Luigi Pirandello

Giustino Roncella nato Boggiòlo

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CAPITOLO PRIMO

IL BANCHETTO

         Da quindici giorni Attilio Raceni, direttore della rassegna femminile Le Grazie, scontava con infinite noje, arrabbiature e dispiaceri d’ogni genere una sua gentile idea: quella di salutare con un banchetto la giovane e già illustre scrittrice Silvia Roncella, venuta da poco tempo col marito a stabilirsi da Taranto a Roma.
         Partendo l’invito da una rassegna come la sua, la quale, più che a una qualche reputazione letteraria, aspirava a esser considerata òrgano della mondanità intellettuale romana, e mirando quell’invito nella sua intenzione, non tanto a rendere onore alla scrittrice quanto a mostrar viva la rassegna con un atto di pura cortesia fuori d’ogni competizione letteraria, non s’aspettava da parte dei letterati colleghi della Roncella, dei critici più autorevoli della letteratura contemporanea nei grandi giornali quotidiani e, in genere, degli amici giornalisti, tanti tentennamenti e "ma" e "se" e "forse", ombrosità, riserve, anche recisi e sgarbati rifiuti, che gli avevano rappresentato la letteratura militante in Italia come una meschina pettegola farmacia di villaggio; e più d’una volta aveva sospirato per l’amara considerazione che un’idea come la sua ben altre accoglienze avrebbe avute certamente a Parigi, dove in parte il comune orgoglio nazionale (sia benedetto!) in parte quella più diffusa e sentita cognizione delle cose ordinarie del viver civile, che affievolisce risentimenti e gelosie pur non impedendo la stima particolare che ciascuno in segreto può fare dell’altro, consigliano di non negare onore a chi per giudizio ormai universale se lo sia comunque meritato; come a lui pareva che fosse il caso della Roncella, dopo il grande successo del romanzo La casa dei nani.
         Lo confortava la fervida adesione del senatore Romualdo Borghi che era stato del resto il vero padrino della fama di Silvia Roncella. Nell’antica autorevolissima rassegna La vita italiana il Borghi aveva accolto infatti le prime novelle, i primi racconti della giovanissima scrittrice. C’era poi la promessa di partecipazione, se non proprio sicura molto probabile, di Maurizio Gueli, l’insigne maestro da tutti rispettato forse per il fatto che da circa dieci anni, vale a dire dal suo ultimo libro Favole di Roma, né sollecitazioni d’amici né ricche profferte di editori riuscivano a smuoverlo dal silenzio in cui s’era chiuso.
         Più delle opere, che non avevano mai avuto in verità molti lettori, questo silenzio e la vita appartata e schiva ch’egli conduceva, quasi tutto l’anno relegato nella malinconica villa di Monteporzio presso Roma, gli meritavano, a detta dei maligni, il rispetto anche da parte d’una certa accolta di giovani letterati, i quali, macerandosi nella nobilissima ambizione di far cose grandi e comunque nuove che reggessero al paragone delle antiche nostre, o moderne straniere secondo un loro gusto particolare, o preferivano non far niente, o se qualche cosa intanto facevano, piccola, a modo d’assaggio o di studio, per l’animo stesso con cui la facevano, doveva dar loro ambasce crudelissime d’insoddisfazione, delle quali s’alleviavano e sfogavano tramutandole in un superiore disdegno contro chiunque s’arrischiava a fare quanto poteva, senz’affanno, non solo, ma anzi con allegra spensieratezza.
         Il guajo per il Raceni era questo: che alcuni di tali giovani (non più tanto giovani) degnissimi certo di considerazione ma troppo difficoltosi, in luogo di combattere le loro battaglie in private rassegnine da leggersi tra di loro, erano riusciti da qualche tempo a trovar posto nei maggiori fogli politici quotidiani d’Italia, i quali, santo cielo, non si rivolgevano solamente ai pochi letterati di professione ma a ogni specie di lettori: e di là seminavano il discredito sulla grama letteratura italiana contemporanea, che in fondo, se di più non sapeva, pur quanto poteva dare, dava.
         Ora il marito della Roncella gli s’era tanto raccomandato perché a quella "fraterna àgape letteraria" com’egli bellamente l’aveva chiamata nell’ultimo fascicolo de Le Grazie, tutti i quotidiani più in vista fossero rappresentati dai loro redattori letterari; e, proprio da costoro, aveva avuto i rifiuti più recisi e sdegnosi. Ma sperava ancora d’indurre a venire altri redattori di quegli stessi giornali, di più facile contentatura. E poi, e poi voleva comporre attorno alla Roncella una magnifica corona di belle dame, amiche e collaboratrici de Le Grazie.
         Fin dalla nascita era quasi predestinato e votato alla letteratura femminile. Perché sua "mammà", Teresa Raceni-Villardi, era stata un’esimia poetessa, e in casa di "mammà" convenivano tante scrittrici, alcune già morte, altre adesso attempatelle, su le cui ginocchia poteva dire quasi quasi d’esser cresciuto. E dei loro vezzi e delle loro carezze gli era rimasta come una levigatura indelebile in tutta la persona, quasiché quelle mani lievi e delicate, lisciandolo, lisciandolo, lo avessero composto per sempre in quella sua ambigua beltà artificiale, per cui, se si umettava le labbra con la punta della lingua, se s'inchinava sorridente ad ascoltare, se si rizzava sul busto se volgeva il capo o si ravviava i capelli, mosse, gesti, aria atteggiamenti erano più da donna che da uomo.
         Presa sotto braccio la busta di cuojo, dove, tra articoli e bozze di stampa della rassegna, aveva ficcato un fascio di carte che si riferivano al banchetto, s’avviava verso la casa di Dora Barmis, sapientissima consigliera dalle colonne de Le Grazie alle signore e signorine italiane della bellezza e di tutte le raffinatezze intellettuali, quand’ecco, verso Piazza Venezia, un clamor confuso, lontano, e un corri corri di gente.
         Costernato, s’accostò in via San Marco a un grosso mercante di stoviglie d'alluminio che, sbuffando, tirava giù le bande su le vetrine della bottega.
         - Perché? Cos’è?
         - Mah, dice... non so, - grugní quello in risposta, senza voltarsi.
         Uno spazzino, seduto tranquillamente su una stanga del carretto con la gr nata in ispalla a mo di bandiera e un braccio a contrappeso sul bastone di essa, si cavò la pipetta di bocca; sputò; disse:
         - Ciarifanno.
         Il Raceni si voltò a guardarlo.
         - Dimostrazione? E perché?
         - Cani! - gridò il mercante panciuto, rizzandosi, ansante e paonazzo.
         Stava sdraiato sotto il carretto dello spazzino un vecchio cane spelato, con gli occhi tra le cispe socchiusi; al "Cani!" del mercante levò appena il capo dalle zampe senza schiudere gli occhi, solo raggrinzando un po' le orecchie. Dicevano a lui? S’aspettava un calcio. Il calcio non venne; dunque non dicevano a lui. E si ricompose a dormire, mentre un turbine di fischi si levava dalla prossima piazza e, subito dopo, un urlío che arrivava al cielo.
         Il tumulto vi doveva esser grande.
         Il Raceni s’avviò di fretta. Bell’affare se non si passava! Come se fossero pochi i pensieri, le noje, le cure per quel maledettissimo banchetto, ecco qua, ci voleva ora quest’altro impedimento della canaglia che reclamava per le vie di Roma qualche nuovo diritto. E, santo cielo, s’era d’aprile e faceva una bellissima giornata!
         Davanti a Piazza Venezia il volto gli s'allungò, come se un filo interno tutta un tratto glielo tirasse. Lo spettacolo violento gli riempí la vista e lo tenne lí un pezzo a bocca aperta, sopraffatto e compreso.
