Luigi Pirandello
L'esclusa
Parte II
Aveva preso sonno sul far del giorno.
Durante la notte, aveva formulato la lettera per il marito, vagliando ogni parola,
escludendo ogni frase di tenerezza per sé, di recriminazione per lui. S'era poi messa a
immaginare la vita degli altri senza di lei, minutamente; il pianto, la disperazione della
madre e della sorella; il conforto ch'egli, il marito, sarebbe accorso a recare; il
rammarico, la maraviglia dei conoscenti; il compianto... poi, con l'andar dei giorni, la
calma desolata in cui il cordoglio s'assopisce; e man mano le strane piccole sorprese nel
vedere, nel sentire che la vita ha seguito e segue tuttavia il suo corso, e noi... noi con
essa. I morti? I morti sono lontani...
Dopo due ore appena di sonno, si svegliò
tranquillissima, come se l'animo avesse, durante il breve riposo, espulso la
determinazione violenta. Né di questa calma si stupì: a lungo aveva pensato, a lungo
discusso, e aveva pensato specialmente ai suoi: nessun rimorso, dunque; era preparata,
già pronta. Dopo colazione avrebbe scritto la lettera; ecco, e poi, verso sera, sarebbe
uscita per impostarla con le proprie mani; e poi... poi non sarebbe ritornata più a casa.
Ormai ogni difficoltà circa al modo di darsi la morte le appariva puerile: si sarebbe
recata in prossimità della stazione ferroviaria, e giù, col capo tra le ruote d'un
treno; o alla spiaggia, per annegarsi in qualche punto deserto.
- Che bel tempo! - disse a Maria, uscendo
dalla camera. - Avevo lasciato gli scuri accostati per svegliarmi appena fosse giorno...
aspetta, aspetta: il giorno non spuntava mai...
Il cielo infatti era coperto e minaccioso,
la prima volta, dopo tanta stagione serena.
Marta quel giorno fu dolcissima con la
madre e con la sorella, in ogni parola, in ogni sguardo. Fu quasi allegra a tavola.
Terminata la colazione, annunziò alla madre che avrebbe scritto al marito.
- Sì, figlia mia... Dio t'assista!
La madre era sicura che Marta
accondiscendeva alla riconciliazione; e con Maria attese tranquilla alle consuete faccende
domestiche.
Nel pomeriggio il cielo s'incaverò: nubi
gravide di temporale s'addensarono su la città, e si levò un gran vento. A ogni sbuffo,
i vetri delle finestre, urtati con violenza, pareva dovessero fragorosamente cedere alla
furia; e sù, la porticina del terrazzo sbatteva a quando a quando. Guizzò a un tratto,
nella tetraggine, un lampo vivissimo e quasi contemporaneamente il tuono scoppiò
squarciando l'aria con formidabile rimbombo. Marta cacciò un grido fuggendo dalla camera,
e andò ad aggrapparsi alla madre tremando a verga a verga pallida, convulsa.
- Hai avuto paura? - le disse la madre,
carezzandole i capelli. - Vedi come sei nervosa? Che bambina!
- Sì, sì... - fece Marta, scossa da
brividi che diventarono singhiozzi. - Non è possibile che scriva oggi... Scriverò
domani... Tremo tutta...
- Sta' qui con noi, - le consigliò Maria.
Star lì con loro, lì, in quella
cucinetta raccolta, assaporando la vita familiare, chiusa, ristretta e santa, la vita che
non era più per lei!
Aveva lacerato tanti e tanti fogli di
carta: la lettera facilmente formulata nella delirante esaltazione della notte, le era
parsa, sul punto di scriverla, quasi inconsistente. S'era messa a pensare per
riformularla; invano! lo spirito le rimaneva attonito; arido il cervello; e intanto il
corpo smaniava sotto l'imposizione della volontà. Sentiva il corpo l'incombente minaccia
del tempo, l'elettricità vibrante nell'aria, la violenza del vento, e gli occhi si erano
volti a guardar fuori. Si era veduta allora in preda a quel vento, lungo la spiaggia
deserta, col mare mosso, rabbioso, urlante sotto gli occhi; si era veduta in cerca d'un
luogo acconcio per buttarsi a quelle onde torbide, orrende, giù; e mentre con l'animo
sospeso seguiva quasi i suoi passi fino all'ultimo, fino al punto di spiccare il salto,
era guizzato un lampo, era scoppiato il tuono.
Un momento dopo, rideva istintivamente
alle parole della madre e di Maria, che la calmavano, scherzando su la paura da lei avuta.
La sera precipitò orrenda su la città.
Marta, la madre e Maria stavano raccolte a cena, quando una forte scampanellata alla porta
fece loro a un tempo esclamare:
- Chi sarà a quest'ora?
Era donna Maria Rosa Juè, la quale entrò
con le mani per aria, scotendo la testa e gridando:
- Signora mia! signora mia! Che ho da
dirle! Càpitano tutte a me! E che v'ho fatto, Signore Iddio, che v'ho fatto? Quella
poveraccia, l'inquilina mia ai Benfratelli... Signora mia, sta per morire... Gesù! Gesù!
Gesù! Muore lì, come una cagna, salvo il santo battesimo... Le ho mandato il medico a
mie spese; le ho comprato le medicine: imposture, signora mia, che non servono a nulla, ma
tanto perché non si dica che sia mancata per noi... Non ci ha pagato la pigione...
