Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO SECONDO
SCUOLA DI GRANDEZZA
Nella cupa quiete del
mattino cinereo quel profondo cortile di vecchia casa, umido e quasi bujo, pareva
sussultasse di tratto in tratto alla domanda che, con voce cornea e un verso che accorava,
vi lanciava un grosso pappagallo da una finestra a mezzanino.
- Che si fa?
Era il pappagallo della signorina Ely
Facelli, di quella vecchina molto incipriata e col parrucchino biondo che aveva assistito
al banchetto in onore della Roncella. Locataria dun appartamento di quella casa, ne
aveva ceduto alcune stanze in subaffitto a Giustino Boggiòlo, per intercessione del
Raceni.
Poste lí sul cortile, quelle stanze non
erano allegre. E cera poi la delizia di questo pappagallo a cui dora in ora la
signorina Ely, stropicciandosi le manine fredde e ben curate, veniva a dimostrare con
quella domanda la sua premura quasi materna:
- Che si fa?
Naturalmente la stupidissima bestia ne
aveva preso il vezzo, e quella domanda pareva rivolgesse per suo conto quantera
lunga la giornata, a tutti glinquilini della casa:
- Che si fa?
Da tutti i quattro piani
glinquilini gli rispondevano, ciascuno a suo modo, sbuffando, secondo la qualità e
il fastidio delle proprie occupazioni in quel momento:
- Mi lavo!
- Accendo il fuoco!
- Sudo!
- Mi soffio il naso!
E qualcuno, anche peggio: piano, tra sé,
non potendo forte, da certi posti.
Una voce baritonale gli rispondeva sempre
a un modo, costantemente, a tutte le ore del giorno:
- Mannòòòjo!
Era la voce del signor Ippolito Roncella,
zio della scrittrice. Impiegato a riposo, invece di ritirarsi a Taranto sua città natale,
dove, morto il fratello, non avrebbe trovato più nessuno della sua famiglia, era rimasto
a Roma per ajutare (diceva) con la sua pensione la nipote venuta da circa tre mesi a
stabilirsi nella Capitale col marito. Ma già se nera pentito, e come!
Non poteva soffrire quel suo nuovo
nipote, Giustino Boggiòlo.
- Afa! Afa! - sbuffava, appena qualcuno
glielo nominava.
Che è lafa? Ristagno di luce in
basso, che snerva lelasticità dellaria. Quel suo nuovo nipote era come
lafa: sindugiava a far luce, la più inutile luce, terra terra; vale a dire a
spiegare le cose più ovvie, più chiare, come se le vedesse lui solo e gli altri, senza
il suo lume, non le potessero vedere.
Soffiava, il signor Ippolito, soffiava
piano piano prima, per non offenderlo; alla fine, non potendone più, sbuffava e sbatteva
anche le mani per restituire lelasticità allaria da respirare.
Per fargli dispetto, intanto, invece di
starsene nella sua stanza chera forse la migliore dellappartamentino, se ne
stava quasi tutto il giorno nello studiolo arredato di vecchi mobili, se non meschini,
certo molto comuni; e lí dàgli a fumare, non ostante che il medico lo avesse ammonito
più volte di smettere, se non voleva incorrere in qualche serio malanno. Ma sapeva che
Giustino non poteva soffrire il fumo. A certi terribili assalti di tosse per
lintossicamento dei bronchi, strozzato, paonazzo in volto, con gli occhi schizzanti
dalle orbite, tempestava coi pugni, coi piedi, si convelleva; ma seguitava a fumare
perché Giustino non poteva soffrire il fumo. E fumando, si lisciava con una mano su la
spalla il fiocco dun berretto da bersagliere che teneva sempre in capo. Come un
poppante la poppa della mamma, cosí egli, fumando in quella sua grossa pipa di schiuma,
aveva bisogno di lisciare qualcosa, e non volendo la magnifica barba grigia ricciuta,
lavata e pettinata ogni mattina con grandissima cura, si faceva venire su la spalla con
una mossa del collo il fiocco di quel berretto da bersagliere e si metteva a lisciar
quello.
Fumando e lisciando, pensava.
Pensava che sua nipote Silvia
laveva fin da ragazza, quel viziaccio di scribacchiare. Quattro, cinque libri aveva
stampato, e forse più. Ma non saspettava dovesse arrivargli a Roma letterata già
famosa. Uh, il giorno avanti, le avevano offerto finanche un banchetto tantaltri
pazzi scribacchiatori, come lei. Non era però cattiva, in fondo, no; anzi non pareva
nemmeno che avesse, povera figliuola, quella specie bacamento cerebrale. Ma cera il
marito, quellafoso, insoffribile marito che glielo stuzzicava e fomentava in tutti i
modi. Aveva comperato di seconda mano una macchina da scrivere e ogni sera dopo cena stava
fino a mezzanotte, fino al tocco, fino alle tre, a sonare su quel pianofortino lí, per
ricopiare tutto quello che la moglie aveva scombiccherato durante giornata: il materiale,
come lo chiamava, da mandare il giorno appresso alle rassegne, agli editori, ai
traduttori, coi quali era in continua corrispondenza. Ecco là lo scaffale a casellario; e
poi registri, copialettere. Commercio, con tutti i sagramenti. Di che? Di fumo.
Ma pareva si cominciasse davvero a
smerciare oh, quel fumo; e dallo smercio, a cavar qualche profitto.
Segno che il numero dei pazzi al mondo è
in continuo aumento.
Cè la vita, piena di infinite
assurdità, le quali non han neppur bisogno di parere verosimili, perché sono vere.
Ebbene, nossignori. Sforzarsi dinventarne di verosimili, perché pajano vere. Quelle
vere della vita non bastano. Anche verosimili! E un uomo, Signore Iddio, un uomo che ci
faceva sù bottega!