         La piazza rigurgitava di popolo. I cordoni dei soldati erano all’imboccatura di via del Plebiscito e del Corso. Parecchi dimostranti s’erano arrampicati sul tram d’aspetto e di là urlavano a squarciagola:
         - Morte ai traditorííí!
         - Mortèèè!
         Nel dispetto rabbioso contro tutta quella feccia dell’umanità che non voleva starsi quieta, gli sorse d’improvviso il proposito disperato d’attraversare a furia di gomiti la piazza. Se vi fosse riuscito, avrebbe pregato l’ufficiale che stava di guardia al Corso, che lo facesse passare per favore. Ma sí! Tutta un tratto, dal mezzo della piazza:
         - Pè , pè-pèèèè!
         La tromba. Il primo squillo. Scompiglio, serra serra: molti, sospinti dalla piena nel forte del tumulto, volevano sguizzare e bàttersela, ma non potevano far altro che divincolarsi rabbiosamente, presi com’erano, pigiati e incalzati tutt’intorno da altri a ridosso, mentre i più facinorosi, concitando, volevano rompere la calca, o meglio, cacciarsela davanti, tra fischi e urli più tempestosi di prima:
         - Via! Avantííí!
         - Sforziamo i cordonííí!
         E la tromba, di nuovo:
         - Pè , pè-pèèèè!
         D’improvviso, senza saper come, Attilio Raceni, soffocato, pesto, boccheggiante come un pesce, si ritrovò rimbalzato al Foro Trajano in mezzo alla folla fuggiasca e delirante.
         Gli sembrò che la Colonna vacillasse.
         Dove riparare? Per dove prendere?
         Poiché il grosso della folla s’avventava sù per Magnanapoli, pensò di scappare per la salita delle Tre Cannelle; ma intoppò anche lí nei soldati che già si disponevano in cordone per Via Nazionale.
         - Non si passa!
         - Senta, per favore, io dovrei...
         Una spinta furiosa gli troncò la spiegazione, facendolo schizzar col naso sulla faccia dell’ufficiale. Questi, furibondo lo respinse subito indietro con un pugno nello stomaco; ma un nuovo violentissimo spintone lo scaraventò tra i soldati che cedettero all’impeto.
         Rimbombò tremenda dalla piazza una scarica di fucili.
         E Attilio Raceni, tra la folla impazzita dal terrore si trovò perduto in mezzo alla cavalleria sopravvenuta di corsa, forse da piazza della Pilotta. Via, via con gli altri a gambe levate inseguito dai cavalli, tra tutta quella torma di bruti in fuga.
         S’arrestò, che non tirava più fiato, all’imboccatura di Via Quattro Fontane.
         - Vigliacchi! Farabutti; gridava tra i denti, svoltando per quella via; e quasi piangeva dalla rabbia, pallido e stravolto; e si tastava le costole, i fianchi, e tremava tutto e cercava di rassettarsi gli abiti addosso, per toglier via subito ogni traccia della violenza patita e della fuga che l’avviliva di fronte a se stesso.
         - Vigliacchi! Farabutti!
         Si voltò a guardare indietro, se mai qualcuno lo vedesse in quello stato.
         Sissignori, un vecchietto. Eccolo lí. Affacciato alla finestra d’un mezzanino, se lo stava a godere, e dal piacere che provava nel vederlo cosí tutto rimescolato, persino si grattava sul mento la barbetta gialliccia.
         Il Raceni abbassò subito gli occhi. Ma, guardandosi le mani, s’accorse d’aver perduto nella fuga la busta di cuojo.
         - Oh Dio!
         Come avrebbe fatto ora a rammentarsi di tutti coloro che aveva invitati al banchetto? di coloro che avevano aderito o s’erano scusati di non potervi partecipare? E le bozze? E gli articoli?
         D’un tratto, nella cresciuta agitazione, diventata prima smarrimento e ora rabbia, si sovvenne del vecchietto che stava a goderselo dalla finestra del mezzanino. Si voltò di nuovo a guardarlo. E sissignori, eccolo ancora là che rideva, rideva...
         - Cretino! - gli gridò; e si mise a salire in fretta per poi scendere a via Sistina, dove Dora Barmis abitava in quattro stanzette d’una vecchia casa dal tetto basso basso e quasi buje.

         Piaceva a Dora Barmis far sapere a tutti ch’era povera; e tutti lo credevano, sorridendo intanto agli abiti che le ammiravano addosso, squisitamente capricciosi. Il salottino ch’era anche scrittojo, l’alcova, la saletta da pranzo e quella d’ingresso erano, come la padrona, addobbati alla bizzarra, e certo non poveramente.
         Divisa da anni da un marito che nessuno aveva mai conosciuto, bruna, agile, pieghevole, dagli occhi bistrati violentemente, la voce un po’ rauca, dimostrava con tutte le mosse del corpo e gli sguardi e i sorrisi come e quanto conoscesse l’arte di svegliare e irritare i più raffinati e veementi desiderii maschili. Rideva poi come una pazza, quando li vedeva fiammeggiare ben svegli in certi occhi; ma ancor più forse rideva quando certi altri occhi vedeva invece illanguidirsi nella promessa d’un sentimento duraturo.
         Il Raceni la trovò nel salottino, in una bella vestaglia giapponese ampiamente scollata, presso una piccola scrivania di ghisa nichelata, intenta a leggere un nuovo romanzo francese.
         - Povero Attilio, povero Attilio, - gli disse dopo aver tanto riso al racconto dell’ingrata avventura. - Sedete. Che posso offrirvi per sedarvi lo spirito esagitato?
         E cosí gonfiando le parole, lo guardò con aria di benevola canzonatura, strizzando un poco gli occhi e piegando il capo sul collo nudo provocante.
         - Nulla? Proprio nulla? Del resto, sapete? state bene cosí: un po’ scomposto. Ve l’ho sempre detto: una... una nuance di brutalità v’andrebbe a maraviglia. Ma giù, giù quella mano, in nome di Dio! Sempre tra i capelli. L’avete bella, lo sappiamo!
         - Per favore, Dora! - sbuffò il Raceni.- Non ne posso più! Sono cosí esasperato!
         Dora Barmis scoppiò di nuovo a ridere, poggiando le mani sulla scrivania e rovesciandosi indietro.
         - Per il banchetto? - poi disse. - Ma dunque proprio? Mentre i miei fratelli proletarii reclamano...
         - Non scherziamo, vi prego, Dora, o me ne vado! - minacciò il Raceni.
         La Barmis si levò in piedi.
         - Vi pare ch'io scherzi? Vi dico sul serio. Non mi affannerei tanto, se fossi in voi. Silvia Roncella... ma prima di tutto ditemi com’è: mi muojo dalla curiosità di conoscerla. Ancora non riceve?
         - Eh no! Non hanno ancora trovato casa, poverini. La vedrete al banchetto.
         - Datemi un po’ di fuoco, e poi rispondetemi francamente.
         Accese la sigaretta, chinandosi e scoprendo tutto il seno attraverso la scollatura, nel protendere il volto verso il fiammifero. Poi, tra il fumo, domandò:
         - Ne siete già innamorato?
         - Siete matta? - scattò il Raceni. - Non mi fate arrabbiare.
         - Bruttina, allora?
         Il Raceni non rispose. Accavalciò una gamba su l’altra; alzò la faccia al soffitto; chiuse gli occhi.
         - Ah no, caro!- esclamò la Barmis.- Cosí non ne facciamo niente. Siete venuto da me per ajuto; dovete prima soddisfare la mia curiosità.
         - Ma scusatemi! - tornò a sbuffare il Raceni, sgruppandosi. - Mi fate certe domande!