Basta... Ora io dico: qualche parente questa poveraccia ce l'avrà, deve avercelo laggiù,
nel loro paese... Non parlo per la miseria della pigione, del medico, delle medicine... ma
per il funerale, signora mia! chi deve mandarla al camposanto? Io e Fifo abbiamo fatto
già troppo, per carità, per amor di prossimo... Con questo tempaccio, poi! Vento,
signora mia, che si porta via le case... Siamo tornati un momento per prendere un boccone
in fretta e furia... andiamo di nuovo, adesso, per stare a vegliarla magari tutta la
notte... Come si fa? Siamo cristiani! Ah, i mariti, i mariti! Non parlo del mio: io, per
grazia di Dio, indegnamente, due, signora mia, uno meglio dell'altro: la sant'anima e
questo che è il ritratto di suo fratello, tal quale, lo stesso cuore. Ci roviniamo,
signora mia, per il buon cuore... Possono scrivere loro a qualcuno, se conoscono qualche
parente laggiù?
- Sì, al figlio... - rispose la signora
Agata, stordita dalla furia con cui la Juè aveva parlato e dall'annunzio inatteso.
- Come! - esclamò donna Maria Rosa. -
Quella poveraccia ha un figlio? E il figlio la lascia morire così, come se fosse una
cagna? Ah, i figli, i figli, peggio dei mariti! Gli scrivano, per carità; gli scrivano
che è proprio agli estremi! Questa sera stessa le faccio dare i sacramenti... Siamo
cristiani, sì o no? È carne battezzata!
- Vengo con lei, - disse Marta, levandosi
da sedere.
La madre e Maria si voltarono a guardarla.
- Vuoi andar tu? - domandò la madre. - Ti
senti così male, Marta, e con questo tempo...
- Lasciami andare... - insisté Marta,
avviandosi per la camera.
La signora Agata non s'oppose più;
ammirò la figlia che rispondeva così, con un atto di generosità, al male che il marito
le aveva fatto. E le parve che con quella visita alla suocera moribonda Marta volesse
rispondere al pentimento del marito, e suggellare la pace.
Marta, invece, cercando il cappellino e lo
scialle nella camera al bujo, pensava tra sé: «Sarà una vittima anche lei. Voglio
vederla, conoscerla...».
- Eccomi pronta.
- Si appunti bene il cappellino, anzi lo
lasci, dia ascolto a me, - le suggerì donna Maria Rosa. - Lo scialletto in capo, come ho
fatto io.
Don Fifo attendeva sul pianerottolo del
secondo piano, morto di freddo, con le mani in tasca, il bavero alzato.
Appena fuori su la via, Marta sentì la
straordinaria furia del vento che ruggiva per la strada, come se volesse portarsi via
tutte le case. Guardò in alto, il cielo sconvolto, corso da enormi nuvole squarciate, tra
cui la luna, scoprendosi di tratto in tratto, pareva fuggisse impaurita, precipitosamente.
La via era quasi al bujo: alcuni fanali erano stati spenti dal vento, che sul poggetto del
Papireto aveva anche spezzato un albero e gli altri agitava, storceva. Le vesti impedivano
alle due donne, curve contro la furia, d'andare speditamente. Don Fifo teneva con ambo le
mani le tese del cappelluccio sprofondato fin su la nuca.
Alla svolta del Duomo, sul Corso, un non
mai visto spettacolo: un fragoroso torrente, crescevole sempre, di foglie secche rovinava
vorticosamente, come se il vento avesse strappato tutte le foglie delle campagne e via con
impeto di rabbia, in un veemente eccesso di distruzione se le trascinasse da Porta Nuova
giù, giù, fino al mare, in fondo.
Le due donne e don Fifo furono presi dal
turbine a le spalle e spinti di corsa in giù, quasi sollevati con le foglie. A un tratto
don Fifo cacciò un grido, e Marta lo vide saltare come un grillo e precipitarsi dietro il
cappello sparito in un attimo tra le foglie, nel turbine.
- Lascialo, Fifo! - gli gridò dietro la
moglie.
Ma anche don Fifo sparve nel turbine delle
foglie, nel bujo.
- Di qua, di qua! - disse la Juè a Marta,
scantonando per via Protonotaro, che non imboccava il vento e in cui una moltitudine di
foglie s'era come rifugiata. - Andrà a ripigliarsi il cappello a Porta Felice, se pure lo
arriva! Ci voleva anche questa, ci voleva! Il cappello nuovo!
Traversarono la piazzetta dell'Origlione,
e presto furono in via Benfratelli.
- Ecco, entri, è qua, - riprese la Juè,
cacciandosi in un portoncino.
Salirono la scala erta e stretta al bujo,
fino all'ultimo piano. La Juè trasse dalla tasca una grossa chiave, vi soffiò nel buco,
cercò a tasto la serratura e aprì la porticina. Subito, aprendo, gridò:
- Gesummaria! Le finestre!
Le tre stanze, che componevano la
miserrima dimora della moribonda, erano invase dal vento che aveva sforzato le imposte e
rotto i vetri. La candela nella camera da letto s'era spenta, e nel bujo rantolava
spaventata Fana Pentàgora.
- I vetri! anche i vetri... tutti rotti! A
voi l'offro, Signore, in penitenza dei miei peccati! - esclamava la Juè mettendo nelle
braccia tutta la forza per richiudere le imposte contro il vento.
Marta era rimasta su la soglia
raccapricciata, con gli orecchi intenti al rantolo mortale della moribonda.
Richiuse le imposte, quel rantolo divenne,
nel silenzio, insopportabile.
- E i fiammiferi? - esclamò donna Maria
Rosa. - Ce l'ha Fifo che corre dietro al cappello e lascia noi qua al bujo,
nell'imbarazzo. Ah che uomo! Tutto l'opposto, certe volte, di suo fratello, sant'anima!
Vado a cercare in cucina...