E anche, per giunta, quella signorina
Facelli, che ormai alla sua età, avrebbe dovuto vergognarsi e sentire il dovere
desser seria! Bacata anche lei, non del verme solitario della letteratura, ma del
tarlo dellerudizione e della tignola della storia. Aveva scoperto questa sciagurata,
villeggiando a Catino presso Farfa, una certa lapide latina nella chiesetta di
SantEustachio, e aveva composto (lei cosí piccolina) una mastodontica opera Dellultima
dinastia longobarda e dellorigine del potere temporale dei Papi (con documenti
inediti), nella quale aveva dimostrato, contro il Gregorovius nientedimeno, che Adelchi
non era morto in Calabria, ma nel catino; cioè lí a Catino, sissignori, presso Farfa; e
ora saspettava che il suo caro inquilino Boggiòlo facesse, come aveva promesso, il
miracolo di trovarle un editore e, chi sa, forsanche poi un traduttore (tedesco,
sintende) per quella sua mastodontica opera ancora inedita. Intanto gli stava
attorno premurosa a fargli continue e pressanti esibizioni dogni servizio.
Eccola qua.
- Saccomodi, saccomodi, -
brontolò il signor Ippolito senza scomporsi, udendo dietro luscio dello studiolo la
vocina dolce dolce che chiedeva:
- Si può?
Veniva, comal solito, a dar lezione
dinglese a Giustino, dalle otto alle nove. Gratis. Perché, come si poteva
argomentare dal parrucchino biondo arricciolato che teneva sulla fronte dentro una
reticella invisibile, era mezzo inglese, inglese per parte di madre, la signorina Ely
Facelli. Rimasta nubile per aver fatto con locchialino analisi troppo sottili in
gioventù sul naso un tantino storto o sulle mani un tantino grosse di questo o di quel
pretendente, pentita troppo tardi di tanta schifiltà, era adesso tutta miele per gli
uomini; ma non pericolosa. Il signor Ippolito sostinava a chiamarla La Longobarda.
- Ben levato, buon giorno, signor
Ippolito, - disse entrando con molti inchini e spremendo dagli occhi e dal bocchino un
sorrisetto di cui avrebbe potuto fare a meno, poiché il signor Ippolito aveva abbassato
subito gli occhi per non vederla, brontolando:
- Bene a lei, signorina. Tengo in capo,
al solito, e non mi alzo, perché già lei qua è come di casa, si sa.- Ma sí, grazie,
stia comodo, per carità! saffrettò a dire la signorina Ely, protendendo le
manine piene di giornali. Poi domandò: - E forse ancora a letto il signor Boggiòlo? Sono
venuta di furia perché ho letto... ah sapesse quante belle cose della festa di jeri in
questi giornali! Riportano il magnifico brindisi del senatore Borghi, annunziano con tanti
augurii il dramma della signora Silvia! Chi sa quanto devesserne contento il signor
Giustino!
- Piove, no?
- Come dice?
- Non piove? Mi pareva che piovesse.
La signorina Ely conosceva il vizio del
signor Ippolito di dare quelle brusche giratine al discorso, quando non gli garbava; pur
non di meno, questa volta, restò un po confusetta: raccapezzatasi, rispose
frettolosamente:
- No no; ma sa? starà poco forse. È
nuvolo. Tanto bello jeri, e oggi... Ah jeri, jeri, una giornata che mai più! Una
giornata... Come dice?
- Doni, - muggí il signor Ippolito, -
doni, dico, del Padreterno, signora mia, messo di buon umore dallallegria degli
uomini. Be, come vanno, come vanno codeste lezioni dinglese?
- Ah, benissimo! - esclamò la vecchia
signorina. - Dimostra unattitudine, il signor Giustino, a imparare le lingue
unattitudine che mai più! Già il francese, proprio bene; linglese fra
quattro o cinque mesi (forse prima) lo parlerà discretamente. Attaccheremo poi subito col
tedesco.
- Anche il tedesco?
- Eh sí, non potrebbe farne a meno.
Serve, serve tanto, sa?
- Per i suoi Longobardi?
- Lei scherza sempre coi miei Longobardi,
cattivo! - disse la signorina Ely. - Gli serve per veder chiaro nei contratti che fa, per
sapere a chi affida le traduzioni, e poi per rendersi conto del movimento letterario; per
leggere gli articoli, le critiche dei giornali.
- E per morire? non gli serve? dica un
po!
- Come sarebbe, per morire?
- Che deve morire, scusi, non ci pensa
mai, il signor Giustino?
La signorina Ely parò le manine,
inorridita.
- Oh! Che dice mai, signor Ippolito!
- Mah! - esclamò, scrollandosi, il
signor Ippolito. - Quando vedo fare (anche a lei, scusi) certe cose che mi sembra possano
esser fatte soltanto per ischerzo... Sa che cosa è questa?
E con la mano sotto il mento sollevò
delicatamente la magnifica barba.
La signorina Ely guardò con tanto
docchi.
- Eh, una barba...
- Barba. Appunto. E questa è una manica.
Manica di giacca. Stoffa di lana. Un po pelosa. E questo sa cosè? Un fiocco
di berretto da bersagliere. Ecco. Non so se mi sono spiegato. Cose tutte, cara signorina,
che si possono toccare. Toccare. Ha capito? Aspetti.
Si tirò, con uno strappo netto, un pelo
della barba, più per dare uno sfogo alla stizza che man mano parlando gli cresceva, che
per dare un altro esempio, e mise quel pelo sulla mano della signorina Ely che guardava
imbalordita.
