Luigi Pirandello
L'esclusa
Parte II
Una gaja casetta in via del Papireto,
all'ultimo piano, ariosa: quattro lucide stanzette, col pavimento di mattoni di Valenza,
con carta da parato un po' sbiadita, sì, ma senza strappi e di tinta gentile. La meno
angusta sarebbe servita per la signora Agata e per Maria, che dormivano insieme; quella
attigua, per Marta; da letto e da studio: vi si sarebbe adattata volentieri in grazia del
balcone che dava su la via del Papireto; le altre due, sala da pranzo e salotto, da metter
sù, per bene, col tempo. Delizia della casa, un terrazzo, la cui balaustrata a pilastrini
pareva, a guardarla dalla via, una corona che cingesse l'edificio. Quanti fiori vi avrebbe
coltivati Maria!
Marta aveva trovato questa casa, guidata
da un lontano ricordo. Il padre, nel condurla a Palermo tanti anni addietro, aveva voluto
mostrarle il luogo ove da giovane aveva combattuto, il giorno stesso dell'entrata di
Garibaldi.
Lì, all'imboccatura di quella via, egli,
in compagnia d'altri due volontarii, sparava contro una nuvola di fumo che partiva da
lontane case di fronte, ove s'erano appiattate le soldatesche borboniche. Uno dopo
l'altro, i due compagni eran caduti: egli seguitava a far fuoco, quasi aspettando che
un'altra palla venisse per lui. A un tratto, s'era sentito battere leggermente a una
spalla, e dir così:
- Giovanotto, levatevi di qua: siete
troppo esposto.
Si era voltato, e aveva veduto Lui,
Garibaldi, tutto impolverato, calmo, con le ciglia aggrottate, il quale, scostandolo, si
era esposto, senza nemmeno pensarci, al posto che aveva stimato pericoloso per un semplice
volontario.
Marta aveva voluto, a sua volta, condurre
la madre e la sorella a quella via, per indicar loro il posto. Per caso, alzando gli
occhi, aveva scorto un cartello con l'appigionasi giusto lì, al portoncino su
l'imboccatura del vicolo. E avevano preso a pigione quella casa per memoria del padre,
quasi perché il padre stesso ve le aveva condotte.
Maria, con quel ricordo nell'anima, vi si
sentiva meno sola e come protetta.
Riassettatesi alquanto, dopo il trambusto,
cominciarono tutte e tre a provvedere ai primi bisogni della nuova dimora. Le poche
masserizie scampate alla rovina non bastavano più: poveri, malinconici avanzi di
naufragio, a cui pur tanti ricordi s'aggrappavano.
Uscivano di casa insieme per qualche
compera, senza saper dapprima dove dirigersi. Si fermavano a guardare nelle vetrine di
questo o di quel negozio, fuggendo la tentazione di entrare nei più ricchi. Smarrite per
le vie della città, tra tanta gente ignota e il moto e il frastuono continui, provavano,
nello smarrimento, un certo sollievo: nessuno lì le conosceva; potevano andare di qua, di
là, indugiarsi a guardare a loro agio, liberamente, senza attirare gli sguardi maligni
della gente. A Marta dava segreto fastidio l'ammirazione che suscitava nei passanti.
Talvolta, per essere meno notata, usciva di casa senza rifarsi a modo i capelli.
- Così, così... diceva a Maria,
appuntandosi il cappellino e ravviandosi poi appena appena, in fretta, le ciocche su la
fronte.
Ma s'accorgeva, pur senza volerlo, che
quel po' di disordine cresceva grazia alla sua figura: fuggevolmente glielo diceva lo
specchio, glielo ripetevano poi gli sguardi dei passanti e le vetrine delle botteghe.
Al Collegio Nuovo, intanto, era stata
accolta con benevolenza dalla vecchia Direttrice, vera signora piena di garbo e di gusto,
degna di presiedere a quel regio Educandato, ov'era accolto il fiore dell'aristocrazia e
del censo.
I modi e la figura di Marta attirarono
subito l'attenzione della vecchia Direttrice, la quale non volle nascondere alla signora
Agata il gradimento di avere per maestra «una bella figliuola» come quella. Tutto nella
vita, su la terra, per la vecchia signora linda, curata, abbigliata con squisita eleganza,
era fatto per la gioventù e per far sospirare i poveri vecchi. E dicendo ciò sorrideva:
ma chi sa da qual fondo d'amarezza affiorava quel sorriso. Da vecchia, ella ormai non era
brutta, anche perché si dimostrava così affabile e buona; ma da giovane non aveva dovuto
esser bella. Tanto maggior merito, dunque, per la sua bontà.
Diede a Marta, con quell'amorevolezza
semplice che rassicura, notizia del Collegio, delle altre insegnanti interne, di tre
professori, delle convittrici, dipingendo tutti con parole festevoli; parlò dell'orario
della scuola, parlò un po' di tutto; e finalmente accordò a Marta quattro giorni di
vacanza.
Marta uscì dal Collegio come abbagliata
di quell'accoglienza cordiale, che riferì poi a Maria, lodando tutto: l'edificio del
Collegio, il lusso interno, l'ordine che doveva regnarvi. E dopo il primo giorno di scuola
tornò a casa raggiante anche dell'accoglienza che le avevano fatto le convittrici dopo la
presentazione lusinghiera della Direttrice.
Al lieto umore di Marta rispondevano in
quei giorni i primi accenni in terra e in cielo della rinascente primavera. L'aria era
fredda ancora, frizzante nel mattino, quand'ella si recava al Collegio; ma era così
limpido il cielo e così puro e saldo quel rigore del tempo che gli occhi erano felici di
guardare e il seno d'allargarsi in larghi respiri. Pareva che l'anima delle cose, serenata
finalmente dalla lieta promessa della stagione, si componesse, obliando, in una concordia
arcana, deliziosa.