         - Ho capito, - disse allora la Barmis. - Qui sta tra due: o ne siete davvero innamorato, o dev’essere bruttina sul serio. Sù via, rispondete: come veste? Male, senza dubbio.
         - Maluccio. Inesperta, capirete.
         - Capito, capito. Diciamo, se non vi dispiace, un’anatroccola arruffata. Aspettate, - aggiunse poi, accostandoglisi. - Vi casca la spilla... Uh, e come vi siete annodata codesta cravatta?
         - Mah, - fece il Raceni. - Tra quel...
         S’interruppe. Il volto di Dora gli stava troppo vicino. Intenta a riannodargli la cravatta, si sentí guardata. Quand’ebbe finito, gli diede un biscottino sul naso e, sorridendogli d’un sorriso indefinibile:
         - Dunque? - gli domandò. - Dicevamo... ah, la Roncella! Non vi piace anatroccola? Scimmietta, allora.
         - V’ingannate, - rispose il Raceni. - È bellina, v’assicuro. Poco appariscente, forse; ma ha certi occhi!
         - Neri?
         - No, chiari, soavissimi. E un sorriso molto intelligente. Dev'esser buona, tanto!
         Dora Barmis lo investí:
         - Buona avete detto? buona? Ma andate là! Chi ha scritto La casa dei nani non può essere buona, ve lo dico io.
         - Eppure...

         - Ve lo dico io! Quella lí, caro, dev’aver dentro uno spirito affilato come un pugnale. No. Piuttosto come un rasojo. E dite un po’, è vero che ha un porro peloso qua, sul labbro?
         - Un porro?
         - Peloso, qua.
         - Non me ne sono accorto. Ma no, chi ve l’ha detto?
         - Me lo sono immaginato. Per me, la Roncella deve avere un porro peloso sul labbro. Mi è parso di vederglielo sempre, leggendo le sue cose. E dite: il marito? Com’è il marito?
         - Lasciatelo perdere! - rispose impaziente il Raceni. - Parliamo sul serio, adesso, vi prego.
         - Del banchetto? Sentite: la Roncella, caro, non è più per noi. Troppo, troppo alto ormai ha spiccato il volo la vostra colombella: ha valicato le Alpi e il mare; andrà a farsi il nido lontano lontano, con molte pagliuzze doro, nelle grandi riviste di Francia, di Germania, d’Inghilterra. Come volete che deponga più qualche ovetto azzurro, sia pur piccolo piccolo cosí, su l’ara delle nostre povere Grazie?
         - Ma che ovetti! che ovetti! - fece, scrollandosi, il Raceni.- Né ovetti di colomba, né uova di struzzo. Non scriverà più per nessuna rivista, la Roncella. Si darà tutta al teatro.
         - Al teatro? Ah sí? - esclamò la Barmis, incuriosita.
         - Mica a recitare! Non ci mancherebbe altro! A scrivere.
         - Per il teatro?
         - Già. Perché il marito...
         - Ah giusto! il marito! Come si chiama?
         - Boggiòlo.
         - Sí sí, ricordo, Boggiòlo. E scrive anche lui, Boggiòlo?
         - Eh altro! All'archivio notarile.
         - Oh Dio! Notajo?
         - Archivista. Bravo giovane. Basta, vi prego. Voglio uscire al più presto da questa briga. Avevo con me la lista degli invitati, e quei cani... Ma vediamo un po’ di rifarla. Scrivete. Oh, sapete che il Gueli ha aderito? È la prova più certa ch’egli stima davvero la Roncella, come dicevano.
         Dora Barmis rimase un po’ assorta a pensare; poi disse:
         - Non capisco. Il Gueli... Mi pare cosí diverso!
         - Non discutiamo, - troncò il Raceni. - Scrivete: Maurizio Gueli.
         - Aggiungo tra parentesi, se non vi dispiace, permettendo la Frezzi. Poi?
         - Il senatore Borghi.
         - Ha accettato?
         - Eh, perbacco, presiederà! Scrivete: donna Francesca Lampugnani.
         - La mia simpatica presidentessa, sí, sí. Cara, cara, cara!
         - Donna Maria Rosa Borné-Laturzi, - seguitò a dettare il Raceni.
         - Oh Dio! - sbuffò la Barmis. – Quell’onesta gallina faraona?
         - È decorativa, scrivete. Poi: Filiberto Litti.
         - Di bene in meglio! - approvò la Barmis. – L’archeologia accanto all’antichità! E dite, Raceni: il banchetto lo faremo tra le rovine del Foro?
         - Già, a proposito! - esclamò il Raceni. - Dobbiamo ancora stabilire il luogo, e se di sera o di mattina.
         - Di sera? No! Siamo in primavera. Bisogna farlo di giorno, in un bel posto, fuori. Aspettate: al Castello di Costantino. Ecco. Delizioso. Nella sala vetrata, con tutta la campagna davanti... i monti Albani... i Castelli... e poi, di fronte, il Palatino... Sí, sí, là! Sarà un incanto! Senz’altro!
         - Vada per il Castello di Costantino, - disse il Raceni. - Andremo insieme domani, se non vi dispiace, a dare le ordinazioni. Saremo, credo, una trentina. Sentite, Giustino mi si è tanto raccomandato...
         - Chi è Giustino?
         - Ma il marito, ve l’ho detto, Giustino Boggiòlo, santo cielo! Mi si è tanto raccomandato per la stampa. Vorrebbe molti giornalisti. Ho invitato il Lampini.
         - Ah, Ciceroncino, bravo!
         - E, mi pare, altri quattro o cinque, non so: Barduzzi, Centanni, Federici e quello... come si chiama? della Capitale...
         - Mola?
         - Mola. Segnateli. Ci vorrebbe qualche altro un po’ più... un po’ più... Venendo il Gueli, capirete... Per esempio, Casimiro Luna.
         - Aspettate, - disse la Barmis. - Se viene donna Francesca Lampugnani, non sarà difficile trascinare il Betti.
         - Ma ha scritto male della Casa dei nani, il Betti, non avete visto?
         - Meglio, anzi! Invitatelo. Ne parlerò poi io a donna Francesca. Quanto a Miro Luna non dispero di trascinarlo con me.
         - Fareste felice il Boggiòlo, felice addirittura! Oh, segnate intanto l’onorevole Carpi, e quello zoppetto, il poeta...
         - Ah, Zago, sí! Carino, poveretto! Che bei versi sa fare! L’amo, sapete? Guardate lí il ritratto. Me lo son fatto dare. Non vi sembra Leopardi con gli occhiali?
         - Faustino Toronti, - seguitò a dettare il Raceni.- E il Jàcono...
         - No!- gridò Dora Barmis, scaraventando la penna.- Avete invitato anche Raimondo Jàcono, quell’odiosissimo napoletanaccio? Non vengo più io, allora! Jettatore! Jettatore! Toccate ferro, per carità!
         - Abbiate pazienza, non ho potuto farne a meno, - rispose dolente il Raceni. - Era con lo Zago... Invitando l’uno, ho dovuto invitare anche l’altro.
         - E allora io vi impongo Flavia Morlacchi, - disse la Barmis. - Qua: Fla-vi-a Morlacchi. Staranno bene insieme. Il cane e la gatta.
         - Speriamo che non tornino a mordersi e a sgraffiarsi!
