarrimento angoscioso,
Giustino, guardando attraverso lentrata della platea il vaso rigurgitante di
spettatori. Il volto, di solito rubicondo, gli era diventato paonazzo.
Sul palcoscenico stenebrato appena da
alcune lampadine elettriche accese dietro i fondali, i macchinisti e il trovarobe davano
gli ultimi tocchi. Il direttore di scena, col campanello in mano, faceva fretta; voleva
dar subito il primo segnale agli attori.
Alcuni di questi erano già pronti; la
piccola Grassi parata da Mita e il Grimi da Padron Dodo, con la barba finta,
grigia e corta, il volto affumicato come un presciutto, orribile a vedersi cosí da
vicino, il berrettone marinaresco ripiegato su un orecchio, i calzoni rimboccati e i piedi
che parevano scalzi in una maglia color carne, parlavano con Tito Lampini in marsina e col
Centanni e il Mola. Appena videro Giustino e il Raceni, vennero loro incontro,
rumorosamente.
- Eccolo qua! - gridò il Grimi, levando
le braccia. - Ebbene, come va? come va?
- Teatrone! - esclamò il Centanni.
- Contento, eh? - aggiunse il Mola.
- Coraggio! - gli disse la Grassina,
stringendogli forte forte la mano.
Il Lampini gli domandò:
- La sua signora?
- Male... male...- prese a dire Giustino.
Ma il Raceni, sgranando gli occhi, gli
fece un rapido cenno col capo. Giustino comprese, abbassò le pàlpebre e aggiunse:
- Capiranno che... tanto... tanto bene
non può stare...
- Ma starà bene! benone starà! benone!
fece il Grimi col suo vocione pastoso, dimenando il capo e sogghignando.
- La signora Carmi? - domandò Giustino.
In camerino, - rispose la Grassi.
Si sentiva attraverso il sipario il
rimescolío incessante degli spettatori in attesa. Mille voci confuse, prossime, lontane,
rombanti, e sbatacchiar dusci e stridore di chiavi e scalpiccío di piedi. Il mare
nel fondo della scena, il Grimi vestito da marinajo, diedero a Giustino limpressione
che ci fosse un gran molo di là con tanti piroscafi in partenza. Gli orecchi presero
dun tratto a gridargli e una densa oscurità gli occupò il cervello.
- Vediamo la sala! - gli disse il Raceni,
prendendolo sotto il braccio e tirandolo verso la spia del telone. - Non si lasci
scappare, per carità! - aggiunse poi, piano, - che la signora è soprapparto.
- Ho capito, ho capito, rispose Giustino,
che si sentiva morire le gambe accostandosi alla ribalta. - Senta, Raceni, lei mi dovrebbe
fare il piacere di correre a casa mia a ogni fin datto.
- Ma sintende! - lo interruppe il
Raceni, - non cè bisogno che me lo dica.
- Per Silvia, dicevo... - soggiunse
Giustino, - per avere io notizie... Capirà che a lei non si potrà dir nulla. Ah che
sciagurata combinazione! E meno male che ho avuto la ispirazione di far venire mia madre!
Poi cè lo zio... E ho sacrificato anche quella povera signorina Facelli, che aveva
tanto desiderio dassistere allo spettacolo!
Mise locchio alla spia e restò
sgomento a mirare prima giù nelle poltrone, in platea, poi in giro nei palchi e sù al
loggione formicolante di teste. Erano inquieti, impazienti lassù, vociavano, battevano le
mani, pestavano i piedi. Giustino sobbalzò a una scampanellata furiosa del buttafuori.
- Niente! - gli disse il Raceni,
trattenendolo, - è il primo segnale.
Tutti, tutti i palchi erano
straordinariamente affollati e non un posto vuoto in platea, e che ressa nel breve spazio
dei posti allin piedi! Giustino si sentí come arso dal soffio infocato della sala
luminosa, dallo spettacolo di tanta moltitudine in attesa, che lo feriva, lo trafiggeva
con glinnumerevoli occhi. Tutti, tutti quegli occhi col loro luccichío irrequieto
rendevano terribile e mostruosa la folla compatta. Cercò di distinguere, di riconoscere
qualcuno lí nelle poltrone. Ah ecco il Luna, che guardava nei palchi e inchinava il capo,
sorridendo... ecco là il Betti, che puntava il binocolo. Chi sa a quanti e quante volte
aveva ripetuto quella sua frase, con signorile sprezzatura:
- La Medea
tradotta in tarentino. - (Imbecille!).