E quanta serenità, quale freschezza nello
spirito, in quei giorni, e che pace interiore! Si ridestava in Marta il lucido e gajo
senso che, da bambina, possedeva della vita. Era paga: aveva vinto; sentiva di far bene, e
le piaceva di vivere. Oh che brulichio sommesso avevano le foglie nuove, al levarsi del
sole, quand'ella passava sotto gli alberi di Piazza Vittorio davanti alla Reggia normanna,
e poi sotto quelli del Corso Calatafimi oltre Porta Nuova. La chiostra dei monti pareva
respirasse nel tenero azzurro del cielo, come se quei monti non fossero di dura pietra.
E andando così, senza fretta, Marta
pensava alle lezioni da impartire, e dal benessere che sentiva, non solamente le idee
sgorgavano spontanee, ma quasi le zampillavano le parole che avrebbe dette, i sorrisi con
cui le avrebbe accompagnate. Provava uno stringente bisogno d'essere amata dalle allieve,
eppure indugiava in quell'aria fresca della via per godere poi maggiormente del calore di
quell'amore riverente delle alunne, nella tiepida stanza della scuola.
Davvero, davvero erano passati i lugubri
giorni; la primavera davvero ritornava anche per lei. Non la terra soltanto scoteva le
ombre invernali; anch'ella poteva sottrarsi all'incubo delle tristi memorie.
In casa, anche la madre e Maria parevano a
Marta contente, e ne gioiva in fondo al cuore, con la coscienza ch'esse erano così per
lei. Vivevano tutte e tre l'una per l'altra, schivando ogni ricordo del passato che le
riconducesse col pensiero al paese natale, donde una sola immagine cara veniva: quella di
Anna Veronica, della quale parlavano spesso, rileggendo le lunghe lettere ch'ella inviava.
Così Anna rimaneva ancora la loro unica amica, l'unica compagna in quella separazione,
quasi istintiva ormai, dal mondo.
Degli altri inquilini della casa
ricevettero soltanto una visita, che offrì loro in seguito e per parecchio tempo cagione
di molte risa. Si era anche novamente stabilita in Marta la disposizione a scoprire e a
rappresentare il ridicolo nascosto un po' in fondo a tutte le cose e a tutte le persone,
ch'ella rifaceva negli atteggiamenti e nella voce con straordinaria facoltà imitativa. Le
gambe di don Fifo Juè, l'inquilino del secondo piano, e il suo modo di sedere, la
parlantina e i gesti romantici di sua moglie furono da lei resi con tanta comicità, che
la madre e Maria si tenevano i fianchi dal troppo ridere:
- Basta, Marta, per carità!
Questo don Fifo Juè e la moglie, che si
chiamava Maria Rosa, si presentarono parati di strettissimo lutto, con gli occhi bassi,
l'espressione compunta, come se tornassero allora allora da un accompagnamento funebre.
- Visita di convenienza... siamo
gl'inquilini del secondo piano, - dissero con voce flebile a Maria che, aperta la porta,
era rimasta perplessa davanti a quei due sconosciuti. Ed emisero, con un lamento della
gola, un breve sospiro.
Introdotti nel «futuro» salotto, don
Fifo, lungo e magro, sedette con le gambe unite, i piedi congiunti, toccando appena il
pavimento con la punta delle scarpe; le braccia conserte, come un ragazzo in castigo. I
suoi pantaloni erano così stretti, che parevano cuciti su le gambe. Donna Maria Rosa,
grassa e rubiconda, si rialzò su una spalla il lunghissimo e fitto velo di crespo che le
pendeva dal cappello sul volto e, sedendo, trasse un altro sospiro lamentoso.
Erano marito e moglie da tre mesi. Da un
anno soltanto era morto il primo marito di donna Maria Rosa, don Isidoro Juè, detto don
Dorò, fratello maggiore di don Fifo. E donna Maria Rosa, durante la lunga visita, non
parlò che del marito defunto e del suo primo matrimonio, con le lagrime agli occhi e
nella voce, come se don Dorò fosse morto ieri. Don Fifo, immobile, ascoltava con gli
occhi bassi e le braccia conserte quell'eterno elogio funebre del fratello, di cui egli
pareva il sarcofago e la moglie il cenotafio.
Ah, nessuno, nessuno avrebbe saputo ridire
tutte le virtù di don Dorò (le veltù - diceva donna Maria Rosa per parlare in
lingua). Ella e don Fifo, mentre Dorò viveva, si erano data la mano per circondarlo di
cure e di rispetto. Egli, Dorò, era stato la loro guida nella vita, il loro maestro.
Marito, moglie e cognato erano vissuti sempre insieme, un'anima in tre corpi.
- Nella pace degli angeli, signora mia!
E Dorò stesso, con le sue labbra,
sant'anima! morendo, aveva balbettato ai due infelici superstiti: - Fifo, - dice, - ti
raccomando Maria Rosa! Consolatevi! Consolatevi! Seguitate a vivere l'uno per l'altra...
- Ah, signora mia! - proruppe a questo
punto donna Maria Rosa già al colmo della commozione, ricordando quelle parole e
asciugandosi gli occhi che erano divenuti due fontane di lagrime, con un fazzoletto
listato di nero. - Noi del resto, - riprese poco dopo, rassettatasi alquanto e soffiatosi
strepitosamente il naso, - noi, del resto, abbiamo domandato consiglio, signora mia, a
tutti i conoscenti, uno per uno, raccomandando che ci ajutassero con la loro esperienza,
che ci dicessero coscienziosamente ciò che avremmo dovuto fare noi due poveretti rimasti
soli, senza la Sant'anima! La nostra condizione era questa: cognati... e dovevamo vivere
insieme, sotto lo stesso tetto... la gente avrebbe potuto sparlare... E tutti, tanto
buoni, bisogna dire la verità, ci hanno consigliato di far questo passo, tutti! Siamo
entrambi d'una certa età, è vero; ma sa, signora mia, la maldicenza com'è? dove non
può mettere i piedi, mette le scale... E in questa città poi...