Marta si accostò al letto, a tentoni,
quasi attirata dal rantolo. Fece per appoggiare le mani sul letto e subito le ritrasse,
con vivissimo ribrezzo: aveva toccato il corpo della giacente; si chinò su lei e la
chiamò sottovoce:
- Mamma... mamma...
Solo il rantolo angoscioso le rispose.
- Sono la moglie di Rocco... - riprese
Marta.
- Rocco... - parve a Marta d'udir
balbettare dalla moribonda, nel rantolo.
- La moglie di Rocco... - ripeté. - Non
abbia più paura: ci sono qua io, ora.
- Rocco, - fece questa volta veramente la
moribonda, sospendendo il rantolo.
Il silenzio diventò pauroso.
- Zitta, zitta! - riprese Marta in tono
d'amorevole ammonimento. - C'è la padrona di casa...
Uno zolfanello acceso, riparato da una
mano, si moveva nel bujo, come un fuoco fatuo.
- Dov'è il lume? Eccolo!
Donna Maria Rosa, acceso il lume, rimase
con le dieci dita delle mani aperte per aria.
- Dio, che schifezza! Mi sono tutta
insozzata in cucina... Guardate, guardate che babilonia qui!
I frantumi dei vetri della finestra erano
schizzati fino in mezzo alla camera.
Intanto Marta osservava con raccapriccio
la moribonda che moveva lentamente la testa affondata nei guanciali, cercando con gli
occhi smorti, attoniti, nella camera, come stupita dal lume e dal silenzio, dopo la
tenebra e l'urlo del vento. Aveva una grossa maglia nella luce dell'occhio destro, e la
pelle tutta della faccia e specialmente il naso punteggiato di nerellini, che spiccavano
nell'estremo pallore, madido, opaco del volto. I capelli grigi, ruvidi, ricciuti,
abbondantissimi erano arruffati sul guanciale ingiallito. Gli occhi di Marta si fermarono
su le mani enormi, da maschio, che la moribonda teneva abbandonate sul lenzuolo, più
sporco della camicia aperta sul seno secco, ossuto, orribile a vedere.
- Rocco... - mormorò ancora una volta la
moribonda, fissando lungamente gli occhi in volto a Marta, come assetata.
- Che dice? - domandò la Juè curva, con
la veste alzata fin sopra il ginocchio, mentre si tirava sopra la gamba tozza, tosta, la
calza ricaduta su la fiocca del piede.
- Chiama il figlio... - rispose Marta,
riaccostandosi alla giacente, per dirle: - Verrà, non dubiti... Ora gli scrivo che venga
subito...
Ma la moribonda non comprese e ripeté con
fievolissima voce, cercando con gli occhi intorno per la stanza:
- Rocco...
- Un telegramma, è vero? - disse la Juè.
- Andrà Fifo al telegrafo... Non c'è tempo da perdere. Ecco, qui nel cassetto ci
dev'essere carta e l'occorrente per scrivere... Mio Dio, che puzzo... sente? Che è che
puzza così in questa camera?
Era sul tavolino, presso la finestra, un
bicchiere a metà pieno d'una mistura verdastra, esalante un pestifero odore.
- Ah, tu? - fece la Juè, additando con
l'indice tozzo il bicchiere, - adesso ti butto via!
Marta accorse:
- No, che è?
- Sarà veleno, - fece donna Maria Rosa,
notando l'ansia di Marta.
- Può servire...
- Che vuole che serva più, cara lei... Ci
appesterebbe tutta la notte inutilmente...
E andò a buttarlo in cucina.
Marta s'appressò al tavolino per scrivere
il telegramma. Scrisse semplicemente così, quasi senza pensare: «Tua madre sta male.
Vieni subito. Marta».
- Ah, lo conoscete intimamente? - osservò
la Juè, leggendo il telegramma. - Sono forse parenti?
Marta arrossì, confusa, e chinò più
volte il capo in segno affermativo. Donna Maria Rosa notò quella confusione improvvisa e
quel rossore e sospettò che ci dovesse esser sotto qualche cosa.
- E già... paesani... - disse. E, quasi
per cancellare la domanda indiscreta, aggiunse: - Venisse subito, almeno...
Udirono picchiare alla porta.
- Ecco Fifo!
Don Fifo entrò col capo scoperto, i
capelli per aria, esclamando esasperato, con larghi gesti delle braccia:
- Non era cappello, era diavolo!
- Sì, va bene... - gli disse la moglie. -
E adesso scappa al telegrafo! Ci sono anche i vetri della finestra rotti!
Don Fifo diede un balzo indietro.
- Io? al telegrafo? adesso? Neanche se mi
fanno papa!
- Sciocco! Ti dico che ci sono anche i
vetri della finestra rotti! - ribatté arrabbiandosi donna Maria Rosa. - Scappa al
telegrafo!
- Oh Cristo mio! - sclamò don Fifo. -
Fuori ci sono tutti i diavoli dell'inferno scatenati... Dove vuoi che vada? Debbo andare
senza cappello?
- Ti metterai in capo il mio scialle...
Don Fifo guardò Marta e aprì la bocca a
un sorriso da scemo:
- Sì, lo scialle... per far ridere la
gente...
- Chi vuoi che ti veda, a quest'ora, con
questo tempo? Sù, sù.
E gli buttò lo scialle in capo,
aggiungendo:
- Poi te n'andrai a casa, a dormire.
- Solo? - domandò don Fifo, rassettandosi
in capo lo scialle.
- Hai paura?
- Paura, io? Non so che voglia dire... Ma
tu qua, io là... niente, guarda, piuttosto me ne starò li in quel cantuccio... Abbi
pazienza: vado e torno.