Guardò di nuovo ai palchi e, seguendo le
indicazioni del Raceni, cercò nel primo ordine il Gueli, nel secondo donna Francesca
Lampugnani, la Bornè-Laturzi; ma non riuscí a scorgere né queste né quello.
Era gonfio dorgoglio, ora, pensando
che già era uno splendido e magnifico spettacolo per se stesso quel teatro cosí pieno, e
che si doveva a lui: opera sua, frutto del suo costante, indefesso lavoro, la
considerazione di cui godeva la moglie, la fama di lei.
Lautore, il vero autore di tutto,
si sentiva lui.
- Boggiòlo! Boggiòlo!
Si volse: gli stava davanti Dora Barmis,
raggiante.
- Che magnificenza! Non ho mai visto un
teatro simile! Un mago, siete un mago, Boggiòlo! Una vera magnificenza, à ne voir que
les dehors. E che miracolo, avete visto? E in teatro Livia Frezzi! Dicono che sia già
terribilmente gelosa di vostra moglie.
- Di mia moglie? - esclamò Giustino,
stordito. - E perché?
Era cosí infatuato in quel momento, che
se la Barmis gli avesse detto che lamica del Gueli e tutte le donne cherano in
teatro deliravano per lui, lo avrebbe compreso e creduto facilmente. Ma sua moglie... -
che centrava sua moglie? Livia Frezzi gelosa di Silvia? E perché?
- Perché? - soggiunse la Barmis. - Ma
chi sa quante donne saranno tra poco gelose di Silvia Roncella! Che peccato chella
non sia qui! Come sta? come sta?
Giustino non ebbe tempo di risponderle.
Squillarono i campanelli. Dora Barmis gli strinse forte forte la mano e scappò via. Il
Raceni lo trascinò tra le quinte di destra.
Si levò il sipario, e a Giustino
Boggiòlo parve che gli scoperchiassero lanima e che tutta quella moltitudine
dun tratto silenziosa sapparecchiasse al feroce godimento del supplizio di
lui.
Supplizio inaudito, quasi di vivisezione.
Con un che di vergognoso; come se egli fosse tutto una nudità esposta, che da un momento
allaltro, per qualche falsa mossa impreveduta, potesse apparire atrocemente ridicola
e sconcia.
Sapeva a memoria da capo a fondo il
dramma, le parti di tutti gli attori dalla prima allultima battuta, e
involontariamente per poco non le ripeteva ad alta voce, mentre quasi in preda a continue
scosse elettriche si voltava a scatti di qua e di là con gli occhi brillanti spasimosi, i
pomelli accesi, straziato dalla lentezza dei comici, che gli pareva sindugiassero
apposta su ogni battuta per prolungargli il supplizio, come se anchessi ci si
divertissero.
Il Raceni, caritatevolmente, a un certo
punto tentò di strapparlo di là, di condurlo nel camerino del Revelli, non ancora
entrato in scena; ma non riuscí a smuoverlo.
Man mano che la rappresentazione
procedeva, una violenza strana, un fascino teneva e legava lí Giustino, sgomento, come al
cospetto dun fenomeno mostruoso.
Il dramma che sua moglie aveva scritto,
chegli sapeva a memoria parola per parola, finora quasi covato da lui - ecco, si
staccava, si staccava da tutti, sinalzava, sinalzava come un pallone di carta
chegli avesse diligentemente portato lí, in quella sera di festa, tra la folla, e
che avesse a lungo e con cura trepidante sorretto su le fiamme da lui stesso suscitate
perché si gonfiasse; a cui ora infine egli avesse acceso lo stoppaccio; si staccava da
lui, si liberava palpitante e luminoso, si inalzava, si inalzava nel cielo, traendosi seco
tutta la sua anima pericolante e quasi tirandogli le viscere, il cuore, il respiro,
nellattesa angosciosa che da un istante allaltro un buffo daria, una
scossa di vento, non lo abbattesse da un lato, ed esso non sincendiasse, non fosse
divorato lí nellalto dallo stesso fuoco chegli vi aveva acceso.
Ma dovera il clamore della folla
per quellinalzamento?
Ecco: la mostruosità del fenomeno era
questo silenzio terribile in mezzo al quale il dramma sinalzava. Esso solo, lí, da
sé e per conto suo viveva, sospendendo, anzi assorbendo la vita di tutti, strappando a
lui le parole di bocca, e con le parole il fiato.