- Oh, da per tutto! - sospirò la signora
Agata.
- Da per tutto, da per tutto, dice bene,
signora mia... Così, ci siamo sposati ch'è poco... Abbiamo dovuto aspettare i nove mesi
prescritti dalla legge, benché per me, sa, non ci fosse pericolo, come volevo far notare
ai signori del Municipio: figli, niente; Dio non m'ha voluto consolare; Dorò malaticcio
sempre e deboluccio, signora mia... Basta, ci siamo sposati.
Don Fifo pareva tutto appiccicato, e che,
movendosi a parlare, si spiccicasse tutto: le labbra, la lingua, le palpebre, le pinne del
naso. Soltanto le gambe gli restavano appiccicate l'una all'altra. Ma, in fin dei conti,
non parlò molto. A un certo pulito, ruppe in questa esclamazione:
- Ah, dolori, signora, dolori! Cristo solo
lo sa!
E per poco Marta e Maria non scoppiarono a
ridergli in faccia.
Parte II
Marta avrebbe voluto rifare tanto alla
madre quanto a Maria la vita comoda e lieta d'una volta, allor che il padre viveva, e
prosperava la concerìa. E non risparmiava sacrifizii e lavoro. Aveva ottenuto dalla
Direttrice del Collegio di dare lezioni particolari alle piccole convittrici delle classi
inferiori; e quel che traeva da queste lezioni e lo stipendio mensile dava intatto alla
madre, a cui proibiva di lamentarsi della troppa fatica alla quale si sottoponeva
giornalmente, senza godere più nulla dei frutti. Ma la madre s'ingannava. Marta non
godeva? O non erano frutti del suo lavoro la rinata fiducia nella vita tanto della madre
quanto della sorella, e la presente pace? non era premio al suo lavoro il sorriso che ora
ritornava spontaneo alle loro labbra? Avrebbe dato il sangue delle vene per vederle ancora
più contente, per godere della vista d'altri sorrisi su le loro labbra. E in fondo al
cuore si sentiva inebriata della propria generosità, giacché ella nell'intimo suo non
s'era mai acchetata all'offesa che il padre le aveva fatto, condannandola cecamente e
precipitando la famiglia nella miseria.
L'unica passione di Maria pareva la
musica? Ebbene, un pianoforte a Maria, quasi nuovo, da pagare a un tanto al mese. Tenere
nella piccola dispensa le derrate per tutto un mese contribuiva a rendere più quieta e
paga la madre? Ebbene, contenta anche la madre; e la piccola dispensa era sempre ben
provvista.
Don Fifo Juè e la moglie salivano qualche
sera a tenere compagnia alle tre donne, e il defunto Dorò continuava a fare le spese
della conversazione.
Per loro mezzo Marta venne a sapere che la
signora Fana, moglie del Pentàgora, viveva ancora nella più squallida miseria.
- Noi abbiamo una casa in via Benfratelli,
signora mia, - disse una sera donna Maria Rosa, - e nell'ultimo piano, in due stanzette,
abita una povera donna divisa dal marito. Il marito è un regnicolo delle loro parti...
Forse loro lo conosceranno... si chiama... di', Fifo, ti rammenti?
- Fana: Stefana, - rispose Fifo
spiccicandosi.
- No, dico lui, il marito...
- Ah, sì... aspetta, Pentàgono!
Maria rise involontariamente.
- Pentàgora, - corresse la signora Agata,
per scusare il riso della figlia.
- Lo conoscono?
Donna Maria Rosa volle sapere che uomo
fosse, e parlò a lungo della moglie infelice... Né Marta né la signora Agata riuscirono
a farle cangiar discorso per quella sera.
Maria s'era ridata con fervore allo studio
del pianoforte; e la sera, dopo cena, sonava, mentre la madre cuciva, e Marta nella stanza
attigua correggeva i còmpiti di scuola.
Così chiusa, non vista dalla madre e
dalla sorella, spesso Marta sospendeva l'ingrato lavoro e, coi gomiti appoggiati sul
tavolino e la testa tra le mani, rimaneva attonita, quasi in un'ansia d'ignota attesa, o
s'inteneriva fino alle lagrime alla patetica musica di Maria. Una profonda malinconia le
stringeva la gola. Non pensava a nulla, e piangeva. Perché? Vago, ignoto dolore, pena
d'indefiniti desiderii... Si sentiva un po' stanca, non di spirito, ma nel corpo:
stanca... Mentre la madre e la sorella lodavano il suo coraggio, la paragonavano al padre
per l'energia, per la volontà; a lei, quelle sere, quasi non riusciva ingrata la sua
amarezza, quell'intenerimento indefinito che la faceva piangere e quel languore greve a
cui abbandonava con triste voluttà le membra rilassate; la coscienza infine che in quel
momento ella si faceva d'esser debole e donna... No, no: non era forte... E infatti,
perché piangeva così? Oh, via, via: sciocchezze da bambina... E cercava il fazzoletto,
scotendosi; e si rimetteva al lavoro, con nuova lena.
Di questa condizione di spirito di Marta
né la madre né Maria s'accorgevano. Ella si guardava bene dal lasciarla trapelare;
cercava anzi con ogni arte di non venire mai meno al concetto ch'esse si erano formato di
lei. Il suo còmpito era questo, doveva esser questo. E aveva finanche nascosto alla madre
una lettera di Anna Veronica, in cui si parlava a lungo di Rocco, delle furie di costui
dopo la loro partenza, di minacce di nuovi scandali, di pazzie...
Perché affliggere la madre con tali
notizie? E Marta aveva risposto ad Anna Veronica, che ella non si curava né voleva più
sentir parlare di colui, prima sciocco, adesso pazzo; tristo prima e adesso.