Scappò. Tornò dopo circa mezz'ora. Marta
spiava acutamente la moribonda, che s'era ancora inabissata nel letargo. La Juè,
all'altro lato del letto, erta sul busto protuberante, già pisolava. Don Fifo la guardò
un poco, poi si rivolse a Marta e disse piano:
- Se Dio liberi, si mette a ronfare...
Scosse forte le braccia con le pugna
chiuse, e soggiunse:
- Trema la casa!
Non aveva finito di dirlo, che donna Maria
Rosa tirò il primo ronfo, spalancando la bocca. Don Fifo accorse e la chiamò, scotendola
lievemente:
- Mararrò... Mararrò...
- Ah... che è?... che vuoi?... Hai
spedito il... Va bene...
- No... ti dico... - osservò timidamente
don Fifo. - Fa' piano... ecco, la malata...
- Non mi seccare, Fifo! - lo interruppe
donna Maria Rosa, ricomponendosi a dormire.
Don Fifo si strinse nelle spalle e alzò
gli occhi al soffitto, sospirando.
Poco dopo, dormiva anche lui, presso la
moglie che ronfava formidabilmente; e anche lui a poco a poco si mise a ronfare, ma d'un
debole timido ronfolino accompagnato da un tenero sibilo del naso. Moglie e marito
parevano, quella un bombardone, questi un violino con la sordina.
Marta rimase assorta nella contemplazione
della moribonda; orribile immagine dell'imminente suo destino.
«Domani egli verrà» pensava. «Mi
vedrà qui; crederà che io voglia e possa accettare la sua proposta. Non ho pensato a
lui, venendo; ma egli forse, quando saprà tutto, sospetterà ch'io sia venuta apposta per
intenerirlo. No, no, domattina, prima ch'egli giunga, andrò via... per non farmi
vedere... Andrò via...»
Si levava da sedere; si accostava in punta
di piedi alla giacente che pareva già morta; si chinava con l'orecchio su lei per
accertarsi se respirava ancora, e tornava a sedere, a pensare:
«Com'è placida! E muore... La morte è
già dentro di lei, dentro il suo corpo dormente... Andar via? No, io non posso andar
via... debbo prima parlargli... a ogni costo... Col mio sacrifizio debbo ottenere ch'egli
faccia il suo dovere: ajuti mia madre. Dunque, mi trovi qui, presso la sua! Gli dirò
tutto... tutto...»
Il lume moriva sul tavolino lì accanto.
Le ombre dei due dormenti s'ingrandivano e balzavano di tratto in tratto al singultare
della fiammella, su la parete. Marta ebbe paura del bujo imminente e si alzò per
svegliare la Juè.
- Il lume Si spegne...
- Che fa? Ah, si spegne?... Facciamo
così...
Si alzò, andò barcollando al tavolino e
soffiò sul lume, soggiungendo:
- Puzza... Non c'è petrolio... Dov'è la
mia seggiola?
- Ahi! - strillò don Fifo. - M'hai
assassinato un piede!
- La mia seggiola... Eccola! Pazienza,
Fifo mio: domani sera speriamo di dormire nel nostro letto... Tanto, sarà giorno tra
poco...
Un gallo, infatti, cantò poco dopo nel
silenzio. Marta, involta nel bujo, tese l'orecchio. Un altro gallo rispose da più
lontano, all'appello; poi un terzo, ancora da più lontano. Ma non appariva indizio di
luce attraverso le fessure delle imposte.
Finalmente spuntò il giorno. La Juè Si
svegliò, stiracchiandosi e quasi nitrendo; poi domandò a Marta notizie della moribonda.
Don Fifo, in un cantuccio, con la testa china sul petto, le braccia conserte, le gambe
unite, miserino, restò a trar solo, scompagnato, il timido ronfo col sibiletto in fine.
- È fredda! è fredda! - fece la Juè
ancor mezzo insonnolita, con una mano su la fronte della moribonda. - Bisogna mandar
subito per un prete... Fifo! Fifo, svégliati!
Don Fifo si svegliò.
- Corri subito qua a santa Chiara... o
questa infelice morirà senza sacramenti... Mi senti, Fifo?
Don Fifo s'era levato in piedi e messo a
svariare per la camera con gli occhi ammammolati.
- Che cerchi?
- Cerco il... Ah, già! senza cappello,
santo Dio! Avessi almeno un berrettino... Vado così?
- Va'! va'! corri... Non c'è tempo da
perdere, - gli gridò donna Maria Rosa, e aggiunse rivolta a Marta: - Noi intanto
rassettiamo un tantino la camera: ci verrà il Signore!
Marta guardò la Juè come stordita. Il
Signore? Le si affacciò subito alla mente Anna Veronica, e quasi la cercò in quella
camera, e la vide quasi in se stessa, in quel momento supremo. Inginocchiare la sua colpa
e il suo pudore per ottenere il perdono di Dio, come Anna aveva fatto? Ah, no! no! Poiché
il Signore tra poco sarebbe venuto lì, ella, inginocchiata, lo avrebbe soltanto pregato
per la salute dell'anima.
La moribonda, mentre la Juè aggiustava un
po' il letto, schiuse gli occhi velati, senza sguardo. Marta osservò quegli occhi e quel
volto già come soffuso di sovrumana serenità: solo il corpo esausto pareva su quel
letto, senza più percezione ormai della circostante miseria; senza dolore, senza memorie.
Venne finalmente, inavvertito dalla
morente, il Viatico. Fana Pentàgora guardò il prete con gli occhi stessi con cui aveva
guardato il soffitto della camera, e nulla rispose alle domande di lui. Gli astanti si
erano inginocchiati intorno al letto e mormoravano preghiere; Marta piangeva con la faccia
nascosta.