- Prenda. Pelo di barba. Vero. Non so se
mi sono spiegato. E guardi adesso tutta la sua letteratura.
Trasse dalla pipa una grossa boccata di
fumo, e la soffiò.
- Non so se mi sono spiegato. Ma ecco qua
il signor Giustino, - sinterruppe improvvisamente, balzando in piedi. - Lo riconosco
al passo!
Difatti il nipote entrava per prendere la
lezione dinglese, prima di recarsi allufficio.
Doveva aver dormito male. Era molto
accigliato. Diede due diversi "Buon giorno" alla signorina Ely e allo zio che si
disponeva a uscire dallo studiolo appestato dal fumo; appena lo vide uscire, corse a
spalancare la finestra, stronfiando.
- Ha veduto i giornali? - gli domandò
subito per richiamarlo a una cosa piacevole, la signorina Ely.
- Sissignora, li ho di là, - rispose,
brusco, Giustino. - Li aveva portati anche lei? Grazie. Eh, devo comperarne ancora tanti!
Bisognerà mandarne via parecchi. Ma ha visto che razza di pasticcioni codesti signori
giornalisti?
- Mi pareva che... - arrischiò la
signorina Ely.
- Quando le cose non si sanno, - la
interruppe, brusco, Giustino - non si dicono, o, se si vogliono dire, si domandano prima a
chi le sa, come stanno e come non stanno. Non fossi stato là! Ero là, pronto a dare
tutte le spiegazioni possibili e immaginabili, tutti i chiarimenti; che centrava
cavarsi dalla manica certe fandonie? Il Lifjeld qua... no, dovè? su la Tribuna,
diventato un editore tedesco. E poi, guardi: Deloche... qua, Deloche invece di Deriches.
Non sanno neanche il francese; e fanno i giornalisti! Deloche... Mi dispiace perché debbo
mandare i giornali anche in Francia; e cosí, con la correzione a penna, bella figura ci
facciamo!
- Come sta, come sta la signora Silvia?-
domandò la Facelli, per non insistere su quel tasto che sonava male.
Sonò peggio questaltro.
- Mi lasci stare! - sbuffò Giustino,
buttando sulla scrivania i giornali. - Una nottataccia!
- Eh, lemozione...
- Ma che emozione! Quella, emozione?
Perché lei lo sappia, è una donna, quella, che non la smuove neanche il Padre eterno!
Tanta gente convenuta là per lei, il fior fiore della letteratura e del giornalismo, il
Gueli, il Borghi: crede che le abbia fatto piacere? Nemmen per sogno. Già, ha visto? ho
dovuto trascinarla per forza. E le giuro su lanima di mio padre Signorina, che
questo banchetto è venuto da sé, voglio dire in mente al Raceni, a lui soltanto; io non
ci sono entrato per nulla. Mi pare che, dopo tutto, sia riuscito bene.
- Benissimo, come no? - approvò subito
la signorina Ely. - Una festa che mai più!
- Be, a sentir lei, - fece
Giustino, - dice e sostiene che ha fatto una pessima figura.
- Chi? - esclamò la signorina Ely
battendo le mani. - La signora Silvia? Ma chi lo dice?
- Chi lo dice? Lo dice lei! Ridendo, lo
dice. Perché non gliene importa nulla, dice. Ora, si deve stare o non si deve stare sulla
breccia? Per prima cosa io voglio saper questo. Perché io faccio, io faccio; ma se poi
lei invece di secondarmi, di ajutarmi, vuol tirarsi indietro e mettermi come si dice i
bastoni tra le ruote... Insomma, chi scrive? Scrive lei; mica scrivo io! E se la cosa va,
domando e dico perché non dobbiamo fare in modo che vada il meglio possibile?
- Ma sicuro! - approvò di nuovo,
convintissima, la signorina Ely.
Giustino stette un po a guardarla;
poi le si accostò e le fece, piano, questa confidenza:
- Avrà ingegno; saprà magari scrivere;
ma certe cose, creda pure, non le capisce. E non parlo dinesperienza, badi. Due
volumi, buttati via cosí, prima di sposare me, senza contratto. Una cosa incredibile!
Appena posso farò di tutto per riscattarli, quantunque per i libri ormai illusioni non me
ne faccia più. Il romanzo sí, il romanzo va; ma non siamo in Inghilterra e nemmeno in
Francia. Ora ha fatto il dramma - si è lasciata persuadere. Io non me nintendo.
Lha letto il senatore Borghi e dice che... sí, lesito non si può prevedere,
ma gli piace; è una cosa... non so comha detto... classica, mi pare... sí, e poi
unaltra cosa, classica e... non ricordo più. Ora, se limbrocchiamo col
teatro, capirà, signora mia, può essere la nostra fortuna.
- Eh altro! - esclamò la signorina Ely.
- Ma dobbiamo prepararci, - soggiunse con
stizza Giustino, giungendo le mani Cè aspettativa, curiosità. Ora cè
stato questo banchetto. Io ho potuto vedere che è piaciuta.
- Moltissimo!
- Guardi, lha invitata la marchesa
Lampugnani, che ho sentito dire è tra le prime di Roma; lha invitata anche
quellaltra, che ha pure un salotto molto ricercato... come si chiama? la
Bornè-Laturzi. Bisogna andare, non è vero? Mostrarsi. Ci vanno tanti giornalisti. Sarà
utile che lei li veda, parli con loro, si faccia conoscere, apprezzare. Ebbene, chi sa
quanto mi farà penare per persuaderla!
- Forse perché, - arrischiò impacciata
la signorina Ely, - forse perché si trova in quello stato...