Vedeva intanto la madre e la sorella
ritornate alle abitudini, alla calma d'una volta, alla vita semplice e tranquilla di
prima; e maggiormente, per forza di contrasto, sentiva penetrarsi dal convincimento che
lei sola era l'esclusa, lei sola non avrebbe più ritrovato il suo posto, checché
facesse; per lei sola non sarebbe più ritornata la vita d'un tempo. Altra vita: altro
cammino... La pace, la felicità dei suoi, lo studio, la scuola, le alunne: ecco quello
che le restava, ecco la meta del nuovo cammino... - null'altro!
Se ne doleva? No: erano momenti di
passeggera tristezza. Dopo la fosca invernata, durante la quale il colore del tempo s'era
accordato coi suoi pensieri, si ridestava adesso per quella nuova via al gaio sole di
primavera, di cui un raggio era penetrato a frugare, a sommuoverle la torbida posatura di
tanti dolori in fondo al cuore: ed era triste per questo; o era effetto della lettera di
Anna Veronica o della musica di Maria?
Non voleva più curarsi di sé. La madre
si era rimessa a pettinarla ogni mattina; ma lei non voleva che perdesse tanto tempo ad
acconciarla.
- Basta, mamma, lascia, così va bene...
E allontanava lo specchietto a bilico che
teneva sul tavolino, quasi infastidita della propria immagine, dello splendore intenso
degli occhi, delle labbra accese. Se poi la madre la costringeva a stare ancora seduta,
sotto il pettine, sbuffava dall'impazienza, diventava irrequieta, smaniosa, come se
sottostesse a una tortura. Perché, a che pro, adesso, tanto studio e tanto amore per la
sua acconciatura? Non intendeva la madre che a lei, adesso, non doveva importare proprio
nulla di comparire più o meno bella?
E un giorno che la madre volle provarle i
ricci sulla fronte, non ostante le vivaci ripulse, terminata l'acconciatura, Marta
piangeva.
- Come? Piangi? Perché? - le domandò,
sorpresa, la madre.
Marta si sforzò di sorridere,
asciugandosi gli occhi.
- Per nulla... Non ci badare...
- Santa figliuola, ma perché? Ti stanno
tanto bene...
- No, non voglio... Disfa', disfa'... Sta
meglio senza.
Non era una crudeltà incosciente della
madre? E intanto, ella, che bambina! Piangere così, per nulla, in presenza di lei...
Durante il giorno si mostrò più vivace
del solito, per cancellare l'impressione di quelle lagrime nell'animo della madre.
Provava un turbamento nuovo, un
incomprensibile timore, un'apprensione strana, adesso, nel vedersi sola, senza nessuno
accanto, per le vie aperte, tra la gente che la guardava.
Nessuno, è vero, l'aveva molestata; ma si
sentiva ferita da tanti sguardi; le pareva che tutti la guardassero in modo da farla
arrossire; e andava impacciata, a capo chino, mentre gli orecchi le ronzavano e il cuore
le batteva forte. Perché? E come mai, tutt'a un tratto, la sua presenza di spirito s'era
rintanata così in quello sciocco timore? di che temeva? non aveva tante volte riso di
certe zitellone che avevano ritegno a uscire sole per la città paventando a ogni passo un
attentato al loro pudore?
Pure, appena entrata nel Collegio, si
rinfrancava. E la presenza di spirito le ritornava di fronte ai tre professori, che spesso
trovava in sala, e coi quali scambiava qualche parola, prima che ciascuno si recasse a
impartire la propria lezione nelle varie classi.
S'era accorta che due di essi intendevano
farle velatamente, e ciascuno a suo modo, la corte. E non che temerne, ne rideva tra sé;
fingeva di non accorgersi proprio di nulla, e pigliava a goderseli segretamente, notando
il vario effetto che il suo contegno produceva in quei due.
Il professor Mormoni, Pompeo Emanuele
Mormoni, autore di ben quattordici volumi in ottavo di Storia Siciliana, con appendice
dei nomi e dei fatti più memorabili, con date e luoghi, alto, grasso, bruno, dai
grand'occhi neri e dal gran pizzo qua e là appena brizzolato come i capelli, dignitoso
sempre nella sua napoleona e col cappello a stajo, si gonfiava dal dispetto come un
tacchino e, così gonfio, pareva volesse dire a Marta: «Oh, sai, carina? se tu non ti
curi di me, neanch'io di te: non t'illudere!». Ma se ne curava, invece, e come! e quanto!
Certi momenti pareva fosse lì lì per scoppiare. Aveva finanche perduto, sedendo, i suoi
atteggiamenti monumentali, per cui tutte le seggiole diventavano quasi tanti piedistalli
per lui: «scolpitemi così!».
Marta di tanto in tanto sentiva
scricchiolare la seggiola, su cui il Mormoni stava seduto, e tratteneva a stento un
sorriso. Tutte le seggiole della sala d'aspetto, da un mese a quella parte, erano sfilate;
a una era saltata la cartella, a un'altra qualche stecca.
Attilio Nusco, l'altro insegnante,
chiamato comunemente nel Collegio il professoricchio, era al contrario fino fino,
piccolo, gracile, timido, tutto vibrante, tutto impacciato. Povero Nusco, come se
diffidasse di trovare il suo posticino nella vita, pareva che con lo sguardo, coi sorrisi,
con gl'inchini frettolosi della miserrima personcina, volesse accaparrarsi il favore degli
altri, per non essere cacciato via. E occupava, sedendo, il minor posto possibile (scusi!
scusi!); parlando, la voce gli tremava; non contraddiceva mai nessuno; era come
imbarazzato sempre dall'eccessiva sua compitezza. Avrebbe voluto pesare su gli altri meno
che un fuscellino di paglia. E intanto, il cuore... Ah, quella Marta: non s'accorgeva
proprio di nulla?
Il poveretto si provava man mano a uscire
un tantino dalla propria timidezza, come dalla tana una lucertolina insidiata: prima la
punta del musetto; poi un altro tantino, fino agli occhi; poi tutta la testina, quasi
aspettando d'esser colta dal cappio alla posta.