         Rileggendo, poco dopo, la lista, s’indugiarono tutte due a far girare come una mola d’arrotino questo o quel nome per il gusto di affilare il taglio, ancora un po’, alla loro lingua che non ne aveva bisogno. Tanto che alla fine un moscone, che se ne stava quieto a dormire tra le pieghe d’una portiera, si destò e con molto slancio volle entrar terzo nella conversazione. Ma Dora mostrò d'averne terrore, più che ribrezzo, e prima s’aggrappò al Raceni, stringendoglisi forte contro il petto, cacciandogli i capelli odorosi sotto il mento; poi scappò a chiudersi nell’alcova, gridando dietro l’uscio che non sarebbe rientrata, se lui prima non faceva andar via per la finestra o non uccideva quell’orribile bestia.
         - Ve la lascio qua, e me ne vado- le disse placidamente il Raceni, prendendo la nuova lista dalla scrivania.
         - No, per carità, Raceni!- scongiurò Dora di là.
         - E allora aprite!
         - Ecco, apro, ma voi... oh! che fate? No! Entra il moscone, Dio, Raceni!
         - E fate presto!
         Attraverso lo spiraglio le due bocche s’erano congiunte e lo spiraglio a mano a mano s’allargava, quando dalla via s’intesero gli strilli di parecchi giornalai:
         - Terza edizioneee! Quattro morti e venti feritííí! Lo scontro con la truppààà! L’eccidio di Piazza Navonààà!
         Attilio Raceni si staccò, pallido, dal bacio:
         - Sentite? Quattro morti... Ma perdio! non hanno proprio da fare costoro? E ci potevo essere anch’io là in mezzo, pensate!

         Dei trenta che dovevano partecipare al banchetto sú al Castello di Costantino solo cinque a mezzogiorno erano venuti, che si pentivano in segreto della loro puntualità, temendo potesse parere soverchia premura o troppa degnazione.
         Prima fra tutti era venuta Flavia Morlacchi, poetessa, romanziera e anche drammaturga. Gli altri quattro, sopraggiunti, la avevano lasciata in disparte. Erano il vecchio professore d’archeologia e poeta dimenticato Filiberto Litti, il novelliere piacentino Faustino Toronti, lezioso e casto, il grasso romanziere napoletano Raimondo Jàcono e il poeta veneziano Cosimo Zago, rachitico e zoppo d’un piede. Stavano tutte cinque nel terrazzo, davanti la sala vetrata.
         Filiberto Litti, lungo asciutto legnoso, con baffoni bianchi e moschetta, un pajo d’enormi orecchie carnose e paonazze parlava, balbutendo un po’, delle rovine del Palatino come di cosa sua. Faustino Toronti ormai vecchiotto anche lui, cosí che non pareva, sarchiati i capelli su gli orecchi e i baffetti ritinti, fingeva d'ascoltarlo. Raimondo Jàcono voltava le spalle alla Morlacchi e guardava compassionevolmente lo Zago, il quale ammirava nella fresca limpidezza di quel dolcissimo giorno d’aprile tutto il verde paese che si scopriva di là.
         Arrivava appena al parapetto del terrazzo, il poverino; ancora con un vecchio pastrano inverdito che gli sgonfiava da collo; aveva posato su la cimasa una mano nocchieruta, dalle unghie rose, deformata dallo sforzo continuo di spingere la stampella, e ora, socchiudendo gli occhi dolenti dietro gli occhiali, ripeteva come se non avesse mai goduto in vita sua di tanta festa di luce e di colori:
         - Che incanto! Come è bello questo sole! Che vista!
         - Già... già... - masticò il Jàcono. - Molto bello. Non svenire. Peccato che...
         - Quei monti là... guarda, fragili, quasi... sono ancora gli Albani?
         - Gli Appennini o gli Albani... domandalo al professor Litti, che è archeologo.
         - E... e che ci han da fare, scusi, i monti, scusi, con... con l’archeologia?- domandò un po’ risentito il Litti.
         - Professore, voi che dite!- esclamò il napoletanaccio. - Monumenti della natura, della più venerabile antichità. Altro che le fesseríe degli uomini andate a male! Peccato che.. dicevo... sono le dodici e mezzo, ohé! Ho fame io.
         La Morlacchi, di là, fece una smorfia di disgusto. Gonfiava in silenzio, ma si fingeva incantata anche lei, come lo Zago, dello stupendo paesaggio. Gli Appennini o gli Albani? Non lo sapeva neanche lei. Ma che importava il nome? Nessuno come lei, più di lei, sapeva intenderne l’"azzurra" poesia. E domandò a se stessa se la parola colombario... austero colombario, avrebbe reso bene l’immagine di quelle rovine del Palatino: occhi ciechi, occhi d’ombra dello spettro romano feroce e glorioso, indarno aperti ancora là, sul colle, allo spettacolo della verde vita maliosa di questo Aprile d’un tempo lontano.

Di questo Aprile d'un tempo lontano...

         Bel verso! Languido...
         E abbassò su gli occhi torbidi e scialbi le grosse pàlpebre.
         Aveva spiccato dalla natura e dalla storia il fiore d’una bella immagine, in grazia della quale poteva non pentirsi più, ora, d’essersi abbassata a fare onore a quella Silvia Roncella, tanto più giovine di lei, ancor quasi principiante, inculta e digiuna affatto di poesia.
         Volse, cosí pensando, con atto di sdegno la faccia ruvida, in cui spiccavano violentemente le tumide labbra dipinte, verso quei quattro che non si curavano di lei; eresse il busto e sollevò una mano sovraccarica d’anelli per palparsi lievemente su la fronte il crine che pareva di capecchio.
         Forse lo Zago meditava anche lui una poesia, pinzandosi con le dita gl’ispidi peluzzi neri sparsi sul labbro. Ma per comporre aveva bisogno di saper prima tante cose, lui, che non voleva più domandare a uno che dichiarava d’aver fame davanti a uno spettacolo come quello.
         Sopravvenne, saltellando secondo il solito suo, il giovine giornalista Tito Lampini, Ciceroncino come lo chiamavano, autore anche lui di un volumetto di versi; smilzo, dalla testa secca, quasi calva, su un collo stralungo riparato da un solino alto per lo meno otto dita.
         La Morlacchi lo investí con voce stridula:
         - Ma che modo è codesto, Lampini? Si dice per mezzodí; a momenti è il tocco; non si vede nessuno...
         Il Lampini s’inchinò, aprí le braccia, si volse sorridendo agli altri quattro e disse:
         - Scusi, ma che c’entro io, signora mia?
         - Voi non centrate, lo so, - riprese la Morlacchi. - Ma il Raceni, almeno, come ordinatore del banchetto...
         - Ar...archi...architriclino, già, - corresse timidamente con la lingua imbrogliata, ponendosi una mano davanti la bocca, il Lampini, e guardando l’archeologo professor Litti per fargli vedere che lo sapeva.
         - Già, va bene; ma avrebbe dovuto trovarsi qua, mi sembra. Non è piacevole, ecco.
         - Ha ragione, non è piacevole; ma io sono qua un invitato come lei, signora. Permette?
         E il Lampini, tornando a inchinarsi frettolosamente, andò a stringere la mano al Litti, al Toronti, al Jàcono. Non conosceva lo Zago.
         - Sono venuto in vettura, io, anzi, temendo di far tardi, - annunziò. - Ma già viene qualche altro. Ho visto per la salita donna Francesca Lampugnani e il Betti e anche la Barmis con Casimiro Luna.
         Guardò nella sala vetrata, dov’era già apparecchiata la lunga tavola adorna di molti fiori e con una fronda d’edera serpeggiante tutt’in giro; poi si rivolse alla Morlacchi, dolente ch’ella se ne stésse là in disparte, e disse:
         - Ma la signora, scusi, non potrebbe?...
         Raimondo Jàcono lo interruppe a tempo:
         - Di’, Lampini, tu che ti ficchi da per tutto: la hai già veduta, codesta Roncella?
         - No. Tant’è vero che non mi ficco affatto. Non ho avuto ancora il piacere e l’onore...