E quella vita là, di cui egli ormai
sentiva lindipendenza prodigiosa, quella vita che si svolgeva ora calma e possente,
ora rapida e tumultuosa in mezzo a tanto silenzio, glincuteva sgomento e quasi
orrore, misti a un dispetto a mano a mano crescente; come se il dramma, godendo di se
stesso, godendo di vivere in sé e per sé solo, sdegnasse di piacere altrui, impedisse
che gli altri manifestassero il loro compiacimento, si assumesse insomma una parte troppo
preponderante e troppo seria, trascurando e rimpiccolendo le cure innumerevoli
chegli se nera dato sinora, fino a farle apparire inutili e meschine, e
compromettendo quegli interessi materiali a cui egli doveva attendere sopra tutto.
Se non scoppiavano applausi... se tutti
restavano cosí sino alla fine, sospesi e intontiti... Ma comera? che cosera
avvenuto? Tra poco il primo atto sarebbe terminato... Non un applauso... non un segno
dapprovazione... niente!
Gli pareva dimpazzire... apriva e
chiudeva le mani, affondandosi le unghie nelle palme, e si grattava la fronte ardente e
pur bagnata di sudor freddo. Figgeva gli occhi nel viso alterato del Raceni tutto intento
allo spettacolo, e gli pareva di leggervi il suo stesso sgomento... no, uno sgomento
nuovo, quasi uno sbalordimento... forse quello stesso che teneva tutti gli spettatori...
Per un momento temette non fosse una cosa
atroce e orribile, non mai finora perpetrata, quel dramma, e che tra poco, da un istante
allaltro non scoppiasse una feroce insurrezione di tutti gli spettatori sdegnati,
adontati. Ah era veramente una cosa terribile quel silenzio! Comera? comera?
si soffriva? si godeva? Nessuno fiatava... E le grida dei comici sul palcoscenico, già
allultima scena, rimbombavano. Ecco, ora calava la tela...
Parve a Giustino che egli, egli solo, lí
dal fondale, con lansia sua, con la sua brama, con tutta lanima in un tremendo
sforzo supremo strappasse dalla sala, dopo un attimo eterno di voraginosa aspettazione,
gli applausi, i primi applausi, secchi, stentati, come un crepitío di sterpi, di stoppie
bruciate, poi una vampata, un incendio: applausi pieni, caldi, lunghi, lunghi, strepitosi,
assordanti... - e allora si sentí rilassare tutte le membra e venir meno, quasi cadendo,
affogando in mezzo a quello scroscio frenetico, che durava, ecco, durava, durava ancora,
incessante, crescente, senza fine.
Il Raceni lo aveva raccolto tra le
braccia, sul petto, singhiozzante e lo sorreggeva, mentre quattro, cinque, sette, dieci
volte gli attori si presenta ano alla ribalta, a quellincendio là.
Egli singhiozzava, rideva e singhiozzava
e tremava tutto di gioja. Dalle braccia del Raceni cadde tra quelle della Carmi e poi del
Revelli, e poi del Grimi che gli stampò sulle labbra, sulla punta del naso e sulla
guancia i colori della truccatura perché in un impeto di commozione egli volle baciarlo a
ogni costo, non ostante che quegli, sapendo il guajo che ne sarebbe venuto, si schermisse.
E col volto cosí impiastricciato, seguitò a cadere tra le braccia dei giornalisti e di
tutti i conoscenti accorsi sul palcoscenico a congratularsi; non sapeva far altro; era
cosí esausto, spossato, sfinito, che solo in quellabbandono trovava sollievo; e
ormai sabbandonava a tutti, quasi meccanicamente, si sarebbe abbandonato anche tra
le braccia dei pompieri di guardia, dei macchinisti, dei servi di scena, se finalmente a
distoglierlo da quel gesto comico e compassionevole, a scuoterlo con una forte scrollatina
di braccia non fosse sopravvenuta la Barmis, che lo guidò nel camerino della Carmi per
fargli ripulire la faccia. Il Raceni era scappato a casa a prendere notizie della moglie.