Si era spinto a temerità inaudite: fino a
domandare a Marta, sudando: - Sente freddo stamani? -. Portava a scuola qualche
primo fiore della stagione; ne rigirava il gambo tra le gracili dita irrequiete; ma non
ardiva offrirlo.
Marta notava tutto ciò, e ne rideva.
Un giorno egli volle dimenticarsi il fiore
sul tavolino della sala d'aspetto: dopo un'ora, vi ridiscese: il fiore non c'era più. Ah,
finalmente! Marta aveva capito e se l'era preso... Ma, ridisceso in sala dopo l'altra ora,
disinganno crudele: il fiore era all'occhiello della napoleona di Pompeo Emanuele.
- Ciao, cardellino! Ciao, violetto
mammolo!
Eppure il Nusco non era uno sciocco:
laureato in lettere, giovanissimo ancora, occupava per concorso il posto di professore
d'italiano al liceo e insegnava anche per incarico nel Collegio Nuovo; scriveva poi in
versi con gusto e gentilezza non comuni.
Marta lo sapeva; ma che volevano da lei
tanto il Nusco quanto il Mormoni?
Il terzo professore pareva non si fosse
ancora accorto della presenza di lei. Si chiamava Matteo Falcone; insegnava disegno.
Pompeo Emanuele Mormoni lo chiamava l'istrice e, da imperatore romano, lo avrebbe
condannato ad purgationem cloacarum.
Era veramente d'una bruttezza mostruosa, e
aveva di essa coscienza, peggio anzi: un tragico invasamento. Sempre cupo, raffagottato,
non levava mai gli occhi in faccia a nessuno, forse per non scorgervi il ribrezzo che la
sua figura destava; rispondeva con brevi grugniti, a testa bassa e insaccato nelle spalle.
I lineamenti del suo volto parevano scontorti dalla rabbiosa contrazione che gli dava la
fissazione della propria mostruosità. Per colmo di sciagura aveva anche i piedi sbiechi,
deformi entro le scarpe adattate alla meglio per farlo andare.
Il Mormoni e il Nusco erano già avvezzi
ai modi di lui, più d'orso che d'uomo, e non ne facevano più caso; Marta, nei primi
giorni, ne fu urtata, non ostanti le prevenzioni della Direttrice. In fondo in fondo,
mentr'ella non badava alle smorfie e ai lezii degli altri due, se non per riderne, provava
una certa stizza per la noncuranza quasi sprezzante di quel terzo per lei affatto innocuo.
In quel po' di tempo che si tratteneva in
sala, aspettando l'ora precisa della lezione, egli s'immergeva nella lettura d'un
giornale, senza badare a nessuno. Spesso Marta volgeva uno sguardo fuggevole alla fronte
di quell'uomo sempre contratta, e poi si dava a immaginare che sorta di pensieri sotto tal
fronte dovesse albergare quel testone ispido: - sciocchi, no, certamente; ma forse
brutali.
Una sola volta aveva udito la voce di lui,
e fu una mattina, in cui, avendole il Mormoni accennato con gli occhi l'istrice
sprofondato al solito nella lettura del giornale, ella, per non condividere l'ironia
ch'era in quell'accenno e per fare stizza al «grand'uomo», si lasciò sfuggire dalle
labbra inconsultamente:
- Buon giorno, professor Falcone.
- Riverisco, - grugnì in risposta colui,
senza levare gli occhi dal giornale.
Un'altra mattina, Marta, entrando in sala,
fu molto sorpresa di trovarvi accesa una disputa tra il Falcone e il Nusco. Questi, col
volto infiammato, un sorriso nervoso su le labbra e le mani tremolanti, cercava di far
valere la propria opinione con molti sarà, ma... investiti dalla dura voce del
Falcone, il quale senza dar retta all'avversario seguitava a parlare con gli occhi al
giornale spiegato davanti. Il Mormoni ascoltava in uno dei suoi atteggiamenti monumentali,
non degnando di una parola quelle «scempiataggini».
Il Falcone s'era scagliato contro quei
letterati che inacidivano i loro versi e le loro prose d'una certa ironia, mentre poi in
fondo rimanevano ossequentissimi alle opinioni imperanti nella società.
- Le opinioni sono false? Le credete
ingiuste e dannose? Ribellatevi, perdio, invece di scherzarci sù, di farvi sù sgambetti
e smorfie, camuffando l'anima da pagliaccio! No: voi da un canto piegate il collo al
giogo, e deridete dall'altro la vostra supinità. È arte da tristi buffoni!
- Sarà, ma... - ripeteva il Nusco. E
avrebbe voluto osservare come anche il ridicolo fosse un'arma, e che il Dickens, Heine...
Ma il Falcone non lo lasciava dire:
- Tristi buffoni! Tristi buffoni!
- Sentiamo la signora Ajala, - propose il
Mormoni con un gesto consentaneo alla magnificenza dell'atteggiamento.
- La donna per sua natura è
conservatrice, - sentenziò bruscamente il Falcone.
- Conservatrice? Per me, ferro e fuoco! -
esclamò Marta con tale espressione, che il Falcone alzò gli occhi a guardarla per la
prima volta in faccia.
Marta rimase profondamente turbata da
quegli occhi che illuminarono un volto affatto nuovo, occhi d'una belva sconosciuta,
intelligentissimi.
Un'altra mattina, poco tempo dopo, il
Falcone entrò in sala d'aspetto col cappello ammaccato e impolverato, la falda rotta sul
davanti, il naso sgraffiato, pallidissimo in volto e pur con un tristo sorriso che gli si
storceva sulle labbra in orribile smorfia; strappata la giacca sul petto e anch'essa
impolverata.
- Che le è accaduto, professore? -
esclamò il Mormoni, vedendolo in quello stato.
Marta e il Nusco si voltarono a guardarlo
con paurosa maraviglia.