         E il Lampini, inchinandosi una terza volta, mandò un sorriso gentile alla Morlacchi.
         - Molto giovane? - domandò Filiberto Litti, stirandosi e guardandosi sottecchi uno dei lunghissimi baffi bianchi, che parevano finti, appiccicati nella faccia legnosa.
         - Ventiquattr’anni, dicono, - rispose Faustino Toronti.
         - Fa anche versi? - tornò a domandare il Litti, stirandosi e guardandosi l’altro baffo, adesso.
         - No, per fortuna! - gridò il Jàcono. - Professore, voi ci volete tutti morti! Un’altra poetessa in Italia? Di’ di’, Lampini, e il marito?
         - Sí, il marito sí, - disse il Lampini. - È venuto la settimana scorsa in redazione per avere una copia del giornale con l’articolo di Betti su La casa dei nani.
         - E come si chiama?
         - Il marito? Non lo so.
         - Mi par d'aver inteso Bòggiolo, - disse il Toronti.- O Boggiòlo. Qualcosa cosí.
         - Grassottino, belloccio, - aggiunse il Lampini, - occhiali d’oro, barbetta bionda, quadra. E deve avere una bellissima calligrafia. Si vede dai baffi.
         I quattro risero. Sorrise anche di là, senza volerlo, la Morlacchi.
         Vennero sul terrazzo, tirando un gran sospiro di soddisfazione, la marchesa donna Francesca Lampugnani, alta, dall’incesso maestoso, come se recasse sul seno magnifico un cartellino con la scritta: Presidentessa del circolo di coltura feminile, e il suo bel paladino Riccardo Betti, che nello sguardo un po’ languido, nei mezzi sorrisi sotto gli sparsi baffi biondissimi e nei gesti e nell’abito, come nella prosa de suoi articoli, affettava la dignità, la misura, la correttezza, le maniere tutte insomma del... no, du vrai monde.
         Tanto il Betti quanto Casimiro Luna erano venuti unicamente per far piacere a donna Francesca che, in qualità di presidentessa del Circolo di coltura femminile, proprio non poteva mancare a quel banchetto. Appartenevano al fior fiore del giornalismo, tra diplomatico e mondano, genere particolare, e non avrebbero mai degnato della loro presenza quella riunione di letterati. Il Betti lo dava a divedere chiaramente; Casimiro Luna, invece, più gajo, irruppe romorosamente nel terrazzo con Dora Barmis. Passando per l’andito, aveva dato della gran toppa del Castello di Costantino e dell’enorme chiave di cartone, esposte lí per burla, una spiegazione di cui la Barmis, ridendo, si fingeva scandalizzata, e aveva già chiesto ajuto alla Marchesa, e ora, in quel suo italiano che voleva a tutti i costi parer francese:
         - Ma io vi trovo abominevole, - protestava, - abominevole, Luna! Che è questo continuo, odioso persifflage?
         Lei sola, dei quattro nuovi venuti, s’accostò dopo quello sfogo alla Morlacchi e la trasse a forza con sé nel gruppo, non volendo perdere le altre salaci arguzie del "terribile" Luna.
         Il Litti, seguitando a stirarsi ora questo ora quel baffo e ora il collo, come se non riuscisse mai ad assettarsi bene la testa sul busto, guardava adesso quella gente, ne ascoltava la chiacchiera volubile, e sentiva a mano a mano infocarsi vieppiù le grosse orecchie carnose. Pensava che tutti costoro vivevano a Roma come avrebbero potuto vivere in qualunque altra città moderna, e che la nuova popolazione di Roma era composta di gente come quella, fatua e bastarda. Che sapevano di Roma tutti costoro? Tre o quattro frasucce retoriche. Che visione ne avevano? Il Corso, il Pincio, i caffè , i salotti dei palazzi o i saloni dei grandi alberghi, le sale da tè , le redazioni dei giornali. Erano come le vie nuove, le case nuove, senza storia, senza carattere; vie e case che avevano allargato la città solo materialmente, e svisandola. Quando più angusta era la cerchia delle mura, la grandezza di Roma spaziava e sconfinava nel mondo; ora, allargata la cerchia, eccola là, la nuova Roma. E Filiberto Litti si stirava il collo.
         Parecchi altri, intanto, erano venuti: marmaglia, che cominciava a impicciare i camerieri che recavano i serviti alle due o tre coppie di forestieri che desinavano nella sala vetrata.
         Tra questi giovani, più o men chiomati, aspiranti alla gloria, erano tre fanciulle, evidentemente studentesse di lettere: due con gli occhiali, patite e taciturne; la terza, invece, vivacissima, dai capelli rossi, tagliati a tondo maschilmente, dal visetto vispo, lentigginoso, dagli occhietti grigi, in cui la malizia pareva vermicasse: rideva, rideva, si buttava via dalle risa, e promoveva una smorfia tra di sdegno e di pietà in un uomo grave, anziano, che s’aggirava tra tanta gioventù non curato. Era Mario Puglia, che in altri tempi aveva cantato con un certo impeto artificiale e con volgare abbondanza. Ora si sentiva già entrato nella storia, e non cantava più. Era però rimasto zazzeruto e con molta forfora sul bavero della vecchia redengote.
         Casimiro Luna, che lo contemplava da un pezzo, accigliato, a un certo punto sospirò e disse piano:
         - Chi sa dov’ha lasciato la chitarra...
         - Cariolin Cariolin! - gridarono alcuni in quel momento, facendo largo a un omettino profumato, elegantissimo, che pareva fatto e messo in piedi per ischerzo, con una ventina di capelli lunghi, raffilati sul capo calvo, due violette all’occhiello e la caramella.
         Momo Cariolin, sorridendo e inchinandosi, salutò tutti con ambo le mani inanellate e corse a baciar la mano a donna Francesca Lampugnani. Conosceva tutti; non sapeva far altro che strisciar riverenze, baciare la mano alle signore, dir barzellette in veneziano; ed entrava da per tutto, in tutti i salotti più in vista, in tutte le redazioni dei giornali, da per tutto accolto con festa; non si sapeva perché. Non rappresentava nulla, e tuttavia riusciva a dare un certo tono alle radunanze, ai banchetti, ai convegni, forse per quel suo garbo inappuntabile, complimentoso, per quella sua cert’aria diplomatica.
         Vennero con la vecchia poetessa donna Maria Rosa Bornè-Laturzi il deputato conferenziere Silvestro Carpi e il romanziere lombardo Carlino Sanna di passaggio per Roma. La Bornè-Laturzi, come poetessa (diceva Casimiro Luna) era un’ottima madre di famiglia. Non ammetteva che la poesia, l’arte in genere, dovesse servire di scusa al mal costume. Per cui non salutò né la Barmis né la Morlacchi, salutò soltanto la marchesa Lampugnani perché marchesa e perché presidentessa, Filiberto Litti perché archeologo, e si lasciò baciare la mano da Cariolin, perché Cariolin la baciava soltanto alle vere dame.
         Si erano formati intanto parecchi gruppi; ma la conversazione languiva. Ciascuno era geloso di sé, costernato di sé soltanto; e questa costernazione gli impediva di pensare. Tutti ripetevano ciò che qualcuno, facendo un grande sforzo, era riuscito a dire o sul tempo o sul paesaggio. Tito Lampini saltellava da un crocchio all’altro, per ridire, sorridendo con la mano davanti la bocca, qualche frasuccia che gli pareva graziosa, raccolta qua e là, come se fosse venuta a lui lí per lí.