- Ma no! - negò subito Giustino. -
Ancora per due o tre mesi non parrà neppure; potrà presentarsi benissimo! Le ho detto
che le farò un abito nuovo. Anzi, ecco, volevo dirle appunto questo, Signorina, se lei mi
sapesse indicare una buona sarta, senza troppe pretese, perché... aspetti, scusi; e se
poi mi volesse accompagnare per la scelta di questabito e... e anche, sí, a
persuadere Silvia che, santo cielo, si lasci guidare e faccia quello che deve. Il dramma
andrà in scena verso i primi di novembre.
- Ah, cosí tardi?
- No, anzi è presto. La buona stagione
per i teatri comincia sempre a novembre. E aspettare non mi dispiace. Il terreno non è
ancora preparato come vorrei. Conosco pochi. Il vero chiodo è Silvia, Silvia ancora cosí
impacciata. Abbiamo ancora davanti a noi parecchi mesi. Vorrei concertare un programmino.
Per me, non ce ne sarebbe bisogno; ma per Silvia... Mi fa stizza, creda. non che si
ribelli ai consigli; ma non vuole forzarsi per nulla a investirsi della sua parte, a
vincere insomma la propria indole...
- Schiva, già!
- Come dice?
- Indole schiva, dicevo.
- Sí; le mancano le maniere, ecco.
Schiva; mi piace questa parola; bisogna che me la tenga a mente. Sí, schiva. Un po
di scuola, di quella che intendo io, le sarebbe più necessaria del pane. Mi sono accorto,
cara signorina, che cè come una tacita intesa tra tanti che si riconoscono
allaria: basta che pronunzino un nome, il nome... aspetti, comè?... di quel
poeta inglese di Piazza di Spagna, morto giovane...
- Keats! Keats! - gridò la signorina
Ely, come toccata nel cuore.
- Chizzi, già... questo! Appena
dicono Chizzi, hanno detto tutto: non cè più bisogno di niente: si sono
capiti. Oppure dicono, non so, il nome dun pittore olandese, comè?
- Van Gogh?
- Questo, già: sono quattro, cinque di
questi nomi difficili; li pronunziano scambiandosi uno sguardo dintelligenza, e
fanno una figurona! Lei chè tanto dotta, signorina, mi dovrebbe far questo piacere:
insegnarli a Silvia.
E come no? Promise, felicissima, la
signorina Ely; e aveva la sarta, intanto, e per labito (un bellabito nero, no?
di stoffa lucida) bisognava farlo in modo...
- naturalmente!
- ...sí, che si possa, insomma...
- Naturalmente!
- ...a mano a mano...
- naturalmente, allargare. Vorrei che si
andasse domani insieme a comperarlo.
Stabilito questo, Giustino trasse dal
cassetto della scrivania alcuni albums e li mostrò, sbuffando.
- Guardi, quattro, oggi!
Un affar serio, quegli albums. Ne
piovevano da tutte le parti. Ammiratrici, ammiratori che, direttamente o per mezzo del
Raceni o anche del senatore Borghi, chiedevano un pensiero o la semplice apposizione della
firma. A dar retta a tutti, Silvia avrebbe perduto chi sa quanto tempo. È vero che, per
ora, faceva poco, in considerazione dello stato in cui si trovava; ma a qualche lavorino
leggero tuttavia attendeva. La seccatura di quegli albums se lera perciò
accollata lui: vi scriveva lui i pensieri invece della moglie. Non se ne sarebbe accorto
nessuno, perché sapeva imitare appuntino la scrittura e la firma di Silvia. I pensieri li
traeva dai libri di lei già stampati; anzi, per non star lí ogni volta a sfogliare e
cercare, se nera ricopiati una filza in un quadernetto, e qua e là ne aveva anche
inserito qualcuno suo, che poteva passare. In quelli della moglie sera arrischiato a
far di nascosto qualche correzioncina ortografica, perché, leggendo nei giornali gli
articoli di scrittori raffinati (come per esempio il Betti, che aveva trovato tanto da
ridire sulla prosa di Silvia) sera accorto che costoro scrivevano, chi sa perché,
con lettera majuscola certe parole. Ebbene, anche lui, ogni qualvolta nei pensieri di
Silvia ne trovava qualcuna majuscolabile, là, una bella majuscola! Santo cielo, se si
poteva fare con cosí poca spesa una migliore figura...
Sedettero alla fine, maestra e scolaro,
davanti la scrivania.
- Perché faccio tutto questo io? -
sospirò Giustino. - Me lo sa dire lei?
Aprí la grammatica inglese e la porse
alla signorina Ely.
- Forma negativa, - cominciò poi a
recitare con gli occhi chiusi. - Present tense: I do not go, io non vado; thou
dost not go, tu non vai; he does not go, egli non va...
Ma per la scuola di
grandezza a cui intendeva assoggettar la moglie selvatica e riluttante, per quanto timida
e docile in apparenza, Giustino vedeva che quella brava signorina Facelli non poteva
bastare, e che cera bisogno di ben altra maestra.
Piemontese montanaro testardo, voleva a
qualunque costo superar tutti gli ostacoli di quella via per cui sera messo a caso e
del tutto impreparato; e arrivare fino a dare alla moglie, se non proprio la ricchezza,
che non gli pareva possibile, almeno tutti quei maggiori profitti finanziarii che si
potevano cavare speculando sulla fama di lei. Certo, non era una buona partita da
trattare, né facile. Bisognava prenderci un po di gusto. E lui a poco a poco ce
laveva preso; se nera anzi infervorato tanto che il cuore, si può dire, non gli
batteva più per altro.
Gli premeva il guadagno, ma non per il
guadagno, bensí perché era la prova, lí ballante e sonante, di quel che voleva
dimostrare a quella sua moglie troppo sulle nuvole e inesperta, cioè che accanto a lei
cera un uomo.