Poco dopo, la funzione era finita. Marta
levò la faccia lacrimosa, e si guardò intorno disillusa, quasi nauseata, come se avesse
assistito ad una inconcludente, volgarissima scena. Quella, la visita del Signore? Un
biondo, freddo, insulso prete goffamente parato... E lei per un momento aveva potuto
pensare di buttarsi in ginocchio e invocare pietà...
- Ho paura che non arrivi a tempo... -
sospirò la Juè, alludendo al figlio della morente.
Don Fifo, dopo il Viatico, s'era
allontanato dalla camera e passeggiava nella saletta, costernato con le braccia conserte,
sbuffando di tratto in tratto e aspettando che la moglie venisse ad annunziargli la morte
della pigionante. Impaziente, allungava dalla soglia la faccia sparuta verso il letto, e
con un cenno del capo domandava: - Vive ancora?
Donna Maria Rosa spiegò a Marta:
- Dopo la morte di Dorò, buon'anima,
quell'uomo lì non può più veder morire nessuno...
Parte II
Man mano che le ore si trascinavano
lentissime, cresceva l'ansia di Marta. L'aspettazione diveniva di punto in punto più
angosciosa.
Finalmente, nelle prime ore del
pomeriggio, arrivò Rocco Pentàgora. Si presentò ansante, quasi smarrito, su la soglia.
Parve a Marta più alto nella magrezza
lasciatagli dalla malattia, durante la quale gli erano caduti i capelli, che già
rispuntavano lievi, quasi aerei, finissimi e un po' ricciuti; e la fronte gli si era
allargata, e schiarita la pelle, sebbene fosse tuttavia pallidissimo. Negli occhi aveva
un'espressione nuova, ridente, quasi infantile.
- Marta! - esclamò, scorgendola,
accorrendo a lei.
Turbata dalla vista del marito così
trasfigurato e ingentilito dalla convalescenza, turbata dallo slancio appassionato, Marta,
senza volerlo, lo rattenne con un cenno confidenziale di tacere, e gli additò il letto e
la madre in agonia.
Subito il figlio si rivolse al letto, si
curvò sulla madre, chiamando:
- Mamma! mamma! Non mi senti, mamma?
Guardami... sono venuto!
La moribonda aprì gli occhi e lo guardò
attonita, come se non lo riconoscesse.
Egli soggiunse:
- Non mi vedi? Sono io... sono venuto...
Adesso guarirai...
La baciò piano in fronte, e si portò via
con un rapido atto della mano le lagrime dagli occhi.
La madre moribonda continuò a guardarlo,
fisso, richiudendo di tanto in tanto, con lenta pena, le pàlpebre, come se il corpo ormai
non avesse più forza da dare alcun altro segno di vita. O era un cenno ultimo, quasi
lontano, dello spirito già inoltrato nella morte, quel lento moto delle palpebre?
Marta frenava a stento le lagrime per
pudore davanti alla Juè, che ostentava smorfiosamente il suo pianto.
Man mano però gli occhi della moribonda
s'animarono, s'animarono alquanto, come se dal fondo della morte un estremo residuo di
vita le tornasse a galla. Schiuse e mosse le labbra.
- Che dici? - domandò con viva ansia il
figlio, curvandosi vie più su lei.
- Muojo... - alitò la madre, quasi
impercettibilmente.
- No, no... - la confortò egli. - Se stai
meglio, ora... Ci sono qua io... E c'è anche Marta... Non l'hai veduta? Marta, qua...
vieni qua...
Marta andò all'altro lato del letto, e la
moribonda si volse a guardarla, come prima aveva guardato il figlio.
- Eccola... La vedi? - soggiunse egli. -
Eccola Marta... È questa... Ti ricordi quanto ti parlai di lei, l'ultima volta?
La moribonda trasse un sospiro, a stento.
Pareva non intendesse, e guardava con gli occhi invagati. Poi le ceree guance le si
colorirono un po' d'una tenuissima tinta rosea, e mosse una mano sotto le coperte. Subito
Marta le sollevò e pose la mano in quella di lei, che agitò l'altra, guardando il
figlio. Questi seguì l'esempio di Marta e la madre allora congiunse con uno sforzo le
loro due mani, traendo un altro sospiro.
- Sì, sì... - fece, commosso, Rocco alla
madre, stringendo forte la mano di Marta, che non poté più frenare le lagrime.
I due Juè guardavano sbalorditi dalla
sponda del letto ora Marta ora Rocco.
Poco dopo, la moribonda richiuse gli
occhi, rientrando quasi nella profondità misteriosa, ove la morte l'aspettava.
Marta ritrasse timidamente la mano dalla
mano del marito.
- Riposa di nuovo, - fece sottovoce la
Juè. - Lasciamola riposare... Senta, signora Marta, io e Fifo approfittiamo di questo
momento di calma per scappare un po' a casa. Bisogna pensare a tutto. Non fo per vantarmi,
ma nelle occasioni so trovarmi... Fifo, dillo tu... La pena c'è, si capisce; ma come si
dice? sacco vuoto non si regge... Il povero signor Rocco, dopo tante ore di ferrovia,
avrà certo bisogno di qualche ristoro...
- No... no... io no...
- Lascino fare a me... - lo interruppe la
Juè.
- Marta piuttosto, - disse Rocco.
- Lascino fare a me! - ripeté donna Maria
Rosa. - Penso io a tutto... E penserò un pochino anche a me e quest'anima di
Purgatorio... Non abbiamo assaggiato neppur l'acqua, da stanotte. Ma, come si fa? Bisogna
aver pazienza... Arrivederli, arrivederli... E stiano di buon animo, eh?
I due Juè andarono via. Da un canto Marta
avrebbe voluto trattenerli ancora, a viva forza, per non restare sola col marito;
dall'altro, per quanta agitazione le cagionasse il pensiero dell'estrema confessione,
considerandola ormai inevitabile, anelava che avvenisse al più presto.