- Una
lite? - No, niente... - rispose il Falcone,
con voce tremante, ma con la smorfia del riso ancora su le labbra. - Mi trovavo a passare
sotto la chiesa di Santa Caterina da tre anni puntellata... Questa mattina santa madre
chiesa aspettava proprio me per rovesciarmi addosso un pezzo del suo
cornicione. Marta, il Nusco, il Mormoni
allibirono. - Sì... - continuò il
Falcone. - Mi è caduto addosso proprio così: a radermi il corpo... E intanto - (aggiunse
con un ghigno atroce, accennando i piedi sbiechi deformi) - ammirate la provvida natura!
Lei, Nusco, a quest'ora non ce li avrebbe avuti più codesti piedini da ballerino. Invece
io, i miei, ce l'ho ancora, e m'arrabatto!
Così dicendo, s'avviò per la lezione.
Parve quella veramente al Falcone una
tremenda risposta della «provvida natura» a tutte le imprecazioni ch'egli le aveva
scagliate a causa della propria deformità? Sentì veramente come una voce che gli avesse
detto: «Lodami dei piedi che t'ho dati»?
Certo, da quel giorno, cominciò a poco a
poco a uscire dalla cupezza abituale. O non piuttosto operava il miracolo la presenza di
Marta?
Questo era il sospetto del Mormoni.
- Perché, vedi, - diceva al Nusco, - noi
due, è vero, adesso ci saluta pure; ma grugnisce come prima; non ci dice: «Ossequio,
signor Nusco!» con la stessa voce per dir così domenicale, con cui dice: «Ossequio,
signora Ajala!». Morbidezza setolosa, capisco, ma... E poi, hai notato? Colletti
nuovi, oh! , come usano adesso, abito nuovo! cappello nuovo! Evviva il cornicione di Santa
Caterina.
Né l'uno né l'altro potevano seriamente
ingelosirsi del Falcone, il quale faceva loro finanche pietà, via! Ma né il Mormoni
s'ingelosiva del Nusco, né questi del Mormoni. Per il Nusco il gran Pompeo Emanuele era
troppo grosso, troppo sciocco, ed egli aveva troppa stima dell'ingegno di Marta da
temerlo; il Mormoni invece aveva troppa stima del gusto di Marta da temere il piccolo
Attilio con quell'animella sempre spaventata. Così, tutti e due s'appajavano per
commiserare «il povero Falcone» e segretamente poi si commiseravano l'un l'altro.
Intanto, la scoperta di quell'animo nuovo
del Falcone verso di lei produsse a Marta ribrezzo e timore insieme. Sapeva e sentiva di
non poter ridersi di lui, come degli altri due. La bruttezza di quell'infelice pur così
sdegnoso le destava pietà e le incuteva orrore a un tempo. Probabilmente colui non aveva
mai amato alcuna donna.
Se Marta pensava che il Falcone, non
ostante la coscienza della propria deformità, poteva pretendere amore da lei, si sentiva
offesa e sdegnata; ma d'altro canto intendeva che quella passione, forse la prima
germogliata in quel cuore, poteva essere così forte da vincere e ottenebrare quella
coscienza stessa, per quanto tragicamente invasata.
Ma un pensiero la rassicurava, che cioè
non aveva fatto nulla, proprio nulla, perché quest'affetto mostruoso nascesse.
Ora, quasi ogni giorno sul tramonto,
vedeva il Falcone passare per la via del Papireto e alzare gli occhi al balcone della sua
stanza. Il primo giorno, volle mostrarlo a Maria; non s'aspettava ch'egli dovesse alzare
il capo a guardare.
- Guarda qua? Come mai?
Così ebbe la prima prova di quell'amore,
a cui già per tanti segni men chiari non aveva saputo né voluto prestar fede. D'allora
in poi, non si lasciò più scorgere dietro la vetrata; ma di nascosto vedeva il Falcone
ripassare ogni giorno e guardare in alto, due, tre volte.
Adesso, dopo i sogni della notte gravi
d'incubi e di visioni strane, agitati da continue smanie; dopo il duro urto nel riaprire
gli occhi stanchi alla realtà nuda e monotona della sua esistenza, in mezzo a quel
rifiorire fascinoso della stagione; ogni mattina l'apprensione di sentirsi sola le
cresceva; i nervi le vibravano, andando, quasi fosse sotto l'imminenza d'ignoti pericoli;
né sapeva più rinfrancarsi appena entrata nel Collegio.
Come contenersi di fronte al Falcone?
Mostrargli che si fosse accorta, non voleva; ma come dissimulare, se ogni mattina era
ancora invasa dall'orrore dei sogni, nei quali la figura del Falcone le appariva quasi
sempre e talvolta meno mostruosa della realtà? A trattarlo come prima, temeva che quella
passione non si nutrisse di qualche lusinga, di qualche inganno pietoso.
Né il Mormoni la divertiva più come nei
primi giorni. La sola vista di lui ora le produceva anzi tal rabbia, che lo avrebbe
schiaffeggiato. E stizza e fastidio le cagionava la timidezza angosciosa del Nusco.
«Lei non mi secchi!» avrebbe voluto
gridargli in faccia, sicura di sprofondarlo con quelle quattro parole un palmo sotterra,
dalla vergogna.
Parte II
Anche lui forse, Attilio Nusco,
nell'intimo suo sentiva la povertà delle proprie maniere, e come dovesse parere
compassionevolmente ridicola la sua invincibile ritrosia; forse se n'adontava e, non
visto, si ribellava contro se stesso, perché tra sé non doveva stimarsi affatto uno
sciocco. Chi sa quant'altri, invece, pensando, stimava egli sciocchi!
Proprio in quei giorni aveva mandato a
stampa su un giornale letterario della città un sonetto per Marta.
Pompeo Emanuele Mormoni lo aveva scoperto.
Il sonetto, veramente, portava un titolo misterioso: A lei.
«A lei?... A chi? Ci sono tante
donne a questo mondo: più delle mosche! Io fo le viste di non aver capito a chi si
riferisca.»