Il ritegno di Silvia lo irritava sopra
tutto perché non gli pareva logico. Se seguitava a scrivere, santo cielo, che
centrava poi tutto quel ritegno, quel farsi quasi strappar di mano ciò che aveva
scritto, perché lui glielo facesse fruttare in fama e denaro?
- Le cose si fanno o non si fanno.
Aveva ancora bisogno anche lui di un
po di pratica e forsanche di qualche consiglio; ragion per cui, quel giorno
stesso, alluscita dallArchivio Notarile, decise di recarsi in casa di Dora
Barmis, maestra ben più sapiente della signorina Ely Facelli.
Appoggiata alla cassapanca della saletta
dingresso trovò una stampella, su la stampella un cappello a cencio. La bussola che
metteva nel salotto, chiusa. Soffuso nella penombra il color verde giallino della carta a
scacchi applicata ai vetri.
- Ma no, no, no! vho detto no,
dunque basta! sintese gridare di dentro, irosamente.
La servetta, venuta ad aprirgli, restò a
questo grido un po perplessa se entrare in quel momento ad annunziarlo.
- Disturbo? - domandò Giustino, un
po sbigottito.
La servetta si strinse nelle spalle, poi
si fece coraggio, picchiò sul vetro della bussola, aprí.
- Ah, voi Boggiòlo? Che piacere!
Entrate, entrate, - esclamò Dora Barmis protendendo il capo e sforzandosi di comporre
subito a unaria sorridente il volto alterato dallo sdegno e dal dispetto.
Giustino Boggiòlo entrò un po
titubante, inchinando il capo anche a Cosimo Zago che, pallidissimo, sera levato su
un piede e si reggeva penosamente su la spalliera duna seggiola, spenzolando
laltra gambina rattratta.
- A rivederla,- disse lo Zago alla
Barmis, con voce che voleva parer calma.
- Addio, - gli rispose subito Dora,
sprezzante, senza guardarlo; e tornò a sorridere a Giustino. - Sedete, sedete, Boggiòlo.
Come siete stato bravo... Ma tardi, eh?
Appena lo Zago, zoppicando malamente, fu
uscito, fece un balzo sulla seggiola, con le braccia levate, sbuffò, poi prese a dire
precipitosamente:
- Non ne potevo più! ah caro amico, non
ne potevo più, grazie, grazie desser venuto a liberarmi, non ne potevo più! - E
seguitò, tirando un gran respiro: - Ah, come vi fa pentire la gente davere un
po di cuore! Ma se un uomo disgraziato viene a dirvi: "Sono brutto, sono
storpio", che gli rispondete voi? "No, caro, perché? Pensate che la natura
vha poi compensato con altri doni". È la verità. Sapeste che bei versi sa
fare quel poverino! Lo dico a tutti; lho detto anche a lui; ma cosí, tout
bonnement, come si può dire a un collega. Ora me ne fa pentire. È inutile, cest
toujours ainsi. Non dovevo dirglielo; sapete perché? perché sono donna. Non ci penso
neppure, tante volte, che sono donna, ve lassicuro. Me ne dimentico, me ne dimentico
cosí facilmente! Sapete come me ne ricordo? Vedendo certuni che mi guardano in un certo
modo... Oh Dio! Scoppio a ridere. Ma già, dico tra me, davvero! sono donna! Che cosa
triste... E poi, ormai vecchia, no? Sù... eh perbacco! fatemi un complimento, dite che
non sono vecchia!
- Non cè mica bisogno di dirlo, -
fece Giustino, arrossendo.
Dora Barmis scoppiò a ridere al suo
solito.
- Caro! Caro! Vi vergognate? Ma no, via,
non ci pensate! Prendete il tè? un vermouth? Ecco, fumate.
E gli porse con una mano la scatola delle
sigarette, mentre con laltra premeva il bottone del campanello elettrico sotto il
palco che reggeva tanti libri e ninnoli e statuette e ritratti, sospeso là su
lampio divano ad angolo, ricoperto di stoffe antiche.
- Grazie, non fumo, - disse Giustino.
Dora posò la scatola delle sigarette sul
tavolino basso, a due piani, che stava davanti al divano. Entrò la servetta.
- Porta il vermouth. A me, il tè. Qua,
Nina; preparo io.
Poco dopo, la servetta rientrò con la
tejera, col vermouth e le paste in una coppa argentata. Dora versò il vermouth a Giustino
e gli disse:
- Di ben altro, ora che ci ripenso,
dovreste vergognarvi voi, bel tomo! E questo, badate, ve lo dico ora sul serio.
- Di che? - domandò Giustino, che già
aveva capito: tanto vero che schiuse le labbra sotto i baffi a un sorrisino fatuo.
Dora ripigliò, agitando un dito e con un
tono di minaccia e di severo ammonimento:
- Voi avete dalla natura un sacro
deposito, Boggiòlo! (Prendete questo fondant). Vostra moglie non appartiene
solamente a voi. I vostri diritti, caro, devono essere limitati. Voi magari, se vostra
moglie non ne soffre... Dite un po, è gelosa di voi, vostra moglie?
- Ma no. Del resto, non posso dirlo,
perché...
- ...non le avete mai fatto il più
piccolo torto, non è vero? Siete dunque davvero un bravo figliuolo. Si vede. Ma troppo
bravo forse, eh? Dite la verità. No, no, voi dovreste risparmiarla, Boggiòlo. Del resto,
gli uomini dànno un brutto nome alla cosa...