- Oh Marta! Marta mia! - esclamò Rocco,
aprendo le braccia e chiamandola a sé.
Marta si levò da sedere in preda a un
tremito convulso, e gli disse:
- Di là... di là... No... aspetta...
Voglio dirti subito tutto... Vieni...
- Come? Non mi perdoni? - le chiese egli,
seguendola nell'altra stanza quasi al bujo.
- Aspetta... - ripeté Marta, senza
guardarlo. - Io... io non ho nulla da perdonarti, se tu...
S'interruppe; contrasse tutto il volto,
chiudendo gli occhi, come per un interno spasimo insopportabile. Poi volse uno sguardo di
cordoglio al marito, e riprese, risolutamente:
- Senti, Rocco: tu lo sapevi...
S'interruppe di nuovo, a un tratto,
notando su la guancia di Rocco la lunga cicatrice rimastagli della ferita riportata nel
duello con l'Alvignani. Sentì cadersi l'animo, e si strinse il volto, forte, forte, con
ambo le mani.
- Perdonami! Perdonami! insistette,
supplicò egli, posandole amorosamente le mani su le braccia.
- No, Rocco! Senti: io non ti chiedo nulla
per me... - riprese Marta, scoprendo il volto. - Voglio dirti soltanto questo: pensa che
il babbo ci lasciò nella miseria: la mamma, Maria... senza colpa... per causa tua.
Sole... tre povere donne, in mezzo alla strada, tra la guerra infame di tutto il paese...
- Dunque non mi perdoni? Non vuoi? Vedrai,
Marta, vedrai come ti compenserò... Tua madre, Maria, verranno con noi... in casa
nostra... Non è già inteso? C'è bisogno di dirlo? Con noi, per sempre! Volevi dirmi
questo? Via, per carità, Marta, non ritorniamo più sul passato... Piangi? Perché?
Marta, con la faccia di nuovo nascosta tra
le mani, scoteva il capo, piangendo; e invano Rocco la stringeva a dir la ragione del
pianto e del muto negare.
- Ah, per la mamma... per Maria... -
scoppiò a dire finalmente, scoprendo di nuovo il volto in fiamme, inondato di lagrime. -
Sentimi, Rocco...
- Ancora? - domandò egli, perplesso,
confuso, afflitto.
- Sì: io ti lascio libero, libero, da
questa sera stessa... Non puoi pretendere di più, da me...
- Come!
- Ti lascio, sì... ti lascio la via
libera, perché tu possa fare quello che devi verso mia madre, verso mia sorella, da uomo
onesto... Non chiedo nulla per me! Intendimi... intendimi...
- Non t'intendo! Che vuoi da me? Mi lasci
libero? Io non ti capisco... Ma comanda, farò tutto quello che vorrai... Non piangere!
Dovrei piangere io... Perdonami a qualsiasi patto; accetto tutto, purché mi perdoni...
- Oh Dio! Ora no, Rocco! ora no... Prima,
prima dovevi chiedermi perdono, con codesta voce, e non te l'avrei negato... Ora no, non
posso accordare più nulla, io!
- Perché?
- Debbo morire. Sì... E morrò. Ma...
Dio... Dio! Se non ho potuto difendermi... e la rabbia mi è rimasta nel cuore... Che sono
io ora? Mi vedi? Che sono?... Sono ciò che la gente, per causa tua, m'ha creduta e mi
crede ancora e sempre mi crederebbe, anche se io accettassi ora il tuo pentimento. È
troppo tardi: lo intendi? Sono perduta! Vedi che n'hai fatto di me? Ero sola... mi avete
perseguitata... ero sola e senza ajuto... Ora sono perduta!
Egli restò a guardarla attonito, quasi
temendo di comprendere, d'aver compreso:
- Marta! E come... tu... Ah, Dio!... Tu...
Marta piegò il volto tra le mani, e
chinò ripetutamente il capo, tra i singhiozzi.
Rocco le afferrò allora le braccia per
staccarle le mani dal volto, e la scosse, ancora stupito, ancor quasi incredulo:
- Tu dunque... dunque, dopo... con lui?
Parla! Spiègati! Ah, dunque è vero? è vero? Parla! Guardami in faccia! Quel
miserabile... Non dici nulla? Ah miserabile, - proruppe allora. - È vero! E io ho potuto
credere... e io sono venuto qua, a chiedere perdono... E ora... di', fors'anche prima...
di', con lui?
- No! - gridò Marta, infiammata di
sdegno. - Non lo intendi che tu, tu stesso, con le tue mani, e tutti, tutti con te,
m'avete ridotta fino al punto d'accettare ajuto da lui; avete fatto in modo che da lui
soltanto venisse alla vita mia, tra le amarezze e le ingiustizie, una parola di conforto,
un atto di giustizia? Ah tu no, tu solo non puoi rinfacciarmi nulla! So bene quel che mi
resta da fare: sono caduta sotto la guerra vostra, non m'importa! Non si parli più di me!
Ma tu, tu fa' pure quello che devi: ripara! Tu sai che per causa tua, mia madre e mia
sorella sono ridotte a vivere di me soltanto. Chi resterà per loro? Come vivranno? Voglio
prima saper questo... Per questo t'ho confessato tutto... Potevo tacere, ingannarti. Siimi
almeno grato di questo... e in compenso, ajuta... ajuta la mia famiglia, perché non io,
ma tu, tu l'hai ridotta nello stato in cui ora si trova!
Rocco si era seduto, e coi gomiti su i
ginocchi e la faccia tra le mani ripeteva piano, tra sé, senza espressione, come se il
cervello non gli reggesse più:
- Miserabile... miserabile...