Nei corridoj, nei palchi era un gridío,
unesagitazione, un subbuglio. Tutti gli spettatori, per tre quarti dora
soggiogati dal fascino possente di quella creazione cosí nuova e straordinaria, cosí
viva da capo a fondo duna vita che non dava respiro, rapida, violenta, tutta
lampeggiante di guizzi impreveduti, serano come liberati con quellapplauso
frenetico, interminabile, dallo stupore che li aveva oppressi. Era in tutti adesso una
gioja tumultuosa, la certezza assoluta che quella vita, la quale, nella sua novità
datteggiamenti e despressioni, si dimostrava duna saldezza cosí
adamantina, non avrebbe potuto più frangersi per alcun urto di casi, poiché ogni
arbitrio ormai, come nella stessa realtà, sarebbe apparso necessario, dominato e reso
logico dalla fatalità dellazione.
Consisteva appunto in questo il miracolo
darte, a cui quella sera quasi con sgomento si assisteva. Pareva non ci fosse
la premeditata concezione dun autore, ma che lazione nascesse lí per lí, di
minuto in minuto, incerta, imprevedibile, dallurto di selvagge passioni, nella
libertà duna vita fuori dogni legge e quasi fuori del tempo,
nellarbitrio assoluto di tante volontà che si sopraffacevano a vicenda, di tanti
esseri abbandonati a se stessi, che compivano la loro azione nella piena indipendenza
della loro natura, cioè contro ogni fine che lautore si fosse proposto.
Molti, tra i più accesi e pur non di
meno afflitti dal dubbio che la loro impressione potesse non collegare col giudizio dei
competenti, cercavano con gli occhi nelle poltrone, nei palchi, i visi dei critici
drammatici dei più diffusi giornali quotidiani e si facevano indicare quelli venuti da
fuori, e stavano a spiarli a lungo.
Segnatamente su un palco di prima fila si
appuntavano gli occhi di costoro: nel palco di Zeta, terrore di tutti gli attori e
autori che venivano ad affrontare il giudizio del pubblico romano.
Zeta discuteva
animatamente con due altri critici, il Devicis venuto da Milano, il Còrica venuto da
Napoli. Approvava? Disapprovava? e che cosa? il dramma o linterpretazione degli
attori? Ecco, entrava nel palco un altro critico. Chi era? Ah, il Fongia di Torino... Come
rideva! E fingeva di piangere e di abbandonarsi sul petto del Còrica e poi del Devicis.
Perché? Zeta scattava in piedi, con un gesto di fierissimo sdegno, e gridava
qualcosa, per cui gli altri tre prorompevano in una fragorosa risata. Nel palco accanto,
una signora dal volto bruno, torbido, dagli occhi verdi profondamente cerchiati,
dallaria cupa, rigidamente altera, si levò e andò a sedere allaltro angolo
del palco, mentre dal fondo un signore dai capelli grigi... - ah, il Gueli! il Gueli!
Maurizio Gueli! - sporgeva il capo a guardare nel palco dei critici.
- Maestro; perdonate, - gli disse allora
Zeta, - e fatemi perdonare dalla signora. Ma quello è un guajo, Maestro! Quello è la
rovina della povera figliola! Se voi volete bene alla Roncella...
- Io? Per carità! - fece il Gueli, e si
ritrasse col viso alterato, guardando negli occhi la sua amica.
Questa, con un fremito di riso tagliente
sulle labbra nere e restringendo un po le pàlpebre quasi a smorzare il lampo degli
occhi verdi, chinò più volte il capo e disse al giornalista:
- Eh, molto... molto bene...
- Signora, con ragione! - esclamò allora
quello. - Genuina figliuola di Maurizio Gueli, la Roncella! Lo dico, lho detto e lo
dirò. Questa è una cosa grande, signora mia! Una cosa grande! La Roncella è grande! Ma
chi la salverà da suo marito?
Livia Frezzi tornò a sorridere come
prima e disse:
- Non abbia paura... Non le mancherà
lajuto... Paterno, sintende!
Poco dopo questa conversazione da un
palco allaltro, mentre già si levava il sipario sul secondo atto, Maurizio Gueli e
la Frezzi lasciavano il teatro come due che, non potendo più oltre frenare in sé
limpeto dellavversa passione, corressero fuori per non dare un laido e
scandaloso spettacolo di sé. Stavano per montare in vettura, quando da unaltra
vettura arrivata di gran furia smontò, stravolto, Attilio Raceni.
- Ah, Maestro, che sventura!
- Che cosè?- domandò con voce che
voleva parer calma il Gueli.
- Muore... muore... La Roncella, forse, a
questora... lho lasciata che... vengo a prendere il marito...
E senza neanche salutare la signora, il
Raceni savventò dentro il teatro.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 01 September, 1998