Chiuse il medio e lanulare
duna mano e mostrò a Giustino graziosamente le corna. Rise, e aggiunse:
- Pesano sulla testa degli uomini. Una
donna di spirito non dovrebbe curarsene. Le hanno anche le farfalle... E sapete come si
chiamano quelle delle farfalle? Antenne, caro. Si chiamano antenne. Un uomo può avere,
spesso di nascosto, le corna. La donna porta sempre sperticatissime antenne (di farfalla,
sintende!). Sù, caro. Sù, gli occhi. Perché non mi guardate? Vi sembro molto
curiosa? Oh, bravo: cosí. Vi dico sul serio. Non si devessere troppo bravo marito,
quando si ha una moglie come la vostra. Conoscete la poetessa Bertolè Viazzi? Non è
venuta al banchetto, perché, povera donna...
- Anche lei? - domandò Giustino,
afflitto.
- Eh, ma molto più grave! - esclamò
Dora. - Ha un marito addirittura terribile quella lí!
Giustino si strinse nelle spalle:
- Daltra parte...
- Ma che daltra parte! - scattò
Dora. - Bisogna che il marito in certi casi abbia considerazione. Pensate: da quattro anni
la Bertolè lavora a un poema. Lo sappiamo tutti. Ebbene, saperla, povera donna, con una
gestazione come quella nella testa, un poema, vi dico! e poi, nello stesso tempo, vederla
deformata nel ventre da unaltra gestazione, no via! è una soperchieria crudele!
crudele!
- Capisco, - fece Giustino angustiato. -
E creda che è seccato molto anche a me. Ma Silvia durante tutto questo tempo non farà
nulla.
- E sarà un tempo prezioso sprecato!
- Lo dice a me? Sprecato; non solo, ma la
famiglia che cresce; e chi sa poi quante spese... e poi la lontananza, perché il bambino
dovremo mandarlo via, a bàlia, dalla nonna...
- A Taranto?
- No, a Taranto. La mamma di Silvia è
morta da tanti anni. Da mia madre, a Cargiore.
- Cargiore? - domandò Dora, sdrajandosi
tutta sul divano. Dovè Cargiore?
- In Piemonte, signora. Oh, un
villaggetto sparso, di poche case, sopra Giaveno.
- Perché voi siete piemontese, già. E
come mai avete sposata la Roncella meridionale?
- Mah! Mi mandarono a Taranto, dopo il
concorso...
- Uh, poverino.
- Un anno e mezzo desilio, creda!
- Non dovreste rimpiangerlo più...
- Ah, certo! Fortuna per me, che il padre
di Silvia, allora mio capo...
- AllArchivio?
- Capo-archivista, sissignora. Oh, un
buon impiego, per questo! Mi prese subito a benvolere...
- E voi, birbante, glinnamoraste la
figliuola letterata?
- Eh, per forza... - sorrise Giustino.
- Come, per forza?
- Dico per forza, perché, vacci oggi
vacci domani: un povero giovane, là solo... Lei non può capire che cosa sia. Vissuto
sempre con la mamma, abituato alle cure di lei... Lonorevole Datti, deputato del mio
collegio, maveva promesso che presto mavrebbe fatto chiamare a Roma,
allarchivio del Consiglio di Stato. Ma sí, le promesse dei deputati! E poi, anche
se il Datti avesse mantenuto la promessa, mia madre non avrebbe potuto raggiungermi a
Roma. Dovevo prender moglie.
- Ed ecco, caro Boggiòlo, perché le
mogli ingannano i mariti! - sospirò Dora.
Giustino ne fu stordito.
- Non capisco...
- Ma sí, caro! Perché gli uomini che
ragionano cosí, son proprio quelli che una donna non vorrebbe avere.
- Silvia, veramente... - si provò a
obbiettare Giustino.
- Oh, lo so bene, ne sono convinta, - lo
interruppe subito Dora. - Ma il vostro errore è nel credere che vostra moglie sia una
donna.
- Non è una donna?
- No, caro.
- E che è allora?
- È Silvia Roncella.
- Ma io, sa? non minnamorai di
Silvia perché letterata. Tuttaltro! Non ci pensavo neppure, allora, alla
letteratura. Sapevo, sí, che Silvia aveva stampato due libri; ma questo anzi per me...
Basta!
- No no, raccontate, raccontate, - lo
incitò Dora. - Mi fate tanto piacere.
- Cè poco da raccontare, - disse
Giustino. - Quando andai la prima volta in casa di lei, mimmaginavo di trovare...
non so, una giovine con la testa accesa. Ma che! Già lei lha veduta!
- Ah sí, un amore!
- Il padre, mio suocero,
buonanima...
- Le è morto anche il padre?
- Sissignora, di colpo. Un mese appena
dopo il nostro matrimonio, poverino. Eh, nera fanatico, lui. Dava a leggere a tutti
glimpiegati i libri della figlia, e anche i giornali che ne parlavano. Se ne
compiaceva, si sa. Li diede a leggere anche a me...
- E voi li leggeste, come per dovere
dufficio?
- Capirà! Silvia però ne soffriva, ne
soffriva proprio e non permetteva mai che se ne parlasse in sua presenza. Quieta quieta,
modesta, attendeva alle cure domestiche; faceva tutto lei in casa. Quando sposammo, mi
fece perfino ridere, dicendomi che aveva quel vizio di scrivere. Lo chiamava vizio. E
volle che le promettessi di non farci caso. In compenso, non mi sarei mai accorto né di
quando scriveva né di come avrebbe fatto a scrivere tra le faccende di casa.
- E voi?
- Eh, promisi. Poi però, pochi mesi dopo
il matrimonio arrivò dalla Germania un vaglia di mille marchi per diritto di traduzione.
Non se laspettava nemmeno lei. Tutta contenta che in quei libri fosse riconosciuto
un merito, che forse nemmeno lei stessa supponeva davere, aveva ceduto... cosí,
senza pretendere nulla, il diritto di traduzione.