         C’erano i malinconici annojati e i romorosi come il Luna. E quelli invidiavano questi, non perché ne avessero stima ma perché sapevano che alla fine la sfrontatezza trionfa. Essi li avrebbero molto volentieri imitati; ma, essendo timidi, e per non confessare a se stessi la propria timidezza, preferivano credere che la serietà dei loro intenti li trattenesse dal fare altrettanto.
         Sconcertava tutti un lanternone squallido, biondissimo, con gli occhiali azzurri a staffa, i capelli lunghi sul lunghissimo collo. Portava sulla finanziera una mantelletta grigia; piegava quel collo di cicogna di qua e di là e si scarniva le unghie con le dita irrequiete. Era evidentemente uno straniero: svedese o norvegese. Nessuno lo conosceva, nessuno sapeva chi fosse, e tutti lo guardavano con stupore e ribrezzo.
         Vedendosi guardato cosí, forse con l’intenzione di sorridere, mostrava certi lunghi denti da morto, spaventosi.
         Era una vera sconcezza, tra tanta vanità, quella macabra apparizione. Dove mai era andato a dissotterrarla il Raceni?
         La Barmis domandò al Luna che cosa pensasse della Roncella.
         - Amica mia, un gran bene! Non ho mai letto un rigo di lei.
         - E avete torto, - disse donna Francesca Lampugnani sorridendo.- V’assicuro, Luna, avete torto.
         - Ne... neanch'io veramente, - soggiunse il Litti. - Ma... mi pare che tutta questa fama impro... improvvisa... Almeno per quel che n’ho sentito dire...
         - Già, - fece il Betti, tirandosi fuori i polsini con una certa sprezzatura signorile. - Le manca un pochino troppo la forma...
         - Ignorantissima! - proruppe Raimondo Jàcono.
         - Ecco, - disse allora Casimiro Luna.- Io l’amo forse per questo.
         Carlino Sanna, il romanziere lombardo di passaggio per Roma, sorrise nella grinta caprigna, lasciandosi cadere dall’occhio il monocolo; si passò una mano sui capelli grigi crespi e disse piano:
         - Ma offrirle un banchetto, non vi pare un pochino troppo, via?
         Come dire che a Milano non l’avrebbero fatto.
         - Un banchetto, sí, Dio mio, che male c’è?- domandò donna Francesca Lampugnani.
         - Intanto s’improvvisa una fama! - sbuffò di nuovo il Jàcono.
         - Uhhh! - fecero tutti.
         E il Jàcono, acceso:
         - Ne parleranno tutti i giornali!
         - E poi? - fece Dora Barmis, aprendo le braccia e stringendosi nelle spalle.
         La conversazione tutta un tratto s’accese. Si misero tutti a parlare della Roncella, come se ora soltanto si ricordassero d’essere convenuti là per lei. Nessuno se ne dichiarava ammiratore convinto. Qua e là qualcuno le riconosceva qualche qualità, una tal quale penetrazione strana, per la cura forse troppo minuziosa, miope anzi, dei particolari, e qualche atteggiamento nuovo e un certo sapore insolito nelle narrazioni. Ma pareva a tutti che si fosse fatto troppo rumore intorno alla Casa dei nani che, sí, forse era un romanzo notevole, affermazione d’un ingegno non comune senza dubbio; ma non poi quel capolavoro che s’era voluto proclamare. Strano, a ogni modo, che avesse potuto scriverlo una giovinetta vissuta finora quasi fuori d’ogni pratica del mondo, laggiù a Taranto. C’era fantasia e anche pensiero; poca letteratura, ma vita, vita.
         - Ha sposato da poco?
         - Da uno o due anni, dicono.
         Tutti i discorsi, a un tratto, furono interrotti, perché sul terrazzo si presentavano il senatore Romualdo Borghi, direttore della Vita Italiana, già ministro della pubblica istruzione, e Maurizio Gueli. I due stavano male insieme. Piccolo e tozzo, il Borghi, coi capelli lunghi e la faccia piatta, cuojacea, da vecchia serva pettegola; il Gueli, alto, dall’aria ancora giovanile, non ostanti i capelli bianchi che contrastavano col bruno caldo del volto maschio, austero.
         Il banchetto assumeva ora, con l’intervento del Gueli e del Borghi, una grande importanza.
         Non pochi si maravigliarono che il Maestro fosse venuto ad attestare di presenza alla Roncella la stima in cui già a qualcuno aveva dichiarato di tenerla. Si sapeva ch’era molto affabile e amico dei giovani; ma questo suo intervento al banchetto pareva troppa degnazione, e molti ne soffrivano per invidia, prevedendo che la Roncella avrebbe avuto in quel giorno quasi una consacrazione ufficiale; altri si sentivano più alleggeriti. Essendo venuto il Gueli, via, potevano venire anche loro.
         Ma come mai il Raceni tardava ancora? Era un’indecenza! Lasciar tutti cosí ad aspettare; e lí il Gueli e il Borghi smarriti fra gli altri, senza qualcuno che li accogliesse.
         - Eccoli! eccoli! - annunziò accorrendo il Lampini ch’era sceso giù a vedere. - Vengono! Sono arrivati in vettura! Salgono!
         - C'è il Raceni?
         - Sí, con la Roncella e il marito. Eccoli!
         Tutti si voltarono a guardare con vivissima curiosità verso l’entrata del terrazzo.
         Silvia Roncella apparve, pallidissima, a braccio del Raceni, con la vista intorpidita dall’interna agitazione.
         Subito tra i convenuti che si scostavano per farla passare si propagò un susurrío fitto fitto di commenti: - Quella? - Piccola! - Veste male... - Begli occhi! - Dio che cappello! - Poverina, soffre! - Magrolina! - È proprio brutta! - No, perché? ora che sorride, è graziosa. - Timida timida... - Bellina, eh? - Pare impossibile! - Vestitela bene, pettinatela bene, e poi vedrete! - Oh, dire che sia bella, non si potrebbe dire! - È tanto impacciata, poverina! - Impacciata? Non pare... - Che le dice il Gueli? - Ma il marito, signori! Guardate, guardate là il marito! - Dov'è? dov'è? - Là accanto al Gueli, guardatelo, guardatelo!
         Tutti, come se la Roncella fosse improvvisamente scomparsa, non ebbero più occhi, d’ora in poi, che per quel suo marito in marsina, lucido, quasi di porcellana smaltata; occhiali d’oro, barbetta d’oro a ventaglio; un bel pajo di baffi affilati; i capelli tagliati a spazzola, pari pari.
         Attilio Raceni, per levarlo di tra i piedi al Gueli e al Borghi, lo trasse con sé; poi chiamò la Barmis.
         - Ecco, l’affido a voi, Dora. Giustino Boggiòlo, il marito. Dora Barmis. Io vado di là a vedere che si fa in cucina. Intanto, vi prego, fate prender posto.
         - Lei è cavaliere? - domandò per prima cosa Dora Barmis, offrendo il braccio a Giustino Boggiòlo.
         - Sí, veramente... Giova per l’ufficio, sa?
         - Lei è l’uomo più fortunato della terra! - esclamò allora con impeto la Barmis, stringendogli forte forte il braccio.
         Giustino Boggiòlo diventò vermiglio, sorrise:
         - Io?
         - Lei, lei. La invidio. Vorrei esser uomo ed esser lei. Sissignore. Per avere in moglie Silvia Roncella. Come dev’essere buona!
         - Sí, tanto, veramente.
         - E lei deve farla felice, badi! Obbligo sacrosanto. Guaj a lei se non la fa felice! Mi guardi negli occhi. Perché è venuto in frak?
         - Mah, credevo...
         - Di mezzogiorno, in frak? Non lo faccia mai più!
         La riprensione fece restare un po’ male Giustino Boggiòlo. Ma subito Dora Barmis chiamò Casimiro Luna.