E il giorno dopo, approfittandosi del
pudore del Nusco, diede egli stesso il giornale a Marta, sicuro di farle stizza.
- C'è un sonetto del Nusco: A lei.
- A me? - disse Marta, sorpresa,
invermigliandosi.
- No, no: A lei, intitolato
così... Ma come s'è fatta rossa! Sono cose che fanno piacere. Lo legga, glielo lascio...
Scappo, perché a momenti piove e sono senza ombrello. Un saluto, e via, a naso ritto.
Marta ebbe il primo impeto di buttar via
il giornale; ma poi lo ritenne, lo spiegò e lesse:
A LEI |
Contro il tuo sen, che appena ai
dolci intenti d'amor s'era con vaga ansia levato, rabbioso groppo di crudeli eventi la man villana scatenò del fato. Quei che a te si prostrâr nei dì ridenti, invan pregando un cenno innamorato, or contra te pur levansi, irridenti l'orgoglio antico e il tuo novello stato. Ma bene io so che ad un amor fedele, per cui spregiasti ogni men puro amore, oltre te 'n vai, né t'acerba quel fiele. Pur nei sorrisi tuoi trema un sospiro sovente! E sol per questo, entro del cuore, te, provata e non vinta, amo ed ammiro. |
Un furioso rovescio d'acqua venne a
percuotere i vetri della sala. Marta levò gli occhi dal giornale e guardò macchinalmente
la finestra.
Erano per lei quei versi? Chi aveva
raccontato al Nusco le vicende della sua vita? E che significava quel verso: Ma bene io
so che ad un amor fedele? A quale amore? Le venne subito in mente l'Alvignani. No, non
poteva alludere a lui... Te, provata e non vinta, amo ed ammiro...
Così riflettendo sul sonetto, non pensava
più alla villania del Mormoni, che gliel'aveva dato a leggere.
Sopravvenne il Falcone. Marta si scosse.
L'ombrello? Dove lo aveva lasciato? Rammentava benissimo di averlo portato con sé da
casa, la mattina.
- Che cerca, signora? - le domandò il
Falcone.
- L'avrò forse lasciato sù... - disse
Marta quasi tra sé. E chiamò la bidella.
- Prenda il mio, - le propose il Falcone.
- Non è nuovo, ma può servirle lo stesso.
Nel dir così, pareva che ingiuriasse. Era
più fosco e più nervoso del solito.
Poco dopo la bidella ridiscese: non lo
aveva trovato, né in classe, né per il corridojo. Marta si stizzì, diventò inquieta,
perché il Falcone insisteva duramente nell'offrirle il suo. Pioveva forte, ed ella non
poteva permettere che il Falcone, per lei, si prendesse tutta quell'acqua.
- Allora, se me lo concede, potrei
accompagnarla, - disse, cangiandosi in volto, il Falcone. - Abito adesso su la stessa sua
via, un po' più giù. - E aggiunse, a capo chino, guardandosi i piedi: - Se non si
vergogna...
Marta si sentì salire le fiamme al volto;
finse di non intendere l'allusione, e rispose:
- Non mi sono mai curata della gente.
Venga, andiamo.
- Dimentica sul tavolino un giornale, - le
disse il Falcone, raccogliendolo e porgendolo.
- Oh grazie; ma, tanto... C'è una poesia
del Nusco.
- Imbecillotto! - fischiò tra i denti
Matteo Falcone.
«Come farò» pensava Marta, smarrita «a
camminargli accanto?»
Sentiva la gioja e l'impaccio ch'egli
doveva provare in quel momento; e questo la turbava e la faceva soffrire così
violentemente che, se egli la avesse toccata appena appena anche senza volerlo, certo da
tutto il corpo fremente le sarebbe scattato un grido acutissimo di ribrezzo.
Prima d'uscire su la via, la portinaja le
porse una lettera.
- Per me? - fece Marta, contenta che le si
offrisse quel mezzo per nascondere lì per lì il proprio turbamento. - Permette? -
aggiunse, rivolta al Falcone; e lacerò la busta.
La lettera era d'Anna Veronica. Marta si
mise a leggere, avviandosi piano verso l'uscita. Il Falcone la spiava di sbieco, aombrato.
Scorse a un certo punto un repentino cambiamento sul volto di Marta, un fosco pallore, un
corrugarsi sdegnoso delle ciglia. Erano già sul portone. Marta non leggeva più; guardava
la pioggia che rimbalzava sul fango della via.
- Vogliamo andare? - le disse cupamente,
aprendo l'ombrello.
Marta si scosse; ripiegò la lettera e si
cacciò sotto l'ombrello.
- Ah, sì, eccomi!... scusi!
Non badava più al contatto, peraltro
inevitabile, del braccio col braccio del Falcone, né notava lo studio penoso di questo
per andare più spedito accanto a lei. Avrebbe voluto fuggire, non più per lui (e il
Falcone lo intuiva) ma per qualche notizia contenuta in quella lettera. Roso dalla
gelosia, ormai non si curava più dei piedi che, nell'andar così di fretta,
s'arrabattavano sovrapponendosi man mano molto più goffamente del solito. Avrebbe voluto
gridare a Marta di chi fosse, che contenesse quella lettera; e intanto la lasciava
sguazzare e inzuppare, temendo che il suo richiamo ad andare più cauta potesse da lei
essere interpretato come un pietoso richiamo ai suoi piedi che, veramente, non potevano
più seguirla in quella corsa e sfangavano orribilmente. Ansimava, e Marta non lo udiva.
Perché, perché fuggiva così?
A un tratto Marta ebbe come un brivido e
si contenne, si fermò per un attimo, quasi per soffocare un grido.
- Che ha? ch'è stato? - le domandò il
Falcone, fermandosi.
- Nulla! venga, venga... - gli disse
Marta, piano, a capo chino, proseguendo.