- E allora subito, voi...
- Eh, aprii gli occhi! Venivano altre
richieste da rassegne, da giornali. Silvia mi confessò che nel cassetto aveva
tantaltri manoscritti, labbozzo dun romanzo, La casa dei nani.
Gratis? Come, gratis? Non è lavoro? E il lavoro non deve fruttare? Loro letterati stessi,
per questa parte, non sanno farsi valere. Ci vuole uno che le sappia queste cose, e ci
badi. Io, guardi, appena capii che cera da cavarne qualche cosa, cominciai a prender
subito le debite informazioni. Mi misi in corrispondenza con un mio amico librajo di
Torino per avere notizie del commercio librario; con parecchi redattori di rassegne e
giornali che avevano scritto bene dei libri di Silvia; scrissi, mi ricordo, anche al
Raceni...
- Eh, mi ricordo anchio. Ci faceste
tanto ridere, caro...
- Non avevo ancora la pratica. Studiai la
legge della proprietà letteraria e anche il trattato di Berna sui diritti dautore.
Contrattavo dapprima cosí a tentoni, si sa... Ma poi, vedendo che le cose andavano...
Silvia si spaventava dei patti che facevo; nel vederli poi accettati, quando le mostravo
il danaro guadagnato, restava. Eh sfido! Però, sa, posso dire daverlo guadagnato
io, il danaro, perché lei dai suoi lavori non avrebbe saputo cavare mai nulla.
- Che uomo prezioso siete voi, Boggiòlo!
- disse Dora, chinandosi a mirarlo da vicino.
- Non dico questo, - fece Giustino, - ma
creda che gli affari li so trattare. Mi ci metto con impegno, ecco. Debbo gratitudine agli
amici, al Raceni, per esempio, chè stato buono con mia moglie fin da principio. E
anche a lei...
- Ma no, a me! Che ho fatto io?
- Anche lei cara, anche lei, insieme col
Raceni, è stata tanto buona. E il senatore Borghi, anche. Gli debbo la mia venuta a Roma.
La debbo a lui, mica al Datti. Non ci voleva, giusto in questo momento, il guajo della
gravidanza.
- Vedete? - esclamò Dora. - E la vostra
signora, chi sa quanto soffrirà poi a staccarsi dal bambino! Potete esser certo che vi
nascerà un maschio.
- Perché? Come lo sa?
- Lo so. Voi siete distratto da troppe
preoccupazioni e fate le cose come per dovere. Ora tutto dipende da chi desidera di più,
sul momento: se desidera di più la donna, nasce un maschio; se desidera di più
luomo, nasce una femmina.
Giustino sorrise.
- E allora, - disse speriamo che
veramente abbia desiderato di più lei... Sarebbe meglio un maschio. Dovendo lavorare...
- È molto triste! - sospirò Dora. - Un
figliuolo! Devessere terribile sentirsi madre! Io morrei di gioja e di spavento. Dio
Dio Dio, non mi ci fate pensare!
Scattò in piedi. Si recò presso
luscio della camera accanto e cercò sotto la portiera la chiavetta della luce
elettrica; prima di girarla si volse e disse con voce cangiata:
- O vogliamo restare cosí? Amo questa
pena del giorno che muore. Mintristisce e mintenerisce. Divento però anche
cattiva, certe volte, pensando in questombra. Mi nasce una invidia angosciosa della
casa altrui, dogni casa che non sia come questa mia...
- Ma è tanto bello qua... - disse
Giustino, guardando in giro.
- Voglio dire, cosí sola, - spiegò
Dora. - Vi odio tutti, io, vojaltri uomini. Perché sarebbe tanto più facile a voi uomini
esser buoni, e non siete, e ve ne vantate. Ridete delle vostre perfidie. E ne ho riso
anchio, tante volte, ascoltandovi. Ma poi, a ripensarci sola, in questora, che
voglia, che voglia mè nata... duccidere! Sù sù, facciamo luce, sarà
meglio!
Era impallidita davvero e aveva negli
occhi bistrati come un velo di lagrime.
- Non dico per voi, badate, - soggiunse,
tornando a sedere. - So che voi siete buono. Volete essere mio amico sincero?
- Felicissimo! saffrettò a
rispondere Giustino, un po commosso.
- Datemi la mano. Proprio sincero? Ne
cerco uno da tanto tempo che mi sia come un fratello.
E stringeva la mano.
- Sissignora...
- Col quale io possa parlare a cuore
aperto!
E stringeva vieppiù la mano.
- Sissignora...
- Ah se voi sapeste quanto sia doloroso
questo sentirsi sola, sola nellanima, intendo: perché il corpo... Oh, non mi
guardano che il corpo, come sono fatta... i fianchi, il seno, la bocca... Gli occhi però
non me li guardano, perché si vergognano... Ed io voglio essere guardata negli occhi,
negli occhi...
E seguitava a stringere la mano.
- Sissignora... - ripeté Giustino,
guardandola negli occhi, smarrito e vermiglio.
- Perché negli occhi ho lanima,
lanima che cerca unanima a cui confidarsi e dire che non è vero che noi non
crediamo alla bontà; che non siamo sincere quando ridiamo di tutto, quando per parere
esperti diventiamo cinici, Boggiòlo! Boggiòlo!
- Che debbo fare? - domandò stordito,
smarrito, Giustino, sotto la morsa di quella mano cosí frale e pur cosí nervosa e forte.
Dora Barmis si buttò via dalle risa.
- Ma no, davvero! - disse allora con
forza Giustino per riprendersi. - Se io posso fare per lei qualche cosa, sono qua,
signora. Vuole un amico? Sono qua. Glielo dico davvero.