Nel silenzio momentaneamente sopravvenuto,
Marta colse dalla camera attigua come un rantolo cupo, profondo, e uscì dalla stanza per
accorrere al letto della moribonda.
Egli la seguì e là, affatto dimentico
della madre morente, domandò, sotto gli occhi di lei, furibondo:
- Dimmi, dimmi tutto! Voglio saperlo...
voglio saper tutto! Dimmelo...
- No! - rispose Marta con ferma fierezza.
- Se debbo morire.
E si chinò a rassettare i guanciali sotto
il capo della giacente, che seguitava a mandare, dalla profondità del coma in cui era
caduta, il sordo rantolo mortale.
- Morire? - domandò egli con scherno. - E
perché? perché non vai da lui? T'ha ajutata? continui ad ajutarti...
Marta non rispose all'amaro oltraggio;
chiuse soltanto gli occhi lentamente, poi terse con un fazzoletto il sudor ghiaccio dalla
fronte della moribonda.
Rocco seguitò:
- Ecco una via per te! Vattene a Roma!
Perché morire?
- Oh Rocco! - fece Marta. - Tua madre è
ancora qui... Fallo per lei...
Egli tacque, impallidì, contemplando la
madre. L'idea della morte, manifestata da Marta, assunse allora, subito, dentro di lui una
terribile immagine. Premendosi le tempie con le mani, uscì dalla camera.
Era già quasi sera. Marta guardò
macchinalmente nell'ombra sopravvenuta il lume vuoto sul tavolino: chi poteva pensare che
l'agonia si sarebbe protratta fino a tanto? Sedette presso la sponda del letto con gli
occhi intenti nell'ombra sul volto dell'agonizzante, quasi aspettando dal proposito a
lungo meditato e maturatosi in lei sordamente la spinta per alzarsi e andarsene. Più del
rantolo della moribonda sentiva il suono cadenzato dei passi del marito nell'altra stanza,
e aspettava, come se il suono di quei passi le indicasse la traccia dei pensieri di lui.
Intuiva, sentiva, che in quel momento egli risaliva angosciosamente col pensiero agli anni
passati, assalito in quel bujo dalle memorie e dai rimorsi... Ah, i rimorsi erano per
tutti: per due soltanto, no: Maria e la madre. E Marta aspettava dal marito giustizia per
esse: non aspettava altro, seguendo con gli orecchi i passi di lui.
A un tratto, silenzio, nell'altra stanza.
Aveva egli deciso? Marta sorse in piedi e cercò a tentoni lo scialle; trovatolo, stava
per farsi su la soglia a chiamarlo, quando udì picchiare alla porta. Erano i due Juè di
ritorno, seguiti da un guattero con una cesta di vivande.
- Oh, al bujo? - esclamò donna Maria
Rosa, entrando.
- Ho portato la candela... Scusino... oh,
dov'è il signor Rocco?... Fifo, accendi!
Don Fifo accese la candela e apparve nella
camera tutto smarrito, col lungo involto di quattro torce mortuarie tra le braccia.
Marta s'era curvata sul letto a spiare il
volto della morente.
- Come va? come va? - domandò forte la
Juè.
Marta, impaurita da un gorgoglìo lungo,
strano, raschioso nella gola della moribonda, levò la faccia sconvolta, guardò perplessa
la Juè, poi risolutamente si recò fino alla soglia dell'altra stanza, e chiamò nel
bujo:
- Vieni... vieni... muore...
Rocco accorse e tutti e due si chinarono
sul letto. Don Fifo uscì dalla camera in punta di piedi, con l'involto delle torce,
chiamandosi dietro con un cenno della mano il guattero.
Rocco levò gli occhi dal volto della
madre a quello di Marta, vicino al suo, e stette un po' a guatarla, prima con le ciglia
aggrottate, poi attonito, quasi istupidito. Marta teneva tra le sue una mano della
morente, su cui stava protesa, come se volesse infonderle il suo alito.
A un tratto la Juè disse piano,
impallidendo:
- Venga, signor Pentàgora...
- È morta? - domandò Rocco, vedendo
Marta lasciar la mano della madre e rialzarsi sul busto. E chiamò forte, con voce
convulsa: - Mamma! Oh mamma! Mamma mia! - gridò poi, rompendo in singhiozzi e chinando il
volto sul guanciale, accanto al volto della morta.
- Fifo, Fifo, - chiamò la Juè. - Sù,
Fifo: portalo con te... con te, di là... Coraggio, figliuolo mio... Ha ragione... ha
ragione... Venga... Vada con Fifo...
E con l'ajuto del marito riuscì a
strappare Rocco dal corpo esanime della madre. Don Fifo lo condusse con sé nell'altra
stanza.
- Ho pensato a tutto... - disse sotto voce
la Juè a Marta, appena rimaste sole. Non poteva durare, me l'aspettavo... Ho comperato
quattro belle torce... Prima la lasciamo rassettare; poi la vestiremo...
Marta non staccava gli occhi sbarrati dal
volto del cadavere, senza cogliere alcuna parola delle tante e tante che la Juè le
diceva, e che forse don Fifo, nell'altra stanza, ripeteva a Rocco.
- Si scosti un po'... Adesso la vestiamo.
Marta si scostò dal letto,
macchinalmente. E la Juè, mentre vestiva la morta, sotto gli occhi di Marta tremante di
ribrezzo, non cessò di parlare velatamente delle spese fatte, senza dimenticare nulla,
né le medicine, né il medico, né i vetri rotti della finestra, né la cena, né le
torce, né la pigione non pagata dalla defunta, affinché Marta poi riferisse tutto al
figlio. Terminata la vestizione, coprì con un lenzuolo il cadavere e accese ai quattro
angoli del letto le torce.