         - Vi presento, Luna, il cavalier Giustino Boggiòlo, il marito.
         - Ah, benissimo! E si vede! Mi congratulo.
         Giustino Boggiòlo si rifece vermiglio.
         - Fortunatissimo, grazie! - esclamò. - Desideravo tanto di conoscerla, signor Luna. Sa perché?
         - Qua il braccio! – gl’intimò Dora. - Lei è affidato a me!
         - Sissignora, grazie.
         E, rivolto al Luna:
         Lei scrive nel Corriere, è vero? So che paga bene, il Corriere. Glielo domando perché Silvia ha avuto richiesto un romanzo. Sissignore, dal Corriere. Ma forse non accetteremo. Perché veramente in Italia... - E terminò la frase in una smusata. Riprese: - In Germania la Grundbau, cinquemila e cinquecento marchi, sa? per diritto di traduzione della Casa dei nani. Anticipati, e pagando lei a parte la traduttrice. Non so quanto, sissignore. Si chiama... aspetti, Sci... Sci... non mi ricordo bene, ah sí, Schweizer-Sidler. Buona, buona. Traduce bene, mi dicono. In Italia conviene di più il teatro.
         - Ah, non c'è dubbio, - fece il Luna, incastrandosi il monocolo per goderselo meglio.
         Giustino Boggiòlo seguitò:
         - Io, prima, letteratura, non ne mangiavo, sa? A poco a poco, vedendo che qualche affaruccio si poteva fare...
         - Sù, sù, a tavola! - lo interruppe a questo punto furiosamente la Barmis. - Prendono posto! Starete accanto a noi, Luna?
         - Ma certo, figuratevi!
         - Con permesso, - pregò Giustino Boggiòlo. - C'è là il signor Lifjeld che traduce in svedese La casa dei nani. Debbo dirgli una parolina.
         E, lasciando il braccio della Barmis, s’accostò a quel lanternone biondiccio che sconcertava tutti col màcabro aspetto.
         - Fate presto! - gli gridò la Barmis.
         Silvia Roncella aveva già preso posto tra Maurizio Gueli e il senatore Romualdo Borghi. Il Raceni che aveva disposto con molto accorgimento gl’invitati, vedendo Casimiro Luna sedere in un angolo presso la Barmis, corse ad avvertirlo che il suo posto non era lí, che diamine! Sù, sù, accanto alla marchesa Lampugnani.
         - No, grazie, Raceni, - gli rispose il Luna. - Mi lasci qua, la prego: abbiamo con noi il marito!
         Come se avesse inteso, Silvia Roncella si volse a cercare con gli occhi Giustino. Quello sguardo allungato in giro per la tavola e poi nella sala espresse un penosissimo sforzo, interrotto a un certo punto dalla vista d’una persona cara, a cui ella sorrise con dolcezza. Era una vecchia signora, venuta in carrozza con lei, a cui nessuno badava, smarrita là in un cantuccio, poiché il Raceni non aveva più pensato di presentarla almeno ai vicini di tavola, come aveva promesso. La vecchia signora, che aveva un bellissimo parrucchino biondo sulla fronte e molta cipria in viso, fece alla Roncella un breve gesto vivace con la mano, come per dirle: "Sù! sù!"; e la Roncella tornò a sorriderle mestamente, chinando più volte il capo, appena appena; poi si voltò verso il Gueli che le rivolgeva la parola.
         Giustino Boggiòlo, rientrando con lo svedese nella sala vetrata, s’accostò al Raceni che aveva preso il posto del Luna accanto alla Lampugnani e gli disse piano che il Lifjeld, professore di psicologia all’Università di Upsala, dottissimo, non aveva dove sedere. Subito il Raceni gli cedette il posto, presentandolo di qua alla Lampugnani, di là a donna Maria Rosa Bornè-Laturzi. Erano le conseguenze della perdita della prima lista degli invitati: la tavola era apparecchiata per trenta e i commensali erano trentacinque. Basta: egli, il Raceni, si sarebbe accomodato alla meglio in qualche angolo.
         - Senta, - soggiunse pianissimo Giustino Boggiòlo, tirandolo per la manica e porgendogli di nascosto un pezzettino di carta arrotolato. - C'è scritto il titolo del dramma di Silvia. Sarebbe bene che il senatore Borghi, quando farà il brindisi lo annunziasse, che ne dice? Ci penserà lei.
         I camerieri entrarono di corsa, recando il primo servito. S’era fatto tardi, e il pasto imminente comandò subito a tutti un silenzio religioso.
         Maurizio Gueli lo notò, si volse a guardare le rovine del Palatino e sorrise. Poi si chinò verso Silvia Roncella e le disse piano:
         - Vedrà che a un certo punto s’affacceranno di là a guardarci, soddisfatti, gli antichi Romani.

         S’affacciarono davvero?
         Nessuno dei commensali certo se n’accorse. La realtà di quel banchetto, con le invidie segrete che aprivano le labbra di questo e di quello a falsi sorrisi e a complimenti avvelenati; con le gelosie mal nascoste che tiravano qua e là due a maldicenze sommesse; con le ambizioni insoddisfatte e le illusioni e le aspirazioni che non trovavano modo di manifestarsi teneva schiave tutte quelle anime irrequiete per lo sforzo che a ciascuna costava la simulazione e la difesa. Come le lumache le quali, non potendo o non volendo ricacciarsi dentro il guscio, segregano a riparo la bava e se n'avvolgono e tra quel vano bollichío iridescente allungano i tentoni oculati, friggevano quelle anime nelle loro chiacchiere, tra cui la malizia di tratto in tratto drizzava le corna.
         Chi poteva pensare alle rovine del Palatino e immaginarvi affacciate le anime degli antichi Romani a mirar soddisfatte quel moderno simposio?
         Soltanto Maurizio Gueli, che nelle Favole di Roma aveva raggruppato e fuso, scoprendo le più riposte e bizzarre analogie, la vita e le figure più espressive delle tre Rome, chiamando per esempio Cicerone a difendere davanti al Senato il prefetto d’una provincia siciliana, prevaricatore, un gustosissimo prefetto clericale dei giorni nostri.
         Davano quelle rovine, davanti alle fatue ambizioni di tutti quegli effimeri letterati a banchetto, un senso di infinita tristezza, per la vanità stessa che agguagliava alle fatue d’oggi le antichissime ambizioni di gloria e d’impero, destinate com’erano tutte a crollare nel vuoto ove ogni memoria necessariamente si perde: il vuoto che non consente nessun fondamento di certezza a nessuna gloria, a nessun impero, a nessuna ideale costruzione degli uomini, piccola o grande che sia. Cosí che, alle piccole d’oggi, come potevano essere costituite da tutti quei banchettanti, veniva quasi un allegro diritto d’esser tenute in qualche considerazione, per il solo fatto che erano là per un momento in piedi, e quei banchettanti potevano godersi il bel sole e la bella vista di quella giornata, e gustar quei cibi su una tersa tovaglia tutta luccicante di cristalli e d’argenterie, mentre tutto di là era rovina e silenzio. E ben dunque potevano con invidia affacciarsi da quella rovina gli antichi Romani a salutare con lungo svolazzío di bianche toghe questi banchettanti d’oggi, agli occhi di Maurizio Gueli.
         Chi s'affacciò?
         Molti senatori forse per raccomandare a Romualdo Borghi, loro venerando collega, di non mangiar altro che carne per la salute delle patrie lettere, lui diabetico. E poi? Poi tutti i poeti e i prosatori di Roma: i comici e i lirici e gli storici e i romanzieri. Tutti? Tutti no. Lucrezio no, né Virgilio, né Tacito. Forse Plauto e Catullo, forse Orazio, e certo uno che più di tutti accennava di voler parteciparvi, non perché lo degnasse, ma per riderne, come già aveva fatto d’una cena famosa, a Cuma.