- Grazie, grazie, - rispose Dora,
tirandosi sù. - Scusatemi, se ho riso. Vi credo: voi siete troppo... oh Dio... sapete che
i muscoli da cui dipende il riso non obbediscono alla volontà, ma a certi moti emozionali
incoscienti? Io non sono avvezza a una bontà come la vostra. La vita per me è stata
cattiva; e, trattando con uomini cattivi, anchio... purtroppo... non vorrei farvi
male! Forse la vostra bontà degenererebbe... No? Malignerebbero gli altri. Direbbero che
ho voluto togliervi a vostra moglie, cosí, per gusto di far male... E poi sarei capace di
riderne anchio, sí, capace di tutto... Basta! basta! parliamo daltro. Sapete
chi mha chiesto di vostra moglie? La marchesa Lampugnani. Voi avete un invito, e
ancora non siete andati.
- Sissignora, domani sera,
infallibilmente - disse Giustino. - Silvia non ha potuto prima. Ero anzi venuto per
questo. Ci sarà lei, domani sera, dalla Marchesa?
- Sí sí, - rispose Dora. - Non mancate!
Sinteressa tanto di vostra moglie la Lampugnani, e desidera proprio vederla. Voi le
fate fare una vita troppo ritirata.
- Io? Io no, signora; io anzi vorrei...
Ma Silvia è ancora un po... non saprei come dire...
- Non me la guastate! Lasciatela
comè , per carità! Non la forzate!
- No, ecco... per saperci regolare,
capirà... Ci va molta gente dalla Marchesa?
- Oh, i soliti... Forse domani sera ci
sarà anche il Gueli (permettendo la Frezzi, si sa!).
- La Frezzi? E chi è?
- Una donna terribile, caro. Colei che
tiene in dominio assoluto il Gueli.
- Ah, non ha moglie il Gueli?
- Ha la Frezzi. Non vi basta? Dite un
po, ama la musica la vostra signora?
- Credo, - rispose Giustino, impacciato.
Non so bene. Ne ha sentita poca, là a Taranto. Si fa molta musica in casa della Marchesa?
- Talvolta, sí. Viene il violoncellista
Beggler, il Milani, il Cordova, il Furlini, quelli del quartetto, sapete?
- Eh già, - sospirò Giustino. - Un
po di conoscenza è necessaria di... di questa musica difficile... Wagner...
- No, Wagner, col quartetto! - esclamò
Dora. - Ciaikowski, Dvorak... E poi, si sa, Glazounov, Mahler, Raff. Basta saperli
pronunziare, caro Boggiòlo. Non ve ne date pensiero. Se non dovessi guastarmi la
professione, scriverei un libro, caro mio, da far epoca. Lo vorrei intitolare il Bazar
della Sapienza. Proponetelo a vostra moglie. Le darei io tutta la materia da
trattarvi. Una filza di questi nomi difficili; poi un po di storia dellarte,
preellenismo, arte micenaica e via dicendo; un po di Nietzsche, un po di
Bergson, un po di Freud; qualche conferenza; e avvezzarsi a prendere il tè, caro
Boggiòlo. Voi non ne prendete; avete torto. Chi prende il tè per la prima volta,
comincia subito a capire tante cose. Volete provare?
- Ma veramente lho preso, qualche
volta, - disse Giustino.
- E non avete capito nulla?
- Se devo dire la verità, preferisco il
caffè.
- Caro! Non lo dite, però! Il tè, il
tè; bisogna avvezzarsi a prendere il tè. Verrete in frak, domani sera, dalla Marchesa.
Gli uomini, in frak; le donne... no, qualcuna viene anche senza decolleté.
- Glielo volevo domandare, - disse
Giustino. - Perché Silvia...
- Ma sfido! - lo interruppe Dora, ridendo
forte. - Senza decolleté, lei, in quello stato: non cè bisogno di dirlo.
- E scusi, mi potrebbe suggerire... -
cominciò allora a domandare Giustino.
E fuori una prima domanda, e poi
unaltra e unaltra ancora e tante altre per quella famosa scuola di grandezza a
cui voleva sottoporre la moglie e un po anche se stesso.
Dora rispose volentieri e con brio e
abbondanza a tutte le domande; cosicché Giustino, allorché se nandò, si sentiva
girare la testa come un arcolajo.
Da un pezzo, accostandosi ora a questo
ora a quel letterato, osservava, studiava che cosa ci voleva per far bella figura. Gli
sembrava tutto, però, come campato in aria. Listabilità della fama lo angosciava.
Era come lesitar sospeso duno di quegli argentei pennacchioli di cardo che il
più lieve soffio porta via. La moda poteva da un momento allaltro mandare ai sette
cieli il nome di Silvia o buttarlo a terra, disperderlo in un angolo bujo.
- Ma sí, niente di serio, caro mio, -
gli aveva detto Dora. - Malafede o ignoranza. Non si fa critica; si fa politica
letteraria. E si giuoca come alla Borsa, al rialzo o al ribasso dei valori. Oggi la
Roncella può valere cento, domani zero.
Strada facendo per ritornare a casa,
aveva il sospetto che la Barmis si fosse un po burlata di lui. Ma questo tuttavia
non gli impediva dammirarne lo spirito. Era stata una lezione, in fin dei conti.
Doveva prenderne, e molte, di quelle lezioni, anche a costo di soffrire in principio
qualche mortificazioncella.
E come per raccogliere il frutto di quei
primi insegnamenti, rientrò in casa, quella sera, con tre libri nuovi da far leggere alla
moglie:
1) un breve compendio illustrato di
storia dellarte:
2) un libro francese su Nietzsche;
3) un libro italiano su Riccardo Wagner.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 31 August, 1998