- Ecco fatto, - poi disse. - Tutto pulito!
Non fo per vantarmi, ma...
E sedette accanto a Marta, ad ammirar la
sua opera.
Passarono così parecchie ore. In quella
camera le quattro torce soltanto pareva vivessero, struggendosi a lento. Di tratto in
tratto, donna Maria Rosa s'alzava, staccava i gocciolotti dal fusto e ne nutriva le
fiammelle.
Finalmente don Fifo si presentò su la
soglia e fece alla moglie un cenno, che Marta non vide. La Juè rispose al cenno del
marito, e poco dopo disse piano a Marta:
- Noi ora ce n'andiamo. Le lascio qui sul
tavolino questo pajo di forbici per smoccolare le torce di tanto in tanto... Se non le
smoccola, badi, le torce scoppiano e il lenzuolo può prendere fuoco... Mi raccomando. E,
a rivederla. Ritorneremo domattina...
- Dica, la prego, alla mamma di non
venire... - le disse Marta, come trasognata. - Le dica che restiamo qua noi, io e il
figlio... dica così, a vegliare la morta... e che stieno tranquille... e... che io le
saluto...
- Sarà servita, non dubiti. Oh, senta...
se per caso, più tardi, il signor Rocco... e anche lei... la cesta è qui nella
saletta... dico, se per caso... Io non ho affatto appetito. Mi creda, signora mia: ho come
una pietra qua, su la bocca dello stomaco. Sono molto sensibile... Basta, la saluto.
Chiamo adagino adagino Fifo e ce ne andiamo. Coraggio, e la saluto.
Rimasta sola, Marta tese l'orecchio per
ascoltare che cosa il marito facesse nell'altra stanza. Piangeva in silenzio? pensava?
«Non gl'importa più nulla di me...»
disse tra sé Marta. «Non gli nasce neppure la curiosità di sapere se io sia o no andata
via... Eppure sa dove debbo andare... Ora andrò... Gli ho detto tutto... Solo del figlio,
no. Ma il figlio è mio... mio soltanto... com'era mio soltanto quell'altro che mi morì
per lui... Ah, se io l'avessi avuto...»
Volse gli occhi al letto, su cui le
quattro torce aduggiavano la giallezza del caldo lume. Alcune rigide pieghe del lenzuolo
accusavano il cadavere nella pesante immobilità.
Paurosamente, con una mano, Marta scoprì
il volto della defunta già trasfigurato; cadde in ginocchio accanto al letto e sciolse
l'enorme cordoglio in uno sgorgo infinito di lagrime, costringendosi con una mano su la
bocca a non gridare, a non urlare.
Stette così a piangere, finché Rocco non
venne dall'attigua stanza; allora sorse in piedi con lo scialle sotto il braccio, la
faccia tra le mani, e si mosse per uscire.
Rocco la trattenne per un braccio, e le
domandò con voce cupa:
- Dove vai?
Marta non rispose.
- Dimmi dove vai, - ripeté lui e,
indeciso, stese l'altra mano e afferrò per le due braccia.
Allora Marta scoprì appena il volto:
- Vado... Non lo so... Ti raccomando...
Non la lasciò proseguire: in un impeto,
quasi di paura, accostò il volto al volto di lei, e proruppe in lagrime, abbracciandola:
- No, Marta! No! No! Non mi lasciar solo!
Marta! Marta! Marta mia!
Ella tentò di scostarsi con le braccia;
trasse indietro il capo; ma non riuscì a sciogliersi dall'abbraccio e tremò, così
stretta da lui.
- Rocco, no, è impossibile... Lasciami...
È impossibile...
- Perché?... Perché?... - chiese egli,
tenendola sempre a sé, più stretta, e baciandola perdutamente. - Perché, Marta? Perché
me l'hai detto?
- Lasciami... No... lasciami... Non mi hai
voluta... - seguitò Marta, soffocata dalla commozione, nell'ardente amplesso. - Non mi
hai voluta più.
- Ti voglio! ti voglio! - gridò lui,
esasperato, accecato dalla passione.
- No... lasciami... - scongiurò Marta,
schermendosi, già quasi abbandonata di forze. - Fammi andar via... te ne supplico...
- Marta, dimentico tutto! e tu pure,
dimentica! Sei mia! Sei mia! Non mi vuoi più bene?
- Non è questo, no! - disse Marta in un
gemito, affogata dall'angoscia. - Ma non è più possibile, credimi, non è più
possibile!
- Perché? Lo ami ancora? - gridò Rocco
fieramente, sciogliendola dall'abbraccio.
- No, Rocco, no! Non l'ho mai amato, ti
giuro! mai! mai! E ruppe in singhiozzi irrefrenabili; sentì mancarsi; s'abbandonò tra le
braccia di lui, che istintivamente si tesero di nuovo a sorreggerla. Fiaccato dal
cordoglio, a quel peso, egli fu quasi per cadere con lei: la sostenne con uno sforzo quasi
rabbioso, nella tremenda esasperazione: strinse i denti, contrasse tutto il volto e scosse
il capo disperatamente. In quest'atto, gli occhi gli andarono sul volto scoperto della
madre sul letto funebre, tra i quattro ceri. Come se la morta si fosse affacciata a
guardare.
Vincendo il ribrezzo che il corpo della
moglie pur tanto desiderato gl'incuteva, egli se la strinse forte al petto di nuovo e, con
gli occhi fissi sul cadavere, balbettò, preso di paura:
- Guarda... guarda mia madre... Perdono,
perdono... Rimani qui. Vegliamola insieme...
Monte Cavo, 1893
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998