         Ma c’era pure laggiù la campagna lontana che dai vetri della sala si scorgeva, verde e dorata nel vasto abbagliamento del sole.
         Chi pensava ai fili d'erba che crescevano là, alle foglie che vi brillavano, agli uccelli per cui cominciava la stagione felice, alle lucertole acquattate al primo tepore del sole, alle righe nere delle formiche tra un solco e una breve radura?
         Un villano passa e schiaccia con le scarpacce ferrate quei fili d'erba, schiaccia una moltitudine di quelle formiche.
         Fissarne una fra tante e seguirla con gli occhi per un pezzo, immedesimandosi con essa cosí piccola e incerta tra il va e vieni delle altre. Fissare tra tanti un filo d'erba, e tremare con esso a ogni lieve soffio d'aria. Poi alzar gli occhi a guardare altrove; quindi riabbassarli a ricercar tra tanti quel filo d'erba, quella formichetta, e non poter più ritrovare né l’uno né l’altra... Mai più.

         Che cos’era?
         Un improvviso silenzio nella tavolata. Romualdo Borghi s’era levato per il brindisi. La Roncella guardava smarritamente il marito, il quale le faceva cenno d’alzarsi anche lei, subito. Si alzava, turbata, con gli occhi bassi. Ma che avveniva di là, nell’angolo ov’era seduto il marito?
         Giustino Boggiòlo s’era voluto alzare, come se toccasse anche a lui il brindisi del Borghi. Ritto in piedi, militarmente. E invano Dora Barmis da un lato e Casimiro Luna dall’altro lo tiravano giù per le falde della marsina:
         - Giù lei! Giù lei! Stia seduto! Che c’entra lei?
         Non ci fu verso di farlo sedere. Venuto in frak di mezzogiorno, volle riceversi anche lui, come marito, il brindisi del Borghi alla moglie.
         - Gentili signore, signori cari! - aveva cominciato il Borghi col mento sul petto e gli occhi chiusi. - È una bella e ricordevole ventura per noi tutti il poter dare su la soglia d’una nuova vita il benvenuto a questa giovine forte, già avviata e qua giunta con passo di gloria.
         - Benissimo! - esclamarono due o tre.
         Giustino Boggiòlo volse gli occhi lustri in giro e notò con piacere che tre dei giornalisti intervenuti prendevano appunti.
         "Passo di gloria" - benissimo. Poi guardò il Raceni per domandargli se aveva comunicato al Borghi il titolo del dramma di Silvia scritto in quel cartellino che gli aveva porto prima di sedere a tavola; ma il Raceni stava attentissimo al brindisi e non si voltava. Giustino Boggiòlo cominciò a struggersi dentro.
         - Che dirà Roma,- seguitava intanto il Borghi che aveva sollevato il capo e tentava d’aprire gli occhi, - che dirà Roma, l’immortale anima di Roma all’anima di questa giovine? Pare, o signori, che la grandezza di Roma ami piuttosto la severa maestà della Storia anziché gli estri immaginosi dell’Arte. L’epopea di Roma, o signori, è nelle prime deche di Livio; negli Annali di Tacito è la tragedia. (Bene! Bravo! Benissimo!).
         Giustino Boggiòlo s’inchinò agli applausi, benché con gli occhi fissi sempre al Raceni che non si voltava ancora. La Barmis tornò a tirargli le falde della marsina.
         - La parola di Roma è la Storia: e questa voce sopraffà qualunque voce individuale...
         Oh ecco, ecco, il Raceni si voltava, approvando col capo. Subito Giustino Boggiòlo, con gli occhi che gli schizzavano dalle orbite per l’intenso sforzo d’attirar l’attenzione di lui, gli fece un segno. Il Raceni non capiva.
         - Ma il Giulio Cesare, o signori? ma il Coriolano? ma l’Antonio e Cleopatra? I grandi drammi romani dello Shakespeare...
         "Quel rotoletto di carta che le ho dato..." dicevano intanto le dita di Giustino Boggiòlo, aprendosi e chiudendosi con stizzosa smania, poiché il Raceni non comprendeva ancora e lo guardava come sbigottito.
         Scoppiarono applausi, e Giustino Boggiòlo tornò a inchinarsi meccanicamente.
         - Scusi, è Shakespeare lei?- gli domandò sottovoce Casimiro Luna.
         - Io? Nossignore.
         - E dunque segga, segga! - gli disse Dora Barmis. - Chi sa quanto durerà questo magnifico brindisi!
         - ... per tutte le vicende, o signori, d’una evoluzione infinita! (Bene! Bravo! Benissimo!) Ora il tumulto della nuova vita vuole una voce nuova, una voce che...
         Finalmente! aveva capito il Raceni; si cercava in tasca... Sí, eccolo là il rotoletto di carta... - Questo?- Sí, sí! -
         Ma come più darlo al Borghi ormai? Se n’era dimenticato... Troppo tardi, adesso. . . Ma via, stésse sicuro il Boggiòlo; avrebbe pensato lui a comunicare quel titolo ai giornalisti, dopo il pranzo.
         Tutto questo discorso fu tenuto a furia di cenni, da un capo all’altro della tavola.
         Nuovi applausi scoppiarono. Il Borghi si voltava a toccare col calice il calice della festeggiata: il brindisi era finito, con gran sollievo di tutti. E i commensali si levarono, anch’essi coi calici in mano, e s’accostarono in fretta alla Roncella.
         - Io tocco con lei; tanto, è lo stesso! - disse Dora a Giustino.
         - Sissignora, grazie! - rispose questi, stordito dalla stizza. - Ma santo Dio, ha guastato tutto!
         - Io? - domandò la Barmis.
         - No, signora, il Raceni. Gli avevo dato il titolo del coso... del dramma, e ha visto che ha fatto? se l’è ficcato in tasca e se l’è dimenticato! Queste cose non si fanno! Il senatore, tanto buono... Oh, ecco, scusi, signora, mi chiamano di là i giornalisti... Grazie, Raceni. Il titolo del dramma? Lei è il signor Mola? Sí, della Capitale, lo so. Grazie, fortunatissimo. Sono il marito, sissignore: da un anno e mezzo. In quattro atti. Il titolo? L’isola nuova. Lei è Centanni? Fortunatissimo... Suo marito, sissignore. L’isola nuova, in quattro atti. Già lo traducono in francese, sa? Lo traduce il Deriches, sissignore. Deriches, sissignore, cosí. Lei è Federici? Fortunatissimo... Suo marito, sissignore: l’ho sposata da un anno e mezzo. L’isola nuova. Anzi, guardi, se volesse avere la bontà d’aggiungere che non è propriamente un dramma...
         - Boggiòlo! Boggiòlo! - venne a chiamarlo di corsa il Raceni.
         - Che cos’è?
         - Venga! La sua signora si risente male. Meglio andar via.
         - Eh, - fece dolente il Boggiòlo tra i giornalisti, inarcando le ciglia e aprendo le braccia.
         Lasciò intendere cosí di che genere fosse il male della mogliettina, e accorse.
         - Lei è un gran birbante! - gli diceva poco dopo Dora Barmis, facendogli gli occhiacci e stringendogli le braccia. - Lei si deve stare quieto, ha capito? quieto. Ora vada! vada! Ma non si dimentichi di venire da me, presto. Gliela farò io allora la ramanzina, malacarne!
         E lo minacciò con un dito, mentr’egli, inchinandosi e sorridendo a tutti, vermiglio, confuso, felice, si ritraeva con la moglie e il Raceni dal terrazzo.

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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 01 September, 1998