Il Falcone si voltò e vide un po' avanti
a loro, sul marciapiede a destra, due signori sotto un ombrello, che guardavano Marta e
lui: l'uno terreo in volto e con piglio fosco, l'altro più alto, magro, straniero
all'aspetto e con un'espressione scioccamente derisoria negli occhi chiari.
Erano Rocco Pentàgora e il signor Madden.
Il Falcone, non ostante il divieto di
Marta, appuntò contro quei due gli occhi da belva.
- Non guardi! non si volti! gl'impose, con
rabbia soffocata, Marta.
- Mi dica chi sono quei due! - domandò
egli, quasi a voce alta, accennando a fermarsi di nuovo.
- Stia zitto, le ripeto, e venga con me! -
riprese Marta, con lo stesso accento. - Che diritto ha lei di saperlo?
- Nessun diritto, ma io... lei non sa... -
continuò il Falcone con voce che non pareva più la sua, come se piangesse, ansando,
interrompendosi strozzato dalla commozione, e pur seguitando ad andare quasi di corsa
angosciosamente, dietro a Marta, sotto la pioggia ringagliardita. Le confessava il suo
amore, implorando pietà.
Marta, con l'anima in tumulto, e anche
stordita dalla violenza della pioggia, vedeva fuggire sotto i piedi vorticosamente la
strada già mezzo allagata; correva senza ascoltare, udendo solo confusamente, con
insopportabile angoscia, le affannose parole del Falcone. Alla fine giunse alla porta di
casa.
Lì il Falcone si provò a trattenerla per
un braccio, scongiurandola di dargli una risposta.
- Mi lasci! - gli gridò Marta,
svincolandosi con uno strappo; e via di corsa sù per la scala.
Venne ad aprirle Maria.
- Tutta bagnata?
- Sì, vado a cambiarmi!
Si chiuse a chiave. S'abbandonò su una
seggiola, premendosi forte, forte, forte le tempie con le mani, lamentandosi piano, con
gli occhi chiusi:
- Oh Dio! oh Dio!
Era in preda alla vertigine: non la
camera, ma tuttora la via le girava, le turbinava davanti agli occhi; sentiva negli
orecchi lo scroscio della pioggia; le parole di quel mostro arrangolato, che le piangeva
dietro.
E quei due lì fermi sul marciapiede, alla
posta! Ma che volevano da lei tutti costoro? Per chi la prendevano? E quegli altri due,
anche quegli altri due, quel grosso imbecille, e quel piccolo che le indirizzava
pubblicamente i suoi versi?
Ah, e la lettera di Anna? La cercò, la
rilesse, saltando ciò che in quel momento non la interessava.
«Tu sai, cara Marta, come io... Ma da me
non è più venuto, dopo quella visita furiosa, della quale... Dalla famiglia
Miracoli, però, da cui si reca spesso il fratello Niccolino (sposerà Tina Miracoli,
dicono in paese), ho saputo ch'egli stamani è partito per costà. Vuole scoprire, ha
detto Niccolino alla fidanzata, che cosa tu faccia a Palermo, convinto che debba esserci una
forte ragione, un serio impedimento al tuo ritorno in paese. Tina, benché come ogni
altra timorata ragazza debba far le viste di non capire, pure, dal tono misterioso con cui
mi ha confidato questa notizia, ha lasciato capire a me, invece, che cosa avrei dovuto
intendere per forte ragione e serio impedimento. Figùrati come l'ho trattata e
quello che le ho risposto! Ma lei dice che non sa nulla, che non crede affatto a queste
cose, e che parla solo, dice, per bocca dei Pentàgora. Prima, tu lo sai, quando la
buon'anima di tuo padre viveva, e voi eravate ricche, la signora Miracoli era la migliore
amica di tua madre; adesso, con questa proposta di matrimonio tra Tina e Niccolino, ella
è tutt'una con don Antonio Pentàgora, il quale, tra parentesi, del matrimonio pare non
voglia sapere. Per tornare a tuo marito, se egli (dice sempre Nicola) scoprirà qualche
cosa, ricorrerà ai tribunali per ottenere la separazione. Ma sono parole d'un ragazzo
dette per boria in presenza dell'innamorata.»
Un altro pugno di fango. La persecuzione
ancora, da lontano. Calunnie ancora e villanie.
Marta si levò da sedere tutta vibrante
d'ira e di sdegno, con gli occhi lampeggianti d'odio.
Innocente, per essersi difesa con
inesperienza da una tentazione, non ostante la prova della sua fedeltà: in compenso,
l'infamia; in compenso, la condanna cieca del padre! e tutte le conseguenze di essa
aggiudicate poi come colpe a lei: il dissesto, la rovina, la miseria, l'avvenire spezzato
della sorella; e poi l'infamia ancora, il pubblico oltraggio d'una folla intera senza
pietà, ad una donna sola, malata, vestita di nero. Aveva voluto vendicarsi nobilmente,
risorgere dall'onta ingiusta col proprio ingegno, con lo studio, col lavoro? Ebbene, no!
Da umile, oltraggiata; da altera, lapidata di calunnie. E questo, in premio della
vittoria! E amarezze, ingiustizie, e quell'esistenza vuota per sé, esposta alle brame
orrende d'un mostro, ai gracili, timidi desiderii d'un povero di spirito, alle pettorute
vigliaccherie di quell'altro: sassi, spine ovunque, per quella via lontana dalla vita. Fu
scossa da due picchi all'uscio. E la voce di Maria:
- A tavola, Marta.
La cena, di già? Non s'era ancora
svestita. Come cenare, adesso, come nascondersi alla madre, alla sorella? Si svestì in
fretta in furia. Non s'era neanche tolto il cappellino entrando. Si lavò per rinfrescar
gli occhi e la faccia infiammati.
- Un miele! - diceva Maria, già a tavola,
tra il fumo che la avvolgeva dalla scodella.
E la madre prese a narrarle tutto quello
che avevano fatto lei e Maria, durante quella pioggia improvvisa, sù in terrazzo, per
salvare i fiori.